domenica 9 marzo 2025

Prima quaresima

 San Paolo rievoca il nostro Battesimo. Il battezzato confessa prima con il cuore e poi con la bocca di credere in Gesù. La fede, concretizzata nel battesimo, è una invocazione rivolta a Colui che ci vuole aiutare. Il cristiano ha trovato uno che lo ama totalmente e per sempre. È l’unico caso. L’amore che altri possono avere per noi non assomiglia neanche lontanamente a questo. 

Se per caso accadesse che una persona ci volesse bene totalmente e per sempre, ciò nonostante non potremmo fidarci perché non saremmo certi che ci potesse capire veramente ed aiutare. 

Se per caso ci capisse ed aiutasse, non potremmo abbandonarci al suo amore perché noi abbiamo bisogno non di essere aiutati ma salvati. 

Che cosa ci dona Gesù Cristo, l’unico che ci ama totalmente e per sempre e può salvarci? Con il Battesimo ci fa morire, ci sepellisce nella sua morte. Gesù è morto per distruggere tutti i peccati, anche i nostri. Non soltanto i peccati, ha distrutto il Peccato, cioè quel meccanismo per il quale non siamo capaci di essere innocenti. Immercersi nella sua morte, significa fare nostro, realizzare per noi il motivo per il quale Egli è morto. Egli non si limita a dire: d’ora in avanti non dovete più commettere peccati ma ci avvisa di una novità, di una possibilità: siete morti al peccato. Non soltanto questa liberazione ma vi ho dato una vita nuova che è così potente perché un giorno potrete partecipare alla mia risurrezione. Riceviamo il DNA del Risorto. Allora la nostra invocazione è questa: realizza in me e nella mia vita ciò che hai fatto per tutti. Fa che la mia vita risplenda della tua vita. Sviluppa quanto mi hai donato. Come non abbiamo fatto niente per nascere a questo mondo ma ci ha capitato questo per iniziativa di altri, così non abbiamo fatto nulla per rinascere alla vita nuova ma cio ci è stato donato dal Signore. Come cerchiamo di vivere la vita naturale che ci è stata data, così dobbiamo anche vivere quella nuova che abbiamo ricevuto da Gesù, senza nostro merito e senza alcun sforzo. 

Il pio ebreo portava al tempio una cesta con le primizie dei frutti della terra. In questo modo affermava: anch’io l’ho ricevuta in possesso, insieme agli altri. È vero allora che anch’io sono stato liberato e che sono in grado di provvedere a me stesso. Questo non accadeva una sola volta ma ogni anno, sempre. Anche noi siamo stati liberati dal potere delle tenebre e trasferiti nellla luce del Signore. Noi oggi possiamo portare al Signore una cesta ricolma di frutti delle opere della luce, i frutti dello Spirito. Glieli porttiamo non per dirgli: guarda quanto sono stato bravo, e adesso devi aiutarmi ma per dirgli: guarda quanto sei stato grande! Hai salvato anche uno come! Il tempo della Quaresima è quello in cui riempiamo di frutti la nostra cesta per restituire al Signore i doni che ci ha fatto. 

Per poter fare questo, dobbiamo invocare il Signore come ho detto all’inizio:

Cristo prese da te la sua carne, ma da sé la tua salvezza, da te la morte, da sé la tua vita, da te l'umiliazione, da sé la tua gloria, dunque prese da te la sua tentazione, da sé la tua vittoria. Se siamo stati tentati in lui, sarà proprio in lui che vinceremo il diavolo. Tu fermi la tua attenzione al fatto che Cristo fu tentato; perché non consideri che egli ha anche vinto? Fosti tu ad essere tentato in lui, ma riconosci anche che in lui tu sei vincitore (S. Agostino)



venerdì 7 marzo 2025

Synkatabasis: l'incontro tra Dio e l'uomo

La Sacra Scrittura racconta e celebra la fedeltà di Dio per gli uomini. La chiesa antica ha coniato un termine che la rievocava in modo appropriato: synkatabasis, amore accondiscendente. 

II termine richiama un movimento di discesa e di accompagnamento.

Gregorio di Nissa vede annunciata la synkatabasis nella parabola del Buon Samaritano, poiché ritiene che il Signore Gesù sia stato il buon samaritano per antonomasia, sceso a cercare l'umanità intera: «Col termine "è disceso" si indica il Signore che e disceso per colui che scendeva da Gerusalemme a Gerico e che incappò nei briganti; e disceso insieme con l'uomo caduto in mano ai nemici, condividendone la sorte. Con questa parabola si allude alla discesa amorosa dell'Immensità immortale nella miseria della nostra natura».

Vediamo, ora, come veniva rievocata dai Padri la discesa amorosa di Dio nel mondo.

La prima "discesa" avviene con la creazione stessa. Isacco di Ninive contempla l’atto creativo ponendolo in relazione con la discesa del Cristo nel mondo, come se insieme costituissero due modi diversi della medesima accondiscendenza: «Una é la causa dell’esistenza del mondo e della venuta del Cristo nel mondo, la rivelazione della grande carità di Dio».

La Trinità Santa non ha voluto trattenere per sé la sua ricchezza ma ha voluto che altri essere godessero della sua bontà. Il Verbo, collaborando col Padre, ha agito nello stesso senso: Egli «é creatore della natura umana, non indotto alla formazione dell'uomo da qualche necessita, ma spinto alla creazione di una tale creatura dalla sovrabbondanza dell'amore. Perché la sua luce non doveva restare invisibile, né la sua gloria senza testimone, né la sua bontà senza chi ne godesse».

Da quando ha avuto inizio l'amore di Dio verso il mondo? In realtà, precisa Isacco il Siro, «anche se v'era tempo in cui la creazione non era venuta alla sua esistenza, pure non v'e un tempo in cui Dio non abbia posseduto la sua carità verso di lei, perché, anche se essa non era, pure per Dio non v'e tempo in cui la creazione non sia nella sua conoscenza».

Come ho ricordato, Dio non e stato indotto a creare spinto da qualche necessita, ma dal suo sentimento di generosità estrema. Questo non era forse stato compreso e sostenuto anche dalla filosofia? Secondo Plotino, l'Uno, il divino trascendente, e l'infinito Bene che non e avaro delle sue ricchezze né invidia chi ne può essere partecipe. La filosofia di Plotino e fondata sopra questa intuizione religiosa della infinita liberalità dello svelarsi di Dio. Gregorio di Nissa conosceva questa grande dottrina filosofica, eppure egli non dice soltanto che Dio e il Bene che irradia bontà, ma, riecheggiando la Scrittura, dichiara che Dio é amore.

«In che cosa si differenzia questa filosofia religiosa da quella cristiana? Per la consapevolezza di questa verità semplice e pro-fonda: che nel donare quel che più conta è l'animo di colui che dona, cioè a dire, che la liberalità ha un autentico pregio soltanto se si interiorizza in dedizione per amore e il Bene, dunque, amando le sue creature non si abbassa, ma celebra il suo sovrano valore. Il Bene, nel suo assoluto concetto, é soltanto il Dio-Amore, perché l'amore vale per se stesso più che ogni altro bene. Ma era una verità che doveva cambiare il volto del mondo, e forse per raggiungerla, non poteva bastare soltanto una filosofia».

Il cuore dell'annuncio della Scrittura sta proprio in questo: Dio è amore. Egli non solo benefica gli uomini ma entra in dialoga con loro: affida loro delle responsabilità, li rende partecipi di un progetto, ascolta la loro voce, attende la loro risposta.

Ho parlato della accondiscendenza di Dio nell'atto creativo ma come è avvenuta la discesa di Dio nel corso della storia? Origene insegna che Dio nutre una «passione d'amore» per noi. Da quando esiste il mondo, Dio Padre partecipa misteriosamente al dolore de-gli uomini e una tale compartecipazione sta all’origine dell'invio compassionevole del Figlio suo nel mondo. «II Salvatore e disceso sulla terra mosso a pietà del genere umano, ha sofferto i nostri dolori prima ancora di patire la croce e degnarsi di assumere la nostra carne; se egli non avesse patito, non sarebbe venuto a trovarsi nella condizione della nostra vita di uomini. Prima ha patito, poi e disceso e si e mostrato. Quale è questa passione che per noi ha sofferto? E la passione dell'amore. Persino il Padre, il Dio dell'universo, "pietoso e clemente e ricco di benevolenza", non soffre anche lui in certo qual modo? Non sai che quando governa le cose umane, condivide le sofferenze degli uomini? Infatti "il Signore tuo Dio ha sopportato i tuoi costumi, come il Figlio di Dio porta le nostre sofferenze. Nemmeno il Padre e impassibile. Se lo preghiamo, prova pietà e misericordia, soffre di amore e s'immedesima nei sentimenti che non potrebbe avere, data la grandezza della sua natura, e per causa nostra sopporta i dolori degli uomini».

In realtà, parlando di patimento in Dio, Origene ricorre ad un linguaggio estremo e non si preoccupa affatto di precisare la questione in termini filosofici. Lasciandosi guidare dalla Sacra Scrittura, diventa capace di sfidare la cultura dell’epoca ed introdurre un elemento di grande novità.

In un'altra circostanza, commentando l'episodio della visione avuta da Giacobbe della scala posta tra cielo e terra, Origene n riesce ad immaginare che Dio rimanga sulla cima ad osservare differente la faticosa ascesa dell'uomo verso di lui e così afferma «Non ha detto: Ho visto il Signore che stava in piedi sul quindicesimo gradino; noi non potremmo giungere al Signore se stesse eretto, in piedi. Ma nota quanto dice: lo vide appoggiato sulla scala Nota quanto dice: dalla posizione eretta si è curvato, si è abbassato affinché noi potessimo salire. II Signore rimane curvo, si è abbassato per te: sali sicuro».

L’agape di Dio nella redenzione e nella divinizzazione

La "passione d'amore" divina si manifesta ancora maggiormente nella donazione del Figlio e nella comunicazione a noi della sua stessa vita. Origene pone a confronto creazione e redenzione vede nella seconda l'autentica meraviglia dell'accondiscendenza divina: «I cieli confessano le tue meraviglie, Signore. Quali meraviglie? Perché hai creato il cielo? O perché hai posto le fondamenta alla terra? Ma quale importanza può avere questo per Dio, per quale dire e creare tutte le cose è stato istantaneo? Questo grande per Dio, queste furono le meraviglie di Dio: che Dio si è fatto uomo, che si sia occultato nel grembo della Vergine...., che sia stato ferito dagli uomini lui che guariva le ferite degli uomini, c sia stato schiaffeggiato, crocifisso, che abbia sopportato la morte lui che soffrì tutte queste cose perché gli uomini non dovesse sopportarne la pena».

Cabasilas rimarca questa convinzione. A suo parere, ci sono di modi con cui l'amante può beneficare l'amato; il primo consiste nel procuragli tutto il bene possibile, il secondo nello scegliere di soffrire per lui. Dio Padre, amico degli uomini, aveva sempre cerca di colmarli dei suoi benefici, ma tuttavia Egli era rimasto come lontano da loro, «L'amore era oltre misura, ma mancava il segno che lo rendesse manifesto. Eppure non doveva restare nascosto quanto immensamente Dio ci amasse: quindi, per darci esperienza del suo grande amore e mostrare che ci ama di un amore senza limiti, Dio inventa il suo annientamento, lo realizza e fa in modo di divenire capace di soffrire e di patire cose terribili. Cosi, con tutto quello che sopporta, Dio convince gli uomini del suo straordinario amore per loro e li attira nuovamente a sé, essi che fuggivano il Signore buono credendo di esserne odiati».

Dio inventa il suo annientamento per poter divinizzarci. La deificazione, dono estremo dell'accondiscendenza, e basata sullo scambio e perciò sulla "discesa" del Signore fino a noi. Lo esprimo servendomi di una formulazione classica: «L'opera più perfetta dell'amore consiste nell'effettuare uno scambio relazionale fra coloro che esso unisce in modo che giungano a convenire ad entrambi le rispettive proprietà e denominazioni». L'amore, allora, costringe Dio a farsi uomo per rendere l'uomo dio. II Verbo diventa uomo perché l'uomo possa acquistare la dignità di figlio di Dio; non riceve una figliolanza qualsiasi, ma la possibilità di assimilare quel modo di essere figlio proprio del Verbo stesso, non soltanto sul piano giuridico ma su quello della realtà.

La serie di testi che ho presentato ci offre la possibilità di cogliere le caratteristiche proprie dell'agape, dell'amore che appartiene a Dio. Facendoci aiutare da A. Nygren, possiamo ricapitolarle in questo modo:l’agape e la via di Dio verso l'uomo, il suo abbassamento (o, per richiamare il testo di Cabasilas, l'invenzione del suo annientamento), perciò essa è anche sacrificio. L'agape è amore disinteressato, «non cerca il proprio vantaggio», è dono di sé. Non si rivolge a delle creature belle, attratta dal loro fascino, ma si riversa su una creazione deformata e la rende bella perché l'ama. L’agape ama e crea un valore nel suo oggetto. Di conseguenza essa è anche sovrana rispetto al suo oggetto, vale per i "buoni" come per i cattivi.


La risposta dell'uomo alla rivelazione della bellezza divina

«Nel cuore dell’uomo v'è un impulso molto nobile: ascendere direttamente a ciò che é alto e perfetto. Ma la realtà più alta e più grande, perfetta in senso assoluto è Dio; quindi il cuore umano vuole salire a Lui...».

Il desiderio dell'ascesa era gia stato espresso dalla filosofia greca. I Padri avevano avvertito il valore di questo desiderio, pur percependone nel contempo la precarietà. Apprezzano l’apertura "naturale" dell'uomo a Dio, per la quale egli e «ad immagine» di Lui, ma con questo non intendono affermare che egli sia capace con le sue sole forze di divinizzarsi o di divenire adeguato alla co-munione con Dio e degno di essa. Insegnano, piuttosto, che l'uomo e chiamato a divenire figlio di Dio e che é stato creato per la comunione con Lui. «II desiderio, che si sprigiona da questo "fondo" dell'anima é un desiderio "per privazione" e non per "inizio di possesso"». Come attesta Cabasilas: «Dio ha infuso nelle anime il desiderio di possedere il bene di cui manchiamo, e di conoscere la verità di cui siamo privi».


