lunedì 21 febbraio 2011

CONTRIZIONE DEL CUORE


La forza del pentimento

Noi siamo ormai in attesa delle cose ultime, dei doni perfetti del Signore (pienamente immeritati). La Scrittura li chiama ta escata o ta agathà (le cose buone). Paradossalmente, però, questi doni li possiamo attendere perché già li conosciamo, li sperimentiamo in parte. Quotidianamente possiamo aprirci ai doni mirabili del Signore o meglio al Signore che viene a donarci se stesso, come anticipo di quando, nel regno, ancora con il grembiule attorno ai fianchi, passerà a servirci.

Noi siamo preceduti da Dio e dalla guida che Egli ci invia. Da parte nostra, dobbiamo rispondere e corrispondere a Lui. Questo è uno dei tanti salmi i quali, dopo aver assicurato della disponibilità di Dio, invitano l’uomo all’ascolto, alla fiducia o all’obbedienza. In modo analogo il salmo 94 esorta: oggi se ascoltaste la sua voce, non indurite il cuore. Il contrario di un cuore duro, è un cuore spezzato e frantumato. Infatti un atteggiamento fondamentale della vita cristiana è costituito dalla contrizione o compunzione (katànyxis).

Nel Nuovo Testamento il verbo appare in modo molto significativo in Atti 2,37: mentre alcuni abitanti di Gerusalemme stavano ad ascoltare Pietro, «arrivò loro una fitta al cuore».

Katànyxis deriva da katanyssomai e indica l’essere colpiti o battuti da qualcosa che proviene dall’esterno di noi (quindi un evento traumatico) ma anche il risultato di questo evento, ossia l’aprirsi in noi di una ferita o di una nuova sensibilità; oltre a questo richiamo lo stordimento dovuto alla battitura subita. Questo per quanto riguarda l’origine semantica.

Nella letteratura ascetica, il sentimento della katànyxis, non si riferisce a qualsiasi senso di disagio per qualche colpa ma è piuttosto un dolore acuto che nasce di norma dopo aver vissuto una comunione prolungata con Dio e dopo aver realizzato un certo grado di purificazione. È un evento liminare: fine del rimpianto e del dolore per il passato e inizio di una comunione gioiosa con Dio; è l’avvio di un flusso d’amore che divamperà poi in totalità. Il sentimento di compunzione corrisponde al manifestarsi e al dilatarsi in noi di una grande energia d’amore e solo questa ci rende capaci di superare il male. Mi appoggio sopra una testimonianza di Giovanni Crisostomo (A Demetrio, sulla compunzione, 7):

Quando in verità il bene prende dimora in loro, mostra una [grande] forza come quella che [sviluppa] un fuoco tra le spine. Per quanto li trovi oppressi da una miriade di mali, avvolti dai legami del peccato e consumati dal fuoco delle passioni, [per quanto] siano scossi dal turbinio degli interessi mondani, [la volontà di bene] subito domina tutto.

Ecco un’immagine opportuna: un fuoco che divampa tra le spine. Non può esserci compunzione se non all’interno dell’esperienza d’essere amati e accolti nella nostra povertà né può aver luogo alcun pentimento finché la persona che si è sentita amata non intende rispondere all’amore ricevuto.

Il nucleo della katanixis è in stretta relazione con un’esperienza d’innamoramento. Il cuore frantumato è anche un cuore innamorato. Crisostomo mette a confronto l’innamoramento per una donna con l’innamoramento per Cristo e si basa sulla vicenda di Paolo. Nella misura in cui si è catturati o feriti dall’amore di Cristo, si sviluppa in noi la forza di superare la forra tenace dell’egoismo, onnipresente dei nostri pensieri, parole ed azioni.

La compunzione appare nella preghiera del vescovo Nonno, come ci viene narrata nella Vita di santa Pelagia, 4 (B. Ward, Donne del deserto, ed. Qiqajon, Magnano 1993, 90). Riferisco il contesto. Il vescovo Nonno, giunto ad Antiochia per partecipare ad un Sinodo, vede per strada l’attraente prostituta Pelagia, discinta e tutta ornata. Mentre gli altri vescovi distolgono lo sguardo, condannandola dentro di sé, Nonno rimane con lo sguardo fisso su di lei come fosse stato colpito da un pensiero intenso. Entrato nella stanza in cui era ospitato, esprime la seguente preghiera:

«… si gettò sul pavimento con il volto a terra e battendosi il petto piangeva con lacrime, dicendo: "Signore Gesù Cristo, perdona me peccatore e indegno, poiché l'ornamento di un sol giorno di una prostituta supera l'ornamento della mia anima. Con che faccia rivolgerò a te lo sguardo? O con quali parole mi giustificherò al tuo cospetto? Non nasconderò, infatti, il mio cuore davanti a te, poiché tu scruti dall'alto i miei segreti. […] Lei, infatti, ha promesso di piacere agli uomini e l'ha fatto, e io ho promesso di piacere a te e non ho mantenuto la parola per la mia pigrizia. Nudo sono, così in cielo come in terra, poiché non ho adempiuto i precetti dei tuoi comandamenti. Dunque, nessuna speranza mi viene dalle buone opere, ma la mia speranza sta nella tua misericordia, per la quale confido di essere salvato"».

Nonno non giudica affatto la prostituta ma si considera perfino inferiore a lei. Si dichiara lui nudo di opere buone e timoroso di fronte al giudizio di Cristo. Per questo, egli confida non nelle proprie opere ma nella misericordia del Salvatore. È interessante osservare come questi si muova al pianto grazie alla considerazione della misericordia di Dio ma anche della sua severità. Il santo si sente curato e rafforzato anche dalla considerazione del giudizio. La preghiera di Nonno è un modello dell’atteggiamento di compunzione.

Tuttavia questa testimonianza è incompleta. Manca l’effetto ultimo quello dello stordimento o meglio dello stupore. Questo passaggio si scopre meglio in un episodio della vita di San Francesco.

Bonaventura ci fa conoscere l’esperienza di compunzione vissuta dal Santo, ai primordi della sua nuova vita.

«In seguito alla chiamata di Dio, il numero dei frati era ormai salito a sei. Il loro padre e pastore, trovato un luogo solitario, in molta amarezza di cuore, piangeva sulla sua vita di adolescente, trascorsa non senza colpa: mentre chiedeva perdono e grazie, per sé e per la prole, che in Cristo aveva generato, si sentì invadere da una singolare, esuberante letizia e si sentì garantire che tutte le colpe gli erano state rimesse pienamente: fino all’ultimo quadrante. Rapito al di fuori di sé, [fu] totalmente assorbito in una luce vivificante…» (Leggenda Minor Lez. III)

Ciò che vive Francesco è molto diverso da ciò che ha sperimentato, ad esempio, Agostino o dal vescovo Nonno. Il dolore del santo d’Assisi non corrisponde ad un pentimento di chi si trova all’inizio della conversione. Anzi egli ha già vissuto un impegno talmente forte di fede e d’amore al punto da ricevere la completa remissione delle colpe. Ciò che è caratteristico della vicenda delle lacrime di Francesco è il passaggio quasi repentino dal dolore acuto alla gioia intensa, fino ad un’esperienza di rapimento estatico. La compunzione è un momento culminante, un evento di passaggio che chiude il passato ed apre alla comunione profonda con Dio.

Tale passaggio viene testimoniato anche dai Padri e dai mistici orientali. Esaminiamo la breve sintesi fornitaci da Niceta Stethatos, un mistico bizantino.

Questi, dopo aver detto che i credenti devono in un primo tempo sperimentare la fatica di raddrizzare la loro esistenza (una fatica, però, mescolata al sollievo e al piacere della vita virtuosa), in un secondo tempo ricevono la visita dello Spirito, ossia ricevono dei beni spirituali. Niceta dichiara che questi uomini visitati dallo Spirito «sono riempiti di gioia e di allegrezza, perché si è aperta per loro la pura fonte delle lacrime» (I, 24; p. 399). Le lacrime, di per sé, nascono dalla tristezza e provocano dolore ma proprio questo dolore apre la porta ad un sentire gioioso. Il dono delle lacrime acutizza il dolore ma infonde poi gioia ineffabile. Le due esperienze sono legate tra loro in modo così stretto da sembrare inscindibili:

«69. Quando ci purifichiamo dal peccato con il pentimento, le lacrime, accese dal fuoco divino, sono ardenti; per i gemiti che ci salgono dal profondo del cuore siamo colpiti nel pensiero come da pesanti martelli. Allora sentiamo amarezza e pena. Ma quando, purificati sufficientemente da tali lacrime, giungiamo alla liberazione dalle passioni, allora, consolati dal divino Spirito, come chi ha acquistato serenità e cuore puro, dalle lacrime della compunzione che danno gioia siamo riempiti di piacere e di dolcezza indicibile.

