domenica 25 marzo 2012

Sette parole di Gesù in croce (K. Rahner)

Prima parola
«Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno» 
(Lc 23,34)

Tu pendi dalla croce. Ti ci hanno inchiodato. Da questo palo innalzato fra terra e cielo non puoi più staccarti. Le ferite bruciano nel tuo corpo. La corona di spine tormenta il tuo capo. I tuoi occhi sono irrigati di sangue. A causa delle ferite delle mani e dei piedi le tue membra sono come trapassate da un ferro rovente. E la tua anima è un mare di dolore, di desolazione, di disperazione.
Coloro che hanno architettato tutto ciò stanno sotto la tua croce. Non se ne allontanano, neanche per lasciarti morire solo. Rimangono, ridono. Trovano che hanno avuto ragione, e lo stato in cui sei ne è la dimostrazione più evidente: la prova che quanto hanno fatto è l'adempimento della più santa giustizia, un servizio reso a Dio di cui possono andare orgogliosi. Per questo sghignazzano, in-sultano, bestemmiano. E su di te si abbatte, più spaventosa di tutti i dolori del corpo, la disperazione per una simile malvagità. Ci sono davvero degli uomini capaci di tale perfìdia? C'è mai un pur minimo punto in comune fra te e loro? Può mai un uomo torturarne un altro persino in morte? Torturarlo con la menzogna, la perfidia, il tradimento, l'ipocrisia e la malvagità persino in punto di morte, e in tutto ciò rivendicare per sé l'apparenza del diritto e l'aria dell'innocente e la posa del giudice obiettivo? E Dio permette che ciò accada nel suo mondo? Che la risata e lo scherno dei nemici risuonino gagliardi e trionfanti nel suo mondo? O Signore, il nostro cuore si sarebbe già spezzato in una furiosa disperazione. Noi avremmo maledetto i nostri nemici e Dio con loro. Noi avremmo urlato come pazzi e cercato di strappare i chiodi per riuscire a stringere ancora una volta il pugno.
Tu invece dici: Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno. Sei incomprensibile, Gesù. Nella tua anima martoriata e scompigliata dal dolore c'è ancora una zolla sulla quale possa fiorire questa parola? Sei proprio incomprensibile! Tu ami i tuoi nemici. Li raccomandi al Padre tuo. Preghi per loro. Ah, Signore, se non fosse una bestemmia direi che tu li discolpi con la più inverosimile delle scuse: non avrebbero saputo. Eppure sapevano tutto. Ma hanno voluto ignorare tutto. E ciò che si vuole ignorare, in realtà lo si sa nella cella più profonda e segreta del cuore. Ma al tempo stesso lo si odia e perciò non si vuole lasciarlo salire alla coscienza chiara. E tu dici che essi non sanno quello che fanno! Ma una cosa certamente non hanno conosciuto: il tuo amore per loro, poiché quello lo può conoscere solo colui che ti ama. Solo all'amore, infatti, è dato di comprendere il dono dell'amore.
Pronuncia anche sui miei peccati la parola di perdono del tuo incomprensibile amore. Di' anche per me al Padre: Perdonalo, perché non sa quello che fa. Invece lo sapevo. Tutto sapevo. Ma non conoscevo ancora il tuo amore.
Concedimi di pensare alla prima parola che dicesti sulla croce anche quando nel Padre Nostro affermo distrattamente di perdonare ai miei debitori. O mio Dio inchiodato sulla croce dell'amore: io non so se qualcuno mi debba realmente qualcosa che io possa rimettergli. Ma in ogni caso mi occorre la tua forza affinché io sappia perdonare di cuore a coloro che il mio orgoglio e il mio egoismo considerano nemici.



