sabato 2 agosto 2025

Elogio della carità

 1 corinti 12-14: carismi ed elogio della carità 

1.Confessare Gesù

Paolo parla dell’influsso e della guida dello Spirito negli uomini e poi dei carismi, ossia dei doni assolutamente gratuiti elargiti da lui ai credenti. [Charisma deriva dal verbo charizomai che significa fare un regalo o un favore; perì pneumaticon: persone spirituali o doni spirituali]. 

Il primo e il più grande dono è la fede in Gesù: «Per grazia siete salvi mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio» (Ef 2,8). «Il dono di grazia non è come la caduta: se per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo si sono riversati in abbondanza su tutti» (Rm 5,15). 

1Riguardo ai doni dello Spirito, fratelli, non voglio lasciarvi nell'ignoranza. 

L’apostolo spiega quale sia l’influsso dello Spirito Santo riguardo ai credenti (vv.1-3). 

v.2 A prescindere da questo caso riguardante i carismi, il cristiano viene liberato da quella ignoranza di Dio che si manifesta nell’agire iniquo, «nel soffocare la verità nell’ingiustizia» (Rm 1,18): «Vi scongiuro nel Signore: non comportatevi più come i pagani accecati nella loro mente, estranei alla vita di Dio a causa dell'ignoranza che è in loro e della durezza del loro cuore. Così, diventati insensibili, si sono abbandonati alla dissolutezza» (Ef 4,17-19). «Anche noi un tempo eravamo insensati, disobbedienti, corrotti, schiavi di ogni sorta di passioni e di piaceri, vivendo nella malvagità e nell'invidia, odiosi e odiandoci a vicenda» (Tt 3,3). 

2Voi sapete infatti che, quando eravate pagani, vi lasciavate trascinare senza alcun controllo verso gli idoli muti.

Chi si volge ad una divinità, non lo fa in seguito ad una libera decisione ma per un trascinamento costringente: «Se tu non ascolti e ti lasci trascinare a prostrarti davanti ad altri dèi…» (Dt 30,17). Il Signore “attira”, non “trascina”. In ogni caso, chi è trascinato, non è libero: «L’uomo è schiavo di ciò che lo domina» (2 Pt 2,19). 

Le divinità sono mute, non possono coinvolgersi in un dialogo - «hanno bocca e non parlano, … dalla gola non escono suoni» (Sal 115,5.7) - , a differenza del Signore che ha parlato «molte volte e in diversi modi» (Eb 1,1). «A che giova un idolo scolpito? L'artista confida nella propria opera, sebbene scolpisca idoli muti. Guai a chi dice al legno: “Svégliati”, e alla pietra muta: “Àlzati”. Può essa dare un oracolo? Ecco, è ricoperta d'oro e d'argento, ma dentro non c'è soffio vitale» (Ab 2,18-19). 

Dio Padre parla a noi e suscita in noi la parola di risposta: «La sapienza aveva aperto la bocca dei muti» (Sap 10,21). «Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: “Abbà! Padre!”. Quindi non sei più schiavo, ma figlio. Ma un tempo, per la vostra ignoranza di Dio, voi eravate sottomessi a divinità che in realtà non lo sono. Ora invece avete conosciuto Dio, anzi da lui siete stati conosciuti» (Gal 4,7-8). 

3Perciò io vi dichiaro: nessuno che parli sotto l'azione dello Spirito di Dio può dire: «Gesù è anàtema!; e nessuno può dire: «Gesù è Signore!, se non sotto l'azione dello Spirito Santo.

Chi rinnega Gesù mostra di essere trascinato dallo spirito impuro, mentre chi lo confessa è guidato dallo Spirito Santo: «Ogni spirito che riconosce Gesù Cristo venuto nella carne, è da Dio; ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio» (1 Gv 4,1-3). 

La fede cristiana nasce dal riconoscimento della signoria di Gesù, un atto che salva: «Gesù seppe che avevano cacciato fuori [il cieco guarito]; quando lo trovò, gli disse: “Tu, credi nel Figlio dell'uomo?”. Egli rispose: “E chi è, Signore, perché io creda in lui?”. Gli disse Gesù: “Lo hai visto: è colui che parla con te”. Ed egli disse: “Credo, Signore!”. E si prostrò dinanzi a lui» (Gv 9,35-38). «Se con la tua bocca proclamerai: “Gesù è Signore” e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo» (Rm 10,9). «Ogni lingua proclami: Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre» (Fil 2,11). «Chiunque invocherà il nome del Signore, sarà salvo. Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso» (At 2,21.36). «In nessun altro c’è salvezza; non vi è sotto il cielo altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati» (At 4,12). Riconoscere la signoria di Gesù consente di gustare la sua bontà: «Come bambini appena nati desiderate avidamente il genuino latte spirituale, grazie al quale voi possiate crescere verso la salvezza, se davvero avete gustato che buono è il Signore» (1 Pt 2,2-3). «Il miele è la sapienza. Questo miele proviene dalla Roccia che è Cristo. Quanti se ne saziano, dicono: Non c'è niente di meglio, niente di più dolce si può pensare o immaginare!» (Ag37,1046). 

2. Carismi

4Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; 5vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; 6vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. 7A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune: 

Ora Paolo parla dei doni gratuiti di Dio. Essi, pur essendo molteplici, derivano da un solo Spirito, da un solo Signore, da un unico Dio. In altri termini: Dio opera mediante Gesù Signore e questi agisce mediante lo Spirito. Il primo dono fontale della fede, quindi, si diversifica e si mostra differenziato in molteplici rivoli in vista dell’edificazione della comunità. 

Ogni dono viene da Dio che opera tutto in tutti: «Signore, tutte le nostre imprese tu compi per noi» (Is 26,12). «È Dio che suscita in voi il volere e l’operare secondo il suo disegno d’amore» (Ef 2,13). «Egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all'unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all'uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo» (Ef 4,11-13). «Come quelli che sono su una nave non bevono l'acqua del mare né da esso prendono vesti o vitto, ma li portano con sé sulla nave; così anche le anime dei cristiani ricevono il cibo celeste e le vesti spirituali non da questo mondo ma dall'alto, dal cielo. Pertanto, durante la loro vita, viaggiano sulla nave dello spirito buono e vivificatore e superano le potenze avverse del male» (Pseudo Macario, Omelie 45,6)

8a uno infatti, per mezzo dello Spirito, viene dato il linguaggio di sapienza; a un altro invece, dallo stesso Spirito, il linguaggio di conoscenza; 9a uno, nello stesso Spirito, la fede; a un altro, nell'unico Spirito, il dono delle guarigioni; 10a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di discernere gli spiriti; a un altro la varietà delle lingue; a un altro l'interpretazione delle lingue. 11Ma tutte queste cose le opera l'unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole.

Il cristiano è in relazione diretta con lo Spirito che elargisce a lui un dono particolare. «Abbiamo doni diversi secondo la grazia data a ciascuno di noi: chi ha il dono della profezia la eserciti secondo ciò che detta la fede; chi ha un ministero attenda al ministero; chi insegna si dedichi all'insegnamento; chi esorta si dedichi all'esortazione. Chi dona, lo faccia con semplicità; chi presiede, presieda con diligenza; chi fa opere di misericordia, le compia con gioia» (Rm 12,6-8). Sapienza o conoscenza: «Il faraone disse a Giuseppe: «Dal momento che Dio ti ha manifestato tutto questo, non c'è nessuno intelligente e saggio come te. Tu stesso sarai il mio governatore» (Gen 41,39). «Ho riempito Besalèl (l’artista) dello spirito di Dio, perché abbia saggezza, intelligenza e scienza in ogni genere di lavoro» (Es 31,3). «Vi darò parola e sapienza, cosicché i vostri avversari non potranno resistere né controbattere» (Lc 21,15). 

Per fede, intende una fiducia profonda: «I discepoli si avvicinarono a Gesù e gli chiesero: “Perché noi non siamo riusciti a scacciare il demonio? Ed egli rispose loro: “Per la vostra poca fede”» (Mt 17,19-20). 

12Come infatti il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo. 

La varietà delle opere e degli operatori, resa possibile da un solo Spirito, induce Paolo a vedere nella comunità un organismo vivente. A sorpresa, invece di affermare come il corpo è uno solo, così è anche la Chiesa, dichiara così è anche il Cristo. Cristo, quindi, è una collettività, un corpo provvisto di molteplici membra. Questa è un’affermazione teologica molto significativa. «Non lui [Cristo] un individuo singolo e noi [cristiani] una moltitudine, ma noi, moltitudine, divenuti uno in lui che è uno» (Agostino, Sul salmo 127,3). Già nel momento della chiamata alla fede, Cristo Risorto aveva fatto capire a Paolo che Egli era presente in modo invisibile nei discepoli e che si identificava con loro (cf At 9,5).

La Chiesa è il Cristo vivente nel mondo, il suo corpo visibile. «Essa è il corpo di lui, la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose» (Ef 4,23). «Io sono la vite voi i tralci» (Gv 15,5). «Chi si unisce al Signore, forma con lui un solo spirito» (1 Cor 6,17). «Cristo vive in me» (Gal 2,20). «Cristo in voi, speranza della gloria» (Col 1,27). Di conseguenza Egli continua a vivere e agire attraverso i battezzati: «Chi accoglie voi, accoglie me» (Mt 10,40). «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). 

Paolo applica a Cristo la concezione veterotestamentaria della personalità corporativa; come altri personaggi biblici, Egli è insieme individuo e moltitudine. Ciò appare evidente nella figura del Figlio dell’uomo che è una singola persona ma anche una collettività, è il popolo dei santi (Dn 7,13-14,27). Lo stesso vale per Giacobbe: i suoi discendenti sono lui: «La tua discendenza [o Giacobbe] sarà innumerevole come la polvere della terra; perciò ti espanderai a occidente e a oriente, a settentrione e a mezzogiorno. E si diranno benedette, in te e nella tua discendenza, tutte le famiglie della terra» (Gen 28,14). Cf. Is 52,13-53,12: il Servo del Signore rappresenta tutti. 

13Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito.

Grazie al Battesimo, nel quale riceviamo lo Spirito Santo, tutti diventiamo membra vive di Cristo, con pari dignità. «Anche sopra gli schiavi e sulle schiave in quei giorni effonderò il mio spirito» (Gl 3,2). «Non c'è Giudeo né Greco; non c'è schiavo né libero; non c'è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28). «Cristo è tutto in tutti» (Col 3,11). «Tutti siano una cosa sola, come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,21). 

14E infatti il corpo non è formato da un membro solo, ma da molte membra. 15Se il piede dicesse: «Poiché non sono mano, non appartengo al corpo, non per questo non farebbe parte del corpo. 16E se l'orecchio dicesse: «Poiché non sono occhio, non appartengo al corpo, non per questo non farebbe parte del corpo. 17Se tutto il corpo fosse occhio, dove sarebbe l'udito? Se tutto fosse udito, dove sarebbe l'odorato? 18Ora, invece, Dio ha disposto le membra del corpo in modo distinto, come egli ha voluto. 19Se poi tutto fosse un membro solo, dove sarebbe il corpo? 20Invece molte sono le membra, ma uno solo è il corpo. 

vv. 14-16 Paolo incoraggia i membri della comunità che si sentivano poco rilevanti e venivano messi da parte dalle persone più ragguardevoli. L’umile non deve pensare di non far parte del corpo perché detiene un incarico che non lo mette in evidenza. «Ciascuno, secondo il dono ricevuto, lo metta a servizio degli altri, come buoni amministratori della multiforme grazia di Dio. Chi parla, lo faccia con parole di Dio; chi esercita un ufficio, lo compia con l'energia ricevuta da Dio, perché in tutto sia glorificato Dio per mezzo di Gesù Cristo» (1 Pt 4,10-11). 

v. 17 Non tutti possono esercitare un servizio appariscente ma tutti detengono un ruolo necessario per il funzionamento di tutto l’organismo. Tutti i membri della comunità appartengono a qualcosa di più grande di loro e nessun è autosufficiente. «Come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione, così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e, ciascuno per la sua parte, siamo membra gli uni degli altri» (Rm 12,4-5). Tutti sono chiamati a collaborare e a vivere in comunione, non a competere o isolarsi. Non dovrebbero invidiare gli altri né sentirsi inutili perché ciascuno ha un ruolo insostituibile nel corpo di Cristo. «Fratelli, qualunque cosa facciano, debbono essere animati da amore e letizia vicendevoli. Chi lavora dica di colui che prega: Poiché mio fratello possiede un tesoro che è comune, anch’io ce l'ho. E chi prega dica di chi legge: Poiché egli riceve un compenso per la sua lettura, anch'io ne traggo un guadagno. E chi lavora, dica di nuovo: il ministero che svolgo è utile a tutti. Come infatti le membra del corpo, pur essendo molte, formano un solo corpo e si aiutano scambievolmente, anche se ciascuno svolge un suo compito, ma l’occhio vede per tutto il corpo, lavora per tutte le membra, il piede cammina sostenendole tutte e ogni altro membro partecipa delle stesse sensazioni, così siano anche i fratelli fra di loro. Pertanto chi prega non giudichi chi lavora, per il fatto che non prega; chi lavora non condanni chi prega, perché sembra riposare, giacché, in realtà, anch’egli lavora. Ma ciascuno, se svolge un compito, lo svolga per la gloria di Dio» (Pseudo-Macario, Omelia 3,2). 

21Non può l'occhio dire alla mano: «Non ho bisogno di te; oppure la testa ai piedi: «Non ho bisogno di voi. 22Anzi proprio le membra del corpo che sembrano più deboli sono le più necessarie; 23e le parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggiore rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggiore decenza, 24mentre quelle decenti non ne hanno bisogno. Ma Dio ha disposto il corpo conferendo maggiore onore a ciò che non ne ha, 25perché nel corpo non vi sia divisione, ma anzi le varie membra abbiano cura le une delle altre. 

v.21 Il discorso è rivolto a chi apprezzava il carisma ricevuto ma guardava con sufficienza le persone che avevano ricevuto doni meno appariscenti. Chi sa di essere occhio, non deve disprezzare chi è mano; chi funge da testa, non può dimenticare l’importanza del piede. «Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non nutrite desideri di grandezza; volgetevi piuttosto a ciò che è umile. Non stimatevi sapienti da voi stessi» (Rm 12,15-16). 

v.22 Certe parti del corpo che non si vedono (cuore, fegato, polmoni) sono comunque necessarie. «Questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri» (Mc 12,42). 

Altre membra, quelle più intime, ricevono maggior rispetto, perciò i cristiani meno maturi (dei quali la comunità potrebbe vergognarsi) appartengono anch’essi al corpo di Cristo: «Mi hanno abbandonato gli uomini perché le mie piaghe fanno loro schifo, quelle che io ho ritenuto di dover schiudere alla tua misericordia. Quelli dicono: Và fuori dai piedi, perché sei un peccatore. Allontanati che ci insozzi. Ma tu, o Signore, mi curi e non ti contamini, perché sei tu il Dio della mia salvezza, o Signore» (Ambrogio, Sui dodici salmi, Pl 14,1085.1087)

v. 24 Dio del resto ha sempre privilegiato i poveri, attribuendo maggior onore a chi non ne aveva. «Quando offri un banchetto invita poveri, storpi…» (Lc 14,13). «Solleva dalla polvere il debole, dall’immondizia rialza il povero» (Sal 113,7). «Gli umili si rallegreranno di nuovo nel Signore, e i più poveri gioiranno nel Santo d’Israele» (Is 29,19). «Il Signore consola il suo popolo e ha misericordia dei suoi poveri» (Is 49,13). «Beati in poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,3). «Dio non ha forse scelto i poveri agli occhi del mondo, che sono ricchi nella fede ed eredi del Regno?» (Gc 2,5). 

26Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui. 

«Rallegratevi con quelli che sono nella gioia; piangete con quelli che sono nel pianto» (Rm 12,15). «Vigila su te stesso, per non essere tentato anche tu. Portate i pesi gli uni degli altri: così adempirete la legge di Cristo. Se infatti uno pensa di essere qualcosa, mentre non è nulla, inganna se stesso. Ciascuno esamini invece la propria condotta e allora troverà motivo di vanto solo in se stesso e non in rapporto agli altri. Ciascuno infatti porterà il proprio fardello» (Gal 6,1-5). «L’amore fraterno resti saldo. Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli. Ricordatevi dei carcerati, come se foste loro compagni di carcere, e di quelli che sono maltrattati, perché anche voi avete un corpo» (Eb 13,1-3). «Porta le infermità di tutti come un valido atleta. Dove è maggiore la fatica, più grande sarà anche il premio. Se ami solo i buoni discepoli, non ne avrai alcun merito. Cerca piuttosto di conquistare, con la dolcezza, i più riottosi. Non ogni ferita va curata con lo stesso medicamento. Calma i morsi più violenti con applicazioni di dolcezza» (Ignazio d’Antiochia, A Policarpo, 1,1-4)

27Ora voi siete corpo di Cristo e, ognuno secondo la propria parte, sue membra. 28Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi ci sono i miracoli, quindi il dono delle guarigioni, di assistere, di governare, di parlare varie lingue. 29Sono forse tutti apostoli? Tutti profeti? Tutti maestri? Tutti fanno miracoli? 30Tutti possiedono il dono delle guarigioni? Tutti parlano lingue? Tutti le interpretano? 31Desiderate invece intensamente i carismi più grandi. E allora, vi mostro la via più sublime. 