La rivelazione della bellezza di Dio, anziché situarsi come il risultato dello sforzo della meditazione, é stata concessa in dono e viene contemplata nell'umanità di Gesù, il Verbo incarnato: «Nelle anime umane e deposta evidentemente una grande e mirabile disposizione all’amore e alla gioia, la quale diviene pienamente ope-rante alla presenza di colui che e il vero amabile e diletto. È questa quella gioia piena di cui parla il Salvatore». Il desiderio umano di verità e di bene era rimasto in gran parte inappagato perché da nessuna parte l'uomo aveva trovato una verità e un bene sufficientemente puri. Solo in Cristo si trova una bellezza assoluta e quindi soltanto in questo incontro l'amore si risveglia in tutta la sua forza, «perciò, prima, non era noto quanto fosse grande la nostra potenza di amare e di godere, perché non erano presenti le realtà che bisognava amare e di cui si poteva godere, né era conosciuto il vincolo del desiderio e l'ardore del fuoco».

L'incontro con la bellezza divina

Quando avviene l'incontro con la Bellezza assoluta, il Cristo? I contemporanei di Gesù potevano vederlo, ascoltarlo, dialogare con Lui. Come e possibile oggi trovarsi alla sua presenza? In realtà, ora, da Risorto e più vicino a noi di quanto lo fosse e potesse esserlo da uomo terreno. «II Signore ha promesso ai suoi santi non solo di essere, ma anche di restare accanto a loro e, cosa ancora più grande, di fare dimora in loro... Addirittura sta scritto che il Signore amico degli uomini si unisce ai suoi santi con tale amore da formare un solo spirito con loro».


Dove possiamo esperimentare la sua vicinanza? L'incontro determinante con Cristo avviene nell'evento mirabile dell'iniziazione cristiana, quando il fedele viene battezzato, cresimato e ammesso al banchetto eucaristico.


II battesimo permette una vera esperienza di Dio. E necessario parlare, appunto di esperienza e non solo di conoscenza. Su questo argomento, seguo alcuni temi dell'insegnamento del grande Cabasilas. Una esperienza offre un apprendimento migliore di quello comunicato da un insegnamento perché «conoscere per esperienza, vuol dire raggiungere la cosa stessa». Nel battesimo avviene questo evento o esperienza: il Cristo presente ineffabilmente trasforma e plasma le anime degli uomini incidendo in loro se stesso; lo Spirito santo irrompe nei cuori e li rende nuovi. Cabasilas insiste: nel battesimo viene attinta una conoscenza di Dio che non consiste in ragionamenti, ma per esso «ci e dato di trovare qualcosa di più grande e di più vicino alla realtà». Che cosa accade in una parola? In esso riceviamo «una percezione immediata di Dio, prodotta dal tocco invisibile del suo raggio sull'anima».

In altre parole, possiamo paragonare il battesimo alla guarigione del cieco nato compiuta da Gesù. Il battezzato, al tocco invisibile del Signore, lo vede e così la creatura conosce il Creatore, la mente la verità, il desiderio anela al solo desiderabile.

È possibile avere un segno di riscontro della verità dell'evento? «È frutto di questa percezione la gioia ineffabile e l'amore soprannaturale, dai quali dipendono la grandezza delle opere buone, la manifestazione di imprese mirabili e la capacita di passare da vincitori [sul male]».


Ricapitolando, il credente incontra e "vede" la Bellezza del Verbo di Dio nell'evento dell'iniziazione. Questa bellezza risveglia e potenzia l’erosdell'uomo — ossia il desiderio di ascesa, il bisogno di Dio che lo inquietava da sempre, per lo più inconsapevolmente — e gli imprime una direzione precisa. L'iniziazione, pero, non e solo la presentazione agli occhi del credente della bellezza del Cristo affinché lo attragga. In essa troviamo molto di più: il Signore assume e trasforma il nostro amore nel suo. L'erosumano acquista il valore dell’agape, dell’amore proprio di Dio perché viene coinvolto nello sgorgare dell'agape infusa dall'alto nel nostro intimo. Noi diventiamo quella risposta all'amore del Padre che e stato Gesù stesso.

Il senso teologico della preghiera (Vita monastica 1974)

 I.

CHE COSA FA LA CHIESA QUANDO PREGA ?

A una tale domanda, si possono dare — credo — le tre seguenti risposte :

1. — Essa esprime la sua identità più profonda.

La Chiesa, quando prega, si manifesta proprio in quanto Chiesa. Essa si riunisce. E nota 1'affermazione della Costituzione conciliare sulla Liturgia ; affermazione, a mio avviso, tra le piu importanti del Concilio Vaticano II: «... tutti devono dare la più grande importanza alla vita liturgica della diocesi che si svolge intorno alvescovo, principalmente nella chiesa cattedrale: convinti che la principale manifestazione della Chiesa (praecipua manifestatio Ecclesiae) consiste nella partecipazione piena e attiva di tutto il popolo santo di Dio alle medesime celebrazioni liturgiche, soprattutto alla medesima Eucaristia, in una sola preghiera (in una oratione), presso il medesimo altare cui presiede il vescovo circondato dai suoi sacerdoti e ministri»(2). La manifestazione per eccellenza della Chiesa si verifica quando questa si riunisce per la preghiera comune. È allora che essa realizza se stessa al più alto grado; diviene allora « visibilmente » ciò che è « misteriosamente » : popolo di Dio riunito davanti a Lui; essa trova allora anche la sua struttura fondamentale : popolo riunito, diaconi che riuniscono le preghiere di tutti, e prostamenos che le presenta a Dio Padre, in nome di Gesù Cristo, nella comunione dello Spirito Santo.

Si ricorda che Ignazio d'Antiochia scriveva ai Magnesii: « II Signore, che era tutt’uno con il Padre, non fece nulla senza di Lui (cfr. Gv 5, 18 ; 12, 50), né agendo da solo, né (agendo) per mezzo dei suoi Apostoli; e cosi anche voi nulla dovete fare senza il vescovo e senza i presbiteri. Ed è inutile che cerchiate di far apparire buono ciò che fate voi, privatamente; siate una cosa sola : un'unica speranza nell'amore, un'unica gioia purissima : questo è Gesù Cristo e nulla e meglio di Lui! Accorrete dunque tutti a quell'unico tempio di Dio, intorno a quell'unico altare che è Gesù Cristo : Egli è uno, e procedendo dall'unico Padre, e rimasto a Lui unito, e a Lui è ritornato nell'unità»(3).

Benché, tuttavia, quest’assemblea della Chiesa non possa non essere assemblea locale, essa ha di fatto dimensioni molto più estese, nello spazio e nel tempo : per e attraverso la sua preghiera comune diviene la Chiesa di Dio, tale quale è a X ; e questa localizzazione dev'esser presa sul serio, perché essa è una delle condizioni della sua ecclesialità. Ma l'assemblea della Chiesa diviene ancor di più : il sacramento, cioé, — con e accanto alle altre Chiese locali — della santa Chiesa stessa di Dio, diffusa nel mondo e nei secoli, che si unisce alla compagnia degli angeli per celebrare il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Sicché, quando si parla di preghiera comune, bisogna dire che essa è necessariamente comune alla Chiesa in tutta la sua cattolicità : quando 1'assemblea della Chiesa prega, prega, di fatto, con la Chiesa intera. Essa è, nei limiti inevitabili del «qui» e dell' «ora », epifania del popolo di Dio. Ma se la Chiesa acquista nella preghiera comune la sua identità più profonda in quanto popolo, anche ciascuno dei suoi membri trova in essa che cosa egli è nel più profondo di se stesso : innestato sul Figlio unico, egli è divenuto capace, attraverso lo Spirito, di dire a Dio : «Padre » (4). Egli ha raggiunto il suo vero destino ; ha risposto alla sua vocazione : quella di mettersi alla presenza del Signore, per celebrare, coi fratelli, la gloria del Padre, del Figlio e dello Spirito, e per divenire, attraverso e in questa celebrazione, theias koinonòs physeos (2 Pt. 1, 4) : partecipe della divina natura.

2. — Essa ubbidisce al comando del Signore.

Quando la Chiesa prega, ubbidisce. È la seconda risposta che bisogna dare alla nostra domanda. Certo, la Chiesa tende verso il suo Signore come una giovane verso il suo fidanzato ; ma ciò che motiva la sua pre-ghiera non e necessariamente la necessità o la voglia di pregare : in tempi di aridità spirituale, infatti, può non averne affatto voglia (5).

Essa si riunisce per pregare perchè ha ricevuto il comando di farlo. Il culto religioso non è anzitutto risultato di un bisogno religioso (per questo, la sua forma non è quella di riuscire ben gradito) : è innanzitutto ubbidienza ad un ordine : «... fate questo in memoria di me . . . », «... quando pregate, dite . . . », « pregate sempre . . . ». Ma perchè questo comando ? Credo si debba avere il coraggio di rispondere: perchè la preghiera, a causa dell'esaudimento di Dio, fa avanzare la storia della salvezza del mondo. Ogni autentica preghiera cristiana è portatrice, realizzatrice di storia, essa provoca l'avvicinamento della fine del mondo (e anche qui ve-diamo che non è possibile fare una netta distinzione teologica tra preghiera comune e preghiera privata, preghiera tradizionale e preghiera improvvisata). L'esaudimento della preghiera — sarà necessario ritornarvi sopra — mostra, come osserva K. Barth, che vi e « un influsso della preghiera sull'azione, sull'esistenza di Dio » (6).

In altre parole, quando la Chiesa si riunisce per la preghiera, diviene realizzatrice del disegno di Dio per il mondo ; «essa è allora — come dice J. Ellul — generazione di un futuro . . . , è (lì) . . . per assicurare la possibilità di una storia»(7) : la storia della salvezza. Si rivela qui, di fatto, il carattere politico della preghiera cristiana : essa fa maturare la storia, anche se in modo modesto, nascosto, non demagogico . . . « L'atto di pregare — diceva recentemente 1'arcivescovo Antonio Bloom - è un atto di ribellione contro la schiavitù, più essenziale più efficace della lotta armata»(8)


3 — Essa si presenta a Dio nel nome del mondo.

La Chiesa, quando prega, esprime l’identità più vera i se stessa, e 1'identità più naturale dei suoi membri. Essa ubbidisce a un comando del Signore e in tal modo contribuisce a far venire il Regno (9). In terzo luogo, bisogna dire che la Chiesa, quando prega, si sostituisce al mondo, che non sa più o non sa ancora, pregare. Essa si esercita nell'offrirsi sacrificio regale. II famoso «sacerdozio universale », infatti, e molto più 1'ufficio attraverso il quale la Chiesa intera, in Gesù Cristo, si presenta Dio in nome e al posto del mondo, che il diritto, per ogni uomo, di presentarsi immediatamente a Dio. L'ufficio, cioè, al riparo del quale il mondo può sussistere sotto la pazienza di Dio . . . Primizia delle creature, dice, parlando della Chiesa, la lettera di Giacomo (cf. 1, 18) : ciò in cui il mondo intero può comparire e sussistere dinanzi Dio.  È ciò che pone la Chiesa in preghiera, cosi vicino la Croce di Cristo.

Qui, fin dall'inizio noi troviamo, nella giusta prospettiva, la portata politica della preghiera comune : recitata in nome del mondo, questo sopravvive malgrado ciò che 1'attira verso la morte, e un tal fatto gli permette esser raggiunto ancora dall'Evangelo. Ci si sente colpiti, leggendo il Nuovo Testamento, nel notare che si manifesta in esso cosi poco sentimento di responsabilità politica diretta, II suo tenore, a proposito di questo fatto, e molto diverso da quel che si sente dire ascoltando la teologia contemporanea. Non credo ciò dipenda da una certa indifferenza per i poveri e gli sfruttati, e neppure dal fatto che l' ansia escatologica e 1'attesa dell' imminente parusia distogliesse la Chiesa nascente da un impegno politico concreto ; credo piuttosto sia dovuto al fatto che la Chiesa situava il principale esercizio della sua responsabilità politica nella preghiera : nel suo dovere, cioè, di porsi dinanzi a Dio in nome del mondo, perchè il mondo, protetto dalla di lei preghiera, potesse durare ancora e l'Evangelo vi fosse proclamato come 1'unica possibilità di salvezza. La Chiesa, quando prega, e come 1'apostolo Paolo che spezza il pane sul mare in tempesta e garantisce, mediante la sua presenza, la sopravvivenza di tutti i passeggeri. Sarebbe tanto desiderabile che la Chiesa riprendesse oggi coscienza che e proprio mediante la preghiera ch'essa si rende veramente utile al mondo! sarebbe tanto desiderabile che essa fosse fedele a questa sua vocazione!



II. CHE COSA DICE LA CHIESA QUANDO PREGA ?

Cominciamo con 1'osservare che non ogni preghiera e buona per esser recitata, in Chiesa. Bisogna pregare « secondo la volontà di Dio » (cf. 1 Gv 5, 14), o pregare «in nome di Gesù Cristo ». K. Barth chiama la preghiera cristiana «1'atto che consiste nel dare la nostra adesione all'opera di Dio»(10). Egli rileva, dunque, dal senso teologico della preghiera comune, che questa e regolata da ciò che noi sappiamo della volontà di Dio rivelata in Gesù Cristo. Questa volontà, vaglia — se cosi posso dire — tutto ciò che ci potrebbe venire in mente di dire a Dio. E’ ciò che fa anche in modo che la preghiera comune non possa non tener conto della tradizione liturgica della Chiesa: non necessariamente per ripetere preghiere di un tempo — come si ripeterebbero delle formule che essendo gia state esaudite garantirebbero di esser esaudite di nuovo — ma per pregare come un tempo, secondo gli stessi grandi schemi. Ora mi sembra possibile affermare che pregare « secondo la volontà di Dio » implichi essenzialmente tre cose : 1° - la celebrazione di Dio, che intende ed esaudisce; 2° - la domanda perchè venga il suo Regno ; 3° - 1'intercessione perchè la sua volontà di salvezza si diffonda, si realizzi, si consolidi. Tutte le altre preghiere non sono, per essere cristiane, che delle ramificazioni di questa triplice preghiera fondamentale. Vediamo la cosa un pò più da vicino.

1. — Essa celebra le grandi opere di Dio.

La preghiera comune e innanzitutto celebrazione delle grandi opere di Dio. « Santo è il suo nome : di generazione in generazione la sua misericordia stende su quelli che lo temono. Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore ; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi. Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia, come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre ». (Lc 1, 50 ss).

«Benedetto il Signore Dio d'Israele, perchè ha visitato e redento il suo popolo, e ha suscitato per noi una

salvezza potente nella casa di Davide, suo servo, come aveva promesso per bocca dei suoi santi profeti d'un tempo : salvezza dai nostri nemici e dalle mani di quanti ci odiano. Cosi Egli ha concesso misericordia ai nostri padri e si e ricordato della sua santa alleanza, del giura-mento fatto ad Abramo, nostro padre, di concederci, liberati dai nemici, di servirlo senza timore, in santità e giustizia al suo cospetto, per tutti i nostri giorni» (Lc 1, 68 ss).