Seconda parola:
«In verità ti dico:
oggi tu sarai con me in paradiso» (Lc 23,43)

Tu sei in agonia, e nel tuo cuore pieno di dolore c'è ancora posto per la sofferenza altrui! Stai per morire, e ti preoccupi di un criminale il quale, persino nei suoi tormenti, deve ammettere che il suo martirio infernale non è un eccesso di pena per la sua vita malvagia! Vedi tua Madre, e ti rivolgi in primo luogo al figlio perduto! L'abbandono di Dio ti sta uccidendo, e tu parli di paradiso! I tuoi occhi si stanno ottenebrando nella notte della tua morte, ma ciononostante vedono la luce etema. In morte si è intenti solo a se stessi, perché si è lasciati soli e abbandonati. Tu invece ti dai pensiero del­le anime che devono entrare con tè nel tuo regno. O cuore misericordiosissimo! O cuore forte ed eroico!
Un miserabile delinquente ti chiede di ricordarlo e tu gli prometti il paradiso. Diventa tutto nuovo, se tu muori? Una vita di peccati e di vizi si tra­sforma così rapidamente, se tu ti avvicini ad essa? Quando tu pronunci le parole dell'assoluzione so­pra la vita di un criminale, vengono graziati e tra­sformati persino i peccati e le perfidie più ripu­gnanti, al punto che nulla più gli impedisce l'in­gresso nella santità di Dio. Ecco, una briciola di buona volontà, quanta fosse bastata per evitare la sorte peggiore, noi l'avremmo ammessa anche in un bruto e malfattore del genere. Ma le abitudini perverse, gli istinti viziosi, la brutalità e il fango, la bassezza... tutto ciò non scompare con una bri­ciola di buona volontà e con un fugace pentimen­to sul patibolo! Uno di tal fatta non può andare in cielo così in fretta come i penitenti e le anime che si sono purificate con una lunga ascesi, o come i santi, i quali non fecero altro che affinare il corpo e l'anima per renderli degni del Dio tre volte san­to! Tu invece pronunci la parola onnipotente del­la tua grazia, essa penetra nel cuore del ladrone e trasforma il fuoco infernale della sua agonia nella fiamma purificatrice dell'amore a Dio; in un attimo questo amore illumina tutto ciò che in quel cuore rimaneva ancora come opera del Padre tuo e divora tutto ciò che in codesta vita si oppo­neva a Dio come debito cattivo della creatura. E il ladrone entra con tè nel paradiso del Padre tuo.
Darai anche a me la grazia di non perdere mai il coraggio di esigere temerariamente tutto dalla tua bontà, di aspettarmi tutto? Il coraggio di dire, fos­si anche il più rinnegato dei criminali: Signore, ri­cordati di me, quando sarai nel tuo regno! Signore, che la tua croce s'innalzi accanto al mio letto di morte. E che la tua bocca ripeta anche a me:
In verità ti dico, oggi stesso sarai con me in pa­radiso. Questa tua stessa parola mi renda degno di entrare, completamente assolto e santificato dalla potenza purificatrice della morte subita con tè e in tè, nel regno del Padre tuo.