Il dono della compunzione fa parte delle cose buone (ta agatà) promesse dal Vangelo. Unitamente al dono dello Spirito, la compunzione fa parte dei doni primari concessi al credente. La dove Matteo dice che Dio darà cose buone a coloro che gliele chiedono (Mt 7,11), Luca dichiara che Dio darà lo Spirito Santo a coloro che invocano (11,13). Ma lo Spirito Santo attiva in noi come primo movimento la frattura del cuore. Nel giorno di Pentecoste i primi ascoltatori sentono aprirsi questa ferita al loro interno. La ferita della compunzione apre il cuore ad accogliere i doni escatologici del Signore.

Per questo, a parere d’Evagrio, questo evento spirituale era il primo dono da chiedere, perché rappresentava la vera svolta della vita:

Innanzi tutto prega per ottenere il dono delle lacrime, perché tu possa, mediante la compunzione, ammorbidire la durezza che c’è nella tua anima e, confessando contro te stesso la tua iniquità al Signore, ricevere da Lui il perdono (Trattato sulla preghiera, 5).

A sua volta insegna Alberto Magno (L’unione con Dio, XV):

La nostra consolazione quaggiù deve consistere nel deplorare le offese fatte a Dio. Impariamo… a considerarci, in noi stessi, sempre più indegni degli altri, per piacere così a Dio solo e rimanere radicati in lui. […] Se non avete il dono delle lacrime, amareggiatevi almeno di non poter piangere.

Chi avverte di non saper addolorarsi e provare in se stesso un sentimento profondo di pentimento, ha già raggiunto un buon traguardo proprio se si rincresce di questa impossibilità.

Vediamo come questo dono della compunzione sia presentato in filigrana in Delitto e castigo di Dostoevskij.

Il tormentato protagonista, ossia il giovane Raskolnikov, non è un uomo propenso al pentimento. Uccide una vecchia usuraia ma può contare su molte attenuanti. Dal punto di vista sociale è uno sfruttato e la vecchia è un fastidioso oppressore. Vive in condizioni di estrema indigenza «in una stanzuccia proprio sotto il tetto di un alto casamento a cinque piani» che somiglia a un armadio più che a un’abitazione. È ferito da questa situazione, afflitto dal pensiero di madre e sorella che si sacrificano perché egli possa studiare e diventare, poi, qualcuno. Chi non sarebbe pronto a compatirlo?

Dal punto di vista personale, egli si sforza di negare che l’omicidio possa configurarsi davvero come un delitto. Anzi, in aggiunta, coltiva l’idea del super uomo: la storia è stata fatta da uomini non comuni, da uomini di valore che si contrappongono a tutti gli altri anonimi e ordinari. I potenti possono commettere ogni sorta di delitti e trasgredire la legge, al contrario di quelli comuni che si attengono all’obbedienza e al rispetto delle regole.

Raskolnikov, rimanendo impenitente, comincia ad essere attanagliato dai sensi di colpa, dal rimorso. In preda alla febbre, è ossessionato da tremende allucinazioni. Disperazione e terrore sembrano dominarlo. Tutto questo tormento, però, non ha nulla a che fare con il pentimento. Egli continua ad alimentare la sua teoria di superiorità e a trattare duramente Sonia, la ragazza che lo ama con tenerezza, nonostante la sua situazione d’omicida e di prigioniero.

Come si conclude la vicenda? Nelle ultime battute del romanzo avviene un fatto decisivo, quasi un miracolo inaspettato. Finalmente il giovane viene toccato in profondità dall’amore di Sonia:

Raskòlnikov, seduto, fissava quel panorama senza distoglierne lo sguardo; non pensava a nulla, eppure una strana angoscia lo agitava tormentandolo. A un tratto, si trovò accanto Sònja. Si era avvicinata pian piano e gli si era seduta accanto… Gli sorrise dolcemente, piena di gioia, ma, come al solito, gli tese la mano quasi con timore. Gliela tendeva sempre così, con timidezza, e a volte non gliela tendeva affatto, come prevedendo che lui l'avrebbe respinta. Lui la prendeva, di solito, quasi con avversione; in genere la accoglieva con una specie di stizza, e spesso non apriva bocca durante tutta la visita. Allora, lei sentiva quasi paura di lui, e se ne andava profondamente addolorata Questa volta, invece, le loro mani non volevano sciogliersi; egli le lanciò una rapida occhiata, non disse niente e abbassò lo sguardo…Nemmeno lui, poi, avrebbe saputo dire com'era accaduto. A un tratto si sentì come afferrato e gettato ai piedi di lei. Piangeva, e le abbracciava le ginocchia.