« Signore, tu sei Colui che hai fatto il cielo, la terra, il mare e tutte le cose che sono in essi, tu, mediante lo Spirito Santo, per bocca del padre nostro e tuo servo David, hai detto : 'Perchè fremettero le genti, e i popoli hanno meditate cose vane? I re della terra si presentarono, e i principi si sono radunati insieme contro il Signore e contro il suo Cristo. E veramente, in questa città si sono radunati Erode e Ponzio Pilato, insieme coi Gentili e con tutto il popolo d'Israele, contro il santo tuo Figliolo Gesù, che tu hai consacrato! Essi han fatto quel che la tua mano e il tuo consiglio decreto si facesse» (At 4, 24 ss).

A queste tre preghiere si dovrebbe aggiungere anche la citazione delle innumerevoli formule dossologiche contenute nelle lettere di Paolo, nell'Apocalisse, ed in altri testi. Si dovrebbero aggiungere ancora le formule di confessione di fede mediante le quali la Chiesa riunita si pone di fronte a Dio per celebrarlo, per enumerare tutto quello che Egli ha fatto in Gesù Cristo, dando in Lui, al mondo, un riferimento e una speranza. E questa celebrazione di Dio — primo contenuto della preghiera comune — si basa su una convinzione talmente salda che in Gesu di Nazareth Dio ha fatto biforcare la sorte del mondo intero che, come ad esempio nel magnificat o nel Cantico di Zaccaria, ciò che e ancora tutt’al più solo iniziato — la sconfitta degli orgogliosi, cioè, e il rovesciamento della situazione degli umili e degli affamati — è cantato come irreversibilmente stabilito e realizzato. Proprio come nell'espressione detta da Cristo sulla Croce : « Tutto e compiuto » (Gv 19, 30).

Nella sua preghiera, dunque, la Chiesa comincia col celebrare Dio, la sua misericordia, la sua storia, la sua vittoria. Si pensi al catechismo di Heidelberg, che tanto insiste sul fatto che la preghiera « e la principale parte della riconoscenza che Dio reclama da noi»(ll).

2. — Essa esprime la sua attesa del rinnovamento di tutte le realtà, in Gesù Cristo.

Ciò che la Chiesa esprime, in secondo luogo, nella preghiera comune, e il suo ardente desiderio di vedere incontestabilmente realizzato il rinnovamento di tutte le cose ottenuto dalla morte e resurrezione di Gesù Cristo. «Venga la (tua) grazia e passi questo mondo ! » (12). È la preghiera medesima che chiude lo stesso Nuovo Testamento : «Lo Spirito e la Sposa dicono : Vieni! Vieni, Signore Gesu ! » (Ap 22, 17.20) (13).

Ed e in questa prospettiva — credo — che bisogna interpretare anche 1'insieme dell'orazione domenicale. Essa e la preghiera di coloro per i quali niente conta altrettanto quanto la conferma pubblica, universale, della loro confessione di fede : la dimostrazione che la resurrezione di Gesù nel mattino di Pasqua non può non portare come conseguenza il rinnovamento dell'intera creazione, attraverso lo stabilirsi del Regno di Dio e il godimento dei beni escatologici. Per questo — mi sembra — anche il tenore delle ultime richieste dell'orazione domenicale implora la parusia : il pane epiousios, « soprasostanziale », la cancellazione di tutto ciò che porrebbe 1'uomo in conflitto con Dio, la capacita di resistere al maligno nel giorno dell'ultimo giudizio. E il semeron della quarta richiesta mi sembra allora voglia dire che, nell'ansiosa attesa della parusia, fin d'oggi noi possiamo vivere della vittoria del Cristo e della venuta dello Spirito Santo, come attesta la variante della versione lucana della preghiera del Si-gnore : «venga su di noi il tuo Santo Spirito e ci purifichi» (Lc 11,2).

3. — Essa attesta l'evangelizzazione del mondo,

II terzo elemento veramente importante della preghiera comune, e che non ostante gli ostacoli posti dal1'avversario, il disegno di Dio avanza nel mondo ; coloro, perciò, che sono incaricati di essere i portatori dell'Evangelo del Signore, lo siano senza affievolirsi. Si potrebbe anche dire che il terzo elemento veramente importante della preghiera comune, e 1'evangelizzazione del mondo. « E adesso, Signore, tieni presenti» le minacce di Erode, di Pilato, delle nazioni, del popolo d'Israele «e concedi ai tuoi servi di annunziare la tua parola con tutta fran-chezza, mentre tu stendi la mano a risanare e a operar segni e prodigi per mezzo del nome del santo tuo Figlio Gesù», dicono i fedeli di Gerusalemme al ritorno di Pietro e Giovanni dopo che avevano essi dovuto comparire dinanzi al Sinedrio (At 4, 29 ss). Sono stato colpito nel notare la regolarità di questo tipo di preghiera nei testi neotestamentari: la richiesta che 1'Evangelo si radichi, si fortifichi la dove e gia piantato, che arrivi a nuovi luoghi d'impiantazione. Non è possibile farne 1'enumerazione completa ; pochi esempi saranno sufficienti.

Si potrebbero anzitutto rilevare i rendimenti di grazie con cui Paolo inizia le sue lettere, e che sono dominati dalla preoccupazione dell'avanzamento dell'Evangelo nel mondo. «Ringraziamo Iddio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, ogni volta che preghiamo per voi, sentendo la fede che avete in Cristo Gesu e 1'amore che portate a tutti i santi, per via della speranza che e riposta per voi nei cieli; speranza che avete gia da tempo concepito nella parola di verità del Vangelo pervenuto a voi, come in tutto il mondo sta producendo i suoi frutti e facendo progressi quali fa tra voi, dal di che 1'avete udito, e avete conosciuto la grazia di Dio nella sua verità . . . Perciò anche noi. . . non cessiamo dal pregare per voi e dal chiedere che siate ben compenetrati della conoscenza di quel che e la sua volontà in tutto il campo della sapienza e intelligenza spirituale, si da procedere in modo degno del Signore, con pieno suo gradimento, in ogni opera buona, fruttificando e progredendo nella cognizione di Dio, in ogni virtù fortificati secondo la sua gloriosa potenza a sopportare ogni cosa con pazienza e longanimità, con gioia ringraziando Dio Padre dell'avervi resi atti ad aver parte nell'eredita dei santi nella luce ; quel Dio, che ci ha sottratti all'impero delle tenebre, e ci ha trasportati nel regno del Figlio dell'amor suo, in cui abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati » (Cl 1, 3-14). O ancora : « Io ringrazio il mio Dio ad ogni ricordo di voi, sempre, in ogni orazione mia, pregando con gioia per tutti voi, a motivo della vostra partecipazione al Vangelo, dal primo giorno fino ad ora, persuaso di questo appunto che chi ha cominciato in voi 1'opera buona, la compirà fino al giorno di Gesu Cristo. Ed e giusto per me il pensar questo di tutti voi, perchè vi ho nel cuore, come quelli che, e nelle mie catene, e nella difesa e nella confermazione del Vangelo, siete tutti compagni a me nella grazia. Poiché Dio mi e testimone che io voglio bene a tutti voi nelle viscere di Gesù Cristo ; e questa e la mia preghiera che la vostra carità cresca sempre più e più, in cognizione e in ogni finezza di senso, si da riconoscere voi le cose migliori, affinché siate schietti e irreprensibili fino al giorno di Cristo, ripieni del frutto della giustizia per via di Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio » (Fl 1, 3-11).

Questi esempi potrebbero esser moltiplicati. Ad essi bisogna aggiungere, nello stesso senso, 1'esortazione rivolta ai Tessalonicesi o ai Colossesi, di pregare per lui « perchè la parola del Signore abbia corso e sia glorificata ovunque . . . e affinché noi siamo liberati dagli uomini protervi e malvagi, poiché non e di tutti la fede » (2 Tss 3, 1 ss); o di pregare sempre per lui «affinché Iddio gli apra la porta della parola, e gli sia dato annunziare il mistero di Cristo, per il quale anche ora e in catene, affinché lo manifesti come conviene che ne parli» (cfr. Cl 4, 3 ss). Si ritrova qui come un'eco della preghiera sacerdotale di Gesù che chiede a Dio non di togliere dal mondo coloro a cui Egli da 1'incarico di rappresentarlo in esso, ma di preservarli dal male, santificarli attraverso la verità e unirli incrollabilmente « affinché il mondo riconosca che tu mi hai mandato e che li hai amati, come hai amato me » (Gv 17, 9 ss).

Questa stessa preoccupazione dell'avanzamento del1'Evangelo e del consolidamento della fede di coloro che hanno creduto, si ritrova ancora, di frequente, nelle benedizioni dossologiche riportate dal nuovo Testamento:

«A Colui che può consolidarvi secondo il mio Vangelo e la predicazione di Gesù Cristo, conforme alla rivelazione di un mistero per lunghi secoli taciuto, (ma ora rivelato, per mezzo delle Scritture profetiche, giusta 1'ordine dell'eterno Dio e conosciuto fra tutte le genti per trarle all'obbedienza della fede), a Dio unico Sapiente, per via di Gesù Cristo, sia gloria per i secoli dei secoli. Amen ! » (Rm 16, 25 ss: cf. Giud. 24 ss).

Riassumendo : se, mediante la preghiera comune, la Chiesa esprime la sua più profonda identità, fa avanzare la storia della salvezza, tiene il suo ruolo di popolo sacerdotale, mediatore tra Dio e il mondo, tra il mondo e Dio, quello che essa celebra in questa preghiera e innanzitutto Dio e la storia che Egli concretizza per salvare il mondo; e poi 1' implorazione perchè venga la parusia e con essa sia (definitivamente) stabilito il Regno di Dio; e infine la richiesta che essa, la Chiesa, e coloro che ne sono i responsabili, possano fedelmente assolvere il com-pito che solo loro sono capaci di assolvere, e che e indispensabile al mondo e alla sua salvezza : far in modo, cioè, che nell'attesa della parusia, 1'Evangelo si diffonda, s'impianti, si consolidi e porti il suo frutto. Non credo esagerato dire che tutte le altre preghiere non sono cri-stiane che nella misura in cui scaturiscono da queste tre preghiere fondamentali e preparano ad esse.




III.

A CHE COSA, LA PREGHIERA COMUNE, IMPEGNA LA CHIESA, CHE LA RIVOLGE A DIO?

Mi domando spesso se l'attuale crisi della preghiera e della vita di preghiera non sia dovuta in gran parte ad un riflesso d'onesta : in coloro, evidentemente, che non dubitano (dell’esistenza) di un Dio, vivente e personale. Si prega male, si prega poco, perchè s'insiste sulla serietà della preghiera, s'insiste nel dire che la preghiera impegna. Si tende allora a rifugiarsi nella preghiera della Chiesa. Ma anche questa impegna, impegna altrettanto. A che cosa pero ?

1. — Volere ciò che si chiede a Dio.

La preghiera impegna la Chiesa a volere essa stessa ciò che domanda a Dio. Se la preghiera — per riprendere la citazione di K. Barth riportata poco fa — è «l'atto che consiste nel dare la nostra adesione all'opera di Dio » (14), questa adesione impegna. La Chiesa stessa diventa responsabile di ciò che domanda. Si, liberamente responsabile : senza alcun timore, cioè, per tutto ciò che si dovrà fare. A questo proposito, 1'assenza di frenesia che caratterizza la politica missionaria di Paolo : di lui, che, pure — se 1' esegesi di 2 Tm 2 proposta da O. Cullmann è corretta (15) — era incaricato in modo più particolare degli altri del compimento del terzo momento del contenuto della preghiera, e che sapeva di essere un elemento chiave dell'avanzamento della storia della salvezza, e esemplare.

Se Paolo fosse stato veramente convinto della parusia, avrebbe egli organizzato si saggiamente la sua strategia missionaria, da impiantare 1'Evangelo soltanto nelle città, per poi arrivare a poco a poco, alle campagne ? Avrebbe egli pazientemente atteso tre anni nelle prigioni di Cesarea, prima di appellare a Cesare ? La preghiera impegna la Chiesa a mettersi innanzitutto al servizio dell'esaudimento di ciò che essa domanda a Dio. Essa stessa diviene allora collaboratrice di Dio nell'avanzamento del piano di salvezza, qualunque sia 1'esegesi di Theou sunergoi che si adotta per spiegare il testo di 1 Cr 3, 9 (16).

E di tutta la vita della Chiesa che bisognerebbe qui parlare, perchè essa non e altro che un volontariato per e nell'opera della salvezza che Dio persegue nel mondo.

Riguardo a ciò che abbiamo rilevato parlando del contenuto della preghiera cristiana, impegnarsi nel servizio dell'esaudimento di quel che si domanda a Dio, significa — ricondotto all'essenziale — : sapere che quel che conta veramente, nel mondo, e la venuta, 1'insegnamento, la passione, la vittoria e la glorificazione di Gesù Cristo e 1'agire m conseguenza (di queste stesse realtà) ;

esser tesi verso la manifestazione di ciò che e avvenuto nel momento dell'incarnazione e sottomettere alla speranza di questa manifestazione 1'insieme della propria vita, dare all'impiantazione e alla crescita dell'Evangelo la preferenza su ogni altra attività ; compiere ciò che è specificamente cristiano, ciò che nessuna cosa e nessun altro che la Chiesa può compiere qui in terra.

2. — Pregare in modo unanime.

Parlando della preghiera comune, il Nuovo Testamento utilizza frequentemente due espressioni che fanno riflettere: la comunità cristiana, per la sua preghiera si riunisce epi to auto, «in uno stesso luogo » (17), e questa preghiera e pronunziata «in maniera unanime », «in comune», homothymadon (18). La Chiesa, che la preghiera costituisce in assemblea di Dio, e una Chiesa una. Come non si va a presentare a Dio la propria offerta in stato di inimicizia col fratello, ma si va prima a riconciliarsi con lui (cfr. Mt 5, 23 ss), cosi la Chiesa non deve presentarsi a Dio divisa. La sua divisione sarebbe infatti una smentita — per cosi dire — di ciò che essa e, un sabotaggio della propria preghiera (cfr. Mt 18, 19). E’ qui anche il senso del bacio di pace che precede il momento più importante della preghiera comune : 1'Eucaristia (19).

Se la preghiera comune impegna a mettersi al servizio di ciò che si domanda a Dio e ad accettare di divenire noi stessi operatori di esaudimento, bisogna ora dire, in secondo luogo, che la preghiera comune impegna la Chiesa — che la rivolge a Dio — a far questo in modo unanime, nell'unita ; che 1'impegna, di conseguenza, ad una particolare cura per impedire le divisioni e, se queste si sono prodotte, a guarirle.