Terza parola:
«Donna, ecco tuo figlio. Figlio, ecco tua madre» (Gv 19,26)
Adesso, con la morte, era giunta l'ora in cui tua Madre poteva esserti nuovamente vicina. Adesso che non ti si chiedeva più alcun miracolo ma tu do­vevi morire, poteva essere accanto a tè colei alla quale avevi detto: «Donna, che importa a tè e a me? La mia ora non è ancora giunta» (Gv 2,4). Adesso è giunta l'ora in cui il Figlio e la Madre sono legati. E questa è l'ora del distacco, l'ora della morte. L'ora in cui alla Madre, che era vedova, viene tolto l'unico Figlio.
E così il tuo sguardo contempla ancora una volta la Madre. Tu non hai risparmiato nulla a questa Madre. Tu non fosti soltanto la gioia della sua vita: fosti pure la sua amarezza e la sua pena. Ma l'una e l'altra cosa erano grazia tua, perché l'una e l'altra provenivano dal tuo amore. Perché ti ha assistito e servito sia nella gioia che nel dolore, per questo ami tua Madre. Infatti solo così essa è di­ventata veramente Madre tua. Per tè, fratelli e sorelle e madre sono coloro che compiono la volontà del Padre tuo che sta nei cieli. Pur nel tormento, il tuo amore è ancora vibrante di quella tenerezza che su questa terra unisce tra loro un figlio e sua madre. Così la tua morte consacra e santifica anche queste dolci e preziose realtà terrene che inteneriscono i cuori e rendono bella la terra. Queste co­se non muoiono affatto nel tuo cuore, nemmeno quando è schiacciato dalla morte. E così tu le salvi per il cielo. E poiché persino nella morte hai amato la terra; poiché pur mentre morivi per la no­stra salvezza eterna ti sei commosso per il pianto di una madre; poiché anche nel trapasso ti sei preoccupato della sorte terrena di una vedova e hai donato a un figlio una madre e a una madre un figlio, per questo un giorno vi sarà una nuova terra.
Ma essa non stava sotto la tua croce semplicemente con il dolore solitario di una madre cui si sta ammazzando il figlio. Stava là a nome nostro. Stava là come madre di tutti i viventi. Offriva il Figlio per noi. A nome nostro pronunciava il suo «fìat» per la morte del Signore. Essa era la Chiesa sotto la croce, era la discendenza dei figli di Èva, partecipava al combattimento cosmico tra il ser­pente e il Figlio della Donna. Perciò, donando questa Madre al discepolo prediletto, tu l'hai do­nata a ciascuno di noi.
Figlio, figlia - dici anche a me -, ecco tua Madre. O parola che ci affidi un lascito eterno! Sotto la tua croce, o Gesù, sta come discepolo amante solo colui che, a partire da quell'ora, ac­coglie la Madre tua con sé. Le sue mani materne e pure distribuiscono tutte le grazie meritate dalla tua morte. Concedici la grazia di venerare e amare tua Madre. Dille ancora, guardando a me poverello:
Donna, ecco tuo figlio; Madre, ecco tua figlia.
Doveva toccare a un cuore puro, verginale il compito di dire a nome del mondo il «sì» alle noz­ze dell'Agnello con la Chiesa sua sposa, con l'umanità riscattata e purificata dal tuo sangue. Se io mi lascio da tè affidare al cuore verginale di tua Madre, la tua morte non sarà avvenuta invano per me, io sarò accanto a lei quando irromperà il gior­no delle tue nozze eterne e tutta la creazione, tra­sfigurata per l'etemità, ti sarà congiunta in eterno. 




Quarta parola:
«Dio mio. Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46)
Ti si sta avvicinando la morte. Non la fine della vita corporale, che è liberazione e pace, ma la morte nel senso di ultimo abisso, di inimmaginabile distruzione e miseria. Si sta avvicinando la morte quale svuotamento, quale paurosa impotenza, desolazione schiacciante in cui tutto indietreggia, tutto fugge, nulla più esiste se non un abbandono che è bruciante e soprattutto indicibilmente morto. E in questa notte dello spirito e dei sensi, in questo vuoto del cuore in cui tutto viene bruciato, la tua anima persiste nella preghiera;
questa spaventosa desolazione di un cuore bruciato dal dolore diventa in tè una straordinaria invocazione a Dio. O preghiera del dolore, dell'abbandono, dell'impotenza abissale, preghiera di un Dio derelitto, sii tu stessa adorata! Se tu. Gesù, preghi in tal modo, se tu preghi in tale miserrimo stato, ci può mai essere un abisso dal quale non sia consentito invocare il Padre tuo? Ci può mai essere una disperazione la quale non riesca, cercando rifugio nel tuo abbandono, a trasformarsi in preghiera? Ci può mai essere un ammutolimento nel dolore il quale sia costretto ad ignorare che un tal grido silenzioso venga ancora udito nei tripudi del cielo?
Per esprimere la tua miseria, per fare del tuo sconfinato abbandono una preghiera, pregasti l'inizio del Salmo 22. Infatti le tue parole: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?, sono il primo versetto di questa antichissima lamentazione che il tuo stesso Spirito Santo aveva posto quale grido straziante nel cuore e sulle labbra del giusto dell'Antico Testamento. Anche tu dunque, se mi è lecito esprimermi così, nella tua lancinante sofferenza hai voluto pregare quelle stesse cose che innumerevoli generazioni avevano già pregato prima di tè. In certo qual modo, in quella messa solenne nella quale offristi tè stesso come sacrifìcio etemo, tu stesso hai pregato con parole già improntate dall'uso liturgico, e con tali parole hai potuto dire tutto. Insegnami a pregare con le parole della tua Chiesa, così che esse diventino le parole del mio cuore.