Alcuni ministeri sono, dal punto di vista organico, più importanti di altri (anche se il credente più importante è colui che possiede più amore): sono quelli che hanno relazione con la predicazione e l’istruzione (apostoli, profeti e maestri). «Dove manca una guida il popolo va in rovina; la salvezza dipende dal numero dei consiglieri» (Pr 11,14). Tuttavia i fedeli non devono aspirare a cariche o a ricevere un determinato incarico perché è il Signore stesso a stabilire servizi e ministeri ad ogni singolo. «Gesù convocò i Dodici e diede loro forza e potere su tutti i demoni e di guarire le malattie» (Lc 9,1). «Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha costituiti come custodi per essere pastori della Chiesa di Dio, che si è acquistata con il sangue del proprio Figlio» (At 20,28). «Abbiamo doni diversi secondo la grazia data a ciascuno di noi: chi ha il dono della profezia la eserciti secondo ciò che detta la fede; chi ha un ministero attenda al ministero; chi insegna si dedichi all'insegnamento; chi esorta si dedichi all'esortazione. Chi dona, lo faccia con semplicità; chi presiede, presieda con diligenza; chi fa opere di misericordia, le compia con gioia» (Rm 12,6-8).

Capitolo 13

1Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita. 2E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. 3E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe. 

La presenza della carità è il criterio per stabilire il valore di qualsiasi azione carismatica. Non è sufficiente agire ma è necessario rendersi conto della motivazione dell’agire e della modalità con cui si opera. Dapprima ridimensiona il parlare nelle lingue. Chi lo fa senza amore, ossia badando solo al suo bisogno d’esprimersi, il suo parlare si riduce ad essere un rumore fastidioso. Poi parla di altri doni ai quali attribuiva maggior importanza, soprattutto quello della profezia. Chi istruisce in modo profondo o compie opere straordinarie, se compie tutto questo per altri motivi che non sia la volontà di servire, resta una nullità. Infine parla di due gesti che sono davvero mirabili e suscitavano grande ammirazione: il martirio e la solidarietà radicale. Anche in questi casi l’azione da sola può ridursi ad orgoglio sterile. 

Lo scopo del comando che Paolo impartì a Timoteo, di correggere opinioni false, era «però la carità, che nasce da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera» (1 Tm 1,5). «Soprattutto conservate tra voi una carità fervente, perché la carità copre una moltitudine di peccati» (1 Pt 4,8). Riguardo alla fede: «In Cristo Gesù vale la fede che si rende operosa per mezzo della carità» (Gal 5,6). La parola “amore”, che è una delle più utilizzate, molte volte appare sfigurata. Nel cosiddetto inno alla carità scritto da San Paolo, riscontriamo alcune caratteristiche del vero amore. È prezioso soffermarsi a precisare il senso delle espressioni di questo testo, per tentarne un’applicazione all’esistenza concreta.

Cf. Amoris laetitia cap. 4

4La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d'orgoglio, 5non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, 6non gode dell'ingiustizia ma si rallegra della verità. 7Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. 

La carità è magnanima

Dio è «lento all’ira » (Es 34,6; Nm 14,18). Si mostra quando la persona non si lascia guidare dagli impulsi e evita di aggredire. È una caratteristica del Dio dell’Alleanza che chiama ad imitarlo. La pazienza di Dio è esercizio di misericordia verso il peccatore e manifesta l’autentico potere. Essere pazienti non significa lasciare che ci maltrattino continuamente, o tollerare aggressioni fisiche, o permettere che ci trattino come oggetti. Il problema si pone quando pretendiamo che le relazioni siano idilliache o che le persone siano perfette, o quando ci collochiamo al centro e aspettiamo unicamente che si faccia la nostra volontà. Allora tutto ci spazientisce, tutto ci porta a reagire con aggressività. Se non coltiviamo la pazienza, avremo sempre delle scuse per rispondere con ira, e alla fine diventeremo persone che non sanno convivere, antisociali incapaci di dominare gli impulsi, e la vita di relazione si trasformerà in un campo di battaglia. Per questo la Parola di Dio ci esorta: «Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità » (Ef 4,31). Questa pazienza si rafforza quando riconosco che anche l’altro possiede il diritto a vivere su questa terra insieme a me, così com’è. Non importa se è un fastidio per me, se altera i miei piani, se mi molesta con il suo modo di essere o con le sue idee, se non è in tutto come mi aspettavo. L’amore comporta sempre un senso di profonda compassione, che porta ad accettare l’altro come parte di questo mondo, anche quando agisce in un modo diverso da quello che io avrei desiderato. 

benevola è la carità

La “pazienza” nominata al primo posto non è un atteggiamento totalmente passivo, bensì è accompagnata da un’attività, da una reazione dinamica e creativa nei confronti degli altri. Indica che l’amore fa del bene agli altri e li promuove. Perciò si traduce come “benevola”. L’amore non è solo un sentimento; “amare” vale a dire: “fare il bene”. Come diceva sant’Ignazio di Loyola, «l’amore si deve porre più nelle opere che nelle parole». In questo modo può mostrare tutta la sua fecondità, e ci permette di sperimentare la felicità di dare, la nobiltà e la grandezza di donarsi in modo sovrabbondante, senza misurare, senza esigere ricompense, per il solo gusto di dare e di servire. 

non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d'orgoglio

Nell’amore non c’è posto per il provare dispiacere a causa del bene dell’altro (cfr At 7,9; 17,5). L’invidia è una tristezza per il bene altrui che dimostra che non ci interessa la felicità degli altri, poiché siamo esclusivamente concentrati sul nostro benessere. Mentre l’amore ci fa uscire da noi stessi, l’invidia ci porta a centrarci sul nostro io. Il vero amore apprezza i successi degli altri, non li sente come una minaccia, e si libera del sapore amaro dell’invidia. Accetta il fatto che ognuno ha doni differenti e strade diverse nella vita. Dunque fa in modo di scoprire la propria strada per essere felice, lasciando che gli altri trovino la loro. L’amore ci porta a un sincero apprezzamento di ciascun essere umano, riconoscendo il suo diritto alla felicità. Amo quella persona, la guardo con lo sguardo di Dio Padre, che ci dona tutto « perché possiamo goderne » (1 Tm 6,17), e dunque accetto dentro di me che possa godere di un buon momento. 

Non si vanta: parla della vanagloria, l’ansia di mostrarsi superiori per impressionare gli altri con un atteggiamento pedante e piuttosto aggressivo. Chi ama, non solo evita di parlare troppo di sé stesso, ma inoltre, poiché è centrato negli altri, sa mettersi al suo posto, senza pretendere di stare al centro. 

Non si gonfia: l’amore non è arrogante. Non si “ingrandisce” di fronte agli altri, e indica qualcosa di più sottile. Ci si considera più grandi di quello che si è perché ci si crede più “spirituali” o “saggi”. Paolo usa questo verbo altre volte, per esempio per dire che « la conoscenza riempie di orgoglio, mentre l’amore edifica » (1 Cor 8,1). Vale a dire, alcuni si credono grandi perché sanno più degli altri, e si dedicano a pretendere da loro e a controllarli, quando in realtà quello che ci rende grandi è l’amore che comprende, cura, sostiene il debole. In un altro versetto lo utilizza per criticare quelli che si “gonfiano d’orgoglio” (cfr 1 Cor 4,18), ma in realtà hanno più verbosità che vero “potere” dello Spirito (cfr 1 Cor 4,19). È importante che i cristiani vivano questo atteggiamento nel loro modo di trattare i familiari poco formati nella fede, fragili o meno sicuri nelle loro convinzioni. A volte accade il contrario: quelli che, nell’ambito della loro famiglia, si suppone siano cresciuti maggiormente, diventano arroganti e insopportabili. L’atteggiamento dell’umiltà appare qui come qualcosa che è parte dell’amore, perché per poter comprendere, scusare e servire gli altri di cuore, è indispensabile guarire l’orgoglio e coltivare l’umiltà. Gesù ricordava ai suoi discepoli che nel mondo del potere ciascuno cerca di dominare l’altro, e per questo dice loro: « tra voi non sarà così » (Mt 20,26). La logica dell’amore cristiano non è quella di chi si sente superiore agli altri e ha bisogno di far loro sentire il suo potere, ma quella per cui « chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore » (Mt 20,27). Nella vita di relazione non può regnare la logica del dominio degli uni sugli altri, o la competizione per vedere chi è più intelligente o potente, perché tale logica fa venir meno l’amore. « Rivestitevi tutti di umiltà gli uni verso gli altri, perché Dio resiste ai superbi, ma dà grazia agli umili » (1 Pt 5,5). 

non manca di rispetto

Amare significa anche rendersi amabili. Vuole indicare che l’amore non opera in maniera rude, non agisce in modo scortese, non è duro nel tratto. I suoi modi, le sue parole, i suoi gesti, sono gradevoli e non aspri o rigidi. Detesta far soffrire gli altri. La cortesia « è una scuola di sensibilità e disinteresse » che esige dalla persona che « coltivi la sua mente e i suoi sensi, che impari ad ascoltare, a parlare e in certi momenti a tacere ». Essere amabile non è uno stile che un cristiano possa scegliere o rifiutare: è parte delle esigenze irrinunciabili dell’amore, perciò « ogni essere umano è tenuto ad essere affabile con quelli che lo circondano ». Ogni giorno, « entrare nella vita dell’altro, anche quando fa parte della nostra vita, chiede la delicatezza di un atteggiamento non invasivo, che rinnova la fiducia e il rispetto. […] E l’amore, quanto più è intimo e profondo, tanto più esige il rispetto della libertà e la capacità di attendere che l’altro apra la porta del suo cuore ». Per disporsi ad un vero incontro con l’altro, si richiede uno sguardo amabile posato su di lui. Questo non è possibile quando regna un pessimismo che mette in rilievo i difetti e gli errori altrui, forse per compensare i propri complessi. Uno sguardo amabile ci permette di non soffermarci molto sui limiti dell’altro, e così possiamo tollerarlo e unirci in un progetto comune, anche se siamo differenti. L’amore amabile genera vincoli, coltiva legami, crea nuove reti d’integrazione, costruisce una solida trama sociale. In tal modo protegge sé stesso, perché senza senso di appartenenza non si può sostenere una dedizione agli altri, ognuno finisce per cercare unicamente la propria convenienza e la convivenza diventa impossibile. Una persona antisociale crede che gli altri esistano per soddisfare le sue necessità, e che quando lo fanno compiono solo il loro dovere. Dunque non c’è spazio per l’amabilità dell’amore e del suo linguaggio. Chi ama è capace di dire parole di incoraggiamento, che confortano, che danno forza, che consolano, che stimolano. Vediamo, per esempio, alcune parole che Gesù diceva alle persone: « Coraggio figlio! » (Mt 9,2). « Grande è la tua fede! » (Mt 15,28). « Alzati! » (Mc 5,41). « Va’ in pace » (Lc 7,50). « Non abbiate paura » (Mt 14,27). Non sono parole che umiliano, che rattristano, che irritano, che disprezzano. Nella famiglia bisogna imparare questo linguaggio amabile di Gesù. 

non cerca il proprio interesse

« Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri » (Fil 2,4). Davanti ad un’affermazione così chiara delle Scritture, bisogna evitare di attribuire priorità all’amore per sé stessi come se fosse più nobile del dono di sé stessi agli altri. Una certa priorità dell’amore per sé stessi può intendersi solamente come una condizione psicologica, in quanto chi è incapace di amare sé stesso incontra difficoltà ad amare gli altri: « Chi è cattivo con sé stesso con chi sarà buono? [...] Nessuno è peggiore di chi danneggia sé stesso » (Sir 14,5-6). 102. Però lo stesso Tommaso d’Aquino ha spiegato che « è più proprio della carità voler amare che voler essere amati » e che, in effetti, «le madri, che sono quelle che amano di più, cercano più di amare che di essere amate». Perciò l’amore può spingersi oltre la giustizia e straripare gratuitamente, « senza sperarne nulla » (Lc 6,35), fino ad arrivare all’amore più grande, che è « dare la vita » per gli altri (Gv 15,13). È ancora possibile questa generosità che permette di donare gratuitamente, e di donare sino alla fine? Sicuramente è possibile, perché è ciò che chiede il Vangelo: « Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date » (Mt 10,8). 

non si adira, non tiene conto del male ricevuto

Se la prima espressione dell’inno ci invitava alla pazienza che evita di reagire bruscamente di fronte alle debolezze o agli errori degli altri, adesso appare un’altra parola – paroxynetai – che si riferisce ad una reazione interiore di indignazione provocata da qualcosa di esterno. Si tratta di una violenza interna, di una irritazione non manifesta che ci mette sulla difensiva davanti agli altri, come se fossero nemici fastidiosi che occorre evitare. Alimentare tale aggressività intima non serve a nulla. Ci fa solo ammalare e finisce per isolarci. L’indignazione è sana quando ci porta a reagire di fronte a una grave ingiustizia, ma è dannosa quando tende ad impregnare tutti i nostri atteggiamenti verso gli altri. Il Vangelo invita piuttosto a guardare la trave nel proprio occhio (cfr Mt 7,5), e come cristiani non possiamo ignorare il costante invito della Parola di Dio a non alimentare l’ira: « Non lasciarti vincere dal male » (Rm 12,21). «E non stanchiamoci di fare il bene» (Gal 6,9). Una cosa è sentire la forza dell’aggressività che erompe e altra cosa è acconsentire ad essa, lasciare che diventi un atteggiamento permanente: «Adiratevi, ma non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira » (Ef 4,26). La reazione interiore di fronte a una molestia causata dagli altri dovrebbe essere anzitutto benedire nel cuore, desiderare il bene dell’altro, chiedere a Dio che lo liberi e lo guarisca: « Rispondete augurando il bene. A questo infatti siete stati chiamati da Dio per avere in eredità la sua benedizione » (1 Pt 3,9). Se dobbiamo lottare contro un male, facciamolo, ma diciamo sempre “no” alla violenza interiore. 

Non tiene conto del male ricevuto 

Non è rancoroso. Se permettiamo ad un sentimento cattivo di penetrare nelle nostre viscere, diamo spazio a quel rancore che si annida nel cuore. Il contrario è il perdono, un perdono fondato su un atteggiamento positivo, che tenta di comprendere la debolezza altrui e prova a cercare delle scuse per l’altra persona, come Gesù che disse: « Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno » (Lc 23,34). Invece la tendenza è spesso quella di cercare sempre più colpe, di immaginare sempre più cattiverie, di supporre ogni tipo di cattive intenzioni, e così il rancore va crescendo e si radica. In tal modo, qualsiasi errore o caduta del coniuge può danneggiare il vincolo d’amore e la stabilità familiare. Il problema è che a volte si attribuisce ad ogni cosa la medesima gravità, con il rischio di diventare crudeli per qualsiasi errore dell’altro. La giusta rivendicazione dei propri diritti si trasforma in una persistente e costante sete di vendetta più che in una sana difesa della propria dignità. Quando siamo stati offesi o delusi, il perdono è possibile e auspicabile, ma nessuno dice che sia facile. Oggi sappiamo che per poter perdonare abbiamo bisogno di passare attraverso l’esperienza liberante di comprendere e perdonare noi stessi. Tante volte i nostri sbagli, o lo sguardo critico delle persone che amiamo, ci hanno fatto perdere l’affetto verso noi stessi. Questo ci induce alla fine a guardarci dagli altri, a fuggire dall’affetto, a riempirci di paure nelle relazioni interpersonali. Dunque, poter incolpare gli altri si trasforma in un falso sollievo. C’è bisogno di pregare con la propria storia, di accettare sé stessi, di saper convivere con i propri limiti, e anche di perdonarsi, per poter avere questo medesimo atteggiamento verso gli altri. 

Ma questo presuppone l’esperienza di essere perdonati da Dio, giustificati gratuitamente e non per i nostri meriti. Siamo stati raggiunti da un amore previo ad ogni nostra opera, che offre sempre una nuova opportunità, promuove e stimola. Se accettiamo che l’amore di Dio è senza condizioni, che l’affetto del Padre non si deve comprare né pagare, allora potremo amare al di là di tutto, perdonare gli altri anche quando sono stati ingiusti con noi. Diversamente, la nostra vita in famiglia cesserà di essere un luogo di comprensione, accompagnamento e stimolo, e sarà uno spazio di tensione permanente e di reciproco castigo. 

non gode dell'ingiustizia ma si rallegra della verità

Godere del male indica qualcosa di negativo insediato nel segreto del cuore della persona. È l’atteggiamento velenoso di chi si rallegra quando vede che si commette ingiustizia verso qualcuno. La frase si completa con quella che segue, che si esprime in modo positivo: si compiace della verità. Vale a dire, si rallegra per il bene dell’altro, quando viene riconosciuta la sua dignità, quando si apprezzano le sue capacità e le sue buone opere. Questo è impossibile per chi deve sempre paragonarsi e competere, fino al punto di rallegrarsi segretamente per i suoi fallimenti. Quando una persona che ama può fare del bene a un altro, o quando vede che all’altro le cose vanno bene, lo vive con gioia e in quel modo dà gloria a Dio, perché « Dio ama chi dona con gioia » (2 Cor 9,7), nostro Signore apprezza in modo speciale chi si rallegra della felicità dell’altro. Se non alimentiamo la nostra capacità di godere del bene dell’altro e ci concentriamo soprattutto sulle nostre necessità, ci condanniamo a vivere con poca gioia, dal momento che, come ha detto Gesù, « si è più beati nel dare che nel ricevere! » (At 20,35). 