Commentando 1'interpretazione data dai grandi catechismi della Riforma — quello di Calvino, il cate-chismo di Heidelberg e i due catechismi di Lutero — K. Barth osserva : «essendo i Riformatori unanimi in ciò che concerne la preghiera, sono essi d'accordo sul fondo delle cose. E se si può pregare insieme, si dovrebbe anche poter comunicarsi insieme; giacche le differenze dottrinali non possono essere allora che differenze secondarie»(20).

Noi non siamo qui per abbordare, ancor meno per trattare le relazioni tra preghiera comune e ricerca ecumenica, ma sarebbe cosa estremamente importante il porci almeno le domande: sono le nostre divisioni talmente profonde, da impedirci di pregare insieme, perché convinti di non rivolgerci allo stesso Dio, attra-verso lo stesso Cristo e nello stesso Spirito ? E se esse non sono tali, se esse non c'impediscono di pregare insieme, che cosa attendiamo per misurarne non la profondità ma la piccolezza e per svelarla ed eliminarla, onde la Chiesa locale possa riunirsi epi to auto, per rivolgersi a Dio homoihymadon ?

3. — Una preghiera già esaudita.

Un ultimo punto in questo breve esame da noi fatto, per conoscere a che cosa la preghiera impegna. Esso ci ha condotto all'esaudimento della preghiera. « Questa è la fiducia che noi abbiamo in Lui — dice la prima lettera di Giovanni — che qualunque cosa chiederemo secondo la sua volontà, Egli ci esaudisce. E sappiamo che ci esaudisce, qualunque cosa gli chiediamo ; lo sappiamo perchè abbiamo 1'effetto delle richieste a Lui fatte» (5, 14-15). Ciò significa — credo — che la preghiera cristiana e una preghiera gia esaudita in Gesù Cristo, una preghiera di cui noi domandiamo a Dio di confermare 1'esaudimento. « Perciò vi dico — afferma Gesù — tutte le cose che domanderete nella preghiera, abbiate fede di ottenerle e le otterrete » (Mc 11, 24). La preghiera comune dei cristiani si appoggia, in qualche modo, a ciò che Dio ha compiuto in Gesù Cristo e che e «infinitamente al di la di quel che noi domandiamo, o pensiamo » (Ef 3, 20); ed è in questa situazione ch'essa è pronunziata. Noi non possiamo domandare di più di quello che Dio ci ha donato, possiamo nondimeno domandare 1'apocalisse, lo svelamento, la manifestazione incontestabile di tutto questo. Ciò che mi sembra significare, in modo assai concreto, tre cose :

1° - la pazienza nell'attesa dell'esaudimento, o piuttosto dell'esaudimento manifesto. Può sembrare talvolta— o anche spesso — che Dio risponda al contrario di ciò che gli domandiamo anche con fede; come indica la preghiera stessa, non esaudita, di Gesù nel Getsemani

— prima che Egli si piegasse alla volontà di Dio (Mc 14, 36) — o come Paolo apprende dopo aver chiesto per tre volte (anche lui 1 Cfr. Mc 14, 36.39.41) di esser oberato da quel misterioso stimolo della carne (cf. 2 Cr 12, 7). Apprende cioè che gli è sufficiente la grazia di Dio, poiché la forza di Dio si compie nella debolezza. Si, può sembrare che Dio risponda al contrario, come appresero anche quelle persone — di cui il mondo era indegno — che furono lapidate, segate, perirono di spada, andarono raminghe, furono denudate, oppresse, maltrattate perchè non dovevano giungere alla perfezione senza di noi (cf. Ebr 11, 37).

L'esaudimento segreto preliminare, e garante dell'esaudimento ultimo manifesto. La preghiera comune o privata impegna dunque alla fiducia nella virtù, nella validità, e sufficienza dell'esaudimento preliminare di ogni preghiera cristiana, impegna alla fede in Gesù Cristo, incarnato, crocifisso, risuscitato e glorificato.

In secondo luogo, se la preghiera impegna alla pazienza, nell'attesa dell'esaudimento finale della preghiera gia fin d'ora esaudita, essa non impegna di meno a ricercare tutti quei segni in cui 1'esaudimento preliminare e finale trovano la propria attestazione, ed a gioirne. E specie a ricercare ed a gioire di quel momento più importante, in cui si attesta, per eco ed anticipazione, l'esaudimento della preghiera : l'Eucaristia della domenica.

Infine, se l'esaudimento che attendiamo, è la manifestazione e la conferma di ciò che è passato nella vita, morte e resurrezione di Gesù di Nazareth, se esso è 1'esaurimento dell'esaudimento, allora noi sappiamo che cosa domandare per pregare secondo Dio: è infatti l'orazione domenicale quella preghiera totalmente differente dalla preghiera spontanea, che sale dal cuore dell'uomo (21) e provoca e segna l'avanzamento della storia della salvezza.


Jean-Jacques von Allmen  da Vita monastica 118-119 (1974) 137-155   Camaldoli 1974

mercoledì 5 marzo 2025

Eucaristia

 Nella vita di Gesù 

Nella lettera agli Ebrei il sacerdozio viene definito come mediazione e il sacerdote viene chiamato mediatore dell'alleanza nuova (Eb 9,15). L'Autore cita l'oracolo dell'alleanza nuova (Ger 31,31-34). È la più lunga citazione dell'Antico Testamento nel Nuovo e proclama poi che questo oracolo è stato adempiuto in Cristo. Quando il profeta Geremia annunziava la Nuova Alleanza, ne faceva una descrizione bellissima: la legge di Dio scritta nei cuori nonpiù sulla pietra; una relazione reciproca tra Dio e ciascun membro delpopolo di Dio dal più piccolo al più grande; il perdono religioso dei peccati. Geremia però non descriveva il fondamento della Nuova Alleanza. 

Ora, perché si stabilisca un'alleanza nuova, occorre che ci siaun nuovo fondamento. I Vangeli colmano la mancanza di Geremia mostrando che Gesù si è rivelato sacerdote della Nuova Alleanza quando nell'ultima cena prese il calice e disse: "Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue che viene versato per voi" (Lc 22, 20). San Paolo nella prima lettera ai Corinzi riferisce una formula simile; in Matteo e Marco non c'è l'espressione Nuova Alleanza, ma soltanto: Questo è il mio sangue dell'alleanza, però è chiaro che si tratta di un'alleanza nuova perché l'antica non era stabilita nel sangue di una persona che dava se stessa. L'atto fondamentale della liturgia della Nuova Alleanza consiste nel rendere di nuovo presente questo evento per mezzo della celebrazione eucaristica affinché il popolo cristiano possa entrare sempre meglio nel dinamismo di comunione della Nuova Alleanza. 

Eucaristia anticipazione della morte di Gesù

Colpisce il fatto che tutti i racconti dell'ultima cena mettano l'Eucaristia in rapporto con la passione di Gesù, più precisamente con il tradimento di Giuda. Paolo dichiara che Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e poi lo diede; il tradimento era in corso, quando Gesù istituì l'Eucaristia. Marco e Matteo ricordano che Gesù, prima di istituire l'Eucaristia, si è mostrato consapevole del tradimento: "In verità vi dico: uno di voi, che mangia con me, mi tradirà". Luca vi accenna ugualmente e anche Giovanni. Quindi la catena degli avvenimenti che porteranno Gesù alla condanna e alla morte infausta sulla croce aveva già cominciato a mettersi in moto. Il Signore ne è consapevole. Egli sa che il suo ministero di dedizione generosissima a Dio e ai fratelli sta per essere brutalmente interrotto da un tradimento, la colpa più odiosa e più contraria al dinamismo di alleanza. Egli può ancora agire liberamente. Come approfitta di questi ultimi momenti? Qual è la sua reazione davanti a una situazione così ingiusta? Vediamo la reazione del profeta Geremia. Avvisato dal Signore di un complotto tramato contro di lui, Geremia esclama: "Ora, Signore degli eserciti, giusto giudice, che scruti il cuore e la mente, possa io vederela tua vendetta su di loro, poiché a te ho affidato la mia causa" (Ger 11,20. 21). Questo atteggiamento di Geremia costituisce già un certo progresso riguardo alla reazione umana istintiva, che sarebbe quella di prendere in mano la propria vendetta. Affidare a Dio la vendetta è già una vittoria. Gesù però riporta una vittoria molto più radicale e positiva, supera il suo sconforto e invece di rinunciare, come Geremia, al suo atteggiamento generoso, lo spinge fino all'estremo. "Dopo aver amato i suoi che erano nel mondo li amò sino alla fine", dice il Quarto Vangelo, Gesù anticipa la propria morte, la rende presente nel pane spezzato che diventa il suo corpo, nel vino che diventa il suo sangue versato e trasforma la propria morte in sacrificio di alleanza per il bene di tutti. Non è possibile immaginare una generosità più grande di questa, né una trasformazione più radicale dell'evento stesso. 

La morte diventa strumento di comunione

Quando si parla dell'Eucaristia, di solito si insiste sulla trasformazione del pane nel corpo di Cristo e del vino nel suo sangue. Però si dovrebbe pensare anche a sottolineare un'altra trasformazione non meno straordinaria e in un certo senso più importante per la nostra vita spirituale: la trasformazione di un evento di rottura in uno strumento di comunione, la trasformazione del sangue criminalmente versato dai nemici in sangue di alleanza. Una trasformazione veramente straordinaria. 

Per l'Antico Testamento la morte era un evento di rottura radicale e definitiva con gli uomini e con Dio. Non la possiamo più vedere così perché Gesù ha trasformato la morte nell'Eucaristia. È chiaro ancora adesso che la morte spezza i legami con le persone. Non è più possibile comunicare con un morto, parlargli; questo provoca tristezza e dolore. Tuttavia nell'Antico Testamento c'era la consapevolezza di unarottura anche con Dio e questo era l'aspetto più tremendo per le persone religiose. È la morte, castigo del peccato, ultima conseguenza del peccato, estremo grado di rottura tra la persona umana e Dio. Quando nell'Antico Testamento si pensava alla morte, veniva richiamata questa rottura orrenda. Ad esempio, il re Ezechia, colpito da una malattia mortale, esclama: "Non vedrò più il Signore sulla terra dei viventi!". Il Signore si vede sulla terra dei viventi, non nello scheòl dei morti. E poi: "Non vedrò più nessuno tra gli abitanti di questo mondo", cioè rottura da ambedue le parti (Cf Isaia XXXVIII). Nell'Antico Testamento si percepiva il contrasto violento tra l'uomo morto e il Dio vivente e non si vedeva la possibilità di una relazione positiva tra loro. I morti andavano a finire nello scheòl, un luogo sotterraneo dove vivevano una vita da larve, una vita indegna dell'uomo e ancora più indegna di Dio stesso. 

Questa duplice rottura, provocata dalla morte, diventava ancorapiù tragica quando si trattava della morte di un condannato. Di solito la morte di una persona cara causa negli altri dolore e afflizione ma non distrugge un legame affettivo. Invece il condannato è rigettato dalla società, che non lo vuole più e lo condanna a morte proprio per rompere con lui in modo definitivo. Nel popolo eletto la condanna veniva fatta secondo la legge di Dio, quindi il condannato era considerato maledetto da Dio. San Paolo non esita a dire che Cristo è diventato maledizione per noi, perché è stato appeso al legno e la Scrittura dice: "Maledetto chi pende dal legno". Quindi tale doveva essere la situazione tragica di Gesù, una situazione di rottura completa. Ma Egli l'affronta e ne fa l'occasione di un amore estremo, ne fa uno strumento di comunione con Dio e con i fratelli, un mezzo per fondare l'alleanza. Circostanze più contrarie alla fondazione di una alleanza non sipotevano immaginare! Gesù sa che sarà tradito, che sta per essere abbandonato da tutti gli apostoli, tradito da Pietro, accusato falsamente, condannato ingiustamente, schernito, ucciso. E proprio questieventi crudeli e ingiusti Egli li anticipa nel momento dell'ultima cena e li trasforma in dono di amore, in offerta di alleanza. Non ci rendiamo mai abbastanza conto della straordinaria trasformazione operata da Gesù in quel momento e della generosità di cuore con cui Egli l'ha concepita e attuata. 

Le due dimensioni dell'alleanza

Un'alleanza deve avere due dimensioni, dal momento che si tratta dell'alleanza con Dio: quella verticale di relazione con Dio e quella orizzontale di relazione con i fratelli. Sono le due dimensioni della croce, che sono molto significative, con al centro il cuore di Gesù che le unisce. Nella fondazione dell'alleanza del Sinai, la dimensione più appariscente è stata quella verticale. Si legge nell'Esodo che Mosè prese il libro dell'alleanza, lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: «Quanto il Signore ha ordinato lo faremo, lo eseguiremo!». Allora Mosè prese il sangue, ne asperse il popolo dicendo: «Ecco il sangue dell'alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!» (Es 24,78). 

Nell'ultima cena, invece, la dimensione più appariscente è quella orizzontale: il dono ai fratelli. Il contesto è quello di un pasto preso insieme, un contesto di fratellanza umana. Ogni banchetto ha questo significato di unione tra le persone, di accoglienza reciproca, di relazioni amichevoli e fraterne. Nell'Antico Testamento diverse volte un banchetto sigilla la conclusione di un'alleanza tra persone umane. Ad esempio tra Isacco e Abimelech (Gen cap. XXVI) o tra Giacobbe e Labano (cap. XXXI). Nell'ultima cena, in questo contesto di pasto preso insieme, Gesù fa un dono molto più radicale di quello che si fa abitualmente: offre in cibo il proprio corpo e in bevanda il proprio sangue, dono ai fratelli. "Questo è il mio corpo che è dato per voi. Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi" (Lc 22,19-20). Si tratta quindi di una comunione fraterna espressa nel modo più intimo e più perfetto possibile. Il sangue dell'Alleanza Nuova è dato per essere bevuto e non soltanto asperso come era avvenuto nella prima alleanza del Sinai. 

Un'alleanza fondata sul rendimento di grazie

Il risultato è una interiorità reciproca: noi dimoriamo in Gesù e Gesù dimora in noi. Non è possibile attuare un'alleanza più stretta. Si può notare questo aspetto di comunione profonda tra Gesù e i discepoli presenti nell'ultima cena. Non lo si ritrova più sul Calvario, dove invece si manifesta soltanto l'aspetto di completa rottura. Sulla croce Gesù muore solo. Muore per la moltitudine, ma respinto dalla moltitudine. La dimensione verticale nell'ultima cena è meno evidente, però è essenziale, condiziona quella orizzontale. Dove si manifesta? Si manifesta in una sola parola greca: avendo reso grazie. Gesù due volte ringrazia il Padre: prima sul pane, poi sul calice. Si tratta di una preghiera di estrema importanza. La Chiesa lo ha capito e ha chiamato il sacramento Eucaristia; ha scelto questo termine, non un altro. Eucaristia, che significa rendimento di grazie. Durante la sua vita, Gesù spesso assumeva spontaneamente l'atteggiamento filiale di amore riconoscente, atteggiamento che meglio corrisponde alla sua condizione di Figlio. Il Figlio riceve tutto dal Padre e la sua reazione normale è quella di rispondere a quest'amore con gratitudine filiale. 

