venerdì 11 marzo 2011

PACE E PERDONO

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150 anniversario dell’unità d’Italia.

COME UN PATRIOTA RITROVA LA PACE IN DIO

Scorrendo le pagine del racconto autobiografico Le mie prigioni, possiamo verificare il cammino di fede vissuto da Silvio Pellico, nel corso della sua giovinezza, in seguito al periodo di prigionia trascorsa nelle carceri asburgiche. Il racconto è anche una sorta di diario spirituale e tra gli argomenti offerti al lettore è presente anche l’invito alla sottomissione a Dio, per liberarsi da ogni turbamento.

Nel carcere a Milano, nel 1820, dopo un periodo di indifferenza religiosa, torna a fare riferimento a Dio, avvertito come il Signore dei sofferenti. A trascinarlo a questa convinzione non fu il ragionamento ma un sentire immediato. Come è avvenuto? Nel primo periodo di prigionia, nel momento in cui pensa con sgomento al dolore che il suo arresto sicuramente provocherà ai familiari, egli avverte la voce di Dio in lui.

In quell'assenza totale di distrazioni, l'affanno di tutti i miei cari, ed in particolare del padre e della madre allorché udrebbero il mio arresto, mi si pingea nella fantasia con una forza incredibile. […] “Chi darà loro la forza di sostenere questo colpo?" Una voce interna parea rispondermi: "Colui che tutti gli afflitti invocano ed amano e sentono in se stessi! Colui che dava la forza ad una Madre di seguire il Figlio al Golgota, e di stare sotto la sua croce! l'amico degl'infelici, l'amico dei mortali!". Quello fu il primo momento, che la religione trionfò del mio cuore, ed all'amor filiale debbo questo benefizio. (III)

Pellico non era mai stato ateo ma aveva vissuto con la religione una relazione fredda. Ora non passa dall’incredulità alla fede, ma per la prima volta aderisce in modo convinto alle convinzioni che lo avevano interessato soltanto in modo marginale. La supplica ardente e drammatica del nostro ricorda quella della biblica Giuditta (9,11): «Tu sei il Dio degli umili, sei il soccorritore dei derelitti, il rifugio dei deboli, il protettore degli sfiduciati, il salvatore dei disperati». Dio si è manifestato nella sua esistenza con le caratteristiche proprie del Dio biblico: come soccorritore dei sofferenti e degli oppressi in quanta tali (quindi a prescindere dai loro meriti morali).

Seguiamo il filo del racconto, tornando al principio, nel periodo vissuto in carcere a Milano.

L’arresto, improvviso ed inaspettato, lo sconvolge. Pervaso da forte rancore, si sente prossimo alla disperazione. Fortunatamente la sua passione per la letteratura lo aiuta. Tenta di leggere Dante e la Bibbia:

Un giorno avendo letto che bisogna pregare incessantemente, e che il vero pregare non è borbottare molte parole alla guisa de' pagani, ma adorar Dio con semplicità, sì in parole, sì in azioni, e fare che le une e le altre sieno l'adempimento del suo santo volere, mi proposi di cominciare davvero quest'incessante preghiera: cioè di non permettermi più neppure un pensiero che non fosse animato dal desiderio di conformarmi ai decreti di Dio (VII).

Egli ottiene già un dono significativo ed essenziale, ricco di ulteriori sviluppi. La preghiera, divenuta più frequente con l’andar del tempo, lo inonda di pace ed anche di gioia:

L'intento di stare di continuo alla presenza di Dio, invece di essere un faticoso sforzo della mente, ed un soggetto di tremore, era per me soavissima cosa. Non dimenticando che Dio è sempre vicino a noi, ch'egli è in noi, o piuttosto che noi siamo in esso, la solitudine perdeva ogni giorno più il suo orrore per me. (VII)

Passare dal dolore alla pace non è un miglioramento che avvenga in modo troppo facile e ogni risultato ottenuto ha bisogno di essere consolidato. Infatti, sempre nel corso del periodo di prigionia a Milano, riceve la visita del padre. Durante il colloquio cerca di essere sereno ma, tornato in cella, il ricordo della sofferenza che il padre sta patendo, lo sconvolge. La serenità recuperata viene scossa da un profondo turbamento. In questa frangente il giovane Sivio riceve una grazia particolare:

Ci dividemmo senza lagrime. Ma ritornato nel carcere, fui angosciato come l'altra volta, o più fieramente ancora; ed invano pure invocai il dono del pianto. […] Mi prostrai allora in terra con un fervore quale io non aveva mai avuto si forte, pronunciai questa preghiera: «Mio Dio, accetto tutto dalla tua mano; ma invigorisci sì prodigiosamente i cuori a cui io era necessario, ch'io cessi d'esser loro tale, e la vita d'alcun di loro non abbia perciò ad abbreviarsi pur d'un giorno!» Oh beneficio della preghiera! Stetti più ore colla mente elevata a Dio, e la mia fiducia cresceva a misura ch'io meditava sulla bontà divina, a misura ch'io meditava sulla grandezza dell'anima umana, quando esce del suo egoismo e si sforza di non aver più altro volere che il volere dell'infinita Sapienza (XV).

