mercoledì 28 marzo 2012

Passione di Gesù secondo Marco



Mancavano due giorni alla Pasqua e agli Azzimi, e i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di catturarlo con un inganno per farlo morire. Dicevano infatti: «Non durante la festa, perché non vi sia una rivolta del popolo».

Gesù si trovava a Betània, nella casa di Simone il lebbroso. Mentre era a tavola, giunse una donna che aveva un vaso di alabastro, pieno di profumo di puro nardo, di grande valore. Ella ruppe il vaso di alabastro e versò il profumo sul suo capo. Ci furono alcuni, fra loro, che si indignarono: «Perché questo spreco di profumo? Si poteva venderlo per più di trecento denari e darli ai poveri!». Ed erano infuriati contro di lei. Allora Gesù disse: «Lasciatela stare; perché la infastidite? Ha compiuto un’azione buona verso di me. I poveri infatti li avete sempre con voi e potete far loro del bene quando volete, ma non sempre avete me. Ella ha fatto ciò che era in suo potere, ha unto in anticipo il mio corpo per la sepoltura. In verità io vi dico: dovunque sarà proclamato il Vangelo, per il mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche quello che ha fatto».
Allora Giuda Iscariota, uno dei Dodici, si recò dai capi dei sacerdoti per consegnare loro Gesù. Quelli, all’udirlo, si rallegrarono e promisero di dargli del denaro. Ed egli cercava come consegnarlo al momento opportuno.
14,1-11. Il passo si apre e si chiude con una menzione di tentativi  messi in opera per eliminare Gesù. All'inizio si parla della macchinazione dei sacerdoti e degli scribi (10-11) e alla fine di quella di Giuda. Tra questi due fatti negativi, Marco inserisce l'episodio dell'unzione di Betania (3-9). “Il gesto di questa donna acquista senso per il fatto che essa designa il luogo in cui s'incarna il mistero del Regno di Dio” (Cur 393). 
L'ordine etico che chiede la solidarietà verso i poveri non viene infranto ma superato da un'esigenza d'amore e di riconoscenza. Gesù merita questo tributo di lode e tale riconoscimento. Ora è Lui il povero, divenuto tale volontariamente, per arricchirci con la sua povertà. 
La donna rappresenta tutta la Chiesa che in ogni epoca comprende quanto sia stata amata e, a motivo della misericordia ricevuta, offre a Gesù un tributo  d'amore. Il gesto supera la mentalità di chi crede che la Chiesa debba interessarvi in modo esclusivo di questioni sociali o d'interventi solidali. Quest'ultimi tengono certamente un'importanza primaria ma non sono né l'unica attività della Chiesa e neppure la più importante. Al centro della vita di fede deve stare una comunione profonda con il Signore, l'amore riconoscente per Lui.
14,12-16. La preparazione della cena attesta la prescienza di Gesù. Tutto è previsto dal disegno di Dio. L'evangelista mette in evidenza che ora si sta per consumare non una Pasqua qualsiasi ma quella di Gesù: “Dov'é la mia stanza dove io mangerò la Pasqua con i miei discepoli?” (v.14). Ora la Pasqua antica sta per ricevere un contenuto e un significato del tutto nuovo.




Venuta la sera, egli arrivò con i Dodici. Ora, mentre erano a tavola e mangiavano, Gesù disse: «In verità io vi dico: uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà». Cominciarono a rattristarsi e a dirgli, uno dopo l’altro: «Sono forse io?». Egli disse loro: «Uno dei Dodici, colui che mette con me la mano nel piatto. Il Figlio dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui; ma guai a quell’uomo, dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito! Meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!».
14,17-21. L'istituzione dell'Eucaristia è preceduta dal racconto del del tradimento di Giuda e seguita da quello dell'abbandono dei discepoli (26-31). Gesù si dona a persone che non sono in grado di sostenere l'amicizia con Lui. Egli le ha chiamate non perché siano più affidabili o moralmente più meritevoli, ma per un dono gratuito. 
Gesù non nomina Giuda in modo diretto. Stando a questo passo, non sapremmo chi sia stato il traditore. Ognuno dei discepoli, anziché affermare: Non sono io (come ci aspetteremmo), pronunciano una parola di dubbio: Sono forse io? Il maestro non risponde ma precisa che a tradirlo sarà uno di coloro che mangiano con lui. Questo modo di dire spinge ognuno di noi che ascoltiamo tale racconto a porci la stessa domanda: sono forse io? 
Chi non ha mai abbandonato ilo Signore? Chi ha vissuto sempre come suo discepolo? Chi si è comportato sempre da vero cristiano? Gesù raduna attorno a sé uomini che non sono degni di Lui. Questo non costituisce un disastro. “Dopo la resurrezione, vi precedo in Galilea”. Ci chiama sempre di nuovo, ci precede, ci rinnova con il suo perdono. La risurrezione è un nuovo inizio per Lui ma anche per noi.




E, mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».
14,22-.25. Nella sua Pasqua, Gesù dona se stesso. Il pane spezzato richiama la sua morte violenta; il vino, il sangue versato in croce. Ci nutriamo di Lui nella sua Pasqua. Nutrirsi di Lui significa ricevere la sua carità; assumere la sua obbedienza a Dio e la sua fiducia in lui, la sua prontezza a servire i fratelli. 
Inoltre il suo grande passaggio diventa nostro. “Non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò, nuovo, nel regno di Dio”. Donando se stesso in croce, apre il regno di Dio. La cena è soltanto l'inizio di un banchetto che avverrà nel futuro. Gesù ci precede presso il Padre perchè un giorno possiamo essere con Lui. 





Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi. Gesù disse loro: «Tutti rimarrete scandalizzati, perché sta scritto: Percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse. Ma, dopo che sarò risorto, vi precederò in Galilea». Pietro gli disse: «Anche se tutti si scandalizzeranno, io no!». Gesù gli disse: «In verità io ti dico: proprio tu, oggi, questa notte, prima che due volte il gallo canti, tre volte mi rinnegherai». Ma egli, con grande insistenza, diceva: «Anche se dovessi morire con te, io non ti rinnegherò». Lo stesso dicevano pure tutti gli altri.
14,26-31. Gesù preannuncia la defezione di tutti i discepoli. Ciò non deve gettare nello sconforto perché Egli prevede anche una via d'uscita: vi precederò in Galilea. L'analisi del comportamento degli uomini non deve rimanere limitato alla verifica della nostra incapacità perché da ora compare un evento nuovo capace di riaprire la storia più meschina.
Pietro rifiuta l'idea di essere tra coloro che abbandoneranno il Signore. Insiste nel ritenere che tale meschinità non potrà coinvolgerlo. É difficile ammettere la nostra povertà, accettare la tenebra che persiste in noi. Il camino con Gesù rivela, invece, anche la nostra povertà. La presunzione di Pietro, che trascina anche quella degli altri, dovrebbe premunirci. Almeno dovremmo imparare a sperare, nel caso di una caduta, visto che il nostro caso si è già verificato nell'ambito dei primi discepoli. 






Giunsero a un podere chiamato Getsèmani ed egli disse ai suoi discepoli: «Sedetevi qui, mentre io prego». Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. Disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate». Poi, andato un po’ innanzi, cadde a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse via da lui quell’ora. E diceva: «Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu».
14,32-41. Il passo ci rivela l'umanità autentica di Gesù. Egli vuole essere solo con Dio ma si fa accompagnare da tre discepoli. Tuttavia soltanto nel Padre troverà un vero sostegno.
Lo chiama col nome di Abba e quindi non dubita di essere amato da Lui. Continua a considerarlo Dio buono e onnipotente. Non prega allora per recuperare la fiducia in Dio ma per passare dal “ciò che io voglio” al “ciò che vuoi tu”. Il suo stare con Dio, il conversare con Lui, gli fa vedere la sua morte in un modo nuovo. 
Il nostro rapporto con Dio modifica il nostro rapportarci con  i fatti della vita e il nostro relazionarci con gli uomini. La preghiera sincera e perseverante è davvero una scuola e un cambiamento di vita. Gesù realizza per sé il suggerimento di abbandonare tutto già dato a quelli che chiamava alla sua sequela, tuttavia Egli non lascia soltanto dei beni o delle persone ma tutto se stesso e consegna a Dio la vita e la sua persona (* vedere approfondimento alla conclusione del commento). 