L’elenco si completa con quattro espressioni che parlano di una totalità: “tutto”.

 Tutto scusa

In questo modo, si sottolinea con forza il dinamismo contro-culturale dell’amore, capace di far fronte a qualsiasi cosa lo possa minacciare. In primo luogo si afferma che “tutto scusa” (panta stegei). Si differenzia da “non tiene conto del male”, perché questo termine ha a che vedere con l’uso della lingua; può significare “mantenere il silenzio” circa il negativo che può esserci nell’altra persona. Implica limitare il giudizio, contenere l’inclinazione a lanciare una condanna dura e implacabile. «Non condannate e non sarete condannati » (Lc 6,37). «Non sparlate gli uni degli altri, fratelli» (Gc 4,11). Soffermarsi a danneggiare l’immagine dell’altro è un modo per rafforzare la propria, per scaricare i rancori e le invidie senza fare caso al danno che causiamo. Molte volte si dimentica che la diffamazione può essere un grande peccato, una seria offesa a Dio, quando colpisce gravemente la buona fama degli altri procurando loro dei danni molto difficili da riparare. Per questo la Parola di Dio è così dura con la lingua, dicendo che è « il mondo del male » che «contagia tutto il corpo e incendia tutta la nostra vita» (Gc 3,6), «è un male ribelle, è piena di veleno mortale» (Gc 3,8). Se «con essa malediciamo gli uomini fatti a somiglianza di Dio» (Gc 3,9), l’amore si prende cura dell’immagine degli altri, con una delicatezza che porta a preservare persino la buona fama dei nemici. È l’ampiezza dello sguardo di chi colloca quelle debolezze e quegli sbagli nel loro contesto; ricorda che tali difetti sono solo una parte, non sono la totalità dell’essere dell’altro. Un fatto sgradevole nella relazione non è la totalità di quella relazione. Dunque si può accettare con semplicità che tutti siamo una complessa combinazione di luci e ombre. L’altro non è soltanto quello che a me dà fastidio. È molto più di questo. Per la stessa ragione, non pretendo che il suo amore sia perfetto per apprezzarlo. Mi ama come è e come può, con i suoi limiti, ma il fatto che il suo amore sia imperfetto non significa che sia falso o che non sia reale. È reale, ma limitato e terreno. Perciò, se pretendo troppo, in qualche modo me lo farà capire, dal momento che non potrà né accetterà di giocare il ruolo di un essere divino né di stare al servizio di tutte le mie necessità. L’amore convive con l’imperfezione, la scusa, e sa stare in silenzio davanti ai limiti della persona amata. 

tutto crede 

Tale fiducia fondamentale riconosce la luce accesa da Dio che si nasconde dietro l’oscurità, o la brace che arde ancora sotto le ceneri. Questa stessa fiducia rende possibile una relazione di libertà. Non c’è bisogno di controllare l’altro, di seguire minuziosamente i suoi passi, per evitare che sfugga dalle nostre braccia. L’amore ha fiducia, lascia in libertà, rinuncia a controllare tutto, a possedere, a dominare. Questa libertà, che rende possibili spazi di autonomia, apertura al mondo e nuove esperienze, permette che la relazione si arricchisca e non diventi una endogamia senza orizzonti. In tal modo i coniugi, ritrovandosi, possono vivere la gioia di condividere quello che hanno ricevuto e imparato al di fuori del cerchio familiare. Nello stesso tempo rende possibili la sincerità e la trasparenza, perché quando uno sa che gli altri confidano in lui e ne apprezzano la bontà di fondo, allora si mostra com’è, senza occultamenti. Uno che sa che sospettano sempre di lui, che lo giudicano senza compassione, che non lo amano in modo incondizionato, preferirà mantenere i suoi segreti, nascondere le sue cadute e debolezze, fingersi quello che non è. Viceversa, dove si torna sempre ad avere fiducia nonostante tutto, ciò permette che emerga la vera identità dei suoi membri e fa sì che spontaneamente si rifiuti l’inganno, la falsità e la menzogna. 

 Tutto spera 

L’altro può cambiare. Spera sempre che sia possibile una maturazione, un sorprendente sbocciare di bellezza, che le potenzialità più nascoste del suo essere germoglino un giorno. Non vuol dire che tutto cambierà in questa vita. Implica accettare che certe cose non accadano come uno le desidera, ma che forse Dio scriva diritto sulle righe storte di quella persona e tragga qualche bene dai mali che essa non riesce a superare in questa terra. Qui si fa presente la speranza nel suo senso pieno, perché comprende la certezza di una vita oltre la morte. Quella persona, con tutte le sue debolezze, è chiamata alla pienezza del Cielo. Là, completamente trasformata dalla risurrezione di Cristo, non esisteranno più le sue fragilità, le sue oscurità né le sue patologie. Là l’essere autentico di quella persona brillerà con tutta la sua potenza di bene e di bellezza. Questo altresì ci permette, in mezzo ai fastidi di questa terra, di contemplare quella persona con uno sguardo soprannaturale, alla luce della speranza, e attendere quella pienezza che un giorno riceverà nel Regno celeste, benché ora non sia visibile. 

Tutto sopporta 

Significa mantenersi saldi nel mezzo di un ambiente ostile. Non consiste soltanto nel tollerare alcune cose moleste, ma in qualcosa di più ampio: una resistenza dinamica e costante, capace di superare qualsiasi sfida. 

«La persona che ti odia di più, ha qualcosa di buono dentro di sé; e anche la nazione che più odia, ha qualcosa di buono in sé; anche la razza che più odia, ha qualcosa di buono in sé. E quando arrivi al punto di guardare il volto di ciascun essere umano e vedi molto dentro di lui quello che la religione chiama “immagine di Dio”, cominci ad amarlo nonostante tutto. Non importa quello che fa, tu vedi lì l’immagine di Dio. C’è un elemento di bontà di cui non ti potrai mai sbarazzare. […] Un altro modo in cui ami il tuo nemico è questo: quando si presenta l’opportunità di sconfiggere il tuo nemico, quello è il momento nel quale devi decidere di non farlo. […] Quando ti elevi al livello dell’amore, della sua grande bellezza e potere, l’unica cosa che cerchi di sconfiggere sono i sistemi maligni. Le persone che sono intrappolate da quel sistema le ami, però cerchi di sconfiggere quel sistema. […] Odio per odio intensifica solo l’esistenza dell’odio e del male nell’universo. Se io ti colpisco e tu mi colpisci, e ti restituisco il colpo e tu mi restituisci il colpo, e così di seguito, è evidente che si continua all’infinito. Semplicemente non finisce mai. Da qualche parte, qualcuno deve avere un po’ di buon senso, e quella è la persona forte. La persona forte è la persona che è capace di spezzare la catena dell’odio, la catena del male. […] Qualcuno deve avere abbastanza fede e moralità per spezzarla e iniettare dentro la stessa struttura dell’universo l’elemento forte e potente dell’amore» (Martin Luther King. 

L’amore non si lascia dominare dal rancore, dal disprezzo verso le persone, dal desiderio di ferire o di far pagare qualcosa. L’ideale cristiano, e in modo particolare nella famiglia, è amore malgrado tutto. Ammiriamo, per esempio, l’atteggiamento di persone che hanno dovuto separarsi dal coniuge per proteggersi dalla violenza fisica, e tuttavia, a causa della carità coniugale che sa andare oltre i sentimenti, sono stati capaci di agire per il suo bene, benché attraverso altri, in momenti di malattia, di sofferenza o di difficoltà. Anche questo è amore malgrado tutto. 

8La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. 9Infatti, in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo. 10Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. 11Quand'ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino.

Dopo aver inneggiato all'amore evangelico, proietta lo sguardo verso la vita eterna. «Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede Colui che ha promesso» (Eb 10,23). Dal punto di vista della venuta gloriosa di Cristo, l'amore risulta ancora più notevole, essendo l'unica realtà che non verrà meno. Se guardiamo le cose dal punto di vista terreno, sono poche quelle che valgono davvero e che rimangono a fondamento della vita dei credenti: sono la fede, la speranza e la carità. «Sopra tutte queste cose rivestitevi della carità» (Col 3,14). 

Bisogna ridimensionare l'importanza riservata ai doni spirituali, anche quelli più prestigiosi come la capacità di pregare in lingue la profezia e il dono della conoscenza. Legati come sono a questo mondo transitorio e imperfetto, ne condividono le carenze e sono destinati a svanire con esso. Passando dalla condizione terrena alla vita dei risorti con un processo di maturazione analogo a quello che dall'infanzia conduce alla maturità, i credenti in Cristo scopriranno con chiarezza la caducità e l'imperfezione dei doni terreni dello spirito. 

12Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch'io sono conosciuto. 13Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!

Per quanto riguarda la conoscenza, per esempio, sulla terra possiamo sì conoscere Dio cioè entrare il rapporto con lui, ma in fondo vediamo di lui soltanto qualche immagine come in uno specchio. A quei tempi gli specchi piuttosto rudimentali non permettevano una visione nitida. La creazione del mondo manifesta qualche cosa del suo autore, ma di fatto, per chi è ancora in cammino in questo mondo, Dio rimane invisibile. Paolo ammette che per ora conosce il Signore in maniera imperfetta. Spera che da risorto lo conoscerà perfettamente faccia a faccia come si narrava di Mosè (Es 33,11). Quando saremo resuscitati potremo conoscere Dio in un modo più perfetto rispetto a quello della fede terrena. La fede si trasformerà in visione e non avremo più bisogno di sperare la felicità eterna perché di fatto ne saremo entrati in possesso definitivamente. «Sapendo che siamo in esilio lontano dal Signore finché abitiamo nel corpo - camminiamo infatti nella fede e non nella visione -, siamo pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore. Perciò, sia abitando nel corpo sia andando in esilio, ci sforziamo di essere a lui graditi» (2 Cor 5,6-8). «Noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo che quando Egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è» (1 Gv 3,2)

Ciò che quindi rimarrà per sempre in paradiso è il bene che avremmo voluto e che continueremo a volere a Dio e agli altri. I ricchi «facciano del bene, si arricchiscano di opere buone, siano pronti a dare e a condividere: così si metteranno da parte un buon capitale per il futuro, per acquistarsi la vita vera» (1 Tm 6,18-19). «Le fu data (alla Sposa/Chiesa) una veste di lino puro e splendente. La veste di lino sono le opere giuste dei santi» (Ap 19,8). Se questo è il destino glorioso dell'amore umano, è chiaro perché esso, sia la virtù più grande. Ogni altra realtà della vita, inclusi i doni della grazia, profuma fin d'ora di eternità tanto nella misura in cui è intrisa di carità. «Dio è amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui» (1 Gv 4, 16). (Cf. Manzi 189-190).

Capitolo 14

1Aspirate alla carità. Desiderate intensamente i doni dello Spirito, soprattutto la profezia. 2Chi infatti parla con il dono delle lingue non parla agli uomini ma a Dio poiché, mentre dice per ispirazione cose misteriose, nessuno comprende. 3Chi profetizza, invece, parla agli uomini per loro edificazione, esortazione e conforto. 4Chi parla con il dono delle lingue edifica se stesso, chi profetizza edifica l'assemblea. 5Vorrei vedervi tutti parlare con il dono delle lingue, ma preferisco che abbiate il dono della profezia. In realtà colui che profetizza è più grande di colui che parla con il dono delle lingue, a meno che le interpreti, perché l'assemblea ne riceva edificazione. 

Paolo, dopo aver celebrato il valore della carità, invita a procurarsi questa virtù e offre delle esemplificazioni su come viverla nella pratica. Ad esempio, il dono della profezia è migliore di quello di parlare lingue sconosciute, proprio perché è più utile per edificare il prossimo. Nelle scelte di vita, l’utilità del prossimo ha sempre la precedenza rispetto al nostro diritto o al nostro bisogno. 

I testi del Nuovo Testamento fanno risaltare l’importanza della profezia, dell’istruzione e del reciproco sostegno. Il Signore Gesù ha dato ad alcuni di essere profeti «per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo» (Ef 4,12). L’apostolo confermava «i discepoli esortandoli a restare saldi nella fede perché, dicevano: dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni» (At 14,22). «Confortatevi a vicenda e siate di aiuto gli uni agli altri, come già fate» (1 Ts 5,11). Il vescovo sia «fedele alla Parola, che gli è stata insegnata, perché sia in grado di esortare con la sua sana dottrina e di confutare i suoi oppositori» (Tt 1,9). 

Uno dei mezzi principali con i quali le diverse Chiese cercavano di consolidarsi a vicenda era l’epistolario. «Quando questa lettera sarà stata letta da voi, fate che venga letta anche nella Chiesa dei Laodicesi e anche voi leggete quella inviata ai Laodicesi» (Col 4,16). «Non ho potuto scrivere a tutte le chiese perché sono dovuto partire all’improvviso, secondo gli ordini. Scrivi tu [o Policarpo] alle chiese della regione orientale, tu che conosci la volontà di Dio, perché anch’esse facciano lo stesso. Quelle che possono mandino messaggeri, le altre almeno lettere, e le affidino a coloro che tu invierai, e ne avrete ben giustamente gloria eterna» (Ignazio a Policarpo, 8,3). 

«Nel ricevere le vostre lettere e nel leggere, nei vostri scritti, i buoni sentimenti e l'amore che nutrite per me, mi sono sentito in mezzo a voi, fratelli carissimi, quasi trasportato all'improvviso da lontanissima distanza, come Abacuc che dall'angelo fu portato a Daniele. Le lacrime si mescolavano alla mia gioia; il vivo desiderio di leggere era impedito dal pianto. Passai in questo stato d'animo alcuni giorni nei quali mi sembrava di parlare con voi. Mi sentivo come investito da ogni parte di ricordi consolanti che mi facevano rivivere la vostra fede, il vostro affetto, i frutti della vostra carità, e così mi pareva di non essere più in esilio, ma di trovarmi quasi d'improvviso in mezzo a voi…» (Eusebio di Vercelli, Epistolario, 2). 

6E ora, fratelli, supponiamo che io venga da voi parlando con il dono delle lingue. In che cosa potrei esservi utile, se non vi comunicassi una rivelazione o una conoscenza o una profezia o un insegnamento? 

Per ribadire il principio del primato dell’edificazione della comunità, l’apostolo si serve di alcuni esempi. Il primo è un esempio personale. Se, giunto a Corinto, avesse parlato in lingue, non sarebbe nata la comunità e non riuscirebbe oggi a confermarla nellla fede. 

7Ad esempio: se gli oggetti inanimati che emettono un suono, come il flauto o la cetra, non producono i suoni distintamente, in che modo si potrà distinguere ciò che si suona col flauto da ciò che si suona con la cetra? 8E se la tromba emette un suono confuso, chi si preparerà alla battaglia? 9Così anche voi, se non pronunciate parole chiare con la lingua, come si potrà comprendere ciò che andate dicendo? Parlereste al vento! 

Il secondo esempio è musicale. Perché ci sia una melodia, uno strumento deve emmettere un suono distinto rispetto a quello d’un altro. Un esercito non inizia la battagia se non ha udito il segnale d’attacco con chiarezza. Allo stesso modo la comunità non matura nella fede e nella battaglia della vita se non ha ascoltato in modo adeguato le parole della predicazione. 

10Chissà quante varietà di lingue vi sono nel mondo e nulla è senza un proprio linguaggio. 11Ma se non ne conosco il senso, per colui che mi parla sono uno straniero, e chi mi parla è uno straniero per me. 12Così anche voi, poiché desiderate i doni dello Spirito, cercate di averne in abbondanza, per l'edificazione della comunità. 13Perciò chi parla con il dono delle lingue, preghi di saperle interpretare.

Esempio delle lingue. Gli uomini non comunicano tra loro in modo soddisfacente se non parlano la stessa lingua. La comunità non può essere composta da persone che sono estranee le une dalle altre ma da persone che comunicano bene tra loro. Lo scopo di ogni incontro comunitario sta nel reciproco consolidamento mediante una comunicazione chiara e profonda. Chi parla in lingue cerchi anche di saperle interpretare. 

14Quando infatti prego con il dono delle lingue, il mio spirito prega, ma la mia intelligenza rimane senza frutto. 15Che fare dunque? Pregherò con lo spirito, ma pregherò anche con l'intelligenza; canterò con lo spirito, ma canterò anche con l'intelligenza. 16Altrimenti, se tu dai lode a Dio soltanto con lo spirito, in che modo colui che sta fra i non iniziati potrebbe dire l'Amen al tuo ringraziamento, dal momento che non capisce quello che dici? 17Tu, certo, fai un bel ringraziamento, ma l'altro non viene edificato. 18Grazie a Dio, io parlo con il dono delle lingue più di tutti voi; 19ma in assemblea preferisco dire cinque parole con la mia intelligenza per istruire anche gli altri, piuttosto che diecimila parole con il dono delle lingue. 

Paolo mostra, partire dalla propria esperienza personale quanto sia fecondo fare preghiere a Dio non solo con il proprio spirito, anche con la propria intelligenza. Designa con il termine spirito gli aspetti più emotivi della persona, mentre con intelligenza la mente cosciente razionale dell'essere umano. L'ideale sarebbe pregare con entrambi. Per questo richiede che la preghiera in lingua sia tradotta, così Da coinvolgere anche le facoltà intellettuali sia del carismatico che la eleva a Dio, sia degli altri che lo ascoltano. Egli propone se stesso come modello in quanto, anche se potrebbe parlare le lingue, preferisce essere utile agli altri piuttosto che abbandonarsi alla sua preferenza personale. 