Questa gratitudine si manifesta in parecchi punti dei Vangeli. Essi riferiscono diversi casi in cui Gesù ringrazia pubblicamente il Padre. Qui ne vogliamo prendere in considerazione due, che appaiono particolarmente significativi in rapporto con l'Eucaristia. Si tratta di due situazioni nelle quali noi non avremmo pensato affatto di rendere grazie a Dio. Una situazione di carestia e una di lutto. In un luogo deserto ci sono cinquemila uomini da sfamare e Gesù ha a disposizione soltanto cinque miserabili pani. Non sarebbe proprio il caso di rallegrarsi, di rendere grazie. Nell'Esodo una situazione simile provocava da parte del popolo mormorazioni e ribellione. Gesù, invece, ringrazia il Padre e così apre la via al suo amore sovrabbondante e dà inizio alla moltiplicazione dei pani. La situazione di lutto è quella della morte di Lazzaro. Gesù si fa condurre presso la tomba del suo amico, la fa aprire e di fronte al sepolcro aperto si rivolge al Padre con questa preghiera, assolutamente inaspettata date le circostanze: "Padre, ti ringrazio"!

Il ringraziamento di Gesù

Nell'ultima cena Gesù rende grazie come aveva fatto nel momento della moltiplicazione dei pani. A prima vista la situazione era più normale: non c'erano molti commensali, il cibo bastava. Quindi la preghiera di ringraziamentodi Gesù si presenta come un fatto ordinario della vita quotidiana, come una semplice preghiera all'inizio dei pasti, con la quale anche noi chiediamo la benedizione di Dio. Gli Ebrei, prima dei pasti, benedicevano Dio, cioè Lo ringraziavano Questa è una benedizione nel senso di ringraziamento: è l'Eucaristia. All'ultima cena quindi non era necessaria una moltiplicazione del pane. I discepoli, sentendo il ringraziamento di Gesù, hanno percepito un significato ordinario: "Padre ti rendo grazie per questo pane che mi dai, tu che sei il creatore di ogni cosa, la sorgente di ogni vita, tu che nutri generosamente tutte le tue creature; ti rendo grazie per questo vino simbolo del tuo amore con il quale rallegri il cuore degli uomini". Gesù però non interpreta questo rendimento di grazie come i discepoli, perché sa benissimo che questo non sarà un pasto ordinario, sa che questo pane e questo vino non resteranno pane e vino materiali. Mentre rende grazie, sa ciò che sta per fare e vede che il Padre gli offre la possibilità di un dono incomparabilmente più grande, piùsostanzioso, più generoso: il dono di se stesso per comunicare agli uomini la vita divina, l'amore divino. 

L'eucaristia dono del Padre

Il primo aspetto dell'Eucaristia per Gesù non è quello di un dono suo, ma di un dono del Padre. Nel discorso del pane di vita Gesù aveva detto: "Non Mosè vi ha dato il pane dal cielo, ma il Padre mio vi dà ilpane dal cielo, quello vero". L'origine del dono si trova nel Padre. Gesù è pienamente consapevole che il dono che Egli farà, proviene dal Padre, non pretende di avere l'iniziativa, ma rende grazie al Padre perché il Padre gli dà la capacità di donare: "Ti ringrazio, Padre, perché per mezzo di questo pane che ho nelle mie mani, io stesso diventerò pane per la vita del mondo. Ti ringrazio per avermi dato un corpo che posso trasformare in cibo spirituale; per avermi dato il sangue che posso versare e trasformare in bevanda spirituale; per avermi dato soprattutto un cuore pieno di amore per poter effettuare questa offerta di me stesso, che desidero ardentemente fare. Ti ringrazio perché così posso stabilire l'alleanza nuova fra te e tutti i miei fratelli". L'Eucaristia è dono del Padre che passa attraverso Gesù. E la Chiesa lo riceve come tale proprio dalle sue mani. Questo aspetto viene ribadito regolarmente nelle orazioni liturgiche dopo la comunione. La Chiesa allora di solito, non ci fa ringraziare Gesù. Ci sono naturalmente delle eccezioni, ma abitualmente la Chiesa ci fa ringraziare il Padre che ci ha accolto alla sua mensa, il Padre che ci ha nutrito con il corpo e il sangue del suo Figlio, come dicono le orazioni. Il rendimento di grazie di Gesù ha questo senso. 

L'eucaristia dono per il mondo

Nel discorso del pane di vita Gesù aveva detto: "Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo". L'Eucaristia è dono per la vita del mondo. All'ultima cena Gesù non limita il suo sguardo al piccolo gruppo che gli sta intorno, ma dice ai discepoli: "Fate questo in memoria di me", pensando a tanta altra gente. Il suo ringraziamento viene così a trovarsi all'origine di una nuova moltiplicazione del pane, dell'unico pane; unamoltiplicazioneancora più meravigliosa e più importante di quella avvenuta nel deserto. le migliaia di persone, quanto quello di prefigurare la moltiplicazio In effetti, lo scopo di quest'ultima non era tanto quello di sfamarene del pane eucaristico. graViene qui sottolineato il legame tra questi episodi usando nei due casi le stesse espressioni. Quando, nell'ultima cena, Gesù rende grazie al Padre, Egli pensa a questa distribuzione infinita: "Padre, io miunisco a te con immensa gratitudine perché tu fai di me il pane vivo dato per la vita del mondo, moltiplicabile all'infinito per tutti gli uomini". 

Padre, ti ringrazio

Se ora mettiamo a confronto il ringraziamento pronunciato da Gesù nell'ultima cena con quello pronunciato davanti alla tomba di Lazzaro, in un primo momento ci colpisce la differenza. Da una parte una preghiera fatta all'aperto di fronte a un sepolcro, dall'altra un pasto preso insieme nell'intimità del cenacolo. Eppure possiamo percepire una profonda somiglianza fra queste due preghiere. In entrambi i casi Gesù deve affrontare la morte e vincerla. Nel primo caso affronta la morte del suo amico Lazzaro, nel secondo affronta la propria morte. Nei due casi Gesù ringrazia prima di riportare la vittoria. Questo è impressionante. Davanti alla tomba di Lazzaro Gesù dice: "Padre ti ringrazio che mi hai ascoltato". L'esaudimento non appariva per niente, sembrava impossibile. Ma Gesù era sicuro di essere ascoltato dal Padre e di riportare la vittoria sulla morte dell'amico. Nell'ultima cena Gesù similmente ringrazia il Padre in anticipo perla vittoria che riporterà sulla morte: "Padre, ti rendo grazie perché so in anticipo che mi dai la vittoria sulla morte per me e per tutti. Ti rendo grazie perché hai messo nel mio cuore tutta la forza del tuo amore capace di vincere la morte, di capovolgere il senso della morte, di fare di un evento di rottura un evento di alleanza". Questa vittoria sulla morte ha come conseguenza la risurrezione. La risurrezione è il frutto dell'Eucaristia, è il frutto del Calvario: "Grazie alla forza del tuo amore il mio corpo diventerà, attraverso la mia morte il pane della vita; il mio sangue versato diventerà sorgente di comunione, sangue di alleanza. Tutti potranno ricevere questo dono. Padre, ti rendo grazie per questa possibilità meravigliosa che mi dai". Proprio in quanto ringraziamento anticipato che viene prima della vittoria, questa preghiera costituisce una rivelazione eccezionale della vita interiore di Gesù, della sua unione filiale con il Padre, della sua fiducia assoluta in Lui e nello stesso tempo costituisce un'azione estremamente efficace in quanto quel ringraziamento determina l'orientamento di tutti gli eventi successivi. L'istituzione dell'Eucaristia dipende da questo ringraziamento evidentemente, ma è così anche la passione, la resurrezione, la fondazione della Nuova Alleanza. Tutto dipende da questo rendimento di grazie iniziale e fondamentale che apre all'amore che viene dal Padre, come del resto tuttigli eventi e tutta la persona di Gesù. 

La novità dell'eucaristia come sacrificio di ringraziamento

Ora possiamo fare un confronto con l'Antico Testamento per renderci meglio conto della novità dell'Eucaristia in quanto sacrificio diringraziamento. L'Eucaristia è sacrificio di alleanza, è sacrificio di ringraziamento. Qual è lo schema abituale dei sacrifici di ringraziamento? È uno schema molto naturale. Per esempio, una persona si trovain pericolo di vita, invoca Dio con intensa preghiera e promette di offrire un sacrificio di ringraziamento se scamperà alla morte. Questa condizione si verifica: la persona si reca al tempio per offrire, in mezzo all'assemblea festosa, il sacrificio promesso. Questo si concludecon un pasto sacrificale, nel quale tutti mangiano delle vittime immolate. A tale banchetto sono invitati specialmente i poveri. Questo schema è ancora vigente ai nostri giorni; una persona che è in difficoltà fa una richiesta a Dio e l'accompagna con un voto. Se viene esaudita, assolve il suo voto. Il salmo 21, il salmo della passione ("Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?") descrive il pericolo, la situazione disperata del giusto perseguitato: "Mi circondano tori numerosi, mi assediano tori di Basan. Spalancano contro di me la loro bocca come leone che sbrana e ruggisce". Poi viene la supplica: "Ma tu, Signore, non stare lontano, mia forza, accorri in mio aiuto". Nei salmi questo schema si presenta frequentemente. Quindi la promessa del sacrificio di ringraziamento. "Annunzierò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all'assemblea". I versetti successivi riferiscono ciò che l'orante dirà dopo essere stato salvato, quando scioglierà i suoi voti. Alla fine viene anche annunziato il pasto di comunione: "I poveri mangeranno e saranno saziati, loderanno il Signore quanti lo cercano". Ci sono tanti altri salmi che esprimono il rendimento di grazie o invitano al rendimento di grazie. Ad esempio il salmo 106 elenca diversi casi di pericolo di vita e ogni volta invita il fedele liberato a ringraziare e ad offrire il sacrificio di lode. Quindi, secondo lo schema normale, il sacrificio di ringraziamento viene alla fine come felice conclusione di un'avventura che minacciava di finire molto male.

L'aspetto straordinario del caso di Gesù è che Egli ha anticipato il ringraziamento mettendolo all'inizio assieme al pasto di comunione. Nell'ultima cena sappiamo bene che Gesù ha anticipato la sua morte, l'ha resa presente, ma non riflettiamo abbastanza forse sul fatto che Gesù ha anticipato il ringraziamento finale per la vittoria sulla morte, ottenuta attraverso la morte stessa. Ha messo così per primo l'elemento che di solito viene messo per ultimo, perché è l'elemento fondamentale. Il ringraziamento è il modo di aprirsi alla corrente di amore che viene da Dio per rendere possibile la vittoria. 

La novità della morte vittoriosa

Possiamo fare brevemente un'ultima osservazione. Di solito si distinguono chiaramente tre momenti successivi: la situazione di pericolo, la liberazione miracolosa, il rendimento di grazie. Nel caso di Gesù questi tre momenti sono uniti in modo sorprendente, si compenetrano a vicenda. Il pericolo non è stato soppresso dall'esterno con un intervento miracoloso. Gesù non è stato preservato dalla morte; la morte non è stata miracolosamente evitata, ma è stata trasformata dall'interno instrumento di vittoria proprio sulla morte, in strumento di liberazione e di alleanza. E così la morte stessa suscita il rendimento di grazie perché è una morte vittoriosa della morte. Nell'Eucaristia annunciamo la morte diGesù come una morte vittoriosa, altrimenti non sarebbe il caso di proclamarla. Tutte queste osservazioni ci aiutano a comprendere la profonditàdel mistero e soprattutto la forza dell'amore che ha realizzato una tale trasformazione, l'amore che proviene dal Padre e che passa attraverso il cuore di Cristo e trasforma un avvenimento tragico e scandaloso in sorgente di grazie infinite. Quando celebriamo l'Eucaristia e ci comunichiamo, riceviamo in noi questo intenso dinamismo di amore capace di trasformare tuttigli eventi in occasione di progresso e di vittoria. Ne dobbiamo prendere meglio coscienza per diventare effettivamente capaci di superare ogni difficoltà con la forza dell'amore, in un continuo ringraziamento a Dio. Possiamo imparare anche a ringraziare in anticipo quando prevediamo una situazione difficile, sapendo che Lui ci darà la vittoria. 

Albert Vanhoye

venerdì 28 febbraio 2025

Guardate a lui e sarete raggianti

Avvicinatevi al Signore e sarete illuminati È dolce, dice l'Ecclesiaste, questa luce (cfr. Qo 11, 7) ed è cosa assai buona per la vista dei nostri occhi contemplare questo sole visibile. Tolta infatti la luce, il mondo sarebbe senza bellezza e la vita senza anima. Perciò quel primo contemplativo di Dio che fu Mosè disse: E Dio vide la luce e disse che era una cosa buona (cfr. Gn 1, 3).

  Ma a noi conviene considerare la grande, vera ed eterna luce che «illumina ogni uomo che viene in questo mondo» (Gv 1, 9) cioè Cristo Salvatore e redentore del mondo, il quale, fattosi uomo, scese fino all'infimo grado della condizione umana.

Ha chiamato dolce la luce ed ha preannunziato come cosa buona il vedere coi propri occhi il sole della gloria, vale a dire colui che al tempo della divina incarnazione disse: «Io sono la luce del mondo; chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8, 12). 

Il Signore promise di sostituire la luce che vediamo cogli occhi corporei con quel sole spirituale di giustizia che è veramente dolcissimo per coloro che sono stati ritenuti degni di essere ammaestrati da lui. Essi hanno potuto vederlo con i loro occhi quando viveva e s'intratteneva in mezzo agli uomini come un uomo qualunque, mentre invece non era uno qualunque degli uomini. 

 Ma anche adesso è cosa veramente dolcissima volgere verso di lui gli occhi spirituali e contemplare e considerare la sua semplice e divina bellezza, essere illuminati e innalzati da questa stessa partecipazione e comunicazione, essere ricolmati di spirituale dolcezza, rivestirsi di santità, acquistare intelligenza, e infine essere ripieni di divina esultanza e sperimentarla tutti i giorni della vita presente. Infatti di ogni gioia è interamente autore il Sole di giustizia, per quelli che lo contemplano.