Poi venne, li trovò addormentati e disse a Pietro: «Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare una sola ora? Vegliate e pregate per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole». Si allontanò di nuovo e pregò dicendo le stesse parole. Poi venne di nuovo e li trovò addormentati, perché i loro occhi si erano fatti pesanti, e non sapevano che cosa rispondergli. Venne per la terza volta e disse loro: «Dormite pure e riposatevi! Basta! È venuta l’ora: ecco, il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino».
Il triplice andirivieni dal luogo della preghiera al posto dove stanno i discepoli dormienti permette di consolidare il richiamo al vegliare. Soltanto nella vigilanza, nella quale ha grande parte la preghiera, possiamo resistere al sonno che è la prepotenza della carne. Gesù attua per noi la salvezza mentre eravamo estranei ed indifferenti. Il Signore concede la sua grazia ai suoi amici nel sonno.






E subito, mentre ancora egli parlava, arrivò Giuda, uno dei Dodici, e con lui una folla con spade e bastoni, mandata dai capi dei sacerdoti, dagli scribi e dagli anziani. Il traditore aveva dato loro un segno convenuto, dicendo: «Quello che bacerò, è lui; arrestatelo e conducetelo via sotto buona scorta». Appena giunto, gli si avvicinò e disse: «Rabbì» e lo baciò. Quelli gli misero le mani addosso e lo arrestarono. Uno dei presenti estrasse la spada, percosse il servo del sommo sacerdote e gli staccò l’orecchio. Allora Gesù disse loro: «Come se fossi un ladro siete venuti a prendermi con spade e bastoni. Ogni giorno ero in mezzo a voi nel tempio a insegnare, e non mi avete arrestato. Si compiano dunque le Scritture!». Allora tutti lo abbandonarono e fuggirono. Lo seguiva però un ragazzo, che aveva addosso soltanto un lenzuolo, e lo afferrarono. Ma egli, lasciato cadere il lenzuolo, fuggì via nudo.
14, 43-52. Il gesto di Giuda è odioso anche perché si serve d'un gesto d'affetto per compiere un'azione malvagia. Da che cosa è animato? Da amore geloso, da amore deluso? Non lo sappiamo. Vediamo soltanto come Gesù, entrando in relazione con noi, viene coinvolto dall'ambiguità della nostra passionalità. La persona umana non è mai chiara. La folla si è armata con una precauzione inutile. Nella battaglia che scoppia l'unica vittima è un orecchio tagliato. Ma chi circonda Gesù con amore non condivide ancora affatto ciò che è Gesù. Non ha accolto la sua non violenza. Ogni amore religioso ha bisogno di maturazione per diventare vero. Amare Gesù non significa armarsi contro qualcuno. Non si difende il Vangelo introducendo in esso qualcosa che gli è estraneo. Con la sua dichiarazione Gesù attesta la sua innocenza e l'inutilità delle precauzioni armate. Evidenzia nel contempo la disonestà del raggiro dell'autorità. Arrestarlo è un'opera delle tenebre e perciò deva accadere di notte.
Un giovane sfugge alla presa dei soldati. Che cosa significa il fatto? Rappresenta Gesù che, sebbene sia catturato, potrà sfuggire alla presa dei nemici?






Condussero Gesù dal sommo sacerdote, e là si riunirono tutti i capi dei sacerdoti, gli anziani e gli scribi. Pietro lo aveva seguito da lontano, fin dentro il cortile del palazzo del sommo sacerdote, e se ne stava seduto tra i servi, scaldandosi al fuoco. I capi dei sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano una testimonianza contro Gesù per metterlo a morte, ma non la trovavano.
Il sommo sacerdote, alzatosi in mezzo all’assemblea, interrogò Gesù dicendo: «Non rispondi nulla? Che cosa testimoniano costoro contro di te?». Ma egli taceva e non rispondeva nulla. Di nuovo il sommo sacerdote lo interrogò dicendogli: «Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?». Gesù rispose: «Io lo sono! E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo». Allora il sommo sacerdote, stracciandosi le vesti, disse: «Che bisogno abbiamo ancora di testimoni? Avete udito la bestemmia; che ve ne pare?». Tutti sentenziarono che era reo di morte.
Alcuni si misero a sputargli addosso, a bendargli il volto, a percuoterlo e a dirgli: «Fa’ il profeta!». E i servi lo schiaffeggiavano.
14,53-65. Il tribunale è ingiusto perchè ha già preso la decisione prima di esaminare la causa. Gesù, se viene considerato come l'interprete autentico del volere del Padre, è del tutto innocente. Davanti a Dio è il Santo. Dal punto di vista del Sinedrio, è uno che corrode la loro religione ma sopratutto il loro potere. Il Sinedrio non sbaglia nell'osservare che i gesti e i detti di Gesù debordano dalla loro legge. Egli ha introdotto vino nuovo e questo preme contro le pareti delle botti invecchiate che sono già scoppiate. Tuttavia da sempre gli interpreti del volere di Dio sono rifiutati. Gli uomini cambiano opinione a fatica, tanto più se una prospettiva diversa minaccia i loro comodi e vantaggi.
Circa le testimonianze apportate, c'è da rilevare che Gesù non ha detto che sarebbe stato Lui a distruggere il tempio ma che il tempio sarebbe andato distrutto. Tuttavia per Lui ormai era cosa morta molto di ciò che era legato al tempio. Infine Gesù viene condannato per quello che é. Avrebbero dovuto accoglierlo, adattarsi al nuovo messaggio ma non si sono sbagliati nel vedere in Lui uno che esorbitava dai limiti della loro prospettiva religiosa.
Trovandosi in difficoltà di fronte alla contradditorietà delle false testimonianze, il Sommo Sacerdote formula una domanda che dovrebbe costringere Gesù ad uscire allo scoperto. Egli, allora non si ritrae e proclama la verità e l'identità della sua persona. Ciò che il Vangelo annuncia  sarà considerato una bestemmia inaccettabile per Israele.