20Fratelli, non comportatevi da bambini nei giudizi. Quanto a malizia, siate bambini, ma quanto a giudizi, comportatevi da uomini maturi. 21Sta scritto nella Legge: In altre lingue e con labbra di stranieri parlerò a questo popolo, ma neanchecosì mi ascolteranno, dice il Signore. 22Quindi le lingue non sono un segno per quelli che credono, ma per quelli che non credono, mentre la profezia non è per quelli che non credono, ma per quelli che credono. 

v.20 I fedeli devono essere innocenti come i bambini che non hanno peccato ma maturi nel modo di pensare. L’incapacità di assumere le istanze proprie della carità rende un credente una persona immatura nella fede. Bisogna crescere nella fede «così non saremo più fanciulli in balìa delle onde, trasportati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, ingannati dagli uomini con quella astuzia che trascina all'errore. Al contrario, agendo secondo verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa tendendo a lui, che è il capo, Cristo» (Ef 4,14-15). «Mentre mi rallegro di voi, voglio che siate saggi nel bene e immuni dal male. Il Dio della pace schiaccerà ben presto Satana sotto i vostri piedi» (Rm 16,20).

v.21 In una profezia (28, 11-12), Isaia annuncia che Dio parlerà in altre lingue. Questo carisma, allora, viene realmente da Dio. Tuttavia più che ai credenti, esso è un segno destinato ai pagani, i quali potranno rimanere impressionati e colpiti, benchè questo stupore non sia sufficiente per condurli alla fede. A Pentecoste, «tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue» (At 2,4); alcuni rimasero stupiti favorevolmente ma «altri li deridevano e dicevano: “si sono ubriacati di vino dolce» (At 2,13). 

23Quando si raduna tutta la comunità nello stesso luogo, se tutti parlano con il dono delle lingue e sopraggiunge qualche non iniziato o non credente, non dirà forse che siete pazzi? 24Se invece tutti profetizzano e sopraggiunge qualche non credente o non iniziato, verrà da tutti convinto del suo errore e da tutti giudicato, 25i segreti del suo cuore saranno manifestati e così, prostrandosi a terra, adorerà Dio, proclamando: Dio è veramente fra voi!

Un non credente viene colto da stupore nell’ascoltare il ronzio delle lingue ma si converte soltanto ascoltando la predicazione espressa dai profeti. «Così dice il Signore degli eserciti: In quei giorni, dieci uomini di tutte le lingue delle nazioni afferreranno un Giudeo per il lembo del mantello e gli diranno: “Vogliamo venire con voi, perché abbiamo udito che Dio è con voi”» (Zc 8,23). «Dopo il mio smarrimento, mi sono pentito; quando me lo hai fatto capire, mi sono battuto il petto, mi sono vergognato e ne provo confusione» (Ger 31,19). «All'udire queste cose si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?». E Pietro disse loro: «Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo» (At 2,37-38). 

26Che fare dunque, fratelli? Quando vi radunate, uno ha un salmo, un altro ha un insegnamento; uno ha una rivelazione, uno ha il dono delle lingue, un altro ha quello di interpretarle: tutto avvenga per l'edificazione. 27Quando si parla con il dono delle lingue, siano in due, o al massimo in tre, a parlare, uno alla volta, e vi sia uno che faccia da interprete. 28Se non vi è chi interpreta, ciascuno di loro taccia nell'assemblea e parli solo a se stesso e a Dio. 

La comunità si esprimeva tutta con grande libertà e senso di partecipazione. «Non ubriacatevi di vino, che fa perdere il controllo di sé; siate invece ricolmi dello Spirito, intrattenendovi fra voi con salmi, inni, canti ispirati, cantando e inneggiando al Signore con il vostro cuore, rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo» (Ef 5,18-20). «La parola di Cristo abiti tra voi nella sua ricchezza. Con ogni sapienza istruitevi e ammonitevi a vicenda con salmi, inni e canti ispirati, con gratitudine, cantando a Dio nei vostri cuori» (Col 3,16). Suggerisce delle norme pratiche perché il culto si svolga in modo ordinato, nella pace. 

29I profeti parlino in due o tre e gli altri giudichino. 30Ma se poi uno dei presenti riceve una rivelazione, il primo taccia: 31uno alla volta, infatti, potete tutti profetare, perché tutti possano imparare ed essere esortati. 32Le ispirazioni dei profeti sono sottomesse ai profeti, 33perché Dio non è un Dio di disordine, ma di pace.

Giovanni, autore del libro dell’Apocalisse, si presenta come un profeta: «Queste parole sono certe e vere. Il Signore, il Dio che ispira i profeti, ha mandato il suo angelo per mostrare ai suoi servi le cose che devono accadere tra breve. Ecco, io vengo presto. Beato chi custodisce le parole profetiche di questo libro» (Ap 22,6). 

Compare la necessità del discernimento delle parole espresse sotto ispirazione: «Non prestate fede ad ogni spirito, ma mettete alla prova gli spiriti, per saggiare se provengono veramente da Dio. In questo potete riconoscere lo Spirito di Dio: ogni spirito che riconosce Gesù Cristo venuto nella carne, è da Dio; ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio» (1 Gv 4,1-3). 

v. 33 «Il Signore della pace vi dia la pace sempre e in ogni modo. Il Signore sia con tutti voi» (2 Ts 3,16). 

Come in tutte le comunità dei santi, 34le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare; stiano invece sottomesse, come dice anche la Legge. 35Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea. 

Il comando che impone alle donne di tacere, sembra in contraddizione con la possibilità concessa a loro di profetare durante il culto (Cf 11,5), purché lo facciano con il capo velato. Del resto nella Chiesa primitiva esisteva il ministero della profezia femminile. Ad esempio, l’evangelista Filippo «aveva quattro figlie nubili, che avevano il dono della profezia» (At 21,9). Non è documentato che, oltre alle parole profetiche su ispirazione, le profetesse si dedicassero all’istruzione durante il culto ma, comunque, erano invitate a farlo almeno in altre circostanze: «Le donne anziane abbiano un comportamento santo: non siano maldicenti né schiave del vino; sappiano piuttosto insegnare il bene, per formare le giovani …, perché la parola di Dio non venga screditata» (Tt 2,3-5). 

Paolo, che aveva molte collaboratrici che trattava con molta deferenza (Rm 16), sollecita così due donne di prestigio della comunità di Filippi: «Esorto Evodia ed esorto anche Sintiche ad andare d’accordo nel Signore» (Fil 4,2). 

Già nell’Antico Testamento esisteva il ministero della profezia femminile. Maria, Debora, Culda, Anna erano profetesse. «Maria, la profetessa, sorella di Aronne, prese in mano un tamburello: dietro a lei uscirono le donne con i tamburelli e con danze. Maria intonò per loro il ritornello» (Es 15,20). «In quel tempo era giudice d’Israele una donna, una profetessa, Dèbora, moglie di Lappidòt. Ella sedeva sotto la palma di Dèbora, sulle montagne di Èfraim, e gli Israeliti salivano da lei per ottenere giustizia» (Gdc 4,4-5). «Il sacerdote Chelkia [con altri] si recò dalla profetessa Culda, moglie di Sallum, la quale abitava nel secondo quartiere di Gerusalemme; essi parlarono con lei» (2 Re 22,14). Luca ricorda la profetessa Anna: «C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuele, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme» (Lc 2,36-38). 

Come c’erano falsi profeti, c’erano anche false profetesse; il discernimento era necessario: (Ne 6,14 [Noadia] Ez 13,17 [«Rivolgiti alle figlie del tuo popolo che profetizzano secondo i loro desideri»]. 

36Da voi, forse, è partita la parola di Dio? O è giunta soltanto a voi? 37Chi ritiene di essere profeta o dotato di doni dello Spirito, deve riconoscere che quanto vi scrivo è comando del Signore. 38Se qualcuno non lo riconosce, neppure lui viene riconosciuto. 39Dunque, fratelli miei, desiderate intensamente la profezia e, quanto al parlare con il dono delle lingue, non impeditelo. 40Tutto però avvenga decorosamente e con ordine.

Mette in discussione l’atteggiamento di alcuni membri della comunità che si comportavano come se la rivelazione fosse un dono esclusivo per loro. In realtà dovrebbero confrontarsi con altre Chiese e riconoscere l’autorità dell’apostolo. Le persone che si considerano animate dallo Spirito Santo, proprio per questo, dovrebbero approvare l’istruzione dell’apostolo e consentire ad esso perché il ministero dell’autorità è carismatico come lo è la profezia (cf 12,4-5).

Riassume, quindi, il messaggio appena esposto: esprimersi in lingue è permesso ma è preferibile comunicare parole di profezia perché esse convincono e confortano. «Quando non c’è visione profetica, il popolo è sfrenato» (Pr 29,18). 

Ordine e decoro devono sempre animare le assemblee cultuali, evitando caos e protagonismi. 


giovedì 31 luglio 2025

LEONE XIV AI NEOFITI DI FRANCIA

 

Che gioia vedere dei giovani che s’impegnano nella fede e vogliono dare un senso alla loro vita, lasciandosi guidare da Cristo e dal suo Vangelo! Il battesimo fa di noi membri a pieno titolo della grande famiglia di Dio. L’iniziativa viene sempre da Lui e noi rispondiamo facendo l’esperienza del suo amore che ci salva. Nel vostro percorso come catecumeni e nuovi battezzati, ognuno di voi fa un incontro personale con il Signore nella comunità che l’accoglie. Ci riconosciamo personalmente figlie e figli di Dio attraverso il nostro battesimo «nel nome del Padre», che ci offre l’adozione, «del Figlio» che ci introduce nella sua vita e nel suo rapporto con suo Padre, «e dello Spirito Santo», fonte di ogni dono (cfr. Gal 4, 6). San Paolo rivela l’effetto essenziale del battesimo, quando scrive ai Galati: «quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo» (3, 27).

Il battesimo introduce nella comunione con Cristo e dona la vita. Ci impegna a rinunciare una cultura della morte molto presente nella nostra società. Questa cultura della morte si manifesta oggi attraverso l’indifferenza, il disprezzo degli altri, la droga, la ricerca di una vita facile, una sessualità che diviene divertimento e cosificazione della persona umana, l’ingiustizia etc.

Il battesimo fa di noi i testimoni di Cristo. Nel rito del battesimo, c’è un segno molto forte, molto forte, è quando riceviamo la candela accesa al cero pasquale. È la luce di Cristo morto e risorto che noi ci impegniamo a mantenere accesa alimentandola con l’ascolto della Parola di Dio e la comunione assidua con Gesù Eucaristia. Sant’Ambrogio non si stancava mai di ripetere: 

«Omnia Christus est nobis!, Tutto è per noi Cristo!», un invito a essere autentici testimoni del Signore. Diceva ancora, con parole piene di amore per Gesù: «Omnia Christus est nobis! Se desideri medicare le tue ferite, egli è medico; se bruci di febbre, egli è la sorgente ristoratrice; se sei oppresso dalla colpa, egli è la giustizia, se hai bisogno di aiuto, egli è la forza; se temi la morte, egli è la vita; se desideri il cielo, egli è la via; se fuggi le tenebre, egli è la luce…. Gustate dunque e vedete quanto è buono il Signore; felice l’uomo che spera in lui» (De virginitate, 16, 99).

 Per vivere felici e in pace, siamo chiamati a riporre la nostra speranza in Gesù Cristo.

Seguendo il Signore, anche voi siete il sale della terra e la luce del mondo (cfr. Mt 5, 13-14). La Chiesa ha bisogno della vostra bella testimonianza di fede per crescere sempre più ed essere vicina a ogni persona nel bisogno.

Il catecumenato è un cammino di fede che non si conclude con il battesimo, ma prosegue per tutta la vita, con momenti di gioia e momenti difficili. 

Come ci ricorda sant’Agostino, «Se egli [Cristo] non fosse divenuto la nostra speranza, non sarebbe in grado di condurci. Ci conduce in quanto è la nostra guida; e ci conduce con sé in quanto egli è la nostra via; a sé ci conduce in quanto egli è la nostra patria» (Sant’Agostino, Esposizione sul Salmo 61 ).

Siete chiamati a condividere la vostra esperienza di fede con gli altri, testimoniando l’amore di Cristo e divenendo discepoli missionari. Non limitatevi alla sola conoscenza teorica, ma vivete la vostra fede in modo concreto, sperimentando l’amore di Dio nella vostra vita quotidiana. Il cammino di fede può essere lungo e a volte difficile, ma non scoraggiatevi, perché Dio è sempre presente per sostenervi. Come ci ricorda il profeta Isaia: «Non temere, perché io sono con te; non smarrirti, perché io sono il tuo Dio. Ti rendo forte e anche ti vengo in aiuto» (Is 41, 10). È fondamentale fare l’esperienza di Dio nella preghiera, nella pratica dei sacramenti, in particolare nella riscoperta del sacramento della Riconciliazione, e nella vita comunitaria, al fine di crescere nella fede e nell’amore.


Cari amici, con l’aiuto e il sostegno dei vostri pastori, dei vostri fratelli e sorelle maggiori nella fede, e sull’esempio dei santi che hanno affrontato le difficoltà proprie del loro tempo, vi incoraggio a restare connessi al Signore Gesù. Non nasciamo cristiani, lo diveniamo quando siamo toccati dalla grazia di Dio. Tuttavia questo “tocco” si esprime attraverso la nostra scelta attentamente ponderata e il nostro cammino personale. Senza questi veri requisiti, indosseremo l’etichetta di cristiani, ma di cristiani di convenienza, di abitudine o di comodo. Diveniamo cristiani autentici quando ci lasciamo toccare personalmente nella nostra vita di ogni giorno dalla parola e dalla testimonianza di Gesù. In mezzo alle vostre tribolazioni, ai momenti di solitudine e di aridità, alle incomprensioni, alle vostre fatiche, possano i vostri cuori radicarsi in lui che è «la via, la verità e la vita» (Gv 14, 6), la fonte di ogni pace, gioia e amore.

sabato 26 luglio 2025

Eucaristia problematica

Prima Corinti capitolo 11

Alcuni comportamenti dei membri della comunità, avevano suscitato scandali e disagi, in modo particolare durante il culto. Il dovere della rinuncia ai propri diritti, convinzioni o semplici abitudini, se questa è necessaria per evitare scandali o equivoci, ricompare anche nelle questioni dibattute in questa parte della lettera (velo per le donne e capelli corti per gli uomini). Paolo deve intervenire per pacificare la comunità. A prescindere da esse, è di capitale importanza imparare a vivere nella carità, nel reciproco rispetto. L’apostolo coglie l’occasione per ricordare il significato profondo della cena del Signore (o Eucaristia) e per correggere altri comportamenti che erano in contrasto con essa. La libertà del cristiano non è imposizione dei propri punti di vista ma liberazione dall’egoismo e dall’accentramento su di sé. Libero è chi può finalmente lascia scorrere, senza intoppi, l’energia della carità infusa in lui dallo Spirito; è amore del bene per il bene, oltre ogni legge ed ogni limite, ad imitazione di Dio. 

1Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo. 

Paolo ha sempre cercato di piacere al prossimo per edificarlo, non per suscitare ammirazione o consenso. Così può rendersi modello da imitare. «Fratelli, fatevi insieme miei imitatori e guardate quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi. Perché molti – ve l’ho già detto più volte e ora, con le lacrime agli occhi, ve lo ripeto – si comportano da nemici della croce di Cristo» (Fil 3,17-18). «Fatevi imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo in cui anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore» (Ef 5,1). «Voi, fratelli, siete diventati imitatori delle Chiese di Dio in Cristo Gesù che sono in Giudea, perché anche voi avete sofferto le stesse cose da parte dei vostri connazionali, come loro da parte dei Giudei» (1 Ts 2,14). «Dio infatti non è ingiusto tanto da dimenticare il vostro lavoro e la carità che avete dimostrato verso il suo nome, con i servizi che avete reso e che tuttora rendete ai santi. Desideriamo soltanto che ciascuno di voi dimostri il medesimo zelo… perché non diventiate pigri, ma piuttosto imitatori di coloro che, con la fede e la costanza, divengono eredi delle promesse» (Eb 6,10-11). 

2Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse.

Il valore delle Tradizioni di fede era già emerso nell'ebraismo: «Mattatia rispose a gran voce: «Anche se tutti i popoli che sono sotto il dominio del re lo ascoltassero e ognuno abbandonasse la religione dei propri padri, io, i miei figli e i miei fratelli cammineremo nell’alleanza dei nostri padri. Non sia mai che abbandoniamo la legge e le tradizioni. Non ascolteremo gli ordini del re per deviare dalla nostra religione a destra o a sinistra» (1 Mc 2,19-21). 

«Vi preghiamo e supplichiamo nel Signore Gesù affinché, come avete imparato da noi il modo di comportarvi e di piacere a Dio – e così già vi comportate –, possiate progredire ancora di più. Voi conoscete quali regole di vita vi abbiamo dato da parte del Signore Gesù. Questa infatti è volontà di Dio, la vostra santificazione» (1 Ts 4,1-2). «State saldi e mantenete le tradizioni che avete appreso sia dalla nostra parola sia dalla nostra lettera» (2 Ts 2,15). «Vi raccomandiamo di tenervi lontani da ogni fratello che conduce una vita disordinata, non secondo l’insegnamento che vi è stato trasmesso da noi» (2 Ts 3,6).

3Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo, e capo di Cristo è Dio. 

Paolo è  venuto a sapere che alcuni insegnamenti trasmessi non venivano osservati. 

Qual è il significato del termine capo (kefale) attribuito a Cristo? Gesù Cristo porta a compimento il servizio di Mosè: «proprio lui Dio mandò come capo e liberatore, per mezzo dell’angelo che gli era apparso nel roveto» (At 7,35). Infatti, «Dio ha innalzato [Gesù] alla sua destra come capo e salvatore, per dare a Israele conversione e perdono dei peccati» (At 5,31). Mosé e Gesù, quindi, sono capi perché liberano e salvano.

Gesù è capo perché datore di vita: «Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa. Egli è principio, primogenito di quelli che risorgono dai morti» (Col 1,18). È capo perché è Salvatore: «Cristo è capo della Chiesa, lui che è salvatore del corpo» (Ef 5,23). 

È diventato datore di vita, affrontando la sofferenza connessa al suo compito: «Conveniva infatti che Dio – per il quale e mediante il quale esistono tutte le cose, lui che conduce molti figli alla gloria – rendesse perfetto per mezzo delle sofferenze il capo che guida alla salvezza» (Eb 2,10). Dal momento che Gesù ha dato tutto se stesso agli uomini, viene glorificato dal Padre: «Tutto infatti egli ha messo sotto i suoi piedi e lo ha dato alla Chiesa come capo su tutte le cose: essa è il corpo di lui, la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose» (Ef 1,22-23). Chi ha dato tutto se stesso «parla come uno che ha autorità», è il capo carovana che guida alla salvezza (cf Eb 2,10). L’uomo “capo della donna” è tale quando imita l’autorità di Gesù.

Nel contesto d’una mentalità nettamente patriarcale, Paolo innesta principi di fede e di comportamento che tendono ad anticipare la novità assoluta della nuova creazione, inaugurata dalla Pasqua del Signore. La novità (escatologica) costituisce l’essenza della vita cristiana: «Tutti voi infatti siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,26-29). La novità, già vissuta nell’assemblea eucaristica, rinnova la Chiesa e la società, entrambe refrattarie ad accogliere in totalità la novità del Vangelo, al modo del lievito che fermenta tutta la pasta con gradualità. 

4Ogni uomo che prega o profetizza con il capo coperto, manca di riguardo al proprio capo. 5Ma ogni donna che prega o profetizza a capo scoperto, manca di riguardo al proprio capo, perché è come se fosse rasata. 6Se dunque una donna non vuole coprirsi, si tagli anche i capelli! Ma se è vergogna per una donna tagliarsi i capelli o radersi, allora si copra. 

v.5 Consente che una donna preghi o profetizzi nell’assemblea di culto. Questo è l’elemento nuovo, di enorme importanza. Vuole, però, che compia questo servizio a capo coperto. L’eccessiva disinvoltura, attuata nel profetare a capo scoperto, creava scandalo per la mentalità dell’epoca. Ribadisce, quindi, il principio già sostenuto nella questione delle carni offerte agli idoli: conoscere e godere d’una mentalità libera, dal punto di vista cristiano, è un sapere autentico soltanto se non ferisce la coscienza dell’altro. Chi conosce senza esercitare la carità, è un cristiano inconsistente che scompiglia e frantuma la comunione. 

Emerge, comunque, la tensione tra la novità evangelica che suscita nuove convinzioni e la difficoltà a recepirla. Tutti consentono al principio proclamato finchè non si arrestano inquieti di fronte alle conseguenze ultime derivanti dalla sua applicazione. Paolo deve mediare tra la difesa d’un principio da lui divulgato e la recezione pratica di esso. Questo vale anche per lui che si muove piuttosto imbarazzato nella questione. 

7L’uomo non deve coprirsi il capo, perché egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria dell’uomo. 8E infatti non è l’uomo che deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; 9né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo. 

Il suo intento è pacificare la comunità ed eliminare una prassi per molti scandalosa. Per fare questo ha bisogno di apellarsi alla Scrittura e richiama il secondo racconto della creazione, quello che parla della formazione di Eva da Adamo. Trascura, però, il primo racconto dove sia il maschio che la femmina vengono proclamati ad immagine di Dio. L’idea che la donna fu creata per l’uomo riprende il passo dove si afferma che Dio creò per l’uomo un aiuto che gli fosse pari. Il testo, tuttavia, lascia intuire la fragilità di Adamo nel trovarsi da solo e il dono della complementarietà che riceve grazie all’esistenza di Eva. 

Per questo la donna deve avere sul capo un segno di autorità a motivo degli angeli. 11Tuttavia, nel Signore, né la donna è senza l’uomo, né l’uomo è senza la donna. 12Come infatti la donna deriva dall’uomo, così l’uomo ha vita dalla donna; tutto poi proviene da Dio.

Paolo intuisce la fragilità degli argomenti che ha tirato in campo e nell’imporre un comportamento che di per sé segnala un ritorno all’idea dell’inferiorità della donna, lo trasforma in un gesto di riabilitazione: se tiene il capo coperto, onora se stessa; è un segno d’autorità a motivo degli angeli (una menzione piuttosto misteriosa). Completa il riferimento biblico a cui ha accennato (ricordando il messaggio della prima creazione?) e difende la pari dignità della donna rispetto all’uomo «dal punto di vista» del Signore [v. 11: nel Signore]; dal punto di vista degli uomini la parità è meno scontata. 

13Giudicate voi stessi: è conveniente che una donna preghi Dio col capo scoperto? 14Non è forse la natura stessa a insegnarci che è indecoroso per l’uomo lasciarsi crescere i capelli, 15mentre è una gloria per la donna lasciarseli crescere? La lunga capigliatura le è stata data a modo di velo. 

Ora rivela la motivazione del suo intervento pastorale così preoccupato. Il dato naturale a cui si appella è, in realtà, un elemento culturale prevalente nella società dell’epoca, dove le donne in pubblico si velavano; soltanto schiave e prostitute si muovevano a capo scoperto. Accenna anche a maschi che assumevano attitudini femminili. Un moralista appartenente allo stoicismo, Epitteto condannava la confusione tra i sessi. «C’è qualcosa di più inutile dei peli sul mento? Eppure, la natura non ha utilizzato anche questi nel modo più conveniente possibile? Non ha separato grazie ad essi il maschio della femmina? Perciò dovremmo salvaguardare i segni che Dio ci ha dati e non dovremmo rifiutarli nè per quanto dipende da noi confondere i sessi che si trovano ben distinti» (Diatribe, I,16,14). Rimproverava i maschi che facevano consistere il loro valore nella mera ricerca della bellezza fisica che comprendeva anche una cura particolareggiata dei capelli trascurando la vera bellezza che consisteva nel coltivare la rettitudine (Diatribe III,1, 7-15). 

16Se poi qualcuno ha il gusto della contestazione, noi non abbiamo questa consuetudine e neanche le Chiese di Dio. 

«Vi prego: diventate miei imitatori! Per questo vi ho mandato Timòteo, che è mio figlio carissimo e fedele nel Signore: egli vi richiamerà alla memoria il mio modo di vivere in Cristo, come insegno dappertutto in ogni Chiesa» (1 Cor 4,17). «… così dispongo in tutte le Chiese» (1 Cor 7,17). 


17Mentre vi do queste istruzioni, non posso lodarvi, perché vi riunite insieme non per il meglio, ma per il peggio. 18Innanzi tutto sento dire che, quando vi radunate in assemblea, vi sono divisioni tra voi, e in parte lo credo. 19È necessario infatti che sorgano fazioni tra voi, perché in mezzo a voi si manifestino quelli che hanno superato la prova. 

La riunione di culto, in modo particolare la celebrazione della cena del Signore, presuppone che vi sia già una certa concordia tra i fedeli e che la preghiera la renda ancora più salda. 

Nell’assenza di carità l’assemblea, invece, si raduna per il peggio. «Ammasso di stoppa è una riunione di iniqui, la loro fine è una fiammata di fuoco» (Sir 21,9). «Smettete di presentare offerte inutili; l’incenso per me è un abominio, i noviluni, i sabati e le assemblee sacre: non posso sopportare delitto e solennità» (Is 1,13). «Dal momento che vi sono tra voi invidia e discordia, non siete forse carnali e non vi comportate in maniera umana?» (1 Cor 3,3). «Dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni» (Gc 3,16).

v. 19 Quando sorgono conflitti, appare in evidenza quali siano le persone che camminano nella carità e quali, invece, si lascino trascinare da loro egoismo. 

20Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore. 21Ciascuno infatti, quando siete a tavola, comincia a prendere il proprio pasto e così uno ha fame, l’altro è ubriaco. 22Non avete forse le vostre case per mangiare e per bere? O volete gettare il disprezzo sulla Chiesa di Dio e umiliare chi non ha niente? Che devo dirvi? Lodarvi? In questo non vi lodo! 

La “frazione del pane” o “cena del Signore” è memoriale della passione e risurrezione del Signore nell’attesa del suo ritorno. Mediante questa liturgia, i cristiani si uniscono al Signore e fra di loro; essa li costituisce “corpo di Cristo” e, in questo, realizzano l’unità. La mancanza di tale di spirito di comunione annienta il beneficio della partecipazione alla Pasqua del Signore (v.27). Avulsa da ogni impegno etico, il rito eucaristico non si distingue più da un rito pagano, dove il proposito di vivere nella rettitudine non è neppure richiesto. 

Alcuni tentano di disgiungere la scelta di fede dal comportamento: «Essi stimano felicità darsi ai bagordi in pieno giorno; scandalosi e vergognosi, godono dei loro inganni mentre fanno festa con voi, hanno gli occhi pieni di desideri disonesti e, insaziabili nel peccato, adescano le persone instabili, hanno il cuore assuefatto alla cupidigia» (2 Pt 2,13-14). 

Paolo aveva già richiamato la necessità di uno spirito di comunione: «Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane» (1 Cor 10,17). «Se voi dunque siete il corpo e le membra di Cristo, sulla mensa del Signore è deposto il mistero di voi: ricevete il mistero di voi. A ciò che siete rispondete: Amen e rispondendo lo sottoscrivete. Ti si dice infatti: “Il Corpo di Cristo”, e tu rispondi: “Amen”. Sii membro del corpo di Cristo, perché sia veritiero il tuo “Amen”. Perché [il corpo di Cristo] nel pane? Chi è questo unico pane? Pur essendo molti, formiamo un solo corpo. Ricordate che il pane non è composto da un solo chicco di grano, ma da molti» (Agostino, Discorso 272,1). 

23Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane 24e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me». 

La celebrazione eucaritica non è un’invenzione di Paolo o della Chiesa. La tradizione a cui ora accenna potrebbe indicare una tramissione orale di un comando di Gesù, iniziata già all’interno della primitiva comunità cristiana [prima ancora della composizione dei Vangeli] o, perfino, una rivelazione personale comunicata all’apostolo dal Signore. La frase indica il valore della Tradizione apostolica: la Chiesa riceve da Gesù e dagli apostoli e trasmette ai fedeli. 

Nella notte, nell’ora in cui domina la tenebra, il Signore fa risplendere la sua luce; [invece di imprecare contro il buio, accende una luce che non sarà mai spenta]. Gesù viene consegnato [tradito] da Giuda, ma in realtà è lui stesso che si consegna a Dio a favore degli uomini. [Il verbo paradidomai significa tradire o consegnare]. Gesù trasforma un crimine, in un atto d’amore totale: è la transustanziazione della sua vita. Non cerca di salvarsi, né pretende di essere salvaguardato da Dio, ma anticipa la sua auto-consegna sulla croce. 

Rendere grazie (eucharistesas): nella cena pasquale, Israele ringraziava il Signore per tutti i gesti di liberazione compiuti a suo favore, Gesù ringrazia per la liberazione che procurerà grazie alla sua morte, rende grazie per essere lui stesso il dono definitivo di Dio. Tutta la sua persona (corpo o carne), da sempre, è stata un pane, un alimento di vita; lo sarà in modo particolare nella sua morte: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda» (Gv 6,54-55). 

Spezzare è l’atto che permette la condivisione. «Spezzò i pani e li dava ai suoi discepoli perché li distribuissero a loro» (Mt 6,41). 

Fare memoria di lui è vivere come lui, all’insegna dell’amore: «Chi si unisce al Signore, forma con lui un solo spirito con lui» (1 Cor 6,17). La Pasqua è un evento perenne: «Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore» (Es 12,14). L’egoista è provo di senno: «A chi è privo di senno [la Sapienza] dice: “Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato. Abbandonate l’inesperienza e vivrete, andate diritti per la via dell’intelligenza”» (Pr 9,4-6). L’Eucarestia è il giardino del battezzato che sperimenta l’ebbrezza della virtù dell’amore : «Sono venuto nel mio giardino, sorella mia, mia sposa, e raccolgo la mia mirra e il mio balsamo; mangio il mio favo e il mio miele, bevo il mio vino e il mio latte. Mangiate, amici, bevete; inebriatevi d’amore» (Ct 5,1). 

25Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me». 26Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.

Il calice di vino richiama alla mente il sangue che verserà alla sua morte. Il sangue veniva sparso per espiare i peccati, riconciliare e siglare l’alleanza con Dio. «Mosè prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: “Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto”. Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: “Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!”» (Es 24,7-8). Gesù sparse il suo sangue per stabilire la riconciliazione con Dio: «Cristo entrò una volta per sempre nel santuario [del cielo], non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna» (Eb 9,12). La sua morte consente la stipula della nuova Alleanza, promessa dai profeti: «Vi siete accostati a Gesù, mediatore dell’alleanza nuova, e al sangue purificatore, che è più eloquente di quello di Abele» (Eb 12,24). Il valore di questa Alleanza Nuova sta nel fatto che essa rende possibile osservare la Parola: «Porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore» (Ger 31,33). «Ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli appartenga, pieno di zelo per le opere buone» (Tt 2,14).

27Perciò chiunque mangia il pane o beve al calice del Signore in modo indegno, sarà colpevole verso il corpo e il sangue del Signore. 28Ciascuno, dunque, esamini se stesso e poi mangi del pane e beva dal calice; 29perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna. 

v.27 Mangiare in modo indegno (anaxìos) è accostarsi alla mensa del Signore senza aver alcun riguardo per il corpo ecclesiale. Chi disprezza i poveri, manca di rispetto verso Cristo. Il partecipante deve esaminarsi per vedere se egli riconosce il corpo (ecclesiale) del Signore perché se, invece, crea divisioni e discriminazioni nei confronti dei più deboli, verrà condannato perché il Signore distrugge chi distrugge il suo tempio (Cf 1 Cor 3,17). 

v. 28 «Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l'abito nuziale. Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l'abito nuziale?”. Quello ammutolì» (Mt 22,11-12). 

30È per questo che tra voi ci sono molti ammalati e infermi, e un buon numero sono morti. 31Se però ci esaminassimo attentamente da noi stessi, non saremmo giudicati; 32quando poi siamo giudicati dal Signore, siamo da lui ammoniti per non essere condannati insieme con il mondo. 

Il giudizio del Signore si attua come pedagogia severa per evitare in seguito di dover condannare. «Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge il figlio, così il Signore, tuo Dio, corregge te» (Dt 8,5). «Egli ferisce e fascia la piaga, colpisce e la sua mano risana» (Gb 5,18). «Giorno e notte pesava su di me la tua mano, come nell'arsura estiva si inaridiva il mio vigore» (Sal 32,4). «Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto tanto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità» (1 Gv 1,9). «È per la vostra correzione che voi soffrite! Dio vi tratta come figli; e qual è il figlio che non viene corretto dal padre?» (Eb 12,7). «Sii vigilante, rinvigorisci ciò che rimane e sta per morire, perché non ho trovato perfette le tue opere davanti al mio Dio. Ricorda come hai ricevuto e ascoltato la Parola, custodiscila e convèrtiti perché, se non sarai vigilante, verrò come un ladro» (Ap 3,2-3). 

33Perciò, fratelli miei, quando vi radunate per la cena, aspettatevi gli uni gli altri. 34E se qualcuno ha fame, mangi a casa, perché non vi raduniate a vostra condanna. Quanto alle altre cose, le sistemerò alla mia venuta. 

Il comando finale riassume il messaggio esposto. Gli invitati alla cena del Signore devono aspettarsi e mangiare insieme. Alcuni, come gli schiavi, ad esempio, non potevano giungere sempre in tempo. Non era possibile che ci fossero persone sazie ed altre affamate. Paolo non raccomanda impegni eroici ma semplici accorgimenti di rispetto reciproco. L’esercizio della carità comincia dal poco. «Chiunque vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome, non perderà la sua ricompensa» (Mc 9,41). «Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare altri, ma che vi sia uguaglianza» (2 Cor 8,13). «La gioia sovrabbondante [delle Chiese della Macedonia] e la loro estrema povertà hnno sovrabbondato nella ricchezza della loro generosità» (2 Cor 8,2). 


domenica 20 luglio 2025

Libertà del cristiano


 

Esercizio della libertà cristiana

1 Corinzi capp. 8-10


Premessa: la libertà nella Sacra Scrittura

Nell’antichità, la società si divideva in liberi e schiavi: Il Levitico proibiva che un fratello israelita divenisse schiavo d’un altro: «Se il tuo fratello che è presso di te cade in miseria e si vende a te, non farlo lavorare come schiavo; sia presso di te come un bracciante, come un ospite. Essi sono infatti miei servi, che io ho fatto uscire dalla terra d’Egitto; non debbono essere venduti come si vendono gli schiavi. Non lo tratterai con durezza, ma temerai il tuo Dio. …Quanto allo schiavo e alla schiava che avrai in proprietà, potrete prenderli dalle nazioni che vi circondano. Potrete anche comprarne tra i figli degli stranieri stabiliti presso di voi e tra le loro famiglie che sono presso di voi. Li potrete lasciare in eredità ai vostri figli dopo di voi, come loro proprietà; vi potrete servire sempre di loro come di schiavi. Ma quanto ai vostri fratelli, gli Israeliti, nessuno dòmini sull’altro con durezza» (Lv 25, 39-46). 