Quinta parola:
«Ho sete!» (Gv 19,28)

L'evangelista Giovanni inquadra nel modo seguente questa parola da lui riportata: poiché tu sapevi che tutto era ormai compiuto, affinché si adempisse la Scrittura esclamasti: Ho sete! Anche qui tu hai dato conferma a una parola scritturistica attinta dai Salmi, una parola che lo Spirito di Dio aveva già anticipato profeticamente della tua passione. Infatti nello stesso Salmo 22 si dice di te: «Inaridito come un coccio è il mio vigore e la mia lingua mi si è attaccata al palato» (v. 16). E nel Salmo 69,22: «Nella mia sete mi hanno abbeverato di aceto».
O servo del Padre, obbediente fino alla morte e alla morte di croce, tu guardi oltre ciò che ti tocca, guardi a ciò che ti deve toccare; guardi oltre ciò che compi, guardi a quel che devi compiere; guardi oltre i fatti, guardi al dovere. Anche nell'agonia, in cui solitamente lo spirito si ottenebra e la chiara coscienza si spegne, tu sei in una certa misura ansiosamente attento a che tutti i dettagli della tua vita coincidano con l'immagine eterna ch'era presente nella mente del Padre quand'egli ti pen­sava. E così, propriamente, tu non badi alla sete in­dicibile del tuo corpo dissanguato, coperto di fe­rite brucianti, nudo ed esposto al sole implacabi­le d'un mezzogiorno d'Oriente. Piuttosto, tu che ami la volontà del Padre fino alla morte, affermi con un'umiltà quasi inconcepibile, degna di ado­razione: sì, anche quello che per bocca dei profe­ti era stato predetto di me come volontà del Padre, anche quello è adempiuto; sì, io ho davvero sete. O cuore regale, per il quale anche il tormento che brucia il tuo corpo con rabbia insensata altro non è che l'adempimento di un mandato dall'alto!
Appunto così hai inteso tutta la tua passione nella sua asprezza crudele. Essa era compito, non cieco destino; volontà del Padre, non malvagità de­gli uomini; atto salvifico del tuo amore, non cri­mine dei peccatori. Tu soccombesti perché noi fossimo salvati; moristi perché noi vivessimo; avesti sete perché noi ci ristorassimo alle acque del­la vita. Tu bruciasti di sete perché dal tuo costato trafitto scaturisse la fonte dell'acqua viva. A que­sta stessa fonte ci hai invitato quando, alla festa dei Tabernacoli, gridasti a gran voce: Chi ha sete, venga a me, e beva chi crede in me; poiché fonti d'acqua viva dello Spirito sgorgheranno dal cuo­re del Messia (cfr. Gv 7,37s).
Tu hai sofferto la sete per me, hai sete del mio amore e della mia salvezza: come il cervo asseta­to anela alle sorgenti d'acqua, così la mia anima ha sete di te.

Sesta parola:
«Tutto è compiuto» (Gv 19,30)
Hai detto proprio così: Tutto è compiuto. Sì, Signore, è la fine. La fine della tua vita. La fine della tua gloria, della tua speranza umana, la fine della tua lotta e del tuo lavoro. Tutto è ormai passato. Tutto s'è fatto vuoto. E la tua vita si è dileguata. Disperazione e impotenza. Ma questa fine è il tuo compimento. Poiché una fine in fedeltà e nell'amore è un compimento. E il tuo tramonto è la tua vittoria.
O Signore, quando finalmente capirò questa legge della tua vita, e perciò anche della mia vita? La legge per cui la morte è vita, il rinnegamento di sé conquista su di sé, la povertà ricchezza e il dolore grazia, la legge per cui la fine è in verità il compimento?
Sì, tu hai compiuto tutto. Compiuta è la missione che il Padre ti aveva affidata. Il calice che non do­veva passare è stato bevuto sino alla feccia. La morte, quella spaventosa morte, è stata subita. La sal­vezza del mondo è stata attuata, la morte sconfitta, il peccato schiacciato. Il potere degli spiriti delle te­nebre è stato reso impotente. La porta della vita è stata spalancata, la libertà dei figli di Dio conquistata. Ora può soffiare l'impetuoso Spirito della grazia! E già il buio mondo comincia lentamente, come in un'alba, ad arrossarsi alla vampa del tuo amore. Ancora un po' di tempo - quel po' di tempo che noi chiamiamo storia del mondo - e poi il mondo stesso s'infiammerà al braciere luminoso della tua divinità, e l'universo intero sarà sommerso nel beato oceano di fiamme che è la tua vita. Tutto è compiuto.
Porta a compimento nel tuo Spirito anche me, tu che porti a compimento l'universo, o Verbo del Padre, che tutto hai compiuto nella tua carne e nel tuo martirio. Potrò dire anch'io, alla sera della mia vita: Tutto è compiuto; ho condotto a termine la missione che mi hai affidato? Potrò ripetere anch'io, quando le ombre della morte scenderanno su di me, la tua preghiera sacerdotale: «Padre, l'ora è venuta-Io ti ho glorificato sulla terra compiendo l'opera che mi avevi assegnato da compiere. Padre, glorificami presso di te» (Gv 17,ls)? O Gesù, qualunque sia la mia missione: grande o piccola, dolce o amara, vita o morte, concedimi di compierla nel modo che tu - tu che hai compiuto tutto, anche la mia vita - l'hai già compiuta affinché io fossi capace di portarla a compimento.