Mentre Pietro era giù nel cortile, venne una delle giovani serve del sommo sacerdote e, vedendo Pietro che stava a scaldarsi, lo guardò in faccia e gli disse: «Anche tu eri con il Nazareno, con Gesù». Ma egli negò, dicendo: «Non so e non capisco che cosa dici». Poi uscì fuori verso l’ingresso e un gallo cantò. E la serva, vedendolo, ricominciò a dire ai presenti: «Costui è uno di loro». Ma egli di nuovo negava. Poco dopo i presenti dicevano di nuovo a Pietro: «È vero, tu certo sei uno di loro; infatti sei Galileo». Ma egli cominciò a imprecare e a giurare: «Non conosco quest’uomo di cui parlate». E subito, per la seconda volta, un gallo cantò. E Pietro si ricordò della parola che Gesù gli aveva detto: «Prima che due volte il gallo canti, tre volte mi rinnegherai». E scoppiò in pianto.
14,66-72. Pietro segue Gesù ma da lontano. Non vuole essere codardo ma neppure compromettersi. Propria la misura presa per mostrare una fedeltà apparente lo espone al rischio ancora di più. Non bisogna esporsi, sentirsi troppo sicuri. La tentazione deve sorprenderci, non dobbiamo inseguirla. Caduto nell'ambiguità, Pietro precipita. Da un semplice diniego, passa all'imprecazione e allo spergiuro. Il peccato non è mai un compagno fastidioso, ma un padrone severo. Giuda ha reagito all'errore con il rimorso, Pietro con il dolore del pentimento. Siamo simili negli errori ma molto differenti nel come reagiamo di fronte ad essi. Il pentimento è la via normale di salvezza per tutti.






E subito, al mattino, i capi dei sacerdoti, con gli anziani, gli scribi e tutto il sinedrio, dopo aver tenuto consiglio, misero in catene Gesù, lo portarono via e lo consegnarono a Pilato. Pilato gli domandò: «Tu sei il re dei Giudei?». Ed egli rispose: «Tu lo dici». I capi dei sacerdoti lo accusavano di molte cose. Pilato lo interrogò di nuovo dicendo: «Non rispondi nulla? Vedi di quante cose ti accusano!». Ma Gesù non rispose più nulla, tanto che Pilato rimase stupito. A ogni festa, egli era solito rimettere in libertà per loro un carcerato, a loro richiesta. Un tale, chiamato Barabba, si trovava in carcere insieme ai ribelli che nella rivolta avevano commesso un omicidio. La folla, che si era radunata, cominciò a chiedere ciò che egli era solito concedere. Pilato rispose loro: «Volete che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?». Sapeva infatti che i capi dei sacerdoti glielo avevano consegnato per invidia. Ma i capi dei sacerdoti incitarono la folla perché, piuttosto, egli rimettesse in libertà per loro Barabba. Pilato disse loro di nuovo: «Che cosa volete dunque che io faccia di quello che voi chiamate il re dei Giudei?». Ed essi di nuovo gridarono: «Crocifiggilo!». Pilato diceva loro: «Che male ha fatto?». Ma essi gridarono più forte: «Crocifiggilo!». Pilato, volendo dare soddisfazione alla folla, rimise in libertà per loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso.
15,1-20. I responsabili della consegna a Pilato sono i capi del popolo. Il governatore indaga sulla posizione politica di Gesù; vuole sapere se si consideri il re della nazione. Gesù però è re in senso religioso. Per questo non risponde a Pilato. Non gli crederebbe, non lo comprenderebbe. Pilato, che è sicuro dell'innocenza di Gesù, preferirebbe liberarlo. Forse non per essere giusto ma per porre in imbarazzo i suoi avversari politici. Infine cede all'insistenza della folla, sobillata dai capi. Gesù diventa allora un uomo consegnato agli uomini; deve sottostare ai loro giochi e passioni. È posto in loro balìa.