Da Milano viene trasferito a Venezia in vista d’altri interrogatori e del processo. Rinchiuso nel carcere dei Piombi, consunto dall’afa e molestato da un nugolo di zanzare, prova un’afflizione e una tentazione ben più gravi di quella appena descritta nel periodo milanese. In quel periodo, inoltre, subiva frequenti e sfibranti interrogatori da parte dei giudici inquisitori. La tensione mentale e lo sforzo fisico lo inducono ad una tristezza sempre più pesante. Egli sembra aver perso ogni fiducia in un soccorso da parte di Dio: «L'abitudine di tranquillità, che già mi pareva a Milano d'avere acquistato, era disfatta. Per alcuni giorni disperai di ripigliarla, e furono giorni d'inferno. Allora cessai di pregare, dubitai della giustizia di Dio, maledissi agli uomini ed all'universo, e rivolsi nella mente tutti i possibili sofismi sulla vanità della virtù» (XXIV). La difficoltà a nutrire fiducia in Dio lo rende astioso verso la vita stessa e verso gli uomini. La sfiducia gli fa sospendere la preghiera e l’assenza di questa lo espone all’invasione della tenebra, altre volta validamente respinta.

Al racconto di questo fatto aggiunge una riflessione più ampia, maturata – penso – in tempi successivi che attesta con quale finezza egli sappia penetrare gli abissi dell’animo umano e gli abissi del male (XXIV):

L'uomo infelice ed arrabbiato è tremendamente ingegnoso a calunniare i suoi simili e lo stesso Creatore. L'ira è più immorale, più scellerata che generalmente non si pensa. Siccome non si può ruggire dalla mattina alla sera, per settimane, e l'anima, la più dominata dal furore, ha di necessità i suoi intervalli di riposo, quegli intervalli sogliono risentirsi dell'immoralità che li ha preceduti. Allora sembra d'essere in pace, ma è una pace maligna, irreligiosa; un sorriso selvaggio, senza carità, senza dignità; un umore di disordine, d'ebbrezza, di scherno. In simile stato io cantava per ore intere con una specie d'allegrezza affatto sterile di buoni sentimenti; io celiava con tutti quelli che entravano nella mia stanza; io mi sforzava di considerare tutte le cose con una sapienza volgare, la sapienza de' cinici. Quell'infame tempo durò poco: sei o sette giorni» .
I pochi giorni ch'io aveva passati nel cinismo m'aveano molto contaminato. Ne sentii gli effetti per lungo tempo, e dovetti faticare per vincerli. Ogni volta che l'uomo cede alquanto alla tentazione di snobilitare il suo intelletto, di guardare le opere di Dio colla infernal lente dello scherno, di cessare dal benefico esercizio della preghiera, il guasto ch'egli opera nella propria ragione lo dispone a facilmente ricadere. Per più settimane fui assalito, quasi ogni giorno, da forti pensieri d'incredulità; volsi tutta la potenza del mio spirito a respingerli. Quando questi combattimenti furono cessati, e sembrommi d'esser di nuovo fermo nell'abitudine di onorar Dio in tutte le mie volontà, gustai per qualche tempo una dolcissima pace (XXV-XXVI).

Il momento vertice è raggiunto nel racconto dell’amputazione della gamba di Pietro Maroncelli, un forlivese repubblicano, poi simpatizzante del socialismo utopistico.

«…Il malato fu portato in una stanza più grande; ei dimandò ch'io lo seguissi. «Potrei spirare sotto l'operazione;» diss'egli «ch'io mi trovi almeno fra le braccia dell'amico.» La mia compagnia gli fu conceduta. L'abate Wrba, nostro confessore venne ad amministrare i sacramenti all'infelice. Adempiuto questo atto di religione, aspettavamo i chirurgi, e non comparivano. Maroncelli si mise ancora a cantare un inno. I chirurgi vennero alfine: erano due.
Il malato fu seduto sulla sponda del letto colle gambe giù: io lo tenea fra le mie braccia. Al di sopra del ginocchio, dove la coscia cominciava ad esser sana, fu stretto un legaccio, segno del giro che dovea fare il coltello. Il vecchio chirurgo tagliò tutto intorno, la profondità d'un dito; […] Il sangue fluiva a torrenti dalle arterie, ma queste vennero tosto legate con filo di seta. Per ultimo, si segò l'osso. Maroncelli non mise un grido. Quando vide che gli portavano via la gamba tagliata, le diede un'occhiata di compassione, poi, voltosi al chirurgo operatore, gli disse: «Ella m'ha liberato d'un nemico, e non ho modo di rimunerarnela.» V'era in un bicchiere sopra la finestra una rosa. «Ti prego di portarmi quella rosa» mi disse. Gliela portai. Ed ei l'offerse al vecchio chirurgo, dicendogli: «Non ho altro a presentarle in testimonianza della mia gratitudine.» Quegli prese la rosa, e pianse. (Cap. 87)

La scena è narrata nello spirito di pacificazione ormai guadagnato dal Pellico. La brutalità dell’operazione è descritta senza ombra di rancore e senza indulgere ai particolari raccapriccianti, in analogia ai racconti della passione di Gesù. La rosa offerta al chirurgo, medico aguzzino, è segno di questo guadagno interiore. Si può perdere un arto, ma non la dignità umana. Non bisogna temere chi uccide il corpo, ma piuttosto temere di chi può spegnere l’anima.

Per un cristiano la rosa è simbolo dei beni del mondo nuovo, inaugurato dalla visita del Signore. Ogni credente può lasciarla fiorire nella sua vita.

Lo ricorda anche Dante: ch’io ho veduto tutto il verno pria, lo prun mostrarsi rigido e feroce; poscia portar la rosa in su la cima (XIII)

S'io fossi predicatore, insisterei spesso sulla necessità di bandire l'inquietudine: non si può esser buono ad altro patto. Com'era pacifico con sé e cogli altri Colui che dobbiamo tutti imitare! Non v'è grandezza d'animo, non v'è giustizia senza idee moderate, senza uno spirito tendente più a sorridere che ad adirarsi degli avvenimenti di questa breve vita (XVII).

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