Nel Nuovo Testamento il Signore ha affrancato tutti gli uomini e tutti sono stati resi di uguale dignità, partecipi dello Spirito: «Come infatti il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo. Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito» (1 Cor 12,13).

Dio si è rivelato liberando il suo popolo dalla schiavitù d’Egitto: «Di’ agli Israeliti: “Io sono il Signore! Vi sottrarrò ai lavori forzati degli Egiziani, vi libererò dalla loro schiavitù e vi riscatterò con braccio teso. Vi prenderò come mio popolo e diventerò il vostro Dio. Saprete che io sono il Signore, il vostro Dio, che vi sottrae ai lavori forzati degli Egiziani» (Es 6,6). «Ietro [suocero di Mosè] si rallegrò di tutto il bene che il Signore aveva fatto a Israele, quando lo aveva liberato dalla mano degli Egiziani. Disse Ietro: «Benedetto il Signore, che vi ha liberato dalla mano degli Egiziani e dalla mano del faraone: egli ha liberato questo popolo dalla mano dell’Egitto!» (Es 18,9-10). 

Libera il popolo affinché possa servirlo: «Perciò va’! Io ti [Mosè] mando dal faraone. Fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo, gli Israeliti!”. Io sarò con te. Questo sarà per te il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, servirete Dio su questo monte”» (Es 3,7-12). 

Secondo la promessa dei profeti, lo libera dai nemici (2), dalla paura (3), da ogni male (4), dal peccato (5) e dalla morte (6)

Secondo la promessa ai profeti: «Tu non temere, Giacobbe, mio servo– oracolo del Signore –, non abbatterti, Israele, perché io libererò te dalla terra lontana, la tua discendenza dalla terra del suo esilio. Giacobbe ritornerà e avrà riposo, vivrà tranquillo e nessuno lo molesterà, perché io sono con te per salvarti» (Ger 30,10-11). 

2. dai nemici: «Se è proprio di tutto cuore che voi tornate al Signore, eliminate da voi tutti gli dèi stranieri; indirizzate il vostro cuore al Signore e servite lui, lui solo, ed egli vi libererà dalla mano dei Filistei» (1 Sam 7,3). «Coraggio, figli miei, gridate a Dio, ed egli vi libererà dall’oppressione e dalle mani dei nemici. Una grande gioia mi è venuta dal Santo, per la misericordia che presto vi giungerà» (Bar 4,21.22).

Ciò che il Signore compie per tutto il popolo, lo compie anche per le singole persone: «Mi assalivano da ogni parte e nessuno mi aiutava; mi rivolsi al soccorso degli uomini, e non c’era. Allora mi ricordai della tua misericordia, Signore, e dei tuoi benefici da sempre, perché tu liberi quelli che sperano in te e li salvi dalla mano dei nemici» (Sir 51,8). Nemici del profeta possono essere gli Israeliti stessi: «Di fronte a questo popolo io ti renderò come un muro durissimo di bronzo; combatteranno contro di te, ma non potranno prevalere, perché io sarò con te per salvarti e per liberarti» (Ger 15,20). 

3. dalla paura: «Invocami nel giorno dell’angoscia. Ti libererò e tu mi darai gloria» (Sal 50,15). «Lo libererò, perché a me si è legato, lo porrò al sicuro, perché ha conosciuto il mio nome. Mi invocherà e io gli darò risposta; nell’angoscia io sarò con lui, lo libererò e lo renderò glorioso» (Sal 91,14). 

4. da ogni male: «Non dire: “Renderò male per male”; confida nel Signore ed egli ti libererà» (Pr 20,22). «Infatti chi si volgeva a guardarlo (il Serpente di bronzo) era salvato non per mezzo dell’oggetto che vedeva, ma da te, salvatore di tutti. Anche in tal modo hai persuaso i nostri nemici che sei tu colui che libera da ogni male» (Sap 16,7-8). 

5. dal peccato: «[La Sapienza] non abbandonò il giusto venduto, ma lo liberò dal peccato. Scese con lui nella prigione, non lo abbandonò mentre era in catene» (Sap 10,13-14). 

6. dalla morte: «I tesori male acquistati non giovano, ma la giustizia libera dalla morte» (Pr 10,2). «Non giova la ricchezza nel giorno della collera ma la giustizia libera dalla morte» (Pr 11,4). 

Gesù rompe con l’idea del liberatore politico atteso per operare una liberazione più profonda. Distruggendo l’unico e reale oppressore dell’uomo, il diavolo. 

«Poiché dunque i figli hanno in comune il sangue e la carne, anche Cristo allo stesso modo ne è divenuto partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo» (Eb 2,14). 

Gesù libera dal peccato e dalla morte: 

Dal peccato: «Gesù allora disse a quei Giudei che gli avevano creduto: “Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”. Gli risposero: “Noi siamo discendenti di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi dire: “Diventerete liberi”?”. Gesù rispose loro: “In verità, in verità io vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato. Ora, lo schiavo non resta per sempre nella casa; il figlio vi resta per sempre. Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero”» (Gv 8,31-36). «Io trovo in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti nel mio intimo acconsento alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che combatte contro la legge della mia ragione e mi rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra. Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!» (Rm 7,21-25). 

Dalla morte: «Abbiamo addirittura ricevuto su di noi la sentenza di morte, perché non ponessimo fiducia in noi stessi, ma nel Dio che risuscita i morti. Da quella morte però egli ci ha liberato e ci libererà, e per la speranza che abbiamo in lui ancora ci libererà, grazie anche alla vostra cooperazione nella preghiera per noi» (2 Cor 1,9-11). 

Stabilisce i salvati nell’autentica libertà:

«Il Signore è lo Spirito e, dove c’è lo Spirito del Signore, c’è la libertà» (2 Cor 3,17). ). «Anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8,21). «Abbiamo la libertà di accedere a Dio in piena fiducia mediante la fede in lui [Cristo]» (Ef 3,12; Cf Eb 10,19). 

«Con discorsi arroganti e vuoti e mediante sfrenate passioni carnali adescano quelli che da poco si sono allontanati da chi vive nell’errore. Promettono loro libertà, mentre sono essi stessi schiavi della corruzione. L’uomo infatti è schiavo di ciò che lo domina. Se infatti, dopo essere sfuggiti alle corruzioni del mondo per mezzo della conoscenza del nostro Signore e salvatore Gesù Cristo, rimangono di nuovo in esse invischiati e vinti, la loro ultima condizione è divenuta peggiore della prima» (2 Pt 2, 18-20). 

Il popolo può servire il suo Creatore realizzando se stesso pienamente nella carità:

«Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri» (Gal 5,13). «Non sapete che, se vi mettete a servizio di qualcuno come schiavi per obbedirgli, siete schiavi di colui al quale obbedite: sia del peccato che porta alla morte, sia dell’obbedienza che conduce alla giustizia? Rendiamo grazie a Dio, perché eravate schiavi del peccato, ma avete obbedito di cuore a quella forma di insegnamento alla quale siete stati affidati. Così, liberati dal peccato, siete stati resi schiavi della giustizia» (Rm 6,16-18). «Questa è la volontà di Dio: che, operando il bene, voi chiudiate la bocca all’ignoranza degli stolti, come uomini liberi, servendovi della libertà non come di un velo per coprire la malizia, ma come servi di Dio» (1 Pt 2,15-16). 

In sintesi, la libertà è una liberazione dai mali che afliggono l’uomo ma soprattutto è partecipazione alla carità di Dio


Capitolo 8

La libertà intesa come partecipazione alla carità stessa che è Dio compare soprattutto nei capitoli 8-11 della prima lettera ai Corinti. L’occasione gli viene offerta dalla necessità intervenire nel dibattito sorto nella comunità circa la leicità del consumo delle carni che erano state offerte alle divinità (eidolothyton) nei sacrifici pagani. Tutti i membri della comunità avevano abbandonato il culto degli Dei e credevano nell’esistenza d’un unico Dio. Sul piano pratico, alcuni, non avevano esitazione alcuna a «stare a tavola in un tempio di idoli» (v.10) senza voler venerare alcuna divinità, ma soltanto per nutrirsi di carne a buon prezzo. Altri, tuttavia, rimanevano turbati nel vedere dei compagni di fede banchettare nei templi. Questi fedeli più scrupolosi vengono denominati deboli (1 Cor 8,11).

1Riguardo alle carni sacrificate agli idoli, so che tutti ne abbiamo conoscenza. Ma la conoscenza riempie di orgoglio, mentre l’amore edifica. 2Se qualcuno crede di conoscere qualcosa, non ha ancora imparato come bisogna conoscere. 

Paolo proibisce la partecipazione ai sacrifici idolatrici ma consente di mangiare la carne avanzata dai banchetti e messa sul mercato. I cristiani più colti ed avveduti deridevano le esitazioni di quelli che erano bloccati nell’incertezza e li disprezzavano. La loro convinzione li rendeva sicuri di sé, forse troppo sicuri, mentre avrebbero dovuto usare nei confronti dei “deboli” un sentimento di comprensione. La loro sicurezza si trasformava in orgoglio mentre soltanto la carità edifica la comunità. Non basta coltivare buone idee ma bisogna diventare persone sensibili nei confronti delle difficoltà o debolezze altrui. Questa attenzione misericordiosa costituisce la vera conoscenza. «Hai visto un uomo che è saggio ai suoi occhi? C’è più da sperare da uno stolto che da lui» (Pr 26,12). 

3Chi invece ama Dio, è da lui conosciuto.

È necessario, prima di tutto, conoscere (ossia amare) il Signore e costruire su questo amore relazioni serene con gli altri. In realtà, quando lo amiamo, siamo già stati riconosciuti ed amati da Lui: «Ora avete conosciuto Dio, anzi è Dio che vi conosce» (Gal 4,9). «Disse il Signore a Mosè: hai trovato grazia ai miei occhi e ti ho conosciuto per nome”» (Es 33,17). Vale a dire: tu hai la mia piena fiducia, perché Io [il Signore] ti conosco bene!

«Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me» (Gv 10,14). «Quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo» (Rm 8,29). «Le solide fondamenta gettate da Dio resistono e portano questo sigillo: Il Signore conosce quelli che sono suoi, e ancora: Si allontani dall'iniquità chiunque invoca il nome del Signore» (2 Tm 2,19). 

4Riguardo dunque al mangiare le carni sacrificate agli idoli, noi sappiamo che non esiste al mondo alcun idolo e che non c’è alcun dio, se non uno solo. 

Nel suo intervento, Paolo comincia col ribadire la comune convinzione di fede circa l’inesistenza delle divinità. Gli Ebrei da lungo tempo erano radicati nel monoteismo: «Il Signore (YHWH) è il nostro Dio, unico è il Signore» (Dt 6,4). Voi siete miei testimoni: c’è forse un dio fuori di me o una roccia che io non conosca?» (Is 44,8). «Quelli che servono idoli falsi abbandonano il loro amore» (Gio 2,9). I profeti, ripetutamente, avevano contestato il culto delle divinità: «Quando alzi gli occhi al cielo e vedi il sole, la luna, le stelle e tutto l’esercito del cielo, tu non lasciarti indurre a prostrarti davanti a quelle cose e a servirle; cose che il Signore, tuo Dio, ha dato in sorte a tutti i popoli che sono sotto tutti i cieli. Voi, invece, il Signore vi ha presi, vi ha fatti uscire dal crogiuolo di ferro, dall’Egitto, perché foste per lui come popolo di sua proprietà, quale oggi siete» (Dt 4,19-20). 

Gli apostoli ripresero il loro annuncio veritiero: «Non dobbiamo pensare che la divinità sia simile all’oro, all’argento e alla pietra, che porti l’impronta dell’arte e dell’ingegno umano. Ora Dio, passando sopra ai tempi dell’ignoranza, ordina agli uomini che tutti e dappertutto si convertano» (At 17,29-30). 

5In realtà, anche se vi sono cosiddetti dèi sia nel cielo che sulla terra – e difatti ci sono molti dèi e molti signori –, 6per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore, Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo grazie a lui. 

Precisa ancora meglio il contenuto della fede comune. Secondo lui esiste un unico vero Dio, ma, in sintonia con alcune credenze giudaiche del tempo, egli è convinto dell’esistenza di esseri superiori angelici o demoniaci, situati tra Dio e il mondo. Questi esseri, tuttavia, non sono paragonabili a Dio, in quanto sue creature, e ad essi non doveva essere attribuito alcun culto. 

I fedeli fondano la loro esistenza sulla fede nell’unico Dio che si è rivelato come Padre. «Non abbiamo forse tutti noi un solo padre? Forse non ci ha creati un unico Dio?» (Ml 2,10). Sanno che tutti provenivano da lui e che sarebbero tornati a lui. «Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti» (Ef 4,6).

Questo sentimento era già presente presso gli Ebrei ma i cristiani avevano un altro riferimento importante: Gesù, proclamato come Messia (Cristo). «[I profeti], quei santi uomini soffrirono anche persecuzioni, sostenuti dalla sua grazia, per convincere gli increduli che c’è un solo Dio e che egli si sarebbe manifestato per mezzo del Messia, cioè di Gesù Cristo, suo Figlio, che è il suo Verbo uscito dal silenzio. Questi piacque in ogni cosa a colui che l’aveva mandato» (Ignazio di Antiochia, Magnesii 6,1-9). Il Padre ha fatto conoscere se stesso per mezzo del Figlio. Paolo lo colloca al di sopra di ogni creatura in quanto è collaboratore di Dio nella creazione e noi esistiamo grazie a lui. «Tutto è stato fatto per mezzo di lui [il Verbo] e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste» (Gv 1,3). «Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui» (Col 1,11). Egli riceve il titolo di Signore, un titolo che lo accomuna al Padre e, come tale, è anche il nostro Salvatore: «È il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano» (Rm 10,12). Ormai Dio entra in comunione con noi mediante Gesù Signore: «in lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità (cf Col 2,9) e perciò i battezzati non vivono più per se stessi ma per Colui che è morto e risorto per loro (cf 2 Cor 5,15). 

7Ma non tutti hanno la conoscenza; alcuni, fino ad ora abituati agli idoli, mangiano le carni come se fossero sacrificate agli idoli, e così la loro coscienza, debole com’è, resta contaminata. 

Dopo aver ribadito il nucleo della fede, torna a considerare la pratica di vita. Secondo alcuni cristiani più scrupolosi che avevano abbandonato da poco i culti idolatrici, mangiare le carni dei sacrifici era compiere un atto idolatrico e quindi nessuno doveva indurli a fare questo con le parole o con il comportamento. 

Paolo aveva scorto un problema simile a proposito dell’alimentazione in generale. Alcuni consideravano impuri determinati alimenti, mentre altri non tenevano più conto di queste distinzioni e si nutrivano di qualsiasi genere di cibo, ma, così facendo, ferivano la coscienza dei primi. Seguendo le loro convinzioni, di per sé realmente più mature, non badavano a far soffrire gli altri meno evoluti. Paolo dichiara: «Io so, e ne sono persuaso nel Signore Gesù, che nulla è impuro in se stesso; ma se uno ritiene qualcosa come impuro, per lui è impuro. Ora se per un cibo il tuo fratello resta turbato, tu non ti comporti più secondo carità. Non mandare in rovina con il tuo cibo colui per il quale Cristo è morto!» (Rm 14,14-15). 

8Non sarà certo un alimento ad avvicinarci a Dio: se non ne mangiamo, non veniamo a mancare di qualcosa; se ne mangiamo, non ne abbiamo un vantaggio. 

Non attribuisce alcuna importanza alle regole alimentari, seguendo l’insegnamento di Gesù che dichiarava puro ogni alimento «“Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può renderlo impuro, perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e va nella fogna?”. Così rendeva puri tutti gli alimenti. E diceva: “Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male» (Mc 7,20-23). «Il regno di Dio infatti non è cibo o bevanda, ma giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo» (Rm 14.17). «Se siete morti con Cristo agli elementi del mondo, perché, come se viveste ancora nel mondo, lasciarvi imporre precetti quali: “Non prendere, non gustare, non toccare”? Sono tutte cose destinate a scomparire con l’uso, prescrizioni e insegnamenti di uomini, che hanno una parvenza di sapienza con la loro falsa religiosità e umiltà e mortificazione del corpo, ma in realtà non hanno alcun valore se non quello di soddisfare la carne» (Col 2,20-23). 

9Badate però che questa vostra libertà non divenga occasione di caduta per i deboli. 10Se uno infatti vede te, che hai la conoscenza, stare a tavola in un tempio di idoli, la coscienza di quest’uomo debole non sarà forse spinta a mangiare le carni sacrificate agli idoli? 