Raskòlnikov è toccato soltanto dall’amore di Sonia. Come si sa, questo perturbamento dell’animo viene raffigurato da sempre con l’immagine della freccia che ci colpisce ed apre una ferita nel cuore e l’inaspettato irrompere della piena dell’amore è un fenomeno che si esprime in un sentire che supera il linguaggio:

Dapprima Sònja si spaventò a morte, il viso le si fece d'un pallore mortale. Balzò in piedi e lo guardò tremando; ma subito, in quello stesso istante, capì tutto. Nei suoi occhi brillò una felicità infinita; capì, e per lei non ci fu più alcun dubbio: egli l'amava, l'amava immensamente: alla fine, quel momento tanto atteso era arrivato... Avrebbero voluto parlare, ma non potevano. Avevano le lacrime agli occhi. Tutti e due erano pallidi e magri, ma sui loro volti sbiancati dalla malattia splendeva già la luce di un futuro diverso, di una completa rinascita, di una vita nuova. Li aveva risuscitati l'amore: il cuore dell'uno, ormai, racchiudeva un'inesauribile sorgente di vita per il cuore dell'altro.

Nel passo trascritto troviamo l’essenziale. L’amore premuroso di Sonia batte al cuore del giovane e vi apre la dolce ferita dell’amore. L’evento era desiderato ed atteso ma accade in modo improvviso. Dopo l’evento decisivo, lo scrittore presenta le conseguenze pratiche nella vita dei due protagonisti. Il giovane tenuto accetta la pena inflitta; prova sentimenti di misericordiosa tenerezza non soltanto verso Sonia ma anche verso tutti gli altri compagni di prigionia:

Erano decisi ad attendere, a pazientare. Restavano loro ancora sette anni di quella vita; e prima d'allora, quanto intollerabile dolore e quanta felicità! Ma egli era rinato e lo sapeva, lo sentiva con certezza in tutto il suo essere rinnovato; e lei, lei non viveva che della vita di lui! La sera di quello stesso giorno, quando le baracche erano già state chiuse, Raskòlnikov, sdraiato sul tavolaccio, pensava a Sònja. Quel giorno, gli era sembrato perfino che gli altri forzati, prima suoi nemici, lo guardassero in un modo diverso. Era stato lui a rivolger loro per primo la parola, e loro gli avevano risposto affabilmente. Se ne rendeva conto solo adesso; ma non era giusto, del resto, che fosse così? Ogni cosa, ormai, non doveva forse mutare? Pensava a lei. Ricordò come l'aveva sempre tormentata, come aveva straziato il suo cuore; … ma quei ricordi non lo facevano più soffrire: sapeva con che amore infinito, ormai, avrebbe ripagato tutte le sue sofferenze.
[…] Quella sera, tuttavia, non gli era possibile pensare a lungo ad una sola cosa, né concentrarsi in un solo pensiero; non riusciva a ragionare su nessun problema: poteva soltanto sentire... Alla dialettica era subentrata la vita, e nella sua coscienza si preparava ormai qualcosa di completamente, oscuramente diverso.

A mio parere, la pagina è un ottimo esempio per comprendere che cosa sia il pentimento. È vero che non si tratta in primo luogo di una conversione religiosa (anche se questa è inclusa) ma il fatto costituisce un modello per cogliere anche il senso di quest’ultima.

Raccogliamo alcuni elementi essenziali. Raskolnikov è oppresso dal senso di colpa e sta già espiando, suo malgrado, il delitto commesso. Tuttavia non si è pentito per nulla. Il pentimento nasce in lui quando si sente raggiunto dalla mano, cioè dall’amore, di Sonia. È il sentirsi amato nella sua condizione di criminale ad aprirgli il cuore.

