giovedì 31 gennaio 2013

PERCHE' TORNARE AI PADRI

Il patrologo Paolo Prosperi risponde a questo interrogativo presentando l’intenzione che animava la scuola di Fourvière, guidata dal padre gesuita Fontoynont. 


L'intervento ricostruisce la storia della collana Sources Chretiennes, nel contesto dello scolasticato gesuita di Lione alla fine degli anni 30 (Fontoynont, de Lubac, Daniélou, Mondèsert, von Balthasar) e del contemporaneo rinnovamento della teologia cattolica. I padri della Chiesa vengono ricoperti all'interno di una nuova coscienza dell'unità tra pensiero e vita, scienza teologica e vita mistica, in cui l'irriducibile mistero di Dio diventa spunto per una rinascita della ragione. La Scrittura e l'esegesi offrono uno strumento insostituibile per una comprensione unitaria del mistero della storia del mondo e di ogni singola persona. Da qui, con una sensibilità comune alla scuola parigina, nasce anche una nuova valutazione dell'uomo e della Chiesa, letti alla luce di quella comunione tra Dio e l'uomo che li definisce entrambi.


... Tornare ai Padri significava rivendicare l'unità tra teologia dogmatica ed esperienza viva del mistero di Cristo nella Chiesa: in breve, l'unità tra pensiero e vita. Il paradosso di una teologia talmente scientifica da poter mettere tra parentesi il dato della fede vissuta come un presupposto a priori, inincidente sulla teologia stessa, aveva portato ad una grave dissociazione tra la dogmatica e la pietà personale, tra dogma e vita spirituale cristiana. Si rivendicava per ciò non solo un influsso più diretto del dogma sulla vita dei credenti, ma anche viceversa un influsso più diretto della vita di fede sono espressione stessa del dogma. Per usare una terminologia cara a Vladimir Losskij, che proprio nel 1944 pubblicava a Parigi il suo trattato di teologia Théologie mystique de l'Eglise d'Orient, si rimetteva in primo piano il legame inscindibile tra mistica e teologia, quel legame che la tradizione occidentale, a differenza dell'oriente, aveva rischiato di perdere sempre più nel corso della parabola moderna. Non si possono dissociare purificazione del cuore e riflessione razionale sul mistero di Dio, poiché solo l'occhio purificato vede Colui che è puro ed è perciò abilitato a parlare di Dio. Mentre non è sicuro, prima di aver purificato a sufficienza le orecchie e l'intelletto, accostarsi alla teologia. Si trattava di rimettere al centro quella conoscenza per connaturalità che per i Padri era l'unico modo reale accedere al mistero di Dio. Con ciò non si voleva affatto buttare nella spazzatura l'arte del concetto. Ma piuttosto di metterla al servizio di una visione più integrale dell'uomo e del suo rapporto con Dio. Occorreva dare il giusto spazio ad una idea di conoscenza  più vitale, più esistenziale, più vicina non solo alla concezione patristica ma anche a quella biblica: conoscenza di Dio intesa come partecipazione alla sua vita, come comunione con lui, donata in Cristo mediante la Chiesa. In una tale visione, teologia, liturgia, meditazione della scrittura e vita mistica dovevano tornare a sostenersi e a illuminarsi a vicenda in una sintesi profondamente unitaria, sintesi che il cattolicesimo moderno aveva perduto. Già Fontoynont scriveva nel 1937: «Il ritorno ai padri può essere d'aiuto per una riforma della vita spirituale, nel senso di una pietà non più solamente morale, ma fondata sulla verità ontologiche del dogma, perché i padri uniscono in modo vivo teologia, esegesi e spiritualità». I suoi discepoli non tardarono a dare piena risonanza a tale convinzione. Nell'introduzione al primo volume di Sources Chrétiennes, La vita di Mosé, Danièlou illustrava in modo esemplare con cui nel grande Cappadoce si compenetrano armonicamente finezza speculativa ed esperienza mistica e puntava il dito sulla inanità della distinzione occidentale tra teologia e spiritualità. Gregorio incarnava l'ideale, proprio in quanto egli non è né un puro mistico non è un puro speculativo ma l'uno e l'altro insieme. La chiarezza nell'intelligenza del dogma non è mai sentita come dissociabile dal crescere del cristiano nella santità e nell'esperienza di comunione con Cristo. Il famoso principio secondo cui, per usare la celebre formulazione di Evagrio Pontico, «se preghi veramente sei teologo e se sei teologo preghi veramente», tornava improvvisamente alla ribalta. La conoscenza di Dio non può male essere il risultato di uno sforzo della ragione, ma solo un dono gratuito di Dio, incalzava Daniélou, illustrando nella sua introduzione la mistica di Gregorio Nisseno: «Gregorio ha provato che l'unione con Dio non si compie affatto mediante l'intelligenza ma al di là di ogni intelligenza, mediante l'abbandono della fede in un contatto reale da persona a persona» (J. D. La vie de Moyses. Introduction, 40-41). Certo, Danielou, si affrettava ad interpretare l'apofatismo di Gregorio come una reazione contro il razionalismo greco. Ma dietro questa lettura storica, si colgono le prime avvisaglie di una polemica più o meno velata come un'altra forma di razionalismo: quella degli epigoni della restaurazione neo scolastica che dominava in modo esclusivo la scena non solamente a Roma, ma nella maggior parte dei seminari. Nel 1948 von Baltasar rincara la dose pubblicando dal canto suo un articolo famoso dal titolo Teologia e santità. Così vi scriveva: «Se osserviamo la storia della teologia fin dall'altra scolastica, lo sguardo non prevenuto è sorpreso immediatamente dal fatto che i grandi santi, nella loro maggioranza, erano anche grandi dogmatici, tanto che divennero colonne della Chiesa, sostegni per vocazione della vitalità ecclesiale proprio perché nella vita rappresentarono la pienezza della dottrina ecclesiale e nella loro dottrina la pienezza della vita ecclesiale. Queste colonne della Chiesa sono personalità totali: ciò che insegnano lo vivono, in un'unità così diretta, che il dualismo tra dogmatica e spiritualità, è loro ignoto. La vera teologia, quella dei santi, si serve di strumenti concettuali anche complessi ma il suo scopo non consiste nel comunicare all'uomo conoscenze astruse e occulte ma nel legarlo a Dio più strettamente nella totalità della sua esistenza. Ciò comporta che il teologo, per sua natura, è un orante» (in Verbum Caro, Brescia 1968, 200-229). Le parole di von Balthasar echeggiano quelle di Evagrio, ma soprattutto di Gregorio Nisseno: la preghiera è l'unico atteggiamento realistico  di fronte al mistero, la fede in atteggiamento d'ascolto che tutto attente, nulla precorre ed anticipa. Mai la conoscenza può allontanarsi dall'iniziale atteggiamento orante, per applicarsi all'attività conoscitiva. Lo può tanto poco, quanto la gnosi non trascende mai la fede, rimane invece una forma intima di essa. La conclusione di Balthasar è praticamente una parafrasi di uno dei temi più cari a Gregorio di Nissa: Dio, pure come colui che è trovato, è ancora sempre e proprio allora colui che è cercato, e la fede giunta al suo adempimento è ancor sempre e proprio allora, la fede implorante, adorante. 
Veniamo così a introdurre un secondo aspetto, a mio avviso profondamente legato al primo: un certo comune richiamo all'apofatismo. Esso può riassumere nell'esigenza, accuratamente sentita, di liberare il ministero del Dio vivente della Bibbia da ogni pretesa di rinchiuderlo in in un sistema concettuale di verità chiare e distinte. L'apofatismo non incarna affatto un invito a mettere la ragione in soffitta. Si voleva piuttosto ove nuovamente l'accento sul fatto da sempre ammesso in linea teorica ma poco incidente sul modo moderno di fare teologia in Occidente: Dio è realmente mistero che non può essere catturato, Dio è realmente sempre il maggiore. Ma è proprio per questo che egli ha sempre qualcosa di nuovo da rivelare all'uomo e l'uomo qualcosa di nuovo da scoprire delle profondità di Dio.  Stupore, pensa Gregorio di Nissa, è l'unico nome che realmente si addice a Dio. Egli è il sempre nascosto che sempre si rivela nella luce inesauribile dello spirito. Questa concezione, da sempre familiare alla tradizione orientale, non solo non contraddice la definitività insuperabile della rivelazione di Cristo ma al contrario la connota in modo distintivo: è solo unendosi alle alla vita divina del Cristo, che l'uomo finito è introdotto agli spazi infiniti della conoscenza di Dio. Gregorio è il cantore della epektasis, ossia del progresso senza fine dello spirito nella conoscenza del mistero di Dio. L'uomo in Cristo e realmente divinizzato e tuttavia egli rimane sempre la creatura supplice e attende il libero mostrarsi del Creatore, poiché è inevitabile che l'uomo che vede Dio si è sempre arso dal desiderio di vederlo di più. Pur essere utile richiamare anche in questo caso l'introduzione di Danielou alla vita di Mosé. In quest'opera il Nisseno ci presenta essenza di Dio avvolta dalla tenebra del Monte Sinai, invulnerabile ad ogni attacco della ragione umana. L'icona di Mosé che pur avendo parlato con Dio faccia a faccia, tuttavia arde ancora di inappagato desiderio, come non ne avesse ancora conosciuto nulla e leva a Dio la supplica di manifestarsi così come egli è realmente, diviene una sorta di monito simbolico per la teologia cattolica: nessuna teologia, nessun sistema teologico, per quanto perfetto, nemmeno quello di Tommaso d'Aquino, può essere considerato come chiuso e definitivo. La teologia è vera ed efficace solo finché nasce dall'apertura della ragione agli manifestarsi di Dio, manifestarsi che ha in Cristo presente nella Chiesa il suo centro inesauribile irradiazione.
Ma lo scopo cui si consacrarono certamente più a fondo sia de Lubac che Danielou, fu quello di rendere giustizia all'esegesi biblica degli altri. Entrambi pubblicarono saggi divenuti classici sul metodo esegetico Origene e dei suoi successori. La valorizzazione dell'esegesi spirituale suonava anacronistico in un momento in cui la Chiesa cattolica doveva fronteggiare gli attacchi della demitizzazione condotta con i raffinati strumenti del metodo storico critico. L'esegesi simbolica e alle parole della scuola alessandrina, appariva ai più come superata, ingenua e arbitraria. I nostri teologi erano al contrario convinti che proprio nel modo di interpretare la Scrittura si trovasse uno dei segreti della unitarietà invidiabile con cui i padri avevano pensato e vissuto il cristianesimo. Il metodo storico critico appariva loro uno strumento indispensabile ma solo per accedere a quello che Origene avrebbe chiamato il senso letterale. Ci limitiamo a sottolineare il principio di fondo che essi intendevano rimettere al centro: partivano dalla certezza di fede che tutta la Scrittura, non solo il nuovo ma anche l'antico testamento, parla in simbolo dei misteri di Cristo e della Chiesa. Ciò non dava affatto loro il diritto di dare sfogo al più sfrenato soggettivismo. Al contrario: essi erano convinti che il senso spirituale è realmente racchiuso nella lettera, che ha una esistenza reale, ma che soltanto la luce dello spirito Santo permette di trapassare il velo della lettera è vedere le ricchezze nascoste dietro di essa. Le scritture crescono con il lettore, ammonisce Gregorio Magno: la comprensione della scrittura cresce col maturare della fede dell'interprete. La lettera contiene lo spirito come l'umiltà del corpo di Gesù nasconde la gloria abbagliante del verbo divino. Occorrono gli occhi dello spirito è penetrare attraverso l'opacità di essa: occhi purificati dalla fede nel crocifisso e risorto. Torna anche qui il richiamo all'unità profonda tra esegesi e fede vissuta. E torna anche la convinzione che la parola di Dio, in quanto corpo del verbo, è espressione finita dell'infinita profondità di Dio e perciò i suoi significati sono inesauribili. In un passo divenuto famoso del commento sui numeri, Origene così interpretata le tende, simbolo dell'eterno pellegrinaggio della Chiesa attraverso i sensi della scrittura: «Se uno fa qualche progresso nella scienza e ha acquistato qualche esperienza in questo campo, sa bene che quando è giunto a una qualche contemplazione e conoscenza dei misteri spirituali, lì l'anima dimora come in una tenda. E quando poi, dalle realtà che ha trovato di nuovo ne esplora altre e avanza ad altre comprensioni, di là, come lavando la tenda, si dirige a luoghi più alti e la si ferma e trova altri sensi spirituali» (Omelie sui Numeri 17,4).
Ho detto che ai nostri teologi interessava soprattutto recuperare il principio patristico secondo cui la scrittura parla delle misteri di Cristo e della Chiesa. Ciò significa che nella polisemia del testo biblico, i Padri trovavano la chiave per comprendere in modo unitario tutte le fasi della storia universale alla luce del mistero di Cristo, adombrato nelle vicende di Israele e ripresentato nella vita della Chiesa. E soprattutto il recupero di tale visione che premeva ai nostri teologi, e in particolar modo a J. Daniélou, che trovò nell'idea biblico-patristica di tipologia il fondamento concettuale per creare una vera e propria teologia della storia: ogni intervento salvifico di Dio è typos, prefigurazione di quanto Dio farà nel futuro ed è a sua volta prefigurato in ciò che Egli ha già fatto nel passato, in una logica di progressione storica che tende verso la pienezza escatologica. L'esodo di Israele dall'Egitto alla terra promessa, ad esempio, è eikòn, immagine del passaggio di Cristo, vero Mosè, attraverso le acque della morte, ma anche di quella immersione nella morte e resurrezione di Cristo che avviene nella mistagogia sacramentale; della morte e resurrezione mistica dell'anima che passa dalla schiavitù della carne alla libertà dello Spirito, e infine del passaggio della Chiesa, Israele definitivo, da questo mondo al Regno di Dio. Nell'esegesi dei Padri veniva così ritrovata quella possente unità tra dogma, vita liturgica e vita spirituale che si andava cercando. Vorrei soffermarmi su quest'ultimo aspetto: uno dei frutti più alti della lettura simbolica della Scrittura operata dalla Chiesa del tempo dei Padri, era stata la messa in valore del legame profondo che corre tra liturgia comunitaria e vita spirituale del singolo. Contro una teologia che aveva insistito solo sull'efficacia del segno sacramentale e troppo poco sul significato del segno stesso, Daniélou rivendicava con forza il bisogno di riproporre lo stile delle catechesi mistagogiche dei Padri, che spiegavano il rapporto tra i misteri sacramentali e la vita cristiana proprio attraverso la lettura simbolica della Bibbia. Se il passaggio del mar Rosso, ad esempio, veniva compreso tanto in senso sacramentale quanto in senso spirituale ed esistenziale, diveniva semplicissimo per il credente comprendere il senso dell'evento liturgico: esso è icona della vita vissuta e viceversa la vita spirituale non è altro che il maturarsi e il manifestarsi di quanto è prefigurato e realmente donato nel simbolo liturgico. Rimettere in luce il nesso profondo tra vita spirituale e vita sacramentale fu non a caso uno degli scopi che Daniélou si prefiggeva già nella sua magistrale monografia sulla mistica del Nisseno: Platonisme et théologie mystique. Vi scriveva, nel 1944: «La vita spirituale tutta intera per Gregorio di Nissa non è altro che un mistero di morte e di resurrezione. Essa è la realizzazione del mistero stesso del battesimo che, secondo la dottrina paolina, ci fa morire con Cristo per resuscitare con lui» (p.17). «La vita sacramentale è veramente concepita come una mistagogia, come una iniziazione progressiva che conduce l'anima dalla schiavitù della carne fino alle vette della vita mistica. (...) L'azione sacramentale marca qui la dipendenza della vita mistica dall'azione obiettiva di Cristo. Essa è la fonte normale della mistica cattolica che è trasformazione dell'anima e del corpo del cristiano nell'anima e nel corpo di Cristo morto e risorto. Questo parallelismo è caratteristico della mistica greca in generale che ignora la dissociazione operata in Occidente tra vita inferiore e vita liturgica e per la quale la vita interiore è immersa nella vita liturgica. E questa una costante della teologia orientale» (p. 38).
Veniamo a questo punto a trattare uno dei punti più delicati del nostro argomento. Si è detto che ritorno ai Padri significò anche cercare una visione unitaria della storia della salvezza, vista come da sempre ordinata a trovare compimento nel mistero di Cristo, alfa ed omega del cosmo e della Storia. L'eccessivo estrinsecismo in cui, secondo i nuovi teologi, era caduta la teologia scolastica, aveva rischiato di portare a una concezione sempre più autosufficiente della natura umana, a tal punto che la grazia dell'Incarnazione finiva per apparire come qualcosa di sopraggiunte e di accessorio, senza alcun «appiglio» in una apertura originaria dell'uomo. Conseguenza di ciò era una visione fondamentalmente amartio-centrica: il Verbo si incarna primariamente per rimediare al peccato dell'uomo, e non per esaudire il desiderio di unirsi a Dio che da sempre Egli stesso ha immesso nel cuore della creatura.
De Lubac rivendicava al contrario, alla scuola dei Padri e a suo avviso dello stesso san Tommaso, un legame di ordinamento dinamico tra la natura umana e la vita divina cui è chiamato per grazia, secondo il disegno eterno di Dio. In altre parole non esiste ne è mai esistita una natura umana «pura». L'uomo non è autosufficiente: egli trova solo nella comunione con Dio la propria piena realizzazione, la beatitudine: vita homini visio Dei, diceva già Ireneo di Lione. Si trattava di ridare peso a quel desiderium naturale videndi Deum di cui lo stesso san Tommaso aveva parlato e che i Padri greci, con un linguaggio maggiormente biblico, chiamavano eikòn toù theoù, l'immagine di Dio impressa nell'uomo. In altre parole, l'uomo non è veramente se stesso, non è pienamente realizzato finché non supera la propria finitezza, o per esprimersi col linguaggio dei Padri, finché non è deificato mediante la grazia. In tal modo, contro un amartiocentrismo eccessivo, si riproponeva l'idea, cara ai Padri, della paradossale grandezza dell'uomo, che, pur finito, è chiamato in Cristo ad essere divinizzato: «Dio si è fatto uomo perché l'uomo diventasse Dio», recita un adagio patristico, che da Ireneo in poi si trova sempre ripetuto tra i Padri specialmente orientali. Non bisogna dimenticare a questo proposito che de Lubac fu anche e forse soprattutto l'autore di un'opera come il Dramma dell'umanesimo ateo. Egli, a differenza di quanti rifiutavano con una condanna radicale e acritica la modernità in blocco, sentiva acutamente la provocazione che proveniva dall'ateismo contemporaneo. Anch'egli - come molti tra i pensatori della diaspora russa con cui tramite l'amico Daniélou dovette entrare in contatto -sentiva annidato alla radice della parabola contemporanea un equivoco tragico: l'idea che tra Dio e l'uomo vi sia una rivalità insanabile. «Se Dio esiste l'uomo è condannato a non poter esistere veramente. Se l'uomo ha piena esistenza, Dio non può più essere Dio». Ora, questa rivalità non è cristiana, poiché l'essenza dell'annuncio cristiano è per l'appunto l'opposto: Dio che si abbassa al rango di uomo per elevare l'uomo al rango di Dio. Ecco allora una ragione in più - e delle più profonde - per tornare ai Padri. Come amava rilevare V. Losskij, infatti, le battaglie dogmatiche spesso apparentemente astruse dell'età patristica, non avevano mai in fondo altro scopo che questo: salvaguardare la reale possibilità della divinizzazione dell'uomo in Cristo. Il Cristo del dogma di Calcedonia è un Dio che senza confusione e senza separazione diventa uomo perché l'uomo senza confusione ma senza separazione possa diventare Dio. L'uomo - scriveva Massimo il Confessore ormai alla fine dell'età d'oro dei Padri - diviene katà chàrin (per grazia) tutto ciò che Dio è katà physin (per natura). Dio si fa uomo per saziare l'aspirazione infinita della libertà umana e non per coartarla, per liberare l'uomo dal giogo della sua finitezza e non viceversa. In questa prospettiva, proprio la non autosufficienza dell