 Dalla «Spiegazione dell'Ecclesiaste» di san Gregorio di Agrigento, vescovo (Lib. 10, 2; PG 98, 1138-1139)



giovedì 27 febbraio 2025

Significato di pena temporale

INDULGENZA E PENA TEMPORALE

In che senso è legittima - anzi, insuperabile - la dimensione della "pena" nel sacramento della penitenza?

Se noi ritenessimo che la "pena" nel sacramento della penitenza sia solo un retaggio di un passato medioevale con cui non abbiamo più nulla a che fare, allora non solo rinunceremmo a comprendere fino in fondo che cosa sia la prassi indulgenziale, ma anche perderemmo il senso complessivo dello stesso sacramento della confessione. D'altra parte, quando accettiamo una dimensione propriamente "penitenziale" della confessione e siamo disposti ad ammettere la sua dimensione di "pena", abbiamo certo riconosciuto una giusta esigenza, ma non l'abbiamo ancora compresa. 

Per una comprensione teologica di questo concetto di "pena del peccato", così essenziale per un'adeguata concezione della penitenza e quindi anche delle indulgenze, non si deve partire dal modello che ci viene fornito dalle pene inflitte dal potere dello stato per un delitto commesso contro l'ordine pubblico. 

La concezione di "pena temporale" deve essere attinta da un diverso orizzonte, altrimenti si rischia di confondere Dio con il mondo, senza più comprendere la dimensione trascendente della grazia e della misericordia. Tale orizzonte è costituito dalla libertà dell'uomo e dal riconoscimento del suo carattere corporeo, legato alla sensibilità e alla materia. 

La "distanza", tra la decisione di mutare vita e la sua effettiva modificazione, questa discrepanza, sempre possibile e sempre dolorosa, tra volontà (nuova) e realtà (vecchia) rappresenta il luogo proprio delle "pene del peccato". Esse sono allora come il sopravvivere della decisione cattiva non più nella volontà, ma nell'oggettivazione corporea che di essa le precedenti espressioni/esperienze della volontà hanno lasciato in me, nel mondo e nel prossimo. Scopriamo che l'elemento salvaguardato dalla "pena" nel processo di conversione è precisamente il rapporto complesso e mai semplice, concreto e mai astratto, tra uomo nuovo e uomo vecchio, che il peccato, dopo il battesimo, mette a dura prova. In questo modo, attraverso concetti apparentemente astratti, il Medioevo ha preso sul serio la storicità dell'uomo, mentre la nostra insensibilità al tema non è altro che un volto della scarsa considerazione che abbiamo per quella storicità, che solo a parole diciamo di ritenere tanto decisiva. 

La colpa dell'uomo battezzato, quando emerge alla coscienza grazie al nuovo incontro con la parola salvifica che Dio gli rivolge, porta con sé, proprio con l'essere perdonata, il rovello del cambiamento, la fatica della realizzazione corporea, storica ed esistenziale di ciò che l'uomo ha scoperto riservato da Dio per lui. 

La confessione della colpa e la misericordia di Dio che scende sull'uomo sono il principio e il definitivo cambiamento dell'uomo ma non e non possono essere il mutamento storico della sua libertà, che resta libera (purtroppo e per fortuna) anche di fronte alla propria conversione. 

Infatti il sacramento della riconciliazione annuncia e realizza nuovamente il riconciliarsi, avvenuto in Cristo, di Dio con l'uomo. La grazia di Dio incontra la libertà dell'uomo e la libera, instillando la certezza che "se il nostro cuore ci condanna, Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa". Per questo, nel sacramento, non è centrale semplicemente l'offerta della grazia, ma anche la capacità di rispondere adeguatamente a quella grazia. Anzi, potremmo dire addirittura che il sacramento riprende l'offerta della grazia tipica dei sacramenti dell'iniziazione, ma ha come specificità di prendersi cura della risposta dell'uomo. È celebrazione della rinnovata possibilità che la grazia di Dio trovi risposta da parte del battezzato caduto nel peccato postbattesimale. 

La dimensione di preghiera comunitaria

La rimotivazione moderna del concetto di "pena temporale" ha cercato di interpretare l'indulgenza partendo non dal "potere delle chiavi", ma dalla "preghiera cristiana". In effetti, questa riflessione ci consente di pensare l'indulgenza come preghiera particolare della Chiesa, che essa innalza per i propri membri nella sua azione cultuale e nella preghiera per la loro completa purificazione; questa preghiera, nell'indulgenza, viene applicata solennemente e in modo particolare a un membro determinato. 

Con tale visione viene assicurato un duplice risultato: si assicura alla dimensione comunitaria, a quella relazione di comunione tra gli uomini che si chiama Chiesa, il ruolo di accompagnare e anche di intercedere per la sofferenza di un suo membro. «La Chiesa è in grado di avallare simile preghiera. Essa non è mai stata solo l'organizzazione burocratica esteriore della verità e dei mezzi di grazia. È l'unico corpo di Cristo, nel quale tutte le membra vivono, soffrono e raggiungono la perfezione; le une per le altre». 

Tale dimensione ecclesiale della preghiera per la penitenza di ogni singolo credente - che raggiunge una particolare evidenza nell'indulgenza costituisce anche il concetto di "tesoro della Chiesa", che corrisponde alla volontà salvifica propria di Dio e, a ben vedere, a Dio nella misura in cui tale volontà vive nel Cristo (capo) vittorioso ormai per sempre nel mondo: Cristo che è sempre voluto da Dio come primogenito tra molti fratelli e quindi con il suo corpo che è la Chiesa. Nell'indulgenza viene perciò alla luce la dinamica profonda con cui ogni penitente è chiamato a rispondere non solo con la sua volontà, ma anche con il suo corpo, con le sue scelte ulteriori, in ultima analisi con l'intera sua esistenza, alla parola di grazia che Dio ha voluto rivolgergli ancora una volta. 

Di fronte a tale parola, l'uomo non è dispensato dal rispondere in prima persona. È lui e solo lui a dover rispondere. Ma in questo non è solo. Gli sta accanto, lo accompagna, lo sollecita, lo implora, lo ammonisce, lo instrada, lo ascolta, lo consola la compagnia di Cristo e della Chiesa

La morte e risurrezione di Cristo, tesoro della Chiesa, è la parola irrevocabile di comunione di Dio con l'uomo, che come tale assume un'efficacia ordinaria nel cammino di penitenza dei cristiani penitenti, e un volto straordinario nella preghiera che costituisce e accompagna l'indulgenza. 

Andrea Grillo, Indulgenza. Storia e significato, San Paolo 2015 (passim)

mercoledì 26 febbraio 2025

Profezia

 LIBRO DEL PROFETA ABACUC 

Capitolo 1

Prima protesta: non ha più forza il diritto!

1 1Oracolo ricevuto in visione dal profeta Abacuc. 2Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti, a te alzerò il grido: «Violenza!» e non salvi? 3Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione? Ho davanti a me rapina e violenza e ci sono liti e si muovono contese. 4Non ha più forza la legge né mai si afferma il diritto. Il malvagio infatti raggira il giusto e il diritto ne esce stravolto. 

Abacuc protesta con Dio perché permette al male di dilagare mentre scompare del tutto la fraternità tra gli uomini. Le contese giudiziarie si moltiplicano e la società è dominata dalla violenza. Non c’è più rispetto della Legge, al punto che il prepotente raggira (machtir) con facilità il misero. L’attenzione è sui mali sociali; non compare in primo piano la lotta contro l’idolatria, come si riscontra in altri profeti. Grida (shivva’ti) e piange (ez’ak) per l’ingiustizia. Violenza e assenza di fraternità devono scuotere il credente di ogni tempo e considerarli fenomeni inaccettabili. 

Abacuc prolunga la sua invocazione inascoltata e formula una protesta. Questo fatto presuppone che egli goda d’una grande confidenza con Dio e una fiducia illimitata in Lui. È convinto che il Signore sia in grado rimediare al male e che solo lui possa farlo. È certo che Egli interverrà a motivo del suo amore e quindi che la sua noncuranza sia soltanto apparente o almeno temporanea. 

Nella Sacra Scrittura compare una protesta che è frutto di mancanza di fede e d’amore, chiamata mormorazione (Nm 14,36; 16,11; Gv 6,41; Fil 2,14) ma è attestata una protesta che si muove all’interno d’un dialogo accorato con Dio (Gb 7,19; Sal 6,4; 13,2). In questo secondo caso, chi solleva il lamento è anche pronto a passare al ringraziamento: «Fino a quando, Signore, starai a guardare? Libera la mia vita dalla loro violenza, dalle zanne dei leoni l’unico mio bene. Ti renderò grazie nella grande assemblea, ti loderò in mezzo a un popolo numeroso» (Sal 35,17-18). 

Nei momenti d’angoscia il credente ha la possibilità di parlare con Dio in modo sincero e spontaneo. «Affida al Signore il tuo peso ed egli ti sosterrà, mai permetterà che il giusto vacilli» (Sal 55,23). «Umiliatevi sotto la potente mano di Dio, affinché vi esalti al tempo opportuno, riversando su di lui ogni vostra preoccupazione, perché egli ha cura di voi» (1 Pt 5,6). 

Geremia, formulando una preghiera simile: «Le nostre iniquità testimoniano contro di noi, ma tu, Signore, agisci per il tuo nome! O speranza d’Israele, suo salvatore al tempo della sventura…, perché vuoi essere come un uomo sbigottito, come un forte incapace di aiutare? Eppure tu sei in mezzo a noi, Signore, il tuo nome è invocato su di noi, non abbandonarci!» (Ger 14,7-9). Dio agisce per il suo nome, per quello che Egli è e non per quello che siamo noi; agisce come Salvatore soprattutto nel momento della sventura e quando siamo più indegni del suo aiuto; vuole beneficare il suo popolo con una presenza continua e non saltuaria. 

Prima risposta: faccio sorgere i Caldei!

5«Guardate fra le nazioni e osservate, resterete stupiti e sbalorditi: c’è chi compirà ai vostri giorni una cosa che a raccontarla non sarebbe creduta. 6Ecco, io faccio sorgere i Caldei, popolo feroce e impetuoso, che percorre ampie regioni per occupare dimore non sue. 7È feroce e terribile, da lui sgorgano il suo diritto e la sua grandezza. 8Più veloci dei leopardi sono i suoi cavalli, più agili dei lupi di sera. Balzano i suoi cavalieri, sono venuti da lontano, volano come aquila che piomba per divorare. 9Tutti, il volto teso in avanti, avanzano per conquistare. E con violenza ammassano i prigionieri come la sabbia. 10Si fa beffe dei re, e dei capi se ne ride; si fa gioco di ogni fortezza: l’assedia e la conquista. 11Poi muta corso come il vento e passa oltre: si fa un dio della propria forza!». 

La risposta del Signore, anziché tranquillizare, può esasperare l’inquietudine del profeta. 

vv. 5-6 Invita Abacuc ad osservare ciò che sta accadendo. I Babilonesi, denominati Caldei (hakkasdim), stanno emergendo sulla scena mondiale, suscitando grande amarezza e preoccupazione da parte degli altri sovrani che non si aspettavano una novità così perturbante. Infatti l’unica legge che riconoscono è la loro volontà di dominio. 

Il vv. 8-9 fanno risaltare la tempestività dell’avanzata dei Caldei (o Babilonesi); vengono paragonati a leopardi, a lupi famelici che si gettano sulla preda, ad aquile predatrici. Sono protesi in avanti come i corridori, intenti soltanto ad assogettare gli altri popoli. Gli uomini, quando adottano un comportamento violento, vengono assimilati ad animali feroci, come se non fossero più riconoscibili come vere persone umane

vv. 9-11 Passano veloci come una bufera di vento. Il risultato della conquista è il gran numero di prigionieri catturati e delle fortezze occupate. Disprezzando ogni altra autorità, “venerano” la loro volontà di dominio. 

A motivo della potenza dispiegata, applicata con ferocia, Babilonia diventa d’ora in avanti il simbolo del male che opprime la storia degli uomini (Cf Sal 137,8; Is 21,9; 47.1; 1 Pt 5,13; Ap 14,8). 

L’aspetto più sorprendente di questo passo (1,5-11) emerge nel v.6. dove viene detto che la devastazione è suscitata da Dio. Nei versetti precedenti il profeta si mostrava stupito che il Signore gli facesse vedere (tare’eni) e osservare (tabbit) l’iniquità, senza impedire il prevalere del male. Nella risposta il Signore rende più grave la sua responsabilità perché non solo si limita ad osservare la situazione senza intervenire, come ha pensato Abacuc, ma dichiara di essere corresponsabile del fatto più drammatico che si sta verificando. 

Lo costringe ad osservare con attenzione ciò che sta consentendo che accada. Un passo del Deuteronomio conferma la spietatezza di Babilonia ma precisa ancora più chiaramente di quanto ha insinuato Abacuc che il suo espandersi è consentito da Dio: «Il Signore solleverà contro di te da lontano, dalle estremità della terra, una nazione che si slancia a volo come l’aquila: una nazione della quale non capirai la lingua, una nazione dall’aspetto feroce, che non avrà riguardo per il vecchio né avrà compassione del fanciullo. Mangerà il frutto del tuo bestiame e il frutto del tuo suolo, finché tu sia distrutto. Ti assedierà in tutte le tue città, finché in tutta la tua terra cadano le mura alte e fortificate, nelle quali avrai riposto la fiducia» (Dt 28,49-52). Per bocca di Geremia, chiama il re di Babilonia «mio servo» (Ger 25,9).

Gli eventi drammatici che si stanno verificando sono ciò che Dio che vuole (o meglio permette) che avvenga. L’esplosione della malvagità, simile ad un’eruzione vulcanica, sfugge del tutto al controllo degli uomini ma è conosciuta e dominata da Dio. Si trova sotto il suo sguardo. L’uomo non può rasserenarsi nel verificare ciò che vede ma può confidare nella visione che ne ha Dio. «Ciò che tu osservi, o uomo, è già visto anche da me e questo ti basti!». 

Ottenuta questa risposta dal Signore, il disappunto di Ab non s’acquieta. È facile che il lettore condivida il disagio del profeta e lo accompagni nella ricerca di ottenere una risposta più persuasiva. 


Seconda protesta: gli uomini sono come pesci?