È interessante che Raskolnikov, nel momento decisivo, venga afferrato da una forza estranea e benefica: «Nemmeno lui, poi, avrebbe saputo dire com'era accaduto. A un tratto si sentì come afferrato e gettato ai piedi di lei». Egli passa dal ragionare al «sentire». La dialettica viene superata dalla vita. Pure nel pentimento di carattere religioso, il peccatore è trascinato da una forza a cui non può resistere.

Sonia, che è innamorata di lui, ha immesso nel suo sentimento dell’eros la forza dell’amore autentico (agape). Ama un uomo che potrebbe detestare: è un omicida e l’ha sempre respinta. Gli offre la mano benché si aspetti che egli la rifiuti di nuovo: «Gliela tendeva sempre così, con timidezza, e a volte non gliela tendeva affatto, come prevedendo che lui l'avrebbe respinta. Lui la prendeva, di solito, quasi con avversione; in genere la accoglieva con una specie di stizza, e spesso non apriva bocca durante tutta la visita». Lo vedremo meglio in seguito ma l’amore tenace di Sonia richiama al credente l’amore gratuito, incomprensibile e tenace di Dio per l’uomo peccatore.

La riconciliazione, che presuppone il pentimento di Raskolnikov, si esprime non a parole ma in lacrime. «Avrebbero voluto parlare, ma non potevano. Avevano le lacrime agli occhi. Tutti e due erano pallidi e magri, ma sui loro volti sbiancati dalla malattia splendeva già la luce di un futuro diverso, di una completa rinascita, di una vita nuova». Anche il pentimento di fede si esprime più nei sentimenti che nelle parole ed acquista un’espressione tipica proprio nelle lacrime. In questo caso il dolore non deprime ma solleva. Dare spazio al pentimento significa aprire l’ingresso all’amore e questa è una forza che non deprime mai: «Li aveva risuscitati l'amore: il cuore dell'uno, ormai, racchiudeva un'inesauribile sorgente di vita per il cuore dell'altro».

La rinascita di Raskolnikov si esprime in due segni precisi. Pervaso di gioia diventa affabile con i compagni di pena, verso i quali era sempre stato duro ed accoglie il tempo della prigionia, di espiazione, con serena accettazione. «Egli ignorava perfino che quella nuova vita non gli veniva data così, gratuitamente; che avrebbe dovuto pagarla, e a caro prezzo: pagarla compiendo qualcosa di grande negli anni a venire». La riparazione non consiste nella prigionia in se stessa ma nel modo con cui la vivrà. Egli adesso cercherà di essere buono nei confronti di Sonia: «Sapeva con che amore infinito, ormai, avrebbe ripagato tutte le sue [di Sonia] sofferenze».

II PARTE. DISPONIBILITÀ

Ricordo la preghiera di Bonhoffer nel carcere di Flossenburg: io non comprendo le tue vie, ma la mia via tu la conosci

[E’ buio dentro di me, ma presso di te c'è la luce; sono solo, ma tu non mi abbandoni; sono impaurito, ma presso di te c'è l’aiuto; sono inquieto, ma presso di te c'è la pace; in me c'è amarezza, ma presso di te c'è la pazienza; io non comprendo le tue vie, ma la mia via tu la conosci].

Il penitente accetta tutto ciò che gli capita e in tutto coglie la mano di Dio. Gli avvenimenti negativi sono causati dall’uomo e sono un prodotto della sua malizia. Tuttavia la persona di Spirito non si attarda a cercare le motivazioni o le responsabilità (indagini utili in altri ambiti), poiché sa che anche l’avvenimento che non è causato in modo diretto da Dio, rimane comunque nell’ambito della sua provvidenza. L’uomo santo non pensa mai male né di Dio né del prossimo.

La formulazione più chiara e sintetica di questa doppia disponibilità ossia verso tutto ciò che ci viene da parte di Dio e del prossimo appare in una mistica italiana del sec. XV, ma questa opinione, di origine biblica, presenta una lunga storia.