Non basta essere certi in coscienza della bontà del proprio agire e sostenere opinioni liberanti ma è necessario che questa mentalità non ferisca la coscienza di un fratello che non ha ancora maturato le stesse convinzioni. «Cerchiamo dunque ciò che porta alla pace e alla edificazione vicendevole. Non distruggere l’opera di Dio per una questione di cibo! Tutte le cose sono pure; ma è male per un uomo mangiare dando scandalo. Perciò è bene non mangiare carne né bere vino né altra cosa per la quale il tuo fratello possa scandalizzarsi. La convinzione che tu hai, conservala per te stesso davanti a Dio. Beato chi non condanna se stesso a causa di ciò che approva. Ma chi è nel dubbio, mangiando si condanna, perché non agisce secondo coscienza; tutto ciò, infatti, che non viene dalla coscienza è peccato» (Rm 14,19-23). 

«Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema?» (2 Cor 11,29). «Siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri» (Gal 5,13). «Questa è la volontà di Dio: che, operando il bene, voi chiudiate la bocca all’ignoranza degli stolti, come uomini liberi, servendovi della libertà non come di un velo per coprire la malizia, ma come servi di Dio» (1 Pt 2,15-16). 

11Ed ecco, per la tua conoscenza, va in rovina il debole, un fratello per il quale Cristo è morto! 12Peccando così contro i fratelli e ferendo la loro coscienza debole, voi peccate contro Cristo. 13Per questo, se un cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò mai più carne, per non dare scandalo al mio fratello. 

La conoscenza (il sapere che l’idolo non è nulla) non deve diventare motivo di rovina spirituale per il fratello più debole. La libertà, se esercitata con orgoglio e senza amore, può compromettere la fede di chi è più fragile. È un paradosso tragico: Cristo è morto per lui, e tu lo rovini per il tuo sapere. Ferire un fratello nella sua coscienza equivale a peccare contro Cristo stesso. L'identificazione tra Cristo e il fratello debole richiama il Vangelo (cf. Mt 25,40). 

Questo ci ricorda che la comunione ecclesiale non è solo teorica: ciò che facciamo al fratello, lo facciamo a Cristo. «Chi accoglie voi, accoglie me» (Mt 10,40). L’amore per il fratello viene prima della libertà personale; occorre rinunciare per sempre ad un diritto, pur di non scandalizzare. Questo è l’esempio di una libertà che si fa servizio, tipica del Vangelo. «Chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti» (Mc 10,43-44). La coscienza altrui va rispettata, e la libertà non è mai assoluta, ma relazionale e responsabile. L’amore cristiano consiste in scelte concrete a favore degli altri, anche se costose. È necessario evitare comportamenti che, pur essendo in sé leciti, possano indebolire la fede altrui. Non usare la libertà come un’arma. 

Capitolo 9

Paolo spiega ai fedeli in che modo esercitare la libertà cristiana. Pur essendo libero, si è fatto servo di tutti. Non ha cercato il suo vantaggio ma quello degli altri e, di conseguenza, si è sempre adattato alla mentalità delle persone che incontra per non ferirle (purché questo adattamento non fosse un consenso al male). Soprattutto ha rinunciato perfino ai propri diritti e ai propri legittimi vantaggi, se questa rinuncia avesse favorito l’annuncio del Vangelo. 

9 1Non sono forse libero, io? Non sono forse un apostolo? Non ho veduto Gesù, Signore nostro? E non siete voi la mia opera nel Signore? 2Anche se non sono apostolo per altri, almeno per voi lo sono; voi siete nel Signore il sigillo del mio apostolato. 

Compare una serie di domande retoriche attraverso le quali evidenzia il suo stile di vita. È un uomo libero ma si fa servo. 

Rivendica, poi, il mandato di apostolo anche se non apparteneva al gruppo dei Dodici e degli altri discepoli che avevano conosciuto Gesù. Egli infatti ha visto il Risorto ed è stato accredidato da lui: «Il Vangelo da me annunciato non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo» (Gal 1,12; cf. At 9,3-5; 22,17-21). 

L’esistenza della comunità di Corinto è una prova tangile che egli è un vero missionario, in grado di suscitare dei credenti. «Cominciamo di nuovo a raccomandare noi stessi? O abbiamo forse bisogno, come alcuni, di lettere di raccomandazione per voi o da parte vostra? La nostra lettera siete voi, lettera scritta nei nostri cuori, conosciuta e letta da tutti gli uomini. È noto infatti che voi siete una lettera di Cristo composta da noi, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma su tavole di cuori umani. Proprio questa è la fiducia che abbiamo per mezzo di Cristo, davanti a Dio» (2 Cor 3,1-4).

3La mia difesa contro quelli che mi accusano è questa: 4non abbiamo forse il diritto di mangiare e di bere? 

I missionari erano mantenuti dalle comunità che li ospitavano. Gesù aveva detto ai discepoli inviati da lui: «Restate in quella casa [che vi ospita], mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto» (Lc 10,7.8). Paolo sostiene questa prassi: «Chi viene istruito nella Parola, condivida tutti i suoi beni con chi lo istruisce» (Gal 6,6). 

Egli, però, talora, non ha voluto servirsi di questo diritto suscitando ammirazione ma anche delle critiche pretestuose (v. 15). «Paolo lasciò Atene e si recò a Corinto. Qui trovò un Giudeo di nome Aquila, nativo del Ponto, arrivato poco prima dall’Italia, con la moglie Priscilla, in seguito all’ordine di Claudio che allontanava da Roma tutti i Giudei. Paolo si recò da loro e, poiché erano del medesimo mestiere, si stabilì in casa loro e lavorava. Di mestiere, infatti, erano fabbricanti di tende. Ogni sabato poi discuteva nella sinagoga e cercava di persuadere Giudei e Greci» (At 18,1-4). Il fatto di dover lavorare, lo considera una tribolazione aggiuntiva (cf 1 Cor 4,12). 

In altri casi, pur restando fedele alla sua decisione di lavorare con le sue mani, si è fatto aiutare da altri: «Ho provato grande gioia nel Signore perché finalmente avete fatto rifiorire la vostra premura nei miei riguardi… So vivere nella povertà come so vivere nell’abbondanza; sono allenato a tutto e per tutto, alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza. Tutto posso in colui che mi dà la forza. Avete fatto bene tuttavia a prendere parte alle mie tribolazioni. Lo sapete anche voi, Filippesi, che all’inizio della predicazione del Vangelo, quando partii dalla Macedonia, nessuna Chiesa mi aprì un conto di dare e avere, se non voi soli; e anche a Tessalònica mi avete inviato per due volte il necessario. Non è però il vostro dono che io cerco, ma il frutto che va in abbondanza sul vostro conto. Ho il necessario e anche il superfluo; sono ricolmo dei vostri doni ricevuti da Epafrodìto, che sono un piacevole profumo, un sacrificio gradito, che piace a Dio. Il mio Dio, a sua volta, colmerà ogni vostro bisogno secondo la sua ricchezza con magnificenza, in Cristo Gesù» (Fil 4,10-19).

5Non abbiamo il diritto di portare con noi una donna credente, come fanno anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa? 

Nel corso della sua predicazione, alcune donne accompagnavano il gruppo di Gesù con i Dodici «e li servivano con i loro beni» (Lc 8,3). 

6Oppure soltanto io e Bàrnaba non abbiamo il diritto di non lavorare? 7E chi mai presta servizio militare a proprie spese? Chi pianta una vigna senza mangiarne il frutto? Chi fa pascolare un gregge senza cibarsi del latte del gregge? 

Paolo e il collaboratore Barnaba avrebbero avuto il diritto di farsi mantenere dalle comunità perché la predicazione rappresentava il lavoro per mezzo del quale avrebbero potuto sostentarsi. Gli apostoli hanno gli stessi diritti di altri lavoratori, come i soldati, i viticoltori o i pastori che si guadagnano da vivere con il loro lavoro. Paolo e Barnaba, tuttavia, hanno rinunciato a questo diritto per sembrare più credibili ai loro interlocutori e favorire così l’evangelizzazione. Anche i fedeli dovrebbero rinunciare al diritto di mangiare carni sacrificate agli idoli per venire incontro a quelli che, turbati e scandalizzati di questa consumazione, potrebbe ricadere nell’idatria pagana.

8Io non dico questo da un punto di vista umano; è la Legge che dice così. 9Nella legge di Mosè infatti sta scritto: Non metterai la museruola al bue che trebbia. Forse Dio si prende cura dei buoi? 10Oppure lo dice proprio per noi? Certamente fu scritto per noi. Poiché colui che ara, deve arare sperando, e colui che trebbia, trebbiare nella speranza di avere la sua parte. 

Cita Deuteronomio 25,4 ("Non metterai la museruola al bue che trebbia") e lo interpreta in senso allegorico. Non nega il senso letterale del versetto, ma ne trae un principio più profondo: se anche agli animali che lavorano va riconosciuto un sostentamento, quanto più ciò vale per chi lavora per il Vangelo. 

11Se noi abbiamo seminato in voi beni spirituali, è forse gran cosa se raccoglieremo beni materiali? 12Se altri hanno tale diritto su di voi, noi non l’abbiamo di più? Noi però non abbiamo voluto servirci di questo diritto, ma tutto sopportiamo per non mettere ostacoli al vangelo di Cristo. 13Non sapete che quelli che celebrano il culto, dal culto traggono il vitto, e quelli che servono all’altare, dall’altare ricevono la loro parte? 14Così anche il Signore ha disposto che quelli che annunciano il Vangelo vivano del Vangelo. 15Io invece non mi sono avvalso di alcuno di questi diritti, né ve ne scrivo perché si faccia in tal modo con me; preferirei piuttosto morire. Nessuno mi toglierà questo vanto!

Con l’espressione "abbiamo seminato in voi beni spirituali", Paolo fa riferimento alla predicazione del Vangelo, che è un bene immateriale. Ricevere in cambio un compenso materiale è lecito e giusto. Sorprende il fatto che, pur avendone pieno diritto, rinunci volontariamente al sostegno economico per non creare intralcio al Vangelo di Cristo. Teme che questa richiesta possa essere fraintesa finendo con l’ostacolare il cammino di qualcuno verso la fede. È un modello di gratuità radicale. Non rifiuta la prassi che i ministri debbano essere sostenuti, ma, da parte sua, preferisce un annuncio del Vangelo che sia libero da ogni sospetto di interesse. Mostra l’aspetto paradossale della libertà cristiana: non è soltanto difesa ed esercizio dei propri diritti o affermazione dei propri bisogni, ma anche capacità di rinunciare ad essi favorire gli altri. Infine, non bisogna sottovalutare il valore del ministero, ma chi lavora per il Vangelo merita rispetto e sostegno, anche materiale.

16Infatti annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo! 17Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato. 18Qual è dunque la mia ricompensa? Quella di annunciare gratuitamente il Vangelo senza usare il diritto conferitomi dal Vangelo. 

Egli esprime il significato più profondo della sua missione, la quale non è derivata da una scelta personale, ma da un incarico ricevuto dal Signore stesso, a sua sorpresa. Il termine “ananke” indica un destino, una risposta ad una superiore azione di Dio. 

Guai a me! È un modo di parlare dei profeti: se si rifiutasse, agirebbe in modo contrario al volere di Dio e incontrerebbe la sua opposizione. 

Se evangelizzasse per sua iniziativa, avrebbe diritto ad essere ricompensato ma, poiché è stato come costretto dal Signore che lo ha chiamato, può desiderare soltanto di eseguire quanto gli è stato richiesto. In altre parole, non cerca né riconoscimenti né guadagni ma soltanto di dare compimento al mandato che gli è stato affidato. 

Nel vivere con estrema generosità, trova una grande ricompensa. L’amore è ricompensa a se stesso. Si mostra una persona totalmente libera perché è libero anche da se stesso. 

19Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero: 20mi sono fatto come Giudeo per i Giudei, per guadagnare i Giudei. Per coloro che sono sotto la Legge – pur non essendo io sotto la Legge – mi sono fatto come uno che è sotto la Legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono sotto la Legge. 21Per coloro che non hanno Legge – pur non essendo io senza la legge di Dio, anzi essendo nella legge di Cristo – mi sono fatto come uno che è senza Legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono senza Legge. 

La libertà cristiana è così paradossale che può tramutarsi in schiavitù pur di rendere libero il fratello. Quando si trova insieme ai fratelli ebrei, osserva tutte le prescrizioni che essi osservano, anche quelle che, di per sé, considera non più necessarie, pur di eliminare ogni occasione di scandalo ed aiutarli, così, ad accogliere Cristo. Quando si trova con i pagani, non li obbliga ad assumere certe norme cultuali che vigono tra gli ebrei, per non imporre loro un giogo troppo pesante che li distoglierebbe dall’aderire a Cristo. Questo non significa che trascuri di adempiere i comandamenti di Dio, così come li ha interpretati Gesù. 

Vediamo un caso in cui Paolo adempie delle osservanze ebraiche pur di non sconvolgere la comunità giudeo-cristiana. Giacomo, responsabile della comunità giudeo cristiana di Gerusalemme gli suggerisce: «Tu vedi, fratello, quante migliaia di Giudei sono venuti alla fede e sono tutti osservanti della Legge. Ora, hanno sentito dire di te che insegni a tutti i Giudei sparsi tra i pagani di abbandonare Mosè, dicendo di non circoncidere più i loro figli e di non seguire più le usanze tradizionali. Che facciamo? Fa’ dunque quanto ti diciamo. Vi sono fra noi quattro uomini che hanno fatto un voto. Prendili con te, compi la purificazione insieme a loro e paga tu per loro perché si facciano radere il capo. Così tutti verranno a sapere che non c’è nulla di vero in quello che hanno sentito dire, ma che invece anche tu ti comporti bene, osservando la Legge» (At 21,20-24). 

22Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno. 23Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io. 

«Noi, che siamo i forti, abbiamo il dovere di portare le infermità dei deboli, senza compiacere noi stessi. Ciascuno di noi cerchi di piacere al prossimo nel bene, per edificarlo. Anche Cristo infatti non cercò di piacere a se stesso, ma, come sta scritto: Gli insulti di chi ti insulta ricadano su di me» (Rm 15,1). «Oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese. Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema?» (2 Cor 11,28). «Io sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna» (2 Tm 2,10). 

24Non sapete che, nelle corse allo stadio, tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! 

Ricorre spesso ad immagini attinte dall’atletica, considerando l’attenzione che essa godeva nell’antichità: «So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù» (Fil 3,13-14). «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno» (2 Tm 4,2-8). «Anche noi dunque, circondati da tale moltitudine di testimoni, avendo deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento» (Eb 12,1-2). 

25Però ogni atleta è disciplinato in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona che appassisce, noi invece una che dura per sempre. 

Il cristiano, come ogni valido atleta, è disciplinato in tutto (panta enkrateuetai). L’uomo peccatore distoglie da Dio il suo desiderio e lo volge alle cose, alle persone, avendo per dio il proprio ventre. Lo attesta la parabola del ricco che indossa vestiti di porpora e ogni giorno banchetta lautamente (cf Lc 16,19). 

Cerca sempre la gratificazione. Lo attesta il comportamento della «gente raccogliticcia» che accompagnava Israele e lo coinvolge nella cupidigia: «fu presa da grande bramosia, e anche gli Israeliti ripresero a piangere e dissero: “Chi ci darà carne da mangiare? Ci ricordiamo dei pesci che mangiavamo in Egitto gratuitamente, dei cetrioli, dei cocomeri, dei porri, delle cipolle e dell’aglio. Ora la nostra gola inaridisce; non c’è più nulla, i nostri occhi non vedono altro che questa manna» (Nm 11,4-6). Il governatore pagano Felice, che si mostrava ben disposto verso l’apostolo, non appena sentì Paolo parlare «di giustizia, di continenza e del giudizio futuro «si spaventò» (At 24,25) e preferisce continuare ad accumulare denaro. 

Con la conversione al Vangelo, finisce «il tempo trascorso nel soddisfare le passioni dei pagani, vivendo nei vizi, nelle cupidigie, nelle orge…» (1 Pt 4,3), perché «tutto quello che è nel mondo [malvagio], non viene dal Padre» (1 Gv 2,16). 

Il credente promette: sebbene tutto possa essere lecito, «non mi lascerò dominare da nulla» (1 Cor 6,12). Si propone questo proprio perché s’accorge che anche in lui è presente la bramosia del ricco (Cf 11 Cor 11,21). Soprattutto sa di essere stato liberato dalla grazia: «tutti noi un tempo siamo vissuti nelle nostre passioni carnali seguendo le voglie della carne e dei pensieri cattivi… Ma Dio, ricco di misericordia, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete salvati» (Ef 2,3-5).

La temperanza rende equilibrato l’uso dei beni creati,e garantisce anche la salute: «Figlio, per tutta la tua vita esamina te stesso, vedi quello che ti nuoce e non concedertelo. Difatti non tutto conviene a tutti… Non essere ingordo per qualsiasi ghiottoneria e non ti gettare sulle vivande, perché l’abuso dei cibi causa malattie e l’ingordigia provoca le coliche. Molti sono morti per ingordigia, chi invece si controlla vivrà a lungo» (Sir 37,27-31). 