12Non sei tu fin da principio, Signore, il mio Dio, il mio Santo? Noi non moriremo! Signore, tu lo hai scelto per far giustizia, l’hai reso forte, o Roccia, per punire. 13Tu dagli occhi così puri che non puoi vedere il male e non puoi guardare l’oppressione, perché, vedendo i perfidi, taci, mentre il malvagio ingoia chi è più giusto di lui? 14Tu tratti gli uomini come pesci del mare, come animali che strisciano e non hanno padrone. 15Egli li prende tutti all’amo, li pesca a strascico, li raccoglie nella rete, e contento ne gode. 16Perciò offre sacrifici alle sue sciàbiche e brucia incenso alle sue reti, perché, grazie a loro, la sua parte è abbondante e il suo cibo succulento. 17Continuerà dunque a sguainare la spada e a massacrare le nazioni senza pietà? 

Abacuc non è soddisfatto dal sapere che gli eventi di cui è spettatore sono conosciuti e dominati dal Signore ma cerca rassicurazioni più persuasive e più pacificanti. Dio può pazientare all’infinito, gli uomini no! Soprattutto vuole sentir pronunciare da Dio la promessa che Israele non verrà annientato: «Noi non moriremo». Dai tempi antichi, dall’epoca dei patriarchi e degli eventi dell’Esodo, Dio ha voluto mostrarsi come alleato del suo popolo e per questo motivo Israele è certo che non verrà meno. 

Abacuc, cercando di capire il senso degli avvenimenti, formula l’ipotesi che essi siano una punizione comminata da Dio, il quale non ostacolerebbe i Caldei perché Israele non meriterebbe alcun soccorso, anzi avrebbe bisogno di sperimentare una severa correzione. Considera probabile questa ipotesi ma ritiene che non sia in grado di offrire una spiegazione adeguata, anzi sia più problematica che risolutiva. Egli pensa: se Dio giustamente detesta la violenza e non può tollerare il dilagare della malvagità, a maggior ragione, dovrebbe intervenire proprio contro i Caldei. Oltretutto, per quanto sia peccatore, Israele è migliore di loro e non ha mostrato una perversità pari alla loro. Israele, poi, non sta subendo una punizione severa, per quanto meritata, ma sta rischiando d’essere annientato. 

Dall’attenzione sul suo popolo, Abacuc spinge lo sguardo su ciò che avviene ovunque. Babilonia sta comportandosi come un avido pescatore che continua a catturare pesci indifesi, uomini inermi. Accortasi della possibilità di ottenere una pesca molto abbondante, continua a lanciare il suo amo. Adopera anzi una rete a strascico. Gode del pescato ottenuto e venera gli strumenti del suo successo. 

Babilonia agisce come tanti altri potentati brutali. Dio, che dovrebbe aver cura delle sue creature, sembra trascurarle come se non contassero nulla. Il profeta si rivolge al Signore senza alcuna remora. Non dubita di lui e continua a mostrare grande rispetto ma non soffoca la sua angoscia né attenua la forza della sua protesta. 

Capitolo 2

La seconda risposta di Dio alla sentinella solerte

2 1Mi metterò di sentinella, in piedi sulla fortezza, a spiare, per vedere che cosa mi dirà, che cosa risponderà ai miei lamenti. 2Il Signore rispose e mi disse: «Scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette, perché la si legga speditamente. 3È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà. 4Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede». 

v.1 Attribuisce a se stesso il compito della sentinella che deve prestare attenzione a ciò che sta accadendo. Altri profeti avevano paragonato se stessi ad una sentinella (Cf Is 21,8; Ez 3,17. 33,7; Os 9,8). Se si pone in attesa d’una risposta, perché è convinto che Dio voglia venirgli incontro. 

Non ritiene d’aver parlato con presunzione o di essere stato privo di rispetto nei confronti di Dio a motivo della sua vivace rimostranza (thocahthy) e spera che egli non la rifiuti. 

v.2 Il Signore non può non provare pietà. Riconosce la gravità della situazione e l’angoscia del profeta. Non è rimasto offeso dalla sincerità e dall’ardimento del suo interlocutore. Pur stando al di sopra di tutto, comprende la situazione in cui versa l’umanità e sa che gli interrogativi espressi dal suo profeta non sono segni di intemperanza ma un umile ricorso all’unico che accetta di rispondere e può salvare. 

Invita Abacuc a scrivere su tavolette il messaggio che gli rivolge in modo personale. Scrivere è rendere pubblica la rivelazione ricevuta ma anche perpetuarla nel tempo. In questo modo deve esporsi davanti a tutti e sollecitare tutti a condividere il suo atto di fede. I fedeli ansiosi hanno la possibilità di esseri rinfrancati dalla premura con la quali il Signore viene incontro alla loro angoscia. 

La promessa del Signore non si adempie nell’immediato ma neppure in un futuro troppo lontano. Egli ha fissato una scadenza precisa, prossima all’attesa dei suoi fedeli. 

Dio stabilisce delle scadenze ma queste non possono essere fissate dagli uomini. Stabilire delle scadenze o pretendere di far coincidere i progetti di Dio con le nostre attese è agire senza fede. Ricordiamo le parole sagge di Giuditta: «Se non siete capaci di scrutare il profondo del cuore dell’uomo né di afferrare i pensieri della sua mente, come potrete scrutare il Signore, che ha fatto tutte queste cose, e conoscere i suoi pensieri e comprendere i suoi disegni? No, fratelli, non provocate l’ira del Signore, nostro Dio. Se non vorrà aiutarci in questi cinque giorni, egli ha pieno potere di difenderci nei giorni che vuole o anche di farci distruggere dai nostri nemici. E voi non pretendete di ipotecare i piani del Signore, nostro Dio, perché Dio non è come un uomo a cui si possano fare minacce, né un figlio d’uomo su cui si possano esercitare pressioni. Perciò attendiamo fiduciosi la salvezza che viene da lui, supplichiamolo che venga in nostro aiuto e ascolterà il nostro grido, se a lui piacerà» (Gdt 8,14-17).

La risposta ultima del Signore viene incontro al dubbio più lacerante che inquieta il cuore di Abacuc. Nonostante la gravità della minaccia che incombe, Israele continuerà a sussistere, mentre la proterva Babilonia scomparirà dalla scena. L’essenziale della seconda risposta sta in questo. Non c’è, quindi, una risposta sul motivo per cui Dio permetta il male ma viene fatto conoscere in che modo l’uomo possa avere la forza di sfuggire a quanto può accadere (Lc 21,36).

Il contenuto del responso possiede una valenza tale da superare la circostanza storica in cui è stato espresso. La risposta contiene un messaggio che è valido per sempre perché ribadisce l’importanza decisiva della fede. Dio costruisce il futuro dell’uomo servendosi della collaborazione di chi crede in lui e s’affida a lui. Esaminiamo con maggior attenzione il contenuto del messaggio affidato ad Abacuc e a tutto l’Israele fedele a Dio, rappresentato dal profeta. 

La vittoria del giusto

Babilonia è descritta come un uomo il cui istinto vitale è ingordigia, il cui orientamento di vita è distorto: «Ecco è gonfia d’orgoglio e la sua brama in lui non è retta». Vuole divorare le ricchezze e i beni di tutti i popoli, non si ferma neppure davanti allo sterminio. È come il regno dei morti (kish’ol): «spalanca come gli inferi le sue fauci e come la morte non si sazia» (2,5). 

Israele, invece, viene chiamato giusto: «Il giusto vivrà per la sua fede (vetzaddik be’emunato yichyeh)». «Ho visto un malvagio trionfante, gagliardo come cedro verdeggiante; sono ripassato ed ecco non c’era più, l’ho cercato e non si è più trovato. Osserva l’integro, guarda l’uomo retto: perché avrà una discendenza l’uomo di pace» (Sal 37,35ss).

Giusto è l’uomo osservante della ma il termine presenta altre accezioni. 

1) Il giusto è la persona che si fida di Dio nelle situazioni drammatiche dell’esistenza, quando credere alla promessa di Dio diventa molto difficile. Leggendo la storia del patriarca Abramo troviamo che questi fu stimato da Dio come giusto perché ebbe grande fiducia in lui. Confidò nell’adempimento della sua promessa per la quale egli avrebbe potuto generare un figlio quando questo sembrava impossibile che si realizzasse (Gen 15,6). Ancora di più, nella circostanza del sacrificio d’Isacco, pensò che Dio avrebbe potuto restituire il figlio strappandolo anche dalla morte. Era convinto che Dio fosse capace di chiamare le cose all’esistenza dal nulla e far risorgere perfino dai morti. [San Paolo celebra la fede di Abramo per questa estrema fiducia nella sua benevolenza e non per altri motivi (Cf Rm 4)]. 

Ciò che ora viene richiesta ad Abacuc è una fede pari a quella espressa dal patriarca. Nelle gravissime condizioni del momento storico, mentre Israele sembra ormai destinato a perire insieme ad altre genti, è esortato a credere in una continuità di vita, per opera della fedeltà di Dio. La fiducia nella fedeltà di Dio rende il credente un giusto. Per questo sentire, viene stimato da Dio, anche se non potesse vantare un’osservanza inappuntabile. 

2) Il giusto è il povero oppresso. Ecco un testo chiarificatore: «Non impareranno dunque tutti i malfattori, che divorano il mio popolo come il pane e non invocano il Signore? Ecco, hanno tremato di spavento, perché Dio è con la stirpe del giusto. Voi volete umiliare le speranze del povero, ma il Signore è il suo rifugio» (Sal 14,5-6). In questo testo, il popolo d’Israele è denominato dapprima giusto e poi povero. I malfattori (gli imperi predatori) non invocano Dio, non sono aperti a lui, anzi si sostituiscono a lui. Presi da autosufficienza arrogante, cercano d’annientare il popolo di Dio, ma Egli si schiera dalla parte del perseguitato e in futuro gli aguzzini dovranno tremare di spavento. Israele è giusto semplicemente perché, nella sua povertà, invoca Dio. Quasi costretto dalla sua situazione d’impotenza, si apre alla speranza nel Signore. Dal momento che l’oppressore tenta di avvilire e di schiacciare il misero che confida in Dio, per questo stesso motivo lo rende solido ed invincibile perché attiva la solidarietà del Signore nei suoi confronti. 

Sofonia presenta un modo simile di vedere le cose. Secondo lui, il povero ideale non è soltanto il misero sofferente. Piuttosto è colui che, mentre si trova in situazioni sfavorevoli o drammatiche, pone la sua totale fiducia e speranza in Dio: «Lascerò in mezzo a te un popolo umile e povero. Confiderà nel nome del Signore il resto d’Israele» (Sof 3,12). È un dono prezioso di Dio, saper sperare contro ogni speranza. Questa scienza è la caratteristica del povero in spirito. 

La rivelazione consegnata al profeta contiene un messaggio semplice ma fondamentale: il giusto perseguitato continuerà a vivere a motivo della sua fede nei confronti del Signore. Vivrà, in ultima analisi, perché si mostra certo della fedeltà del Signore verso di lui. 

È un messaggio, come ho detto, che va ben oltre il momento storico in cui il profeta l’ha pronunciato. È stato ripreso da san Paolo per annunciare un elemento fondamentale della vita in Cristo, ossia la giustificazione per fede. 

L’apostolo denuncia anch’egli i mali della società, in linea con la critica dei profeti, evidenziando come non esista un solo uomo che sia privo di peccato (Rm 3,23-24). Gli uomini da soli non sono in grado di uscire dalla loro situazione dolorosa ma hanno bisogno di un intervento solidale da parte di Dio, che non intende abbandonare l’umanità a se stessa. Paolo annuncia l’intervento decisivo operato dal Signore. Egli invia il Redentore, che è stesso Figlio di Dio, Gesù. Divenuto gradito a Dio Padre per la sua fedeltà fino alla croce, può intercedere per tutti. Grazie all’intercessione di Gesù, gli uomini ottengono il perdono dei peccati e il dono dello Spirito Santo che li rende capaci di vivere come visse Gesù. Ora il giusto è l’uomo che, venendo a conoscere l’opera misericordiosa di Dio, l’accoglie nello stupore e si fida della sua misericordia. L’uomo era destinato alla morte a motivo del Peccato, un dominatore più crudele di Babele, ma ora può sperare di vivere per la redenzione di Gesù. 

Come ho già rilevato, il giusto delineato dal Vangelo percorre un cammino simile a quello del patriarca Abramo. Come questi, confida nella misericordia di Dio e crede che Egli sia sia in grado di suscitare la vita là dove ormai la morte, provocata dal peccato, sembra avere il dominio incontrastato. 

Il messaggio di Abacuc ha ottenuto, quindi, una risonanza molto vasta, imprevedibile per il profeta stesso. 

Da qui in avanti il libro si dilata in due direzioni: da una parte troviamo esposta e ribadita la malvagità di Babilonia, minacciata dal giudizio del Signore nella forma di cinque “guai”; dall’altra troviamo un inno e una supplica a Dio che sembra la risonanza nel cuore del profeta della risposta ricevuta. 

Il punto cruciale di Abacuc è un acuto problema di teodicea. «Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?» (Gen 18,25). Già la fede di Abramo aveva dovuto raccogliere la stessa sfida e misurarsi con Dio in un aperto confronto dialogico dall'esito incerto, per arrivare a un grado maggiore di conoscenza del mistero. La forma letteraria impiegata è la lamentazione, cui viene impressa però una diversa prospettiva rispetto al passato. Vi è ancora l'eco del lamento tipico dei Profeti prima dell'esilio che denunciano l'infedeltà del Popolo a fronte della Giustizia di Dio ma qui risuona quella del dopo esilio di cui l'esperienza della vittima (giusta almeno in relazione all'oppressore) induce a mettere in discussione la rettitudine del Signore. Il suo modo di fare giustizia risulta infatti problematico: se egli usa pazienza, l'ingiusto prospera a danno dei deboli indifesi; se invece punisce, sembra farlo indiscriminatamente e anche i giusti vengono colpiti. La risposta a questo dilemma si scorge nel culmine teologico Abacuc che raggiunge in 2,4 all'interno di un oracolo profetico annunciato nella forma di una massima sapienziale. Il giusto non è chi compie opere buone, ma è la vittima del violento. Dio non sembra intervenire in sua difesa e per questo il profeta protesta. A un primo lamento accusatorio del Profeta secondo la logica del Riv, era già seguita una risposta Divina: l'affermazione della sovranità di Dio sulla storia. Insoddisfatto, aveva replicato, e adesso vi è questa nuova risposta: il giusto oppresso (che è la vittima innocente del malvagio), ma a patto che mantenga e custodisca la sua fedeltà. Tale atteggiamento credente assume con coraggio la prospettiva paziente che arriva a sostenere il martirio, nella certezza che l'ultima parola sarà comunque del Dio della vita. Come per Giobbe la vera risposta del problema della sofferenza del giusto non va tanto cercata in qualche mirabile formulazione teologica. Dio risponde, solo chi accetta di coinvolgersi in modo autentico in questo rapporto, nella fede (Luca 18,38) perché la risposta è già contenuta, serbata e pronta a svelarsi, in questa esperienza esperienza di comunione sofferta. Il giusto quindi vivrà, ma mediante la fede/fedeltà che si esprime in questo stesso rapporto. (Da “La Bibbia. Scrutate le Scritture”, San Paolo 2020, p. 2297).