«Pensare bene di Dio consiste nel ricevere con gratitudine tanto le cose prospere come le avverse, credendo, senza dubitare, che procedono dalla sua somma bontà e misericordia, poiché dice egli stesso nella sacra Scrittura: Io quelli che amo li correggo e li educo (Ap 3,19)» Varano 45

Circa la disponibilità nei confronti del prossimo, la stessa scrive:

«La seconda purità è verso il prossimo, a proposito della quale ci viene comandato: Ama il prossimo tuo come te stesso (Mt 19,19). In che cosa consiste la purità della mente verso il nostro prossimo? In questo: che non lo giudichiamo mai, ma che sempre l'onoriamo e lo reputiamo pietoso e onesto, perché la vera purità verso il prossimo è nell'amarlo con Dio e per Dio e non dirne male, ne nuocergli con la bocca o con il cuore. Questa è la vera osservanza dei comandamenti divini». (Varano 51)

Non pensare male né di Dio, né del prossimo. La massima può essere volta al positivo: confida in Dio sempre e pazienta in tutto ciò che ti viene dal prossimo.

[Anche in quest’ambito è opportuno distinguere. Accettare qualsiasi cosa da parte del prossimo è l’atteggiamento che si assume quando tutti i tentativi di dialogo sono falliti o quando è possibile intuire che essi non sono assolutamente possibili. La protesta pacifica, tuttavia, come prima reazione, deriva da saggezza. Quando questa non da frutto, allora è necessario attivare la pazienza. Tuttavia la pazienza non è soltanto rassegnazione, tanto meno rinuncia per incapacità di lottare. Il paziente sopporta ma abbandona per ultimo il campo di battaglia. Sopporta tutto per restare in campo, non perché rinunci alla lotta. Questo spiega come mai san Paolo, pur suggerendo di rinunciare anche a diritti personali, per evitare conflittualità sterili, spesso suggerisca per sé e per gli altri, il linguaggio che deriva dall’ambiente militare].

La radice di questo insegnamento proviene dalla Sacra Scrittura. Giobbe e Giuditta sono due personaggi molto significati al riguardo. Particolarmente interessante appare il discorso di Giuditta ai capi della città di Betulia (Gdt 8,11-17.25-27). Costoro avevano deciso di arrendersi ai nemici se nell’arco di un tempo prestabilito (cinque giorni), Dio non avesse inviato un aiuto. Apparentemente avevano espresso un atteggiamento religioso poiché sembravano piegarsi alla volontà divina ma in realtà lo mettevano alla prova. Giuditta, invece, consiglia di accettare qualsiasi decisione di Dio:

Vennero da lei ed essa disse loro: «[…] Chi siete voi dunque che avete tentato Dio in questo giorno e vi siete posti al di sopra di lui, mentre non siete che uomini? Certo, voi volete mettere alla prova il Signore onnipotente, ma non ci capirete niente, né ora né mai. Se non siete capaci di scorgere il fondo del cuore dell'uomo né di afferrare i pensieri della sua mente, come potrete scrutare il Signore, che ha fatto tutte queste cose, e conoscere i suoi pensieri o comprendere i suoi disegni? No, fratelli, non vogliate irritare il Signore nostro Dio. Se non vorrà aiutarci in questi cinque giorni, egli ha pieno potere di difenderci nei giorni che vuole o anche di farci distruggere da parte dei nostri nemici. E voi non pretendete di impegnare i piani del Signore Dio nostro, perché Dio non è come un uomo che gli si possan fare minacce e pressioni come ad uno degli uomini. Perciò attendiamo fiduciosi la salvezza che viene da lui, supplichiamolo che venga in nostro aiuto e ascolterà il nostro grido se a lui piacerà. (Gdt 8,11-17

Giuditta chiede di non mettere scadenze a Dio ma soprattutto di accettare qualsiasi evento («egli ha pieno potere di difenderci nei giorni che vuole o anche di farci distruggere»). A motivo della situazione di sofferenza, gli uomini possono invocare l’aiuto senza pretendere d’essere soccorsi nel modo da essi desiderato («ascolterà il nostro grido se a lui piacerà»).

Inoltre è opportuno cogliere il dono nascosto nelle situazioni che richiedono abbandono fiducioso e capacità di sopportazione:

«Oltre tutto ringraziamo il Signore Dio nostro che ci mette alla prova, come ha già fatto con i nostri padri. Ricordatevi quanto ha fatto con Abramo, quali prove ha fatto passare ad Isacco e quanto è avvenuto a Giacobbe in Mesopotamia di Siria, quando pascolava i greggi di Làbano suo zio materno. Certo, come ha passato al crogiuolo costoro non altrimenti che per saggiare il loro cuore, così ora non vuol far vendetta di noi, ma è a fine di correzione che il Signore castiga coloro che gli stanno vicino» (Gdt 8,25-27).