Allora i soldati lo condussero dentro il cortile, cioè nel pretorio, e convocarono tutta la truppa. Lo vestirono di porpora, intrecciarono una corona di spine e gliela misero attorno al capo. Poi presero a salutarlo: «Salve, re dei Giudei!».
Gesù cade nelle mani dei soldati. Diventa uno degli ultimi, un povero nelle mani di oppressori. Questo fatto sollecita la giustizia di Dio.
Il processo di Gesù è giunto al termine. Eccolo ora consegnato alla morte. A questa sorte viene associato un passante designato come "padre di Alessandro e di Rufo", forse due cristiani ben noti nelle comunità primitive. La crocifissione di Gesù viene a trovarsi sulla strada di questo contadino, che si disinteressa di tutte le questioni politiche che toccano Gerusalemme. Lui se ne sta in disparte, non chiede nulla a nessuno, non è per nulla coinvolto in tutta questa vicenda, eppure vi si scontra in pieno e la sua vita, così come quella dei suoi discendenti, ne viene radicalmente trasformata.






Condussero Gesù al luogo del Gòlgota, che significa «Luogo del cranio», e gli davano vino mescolato con mirra, ma egli non ne prese. Poi lo crocifissero e si divisero le sue vesti, tirando a sorte su di esse ciò che ognuno avrebbe preso. Erano le nove del mattino quando lo crocifissero.
Gesù viene condotto al Golgota (in latino calvario, "luogo del cranio", forse a causa dell'aspetto del luogo). Egli si rifiuta di prendere la bevanda che si dava allora ai condannati, forse perché sentissero meno il dolore. Marco non si sofferma sul supplizio: "Lo crocifiggono" (v. 24). Queste due parole evocano, senza bisogno di altri dettagli, tutto l'orrore di quella pena. La spartizione delle vesti, abituale in quelle occasioni, permette all'evangelista di collegare gli eventi al compimento delle Scritture (cf. Sal 22,19). Viene data la prima delle tre precisazioni di orario (cf. in seguito vv. 53 e 34): il fatto si svolge tra le otto e le nove del mattino. Si può discernere qui una divisione della giornata ordinata alla morte di Gesù: dopo la comparizione dinanzi a Pilato, al mattino presto (cf. 15,1), Gesù viene crocifisso "all'ora terza" (v. 25), è ancora in croce "all'ora sesta" (mezzogiorno: 15,33), pronuncia le sue ultime parole "all'ora nona" (15,34), e, "venuta la sera" (15,42), viene messo nella tomba. 






La scritta con il motivo della sua condanna diceva: «Il re dei Giudei». Con lui crocifissero anche due ladroni, uno a destra e uno alla sua sinistra. Quelli che passavano di là lo insultavano, scuotendo il capo e dicendo: «Ehi, tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso scendendo dalla croce!». Così anche i capi dei sacerdoti, con gli scribi, fra loro si facevano beffe di lui e dicevano: «Ha salvato altri e non può salvare se stesso! Il Cristo, il re d’Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo!».
26-27. L'epigrafe fissata sulla croce porta la menzione: "II re dei giudei"; questo titolo costituisce il motivo della condanna: è in quanto liberatore di Israele che Gesù viene condannato. Marco menziona poi la crocifissione dei due ladroni "uno alla sua destra, l'altro alla sua sinistra" (v. 27). È un re dei giudei schernito dai soldati e dal suo stesso popolo, un re crocifisso affiancato da due fuorilegge, "uno alla sua destra, l'altro alla sua sinistra" (cf. 10,35-37, il posto che volevano occupare i figli di Zebedeo nella gloria!).






Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio.
15,33. L'ora sesta è il momento in cui le tenebre scendono sulla terra, e questo dura fino all'ora nona. Molti commentatori pensano che si tratti di un'allusione ad Amos 8,9 ("In quel giorno ... farò tramontare il sole a mezzogiorno e oscurerò la terra in pieno giorno!"). Comunque sia, queste tenebre sono il segno che siamo al cuore di una grave crisi e che la morte del giusto è un giorno di lutto anche per la creazione.




Alle tre, Gesù gridò a gran voce: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: «Ecco, chiama Elia!». Uno corse a inzuppare di aceto una spugna, la fissò su una canna e gli dava da bere, dicendo: «Aspettate, vediamo se viene Elia a farlo scendere». Ma Gesù, dando un forte grido, spirò.
15, 34-36. Questo giorno di lutto è anche, per Gesù, il giorno in cui vive l'abbandono radicale. Recitando il salmo 22,2, egli grida la sua incapacità di comprendere ciò che gli sta accadendo: lui, che aveva proclamato l'imminenza dell'avvento del regno di Dio (cf. 1,14-15), si ritrova solo dinanzi alla morte. Se non è troppo azzardato, si potrebbe dire che Gesù è stato effettivamente abbandonato da un dio, o più esattamente da una certa immagine di Dio. Sulla croce Gesù non scopre forse che l'unico Dio presente al suo fianco è il Dio che muore con lui e non quello che potrebbe evitargli la morte? In ogni caso Gesù non è stoico: non affronta la morte senza che il dubbio si insinui in lui, non è il tipo dell'eroe tragico che combatte la morte senza temerla. Al cuore della tempesta, gli restano solo le parole del salmista.




Il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo.
38. Probabilmente, anche se Marco non lo precisa, bisogna pensare qui alla tenda che separa il luogo santo dal luogo santissimo, quel luogo santissimo dove il sommo sacerdote entrava solo una volta l'anno, con molte precauzioni, per offrire l'offerta in vista del perdono. Nella morte di Gesù viene abolita l'era del tempio e del sacrificio (idea che sarà sviluppata lungamente dalla Lettera agli Ebrei). All'inizio dell'evangelo i cieli si sono "squarciati" in occasione del battesimo di Gesù: in lui Dio si rivelava agli uomini in modo decisivo; quasi al termine del suo racconto Marco sottolinea che anche la morte di Gesù è occasione di una lacerazione, quella del velo del tempio, lacerazione che inaugura un nuovo modo di accedere a Dio. La morte di Gesù viene qui interpretata come un evento che interviene sugli equilibri della storia: quando Gesù muore, si apre una nuova epoca per l'umanità.






Il centurione, che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!».
39. Testimone di questa morte è uno dei carnefici, responsabile dei soldati che hanno sferzato e crocifisso Gesù. Egli "vede" come Gesù è morto e afferma: "Davvero quest'uomo era Figlio di Dio".
È nella sua morte che Gesù viene confessato in modo autentico come Figlio di Dio. Ciò che i demoni già sapevano, ma che dicevano nel peggiore dei modi (cf. 1,25.34; 3,12), ciò che la voce dal cielo aveva proclamato solo per Gesù o per pochi discepoli frastornati (cf. 9,7), quella relazione intima che Gesù intratteneva con il Padre (cf. 14,32-42) ora viene resa pubblica, ed è al momento della morte del Figlio che lo diventa. Qui vi è qualcosa di cui non si può sottovalutare la portata.




* Approfondimento: 
Obbedienza orante di Gesù

C'era una distanza da colmare, un culmine da attingere, là dove si compie il destino di ogni uomo: nella morte. Il suo destino era morire di una morte divinamente filiale.
Gesù si è messo in cammino e, camminando, è diventato il cammino di accesso presso il Padre, contemporaneamente «precursore» e «cammino vivente e nuovo» per entrare nel santuario. È traghettatore e passaggio, «Cristo nostra pasqua», salvatore e salvezza.
L'obbedienza è la virtù filiale per eccellenza; Gesù è «diventato obbediente». Ha lottato per diventarlo: «Abbà! Se è possibile [...] Non la mia volontà, ma la tua». «Attraverso la sofferenza, ha imparato la sottomissione». Egli doveva diventare obbediente, non che fosse mai stato non sottomesso, ma sulla terra nessuno è in grado di porre un atto assoluto, eterno. Tutto è frammentato, misurato dal tempo. Oggi si pone un atto di obbedienza a Dio, l'indomani esso è da rifare. Ma Gesù è «diventato obbediente fino alla morte», in un assoluto di sottomissione, proporzionatamente all'infinita paternità di Dio. Accettando la morte, acconsente a non esistere se non per il Padre che lo genera e diventa, nella pienezza della sua libertà umana, il Figlio che egli è fin dal principio.
Gesù ha progredito nell'amore. Figlio del Dio d'amore, ha sempre amato, «non ha cercato ciò che gli piaceva». Ma non aveva mai posto l'atto assoluto dell'amore, di cui dice: «Nessuno ha un amore più grande che dare la propria vita...». Nella morte, egli è «fatto amore», pienamente, senza limite alcuno: egli è divinizzato, «divenuto spirito vivificante», il Figlio in tutto simile al Padre.
Gesù fu un uomo di grande preghiera. Il Padre non deve pregare: è fonte; invece la preghiera si lascia riempire dalla fonte. Essa si espone a Dio, si apre a lui nel desiderio. È un atto filiale. Chi prega si lascia generare, si fìlializza pregando.
Gesù è in preghiera nelle grandi tappe della sua vita, le quali tutte annunciano la sua morte. Egli prega al battesimo, che anticipa «il battesimo con cui doveva essere battezzato». Mentre prega, il cielo si apre, lo Spirito scende su di lui: «Una voce viene dal cielo: "Questi è mio Figlio"». Gesù in preghiera è Gesù nella sua fìlialità. Sulla montagna, «mentre pregava, il suo volto divenne un altro», divenne il vero volto del Figlio. La voce proclama di nuovo: «Questi è mio Figlio...». Mosè ed Elia annunciano «l'esodo che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme».
«L'alta montagna» della trasfigurazione era l'immagine della montagna altissima della pasqua del Figlio. La passione si apre con l'implorazione: «Abbà! Padre! A te tutto è possibile, allontana da me questo calice!». «Con grandi grida e lacrime, offrì preghiere e suppliche a colui che poteva salvarlo dalla morte. E fu esaudito». Non è esentato dal morire e, tuttavia, è salvato dalla morte, è salvato all'interno della morte:
il Padre lo genera nella morte.
Secondo Luca, il senso della morte si esprime in un'ultima preghiera. Viene citato un versetto del Salmo 31, Gesù lo fa precedere dal nome del suo Abba: «Padre, nelle tue mani rimetto il mio spirito». Il destino di Gesù si compie in un atto di preghiera, e contemporaneamente si compie la sua missione.
La preghiera è stata definita come un'ascesa dello spirito verso Dio. Non è solamente con lo spirito, ma con tutto il suo essere che, morendo, Gesù è asceso verso Dio. La preghiera è stata anche definita come l'accoglimento fatto al dono di Dio. Gesù muore in una recettività illimitata, aperto al Padre che lo genera. Pregare è un atto filiale, Gesù muore in un atto di preghiera, un atto filiale. Alla preghiera corrisponde l'esaudimento. «Padre, nelle tue mani...», dice Gesù; il Padre dichiara: «Tu sei mio Figlio, oggi io ti genero».
«Tutto è compiuto». Niente si aggiungerà. L'ascesa del Figlio raggiunge la sommità; la sua discesa è pervenuta all'estrema profondità. L'incarnazione è totale. Le attività di Gesù sulla terra convergono verso questo punto da cui scaturiscono, come i fiumi si gettano nel mare, loro patria originaria: «Padre, l'ora è giunta, glorifica il Figlio tuo... presso di te, con quella gloria che avevo presso di te, prima che il mondo fosse».
Offerto al Padre in totale recettività, Gesù muore, dunque generato. È nato alla pienezza del suo mistero. Poiché egli è Figlio, è andato verso il Padre, ha obbedito, si è aperto a lui nella preghiera. La morte è il sacro divinamente filiale del l'uomo Gesù. Il Padre lo genera nella pienezza che i discepoli avevano già intravisto sulla montagna della trasfigurazioni ma questa pienezza è di una novità radicale, tanto radicai quanto la differenza tra la morte e la vita sulla terra. In questa morte senza limite, la filiazione si dispiega all'infinito. (Fr.-X. Durrwell)

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