Settima parola:
«Padre, nelle tue mani consegno il mio Spirito» (Lc 23,46)

O Gesù, il più abbandonato degli uomini, tu la­cerato dal dolore, sei alla fine. Quella fine in cui a un uomo viene tolto tutto, persino l'anima e la li­bera scelta tra il sì e il no, gli viene tolto tutto il suo essere. Questa, in realtà, è la morte. Ma chi (o che cosa) è costui che toglie? Il nulla? Il destino cieco? La natura spietata? No, è il Padre! È Dio, che è sapienza e amore insieme. Perciò ti lasci to­gliere a tè stesso. Ti abbandoni in piena confi­denza a quelle mani invisibili e lievi che noi uomini increduli, trepidi per il nostro io, sentiamo come gli artigli del cieco destino e della morte che ci strozzano improvvisi e spietati. Ma tu lo sai: sono le mani del Padre. E i tuoi occhi ottenebrati nella morte vedono ancora il Padre, si fissano nell'occhio grande e tranquillo del suo amore, e la tua bocca pronuncia l'ultima parola della tua vita: Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito.
Tutto dai a lui che tutto ti diede. Tutto deponi senza garanzia e senza riserve nelle mani del Padre tuo. È molto, è pesante e amaro! E tu hai do­vuto portare da solo ciò che formava il peso del­la tua vita: gli uomini, la loro volgarità, la tua missione, la tua croce, l'insuccesso e la morte. Ma ora hai finito di portare. Poiché ora puoi de­porre tutto, anche te stesso, nelle mani del Padre. Tutto. In quelle mani che sorreggono così bene, co­sì delicatamente! Come fossero mani materne.
Esse circondano la tua anima come si fa con un uc­cellino quando lo si racchiude amorevolmente e dolcemente fra le mani. Adesso nulla più è pesante, tutto è leggero, tutto è luce e grazia. E tutto è al ri­paro nel cuore di Dio, dove uno piangendo può sfo­gare ogni affanno e il padre con un bacio asciuga le lacrime che rigano le guance del bambino.
O Gesù, un giorno deporrai anche la mia povera anima e la mia povera vita nelle mani del Padre? Allora deponi tutto, il peso della mia vita, il peso dei miei peccati, non sulla bilancia del giudizio ma tra le braccia del Padre. Dove fuggire, dove nascondermi, se non presso di te, che mi sei fratello nelle amarezze, che hai patito per i miei peccati? Ecco, oggi io vengo a te. M'inginocchio sotto la tua croce. Bacio quei piedi che, senza farsi sentire e senza farsi fuorviare, mi seguono con passo san­guinante lungo le strade tortuose della mia vita. Abbraccio la tua croce, o Signore dell'amore eter­no, o cuore di tutti i cuori, o cuore trafitto, o cuo­re paziente e indicibilmente buono! Abbi pietà di me. Accoglimi nel tuo amore. E quando il mio pel­legrinaggio si avvicinerà alla fine e il giorno de­clinerà, e le ombre della morte mi avvolgeranno, pronuncia anche sulla mia fine la tua ultima parola: Padre, nelle tue mani consegno il suo spirito. O buon Gesù! Amen.






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