La fiducia di Giuditta è davvero illimitata; rinuncia a capire il senso nascosto degli avvenimenti ma è certa che essi abbiano comunque un significato agli occhi di Dio. Gesù è stato colui che ha vissuto al massimo questo atteggiamento di Fiducia e abbandono in Dio.

Uno dei traguardi della vita spirituale e dello spirito di compunzione sta appunto nel giungere a questo sentimento di abbandono. Solo coltivandolo in noi, contrastando lo spirito di sfiducia e di recriminazione, troveremo pace. «Accetta gli avvenimenti che ti capitano come un bene, sapendo che nulla avviene senza Dio» (Lettera di Barnaba, XIX, 6).

Doroteo richiama il comportamento tenuto dal re Davide durante la fuga da Gerusalemme, nella circostanza del colpo di stato suscitato contro di lui dallo stesso figlio Assalonne. Mentre il re, esule e fuggiasco, s’inerpicava faticosamente per l’erta del monte degli Ulivi, fu aggredito e insultato da Simei, un parente del re Saul, deposto e già defunto. Questi, male informato, riteneva Davide responsabile dell’uccisione di Saul. Un soldato della guardia del corpo chiede al re il permesso di avventarsi sull’offensore ed eliminarlo. Davide, invece, opponendosi a questa decisione d’impeto e rimettendosi a Dio, dichiara: «Lasciate che maledica, poiché glielo ha ordinato il Signore. Forse il Signore guarderà la mia afflizione e mi renderà il bene in cambio della maledizione di oggi» (2 Sm 16, 11-12). Doroteo così commenta:

Ad un assassino Dio diceva di maledire David? Come poteva Dio ordinargli una cosa simile? In realtà il profeta, nella sua sapienza, sapeva che nulla attira la misericordia di Dio sull'anima quanto le tentazioni, specialmente quando crescono nel momento dell'afflizione e della tristezza. (VII, 88)

Egli ripropone con questo suggerimento l’ideale biblico del povero: «Lodate il Signore, voi che lo temete… perché egli non ha disprezzato né sdegnato l'afflizione del misero, non gli ha nascosto il suo volto, ma, al suo grido d'aiuto, lo ha esaudito» (Sal 22,25).

Poi ricorre ad un’immagine efficace. Il cagnolino corre dietro ad un sasso che rotola e gli abbaia contro, senza badare per nulla a chi l’ha gettato. Il cristiano che si adira contro il fratello, anch’egli agisce come se prestasse attenzione ad un sasso in movimento dimenticando di volgersi al Signore che ha permesso, a scopo educativo e medicinale, che quel fratello gli procurasse quella sofferenza.

Ci succede quello che accade al cane. Uno gli butta un sasso e lui lascia stare quello che lo ha tirato e corre a mordere il sasso: così facciamo anche noi: lasciamo perdere Dio, che permette che ci assalgano le prove per purificazione dei nostri peccati, e corriamo contro il prossimo (VII, 88).

Anche in questo caso la relazione corretta con Dio, vissuta in spirito di compunzione, si tramuta in una relazione pacificata con il prossimo. La comunione con Dio genera la fraternità.


La scena è narrata nello spirito di pacificazione ormai guadagnato dal Pellico. La brutalità dell’operazione è descritta senza ombra di rancore e senza indulgere ai particolari raccapriccianti, in analogia ai racconti della passione di Gesù. La rosa offerta al chirurgo, medico aguzzino, è segno di questo guadagno interiore. Si può perdere un arto, ma non la dignità umana. Non bisogna temere chi uccide il corpo, ma piuttosto temere di chi può spegnere l’anima.

Per un cristiano la rosa è simbolo dei beni del mondo nuovo, inaugurato dalla visita del Signore. Ogni credente può lasciarla fiorire nella sua vita.

Lo ricorda anche Dante: ch’io ho veduto tutto il verno pria, lo prun mostrarsi rigido e feroce; poscia portar la rosa in su la cima (XIII)

S'io fossi predicatore, insisterei spesso sulla necessità di bandire l'inquietudine: non si può esser buono ad altro patto. Com'era pacifico con sé e cogli altri Colui che dobbiamo tutti imitare! Non v'è grandezza d'animo, non v'è giustizia senza idee moderate, senza uno spirito tendente più a sorridere che ad adirarsi degli avvenimenti di questa breve vita (XVII).

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