Il saggio non asseconda le passioni perché accoglie l’avvertimento: «se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete» (Rm 8,13). «Vi esorto ad astenervi dai cattivi desideri della carne, che fanno guerra all’anima» (1 Pt 2,11). «Sta’ lontano dalle passioni della gioventù; cerca la giustizia, la fede, la carità, la pace, insieme a quelli che invocano il Signore con cuore puro. Un servo del Signore non deve essere litigioso, ma mite con tutti, capace di insegnare, paziente, dolce nel rimproverare quelli che gli si mettono contro, nella speranza che Dio conceda loro di convertirsi, perché riconoscano la verità e rientrino in se stessi, liberandosi dal laccio del diavolo, che li tiene prigionieri perché facciano la sua volontà» (2 Tm 2,22-26). 

Il sapiente cerca di raggiungere il dominio di sé (enkrateia), una virtù denominata anche sobrietà, contando sull’aiuto dello Spirito Santo: «Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, benevolenza, mitezza e dominio di sé» (Gal 5,22; cf Tt 1,8). 

Per conservare il dominio di sé, l’apostolo tratta duramente il suo corpo e lo riduce in schiavitù (1 Cor 9,27). Usa una terminologia attinta dal pugilato: colpisco il mio corpo sotto gli occhi (ypopiazo). Il pugile vincitore trascinava il vinto davanti al pubblico e, in modo simile, egli riduce in suo potere il suo corpo per non perdere se stesso. 

La sobrietà favorisce la vita interiore dello Spirito perché rende ben armati: «Noi siamo sobri, vestiti con la corazza della fede e della carità. E avendo come elmo la speranza della salvezza» (1 Ts 5,8). Facilita la perseveranza nella preghiera: «Siate moderati e sobri, per dedicarvi alla preghiera» (1 Pt 4,7). 

Il credente, tuttavia, non è una persona tesa solamente alla repressione dei desideri, ma è orientata al Signore, sommo bene che fornisce un appagamento oportuno. «Gustate e vedete com’è buono il Signore!» (Sal 34,9) «Egli appagò il loro desiderio» (Sal 78,29). «Il Signore ti circonda di bontà e misericordia, sazia di beni la tua vecchiaia, si rinnova come aquila la tua giovinezza» (Sal 103,4-5). 

26Io dunque corro, ma non come chi è senza mèta; faccio pugilato, ma non come chi batte l’aria; 27anzi tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù, perché non succeda che, dopo avere predicato agli altri, io stesso venga squalificato

«È Cristo che noi annunciamo, ammonendo ogni uomo e istruendo ciascuno con ogni sapienza, per rendere ogni uomo perfetto in Cristo. Per questo mi affatico e lotto, con la forza che viene da lui e che agisce in me con potenza» (Col 1,28-29). 

Capitolo 10

1Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, 2tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel mare, 3tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, 4tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo. 5Ma la maggior parte di loro non fu gradita a Dio e perciò furono sterminati nel deserto. 

Il rischio più grave in cui possono incorrere i cristiani di Corinto è la ricaduta nell’idolatria e per questo, imitando l’agire dell’apostolo, tutti dovrebbero rinunciare a consumare nei templi le carni offerte nei sacrifici. Essi sono già stati salvati ma questa salvezza non è sicura e definitiva perché è possibile per loro ricadere nella schiavitù dalla quale erano stati liberati. È ciò che accadde agli Israeliti durante il cammino nel deserto verso la terra: pur essendo stati amati dal Signore e liberati da lui, non furono graditi a lui. Non riuscirono a raggiungere la meta, come avevano sperato. 

6Ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come essi le desiderarono.

«Hai aperto il mare davanti a loro… Li hai guidati di giorno con una colonna di nube e di notte con una colonna di fuoco, per rischiarare loro la strada su cui camminare. Sei sceso sul monte Sinai e hai parlato con loro dal cielo, e hai dato loro norme giuste e leggi sicure… Hai dato loro pane del cielo per la loro fame e hai fatto scaturire acqua dalla rupe per la loro sete, e hai detto loro di andare a prendere in possesso la terra che avevi giurato di dare loro. Ma essi, i nostri padri, si sono rifiutati di obbedire e non si sono ricordati dei tuoi prodigi, che tu avevi operato in loro favore; hanno indurito la loro cervice e nella loro ribellione si sono dati un capo per tornare alla loro schiavitù. Oggi eccoci schiavi; e quanto alla terra, ecco in essa siamo schiavi» (Ne 9,11-21.36). «Arsero di desiderio nel deserto e tentarono Dio nella steppa. Concesse loro quanto chiedevano e li saziò fino alla nausea» (Sal 106,14-15). «Affrettiamoci a entrare in quel riposo, perché nessuno cada nello stesso tipo di disobbedienza» (Eb 4,11). 

7Non diventate idolatri come alcuni di loro, secondo quanto sta scritto: Il popolo sedette a mangiare e a bere e poi si alzò per divertirsi. 8Non abbandoniamoci all’impurità, come si abbandonarono alcuni di loro e in un solo giorno ne caddero ventitremila. 9Non mettiamo alla prova il Signore, come lo misero alla prova alcuni di loro, e caddero vittime dei serpenti. 10Non mormorate, come mormorarono alcuni di loro, e caddero vittime dello sterminatore. 

«Guardai ed ecco, avevate peccato contro il Signore, vostro Dio. Avevate fatto per voi un vitello di metallo fuso: avevate ben presto lasciato la via che il Signore vi aveva prescritto. Allora afferrai le due tavole, le gettai con le mie mani, le spezzai sotto i vostri occhi e mi prostrai davanti al Signore» (Dt 9,16-18). «Noi sappiamo che siamo da Dio, mentre tutto il mondo sta in potere del Maligno. Sappiamo anche che il Figlio di Dio è venuto e ci ha dato l’intelligenza per conoscere il vero Dio. E noi siamo nel vero Dio, nel Figlio suo Gesù Cristo: egli è il vero Dio e la vita eterna. Figlioli, guardatevi dai falsi dèi!» (1 Gv 5,19-21). 

Abbandono all’impurità: cf Nm 25,5ss.; Mettere alla prova: Nm 21,5-6; mormorazione: Es 16,2 Nm 11,1. 

11Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi.

«Poiché quelli che per primi ricevettero il Vangelo non vi entrarono a causa della loro disobbedienza, Dio fissa di nuovo un giorno, oggi, dicendo mediante Davide, dopo tanto tempo: Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori!» (Eb 4,6-7). Spesso Paolo evidenzia l’opportunità di conoscere la Sacra Scrittura: «Tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione, perché, in virtù della perseveranza e della consolazione che provengono dalle Scritture, teniamo viva la speranza» (Rm 15,4). «Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, 17perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona» (2 Tm 3,16-17). 

Riguardo la fine dei tempi, Paolo è consapevole che la venuta di Gesù e l’evento della sua Pasqua ha segnato il cambiamento radicale del tempo. «Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto» (Mc 1,15). «Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: «È compiuto!». E, chinato il capo, consegnò lo spirito» (Gv 19,30). «Se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove» (2 Cor 5,7). «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio nel Vangelo» (Gal 4,4). «Ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso» (Eb 9,26). 

12Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere. 

Il cristiano che pensa di aver rotto in modo definitivo con l’idolatria, deve vigilare per non ricadere in essa. Più in generale, è un monito conto ogni forma di presunzione. Anche chi si sente saldo, può cadere se si illude di essere al sicuro da ogni pericolo. La fede non è un traguardo già raggiunto, ma un cammino che richiede attenzione costante. «Beato l’uomo che sempre teme» (Pro 28,14). 

13Nessuna tentazione, superiore alle forze umane, vi ha sorpresi; Dio infatti è degno di fede e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze ma, insieme con la tentazione, vi darà anche il modo di uscirne per poterla sostenere. 

Le tentazioni non sono prove estreme ma esperienze della nostra umanità. Chi viene tentato, deve contare sulla fedeltà di Dio che offre delle vie d’uscita. «Subito lo Spirito sospinse [Gesù] nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana» (Mc 1,12-13). «Nessuno, quando è tentato, dica: «Sono tentato da Dio»; perché Dio non può essere tentato al male ed egli non tenta nessuno. Ciascuno piuttosto è tentato dalle proprie passioni» (Gc 1,13-14). «Pregate per noi, perché veniamo liberati dagli uomini corrotti e malvagi. La fede infatti non è di tutti. Ma il Signore è fedele: egli vi confermerà e vi custodirà dal Maligno» (2 Ts 3,1). 

«Se uno viene sorpreso in qualche colpa, voi, che avete lo Spirito, correggetelo con spirito di dolcezza. E tu vigila su di te stesso, per non essere tentato anche tu» (Gal 6,1). «Se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso» (2 Tm 2,13). 

14Perciò, miei cari, state lontani dall’idolatria.15Parlo come a persone intelligenti. Giudicate voi stessi quello che dico: 16il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? 17Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane. 

Paolo porta un argomento decisivo per distogliere i cristiani dai banchetti offerti alle divinità. Nel culto cristiano, il battezzato si unisce al Cristo Risorto e ciò esclude che possa, poi, unirsi con i demoni nei banchetti idolatrici. I riti pagani non consentono ai partecipanti di entrare in comunione con le divinità da loro onorate poiché non esistono neppure ma, invece, li fanno entrare in contatto con i demoni che si nascondono dietro le divinità nei riti malefici. 

Il calice del ringraziamento della celebrazione eucaristica opera una comunione reale con il Cristo Risorto che ha versato il suo sangue sulla croce per tutti i commensali. I comunicandi, perciò, partecipano a tutti i benefici della sua morte salvifica. Lo stesso vale per la frazione del pane: i comunicandi si uniscono al Cristo Risorto, diventano una cosa sola con Lui e godono di tutti i benefici della sua Pasqua. Il Cristo Risorto configura a se stesso in tutti i partecipanti e perciò, nutrendosi di lui, nella specie dell’unico pane, diventano un solo organismo, membra vive del suo Corpo. La comunità cristiana diventa il corpo del Signore in primo luogo mediante la celebrazione eucaristica. 

«Come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione, così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e, ciascuno per la sua parte, siamo membra gli uni degli altri» (Rm 12,4-5). «Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28; cf Col 3,11).

18Guardate l’Israele secondo la carne: quelli che mangiano le vittime sacrificali non sono forse in comunione con l’altare? 19Che cosa dunque intendo dire? Che la carne sacrificata agli idoli vale qualcosa? O che un idolo vale qualcosa? 20No, ma dico che quei sacrifici sono offerti ai demòni e non a Dio. Ora, io non voglio che voi entriate in comunione con i demòni; 21non potete bere il calice del Signore e il calice dei demòni; non potete partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei demòni. 22O vogliamo provocare la gelosia del Signore? Siamo forse più forti di lui? 

Per spiegarsi meglio l'apostolo fa l'esempio dei banchetti sacrificali ebraici. Era scontato che in tali pasti sacri si rinvigorisce la comunione tra Dio, presentato simbolicamente dall'altare, e i fedeli che, dopo avergli offerto il sacrificio un animale, ne consumavano insieme resto della carne. Nei banchetti sacri del popolo d'Israele si stabiliva una comunione profonda degli offerenti tra loro e con Dio, e così avviene anche tra i cristiani e Cristo nella celebrazione memoriale della sua ultima cena. Ma allora come può un cristiano partecipare ai banchetti idolatrici dei pagani?

v. 18 Chiama il popolo ebraico «Israele secondo la carne», mentre la Chiesa rappresenta il popolo messianico (escatologico) di Dio che, non sostituisce il primo, ma ne rappresenta il compimento. Esso viene innestato nella radice santa dell’olivo Israele e i battezzati stanno fra gli altri rami (i giudeo-cristiani). «Se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa» (Gal 3,29).

v.20 I profeti avevano parlato di sacrifici offerti ai demoni che rendevano i sacrificanti malvagi come loro: «Hanno sacrificato a dèmoni che non sono Dio, a dèi che non conoscevano. La Roccia che ti ha generato, tu hai trascurato» (Dt 32,17). «Essi non ofriranno più i loro sacrifici ai satiri, ai quali sogliono prostituirsi» (Lev 17,7). «Il resto dell’umanità non si convertì dalle opere delle sue mani; non cessò di prestare culto ai demoni e agli idoli e non si convertì dagli omicidi né dalle stregonerie» (Ap 9,20-21). 

v. 21 «Elia si accostò a tutto il popolo e disse: “Fino a quando salterete da una parte all’altra? Se il Signore è Dio, seguitelo! Se invece lo è Baal, seguite lui!”» (1 Re 18,21). «Non lasciatevi legare al giogo estraneo dei non credenti. Quale rapporto infatti può esservi fra giustizia e iniquità, o quale comunione fra luce e tenebre? Quale intesa fra Cristo e Bèliar, o quale collaborazione fra credente e non credente? Quale accordo fra tempio di Dio e idoli? Noi siamo infatti il tempio del Dio vivente» (2 Cor 6,14-16). «Nessuno può servire due padroni» (Mt 6,24). 

v.22a «Il Signore tuo Dio è fuoco divoratore, un Dio geloso» (Dt 4,24). 

v.22b «Hai tu un braccio come quello di Dio e puoi tuonare con voce pari alla sua?» (Gb 40,9). 

23«Tutto è lecito!». Sì, ma non tutto giova. «Tutto è lecito!». Sì, ma non tutto edifica. 24Nessuno cerchi il proprio interesse, ma quello degli altri. 25Tutto ciò che è in vendita sul mercato mangiatelo pure, senza indagare per motivo di coscienza, 26perché del Signore è la terra e tutto ciò che essa contiene. 27Se un non credente vi invita e volete andare, mangiate tutto quello che vi viene posto davanti, senza fare questioni per motivo di coscienza. 28Ma se qualcuno vi dicesse: «È carne immolata in sacrificio», non mangiatela, per riguardo a colui che vi ha avvertito e per motivo di coscienza; 29della coscienza, dico, non tua, ma dell’altro. Per quale motivo, infatti, questa mia libertà dovrebbe essere sottoposta al giudizio della coscienza altrui? 30Se io partecipo alla mensa rendendo grazie, perché dovrei essere rimproverato per ciò di cui rendo grazie? 

Ritorna sull’argomento dal quale è iniziata la riflessione attuale: come deve comportarsi un fedele se gli viene offerta carne sacrificata agli idoli? Ha escluso in modo netto che un cristiano possa partecipare ai riti in onore delle divinità, ma non proibisce di consumare carni avanzate a questi sacrfici (e portate al mercato a prezzo ridotto), a meno che un altro non si scandalizzi di questa consumazione ritenendola una pratica idolatrica. Il cristiano è libero quando si lascia condizionare dalle difficoltà altrui evitando di imporre le proprie vedute, altrimenti rimane schiavo di se stesso e dei propri interessi. 

v. 23 Nella ripresa, cerca di rispondere alle obiezioni sollevate da parte di qualche fedele più libertario: tutto è lecito! L’apostolo non oppone altri principi per contrastare questo slogan libertario ma si limita ad osservare che non tutto però è utile e soprattutto osserva che un determinato agire non costruisce rapporti sereni, a prescindere dall’intenzione di chi opera. 

vv. 29-30 Sarebbe auspicabile che nessuno condizionasse un altro in modo pesante a motivo dei suoi scrupoli e che, dopo aver reso grazie a Dio, ogni commensale potesse mangiare con serenità qualsiasi alimento. Probabilmente, Paolo sarebbe d’accordo con questa prassi ma egli è mosso da un principio maggiormente improntata alla carità. «Ogni creazione di Dio è buona e nulla va rifiutato, se lo si prende con animo grato, perché esso viene reso santo dalla parola di Dio e dalla preghiera» (1 Tm 4,4). «C’è chi distingue giorno da giorno, chi invece li giudica tutti uguali; ciascuno però sia fermo nella propria convinzione. Chi si preoccupa dei giorni, lo fa per il Signore; chi mangia di tutto, mangia per il Signore, dal momento che rende grazie a Dio; chi non mangia di tutto, non mangia per il Signore e rende grazie a Dio» (Rm 14, 5-6). 

31Dunque, sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio. 

La gloria di Dio risplende in tutta la sua forza quando rifulge la carità e l’amore del prossimo diventa il criterio d’ogni scelta. «Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,16). «Qualunque cosa facciate, in parole e in opere, tutto avvenga nel nome del Signore Gesù, rendendo grazie per mezzo di lui a Dio Padre» (Col 3,17). «Chi parla, lo faccia con parole di Dio; chi esercita un ufficio, lo compia con l’energia ricevuta da Dio, perché in tutto sia glorificato Dio per mezzo di Gesù Cristo» (1 Pt 4,11). 

32Non siate motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla Chiesa di Dio; 33così come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare il mio interesse ma quello di molti, perché giungano alla salvezza.

«Quindi ciascuno di noi renderà conto di se stesso a Dio. D’ora in poi non giudichiamoci più gli uni gli altri; piuttosto fate in modo di non essere causa di inciampo o di scandalo per il fratello» (Rm 14,12-13). «Da parte nostra non diamo motivo di scandalo a nessuno, perché non venga criticato il nostro ministero; ma in ogni cosa ci presentiamo come ministri di Dio con molta fermezza» (2 Cor 6,3-4). «Noi, che siamo i forti, abbiamo il dovere di portare le infermità dei deboli, senza compiacere noi stessi. Ciascuno di noi cerchi di piacere al prossimo nel bene, per edificarlo. Anche Cristo infatti non cercò di piacere a se stesso, ma, come sta scritto: Gli insulti di chi ti insulta ricadano su di me» (Rm 15, 1-3).