Cinque denunce minacciose (“Guai”)

5La ricchezza rende perfidi; il superbo non sussisterà, spalanca come gli inferi le sue fauci e, come la morte, non si sazia, attira a sé tutte le nazioni, raduna per sé tutti i popoli. 6Forse che tutti non lo canzoneranno, non faranno motteggi per lui? Diranno: «Guai a chi accumula ciò che non è suo, – e fino a quando? – e si carica di beni avuti in pegno!». 7Forse che non sorgeranno a un tratto i tuoi creditori, non si sveglieranno e ti faranno tremare e tu diverrai loro preda? 8Poiché tu hai saccheggiato molte genti, gli altri popoli saccheggeranno te, perché hai versato sangue umano e hai fatto violenza a regioni, alle città e ai loro abitanti. 

9Guai a chi è avido di guadagni illeciti, un male per la sua casa, per mettere il nido in luogo alto e sfuggire alla stretta della sventura. 10Hai decretato il disonore alla tua casa: quando hai soppresso popoli numerosi hai fatto del male contro te stesso. 11La pietra infatti griderà dalla parete e la trave risponderà dal tavolato. 

12Guai a chi costruisce una città sul sangue, ne pone le fondamenta sull’iniquità. 13Non è forse volere del Signore degli eserciti che i popoli si affannino per il fuoco e le nazioni si affatichino invano? 14Poiché la terra si riempirà della conoscenza della gloria del Signore, come le acque ricoprono il mare. 

15Guai a chi fa bere i suoi vicini mischiando vino forte per ubriacarli e scoprire le loro nudità. 16Ti sei saziato d’ignominia, non di gloria. Bevi anche tu, e denùdati mostrando il prepuzio. Si riverserà su di te il calice della destra del Signore e la vergogna sopra il tuo onore, 17poiché lo scempio fatto al Libano ricadrà su di te e il massacro degli animali ti colmerà di spavento, perché hai versato sangue umano e hai fatto violenza a regioni, alle città e ai loro abitanti. 18A che giova un idolo scolpito da un artista? O una statua fusa o un oracolo falso? L’artista confida nella propria opera, sebbene scolpisca idoli muti. 

19Guai a chi dice al legno: «Svégliati», e alla pietra muta: «Àlzati». Può essa dare un oracolo? Ecco, è ricoperta d’oro e d’argento, ma dentro non c’è soffio vitale. 20Ma il Signore sta nel suo tempio santo. Taccia, davanti a lui, tutta la terra!

Capitolo 3

Lode e supplica

La preghiera di Abacuc è la risonanza personale alla risposta ricevuta da Dio che gli assicurava che il giusto avrebbe continuato a vivere grazie alla sua fede. La preghiera, soprattutto la lode, è sempre la risposta migliore alla parola ricevuta. 

Egli è in sintonia con il salmista: «Se cammino in mezzo al pericolo, tu mi ridoni vita; contro la collera dei miei avversari stendi la tua mano e la tua destra mi salva. Il Signore farà tutto per me. Signore, il tuo amore è per sempre: non abbandonare l'opera delle tue mani» (Sal 138,7-8). 

2Signore, ho ascoltato il tuo annuncio, Signore, ho avuto timore e rispetto della tua opera. Nel corso degli anni falla rivivere, falla conoscere nel corso degli anni. 

v. 2 Ha conosciuto il nome, la fama di Dio e ha udito il racconto delle grandi azioni del Signore. È ben consapevole della rinomanza che Dio si è procurato con l’operare le grandi meraviglie del passato, le quali suscitano ancora stupore e rispetto profondo nel suo animo. Chiede che Egli le mantenga in vita (hayyehu) e le manifesti nel presente (e nel futuro). 

Nello sdegno ricòrdati di avere clemenza.

Lo sconvolgimento determinato dai fatti perturbanti (be roghez) che stanno accadendo, deve essere dominata dallo “sconvolgimento” delle viscere materne del Signore (rachem tizkor). La misericordia di Dio deve superare la sua giustizia; il rinnovamento deve vincere il peccato. Dove abbonda il peccato, sovvrabbonda la grazia. 

3Dio viene da Teman, il Santo dal monte Paran. La sua maestà ricopre i cieli, delle sue lodi è piena la terra. 4Il suo splendore è come la luce, bagliori di folgore escono dalle sue mani: là si cela la sua potenza

v. 3 a Il profeta descrive la venuta del Signore (Eloha) che si è fatto conoscere al Sinai. Teman e Paran sono situate a sud-est di Giuda, regioni abitate da Edom, le prime percorse da Israele nel cammino dell’esodo. È rievocata, quindi, l’uscita dall’Egitto, un evento di liberazione che ora si sta rinnovando. Dio viene a salvare il suo popolo, il suo consacrato, in un nuovo Esodo (v.13). 

v.3 b Il suo splendore (la sua maestà) copre i cieli come se fossero avvolti da una nube luminosa e la sua lode riempie la terra. 

La terra è piena di violenza (Gen 6,10; Ez 9,9) e d’inquietudine (Sap 9,15) ma, proprio per questo, l’intervento della misericordia di Dio diventa più sollecito così che essa diventi piena della gloria di Dio (Is 6,3; Sal 72,19); piena del suo amore (Sal 34,5), della sua giustizia (Sal 48,11) o delle sue lodi. «La misericordia non è necessaria dove non c'è miseria. Sulla terra abbonda la miseria dell'uomo e sovrabbonda allora la misericordia di Dio» (Agostino PL 36,287).

v. 4 Il suo splendore è luminoso. Bagliori, raggi potenti [corni] escono dalle sue mani con le quali agisce con grande forza. L’apparizione di Dio è così luminosa da abbagliare, da renderlo perciò invisibile. «Sei rivestito [Signore] di maestà e di splendore, avvolto di luce come di un manto» (Sal 104,1-2). «Abita una luce inaccessibile: nessuno fra gli uomini lo ha mai visto né può vederlo» (1 Tm 6,16).

5Davanti a lui avanza la peste, la febbre ardente segue i suoi passi. 6Si arresta e scuote la terra, guarda e fa tremare le nazioni; le montagne eterne vanno in frantumi, e i colli antichi si abbassano, i suoi sentieri nei secoli. 7Ho visto le tende di Cusan in preda a spavento, sono agitati i padiglioni di Madian. 

v.5 La peste è simbolo delle gravi punizioni contro quelli che gli resistono e si rifiutano di credere a lui. «Diede in preda alla peste la loro vita» (Sal 78,50; Cf Dt 32,24). Nulla può resistere di fronte alla sua energia. «Il Signore avanza come un prode» (Is 42,13). Ora il Signore intende devastare le potenze che vogliono annientare il suo popolo (v.12), in modo particolare Babilonia. L’incedere del Signore suscita un forte timore nella natura (colli e montagne) e nei popoli nomadi del deserto (Cusan e Madian). 

8Forse contro i fiumi, Signore, contro i fiumi si accende la tua ira o contro il mare è il tuo furore, quando tu monti sopra i tuoi cavalli, sopra i carri della tua vittoria? 9Del tutto snudato è il tuo arco, saette sono le parole dei tuoi giuramenti. Spacchi la terra: ecco torrenti; 10i monti ti vedono e tremano, un uragano di acque si riversa, l’abisso fa sentire la sua voce e in alto alza le sue mani. 

Dio contrasta vigorosamente l’irrompere del caos, immaginato come un violento fortunale sul mare che è pensato come abitato da mostri. «I quattro venti del cielo si abbattevano impetuosamente sul Mare Grande e quattro grandi bestie, differenti l’una dall’altra, salivano dal mare» (Dan 7,2-3). Nel passaggio del Mar Rosso il Signore aveva combattuto contro le forze che contrastavano la sua opera liberatrice: «Allora gli Egiziani dissero: “Fuggiamo di fronte a Israele, perché il Signore combatte per loro contro gli Egiziani!”» (Es 14,25). «Hai riscattato il tuo popolo con il tuo braccio. Ti videro le acque, o Dio, ti videro le acque e ne furono sconvolte; sussultarono anche gli abissi. Le nubi rovesciavano acqua, scoppiava il tuono nel cielo; le tue saette guizzavano. Il boato dei tuoi tuoni nel turbine, le tue folgori rischiaravano il mondo; tremava e si scuoteva la terra. Guidasti come un gregge il tuo popolo per mano di Mosè e di Aronne» (Sal 77,16-20). 

11Il sole, la luna rimasta nella sua dimora, al bagliore delle tue frecce fuggono, allo splendore folgorante della tua lancia. 12Sdegnato attraversi la terra, adirato calpesti le nazioni. 13Sei uscito per salvare il tuo popolo, per salvare il tuo consacrato. Hai demolito la cima della casa del malvagio, l’hai scalzata fino alle fondamenta. 14Con le sue stesse frecce hai trafitto il capo dei suoi guerrieri che irrompevano per disperdermi con la gioia di chi divora il povero di nascosto. 15Calpesti il mare con i tuoi cavalli, mentre le grandi acque spumeggiano

v.11 Continua la descrizione della lotta vittoriosa del Signore contro il caos, che si ripresenta nelle nazioni nemiche invasori. La battaglia ha una risonanza sulla natura come accadde con Giosuè a Gabaon (Gs 10.12), al punto da coinvolgere il sole e la luna. Un’opera divina esercita una sua forte influenza sul mondo perciò il cosmo manifesta la sua partecipazione all’evento, come accadde alla morte di Gesù: «A mezzogiorno si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del pomeriggio» (Mt 27,45). 

v. 12 Il Signore calpesta tutte le nazioni con sdegno. Calpestare fino a ridurre in polvere segnala una vittoria significativa (Cf 2 Re 13,7). Compie ciò che fanno le superpotenze ma quest’ultime calpestano per opprimere mentre il Signore per annientare i loro progetti iniqui. «Rende vani i pensieri degli scaltri, perché le loro mani non abbiano successo. Egli sorprende i saccenti nella loro astuzia e fa crollare il progetto degli scaltri» (Gb 5,13.14). «Secca l’erba, appassisce il fiore ma la Parola del nostro Dio dura sempre» (Is 40,8). «Conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo, progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza» (Ger 29,11).

Il salmo 33 offre un’indicazione dello stesso genere. Dio annulla i disegni [iniqui] delle nazioni e rende vani i progetti [nefasti] dei popoli (v.10). La dispersione avvenuta alla torre di Babele è esemplare in questo senso. Contro quei progetti deteriori, fa valere il suo, elaborato nel suo cuore, un piano dalla durata eterna (v.11). Inutile opporre i mezzi della presunta onnipotenza umana, simboleggiata nel grande esercito o nei prodi violenti e presuntuosi (v.16). Chi sarà il vincitore? «Ecco l’occhio del Signore è su chi lo teme, su chi spera nel suo amore» (v.18). Questi supera le situazioni di morte e viene nutrito misteriosamente in tempo di fame. «Chi fa affidamento sui carri, chi sui cavalli: noi invochiamo il nome del Signore, nostro Dio. Quelli si piegano e cadono, ma noi restiamo in piedi e siamo saldi» (Sal 20,9). 

In ultima istanza, il Signore annienta i peccati e i vizi degli uomini, non le persone; calpesta il peccato e la morte. «È necessario infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi» (1 Cor 15,25). 

V.13 Annuncia la demolizione totale della casa del malvagio che è lieto di divorare il misero. «Il Signore ha rovesciato i troni dei potenti, al loro posto ha fatto sedere i miti. Il Signore ha estirpato le radici delle nazioni, al loro posto ha piantato gli umili. Il Signore ha sconvolto le terre delle nazioni e le ha distrutte fino alle fondamenta. Non è fatta per gli uomini la superbia né l’impeto della collera per i nati da donna» (Sir 10,14-18). «Dio li scuoterà dalle fondamenta... Si presenteranno tremanti al rendiconto dei loro peccati; le loro iniquità si ergeranno contro di loro per accusarli» (Sap 4,19-20). 

16Ho udito. Il mio intimo freme, a questa voce trema il mio labbro, la carie entra nelle mie ossa e tremo a ogni passo, perché attendo il giorno d’angoscia che verrà contro il popolo che ci opprime. 17Il fico infatti non germoglierà, nessun prodotto daranno le viti, cesserà il raccolto dell’olivo, i campi non daranno più cibo, le greggi spariranno dagli ovili e le stalle rimarranno senza buoi. 18Ma io gioirò nel Signore, esulterò in Dio, mio salvatore. 19Il Signore Dio è la mia forza, egli rende i miei piedi come quelli delle cerve e sulle mie alture mi fa camminare

Riferisce il sentimento provato nell’ascoltare l’annuncio del Signore e nel contemplare la manifestazione luminosa della sua gloria. Il sentimento più importante sta nella fiducia del compimento della promessa divina. Spesso la manifestazione di Dio suscita reazioni sconvolgenti: «Quando la [gloria del Signore] vidi, caddi con la faccia a terra» (Ez 1,28). «Vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato… E dissi: sono perduto!» (Is 6,5). Soltanto dopo la Pasqua di Gesù, ogni battezzato «ottiene la libertà di accedere a Dio in piena fiducia» (Ef 3,12). 

Abacuc continua a soffrire per le conseguenze dell’invasione dei Caldei che ha devastato la campagna. Geremia aveva profetizzato la rovina causata dalla guerra: «[Babilonia] divorerà le tue messi e il tuo pane, divorerà i tuoi figli e le tue figlie, divorerà le greggi e gli armenti, divorerà le tue vigne e i tuoi fichi» (Ger 5,17). 

Ciò nonostante continua a sperare nel Signore e la speranza gli infonde una gioia profonda. «Allora troverai la delizia nel Signore» (Is 58,14). «Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove, sapendo che la vostra fede, messa alla prova, produce pazienza. E la pazienza completi l’opera sua in voi, perché siate perfetti e integri, senza mancare di nulla» (Gc 1,2-4). «È retto di cuore l'uomo che, soffrendo per quanto gli accade, non ritiene che Dio sia insipiente. Un legno storto, anche se lo collochi sopra un pavimento liscio, non si adagia ma sempre si muove e traballa; così anche il tuo cuore, finché è distorto, non può allinearsi con la rettitudine di Dio, così da aderire a Lui» (Agostino, PL 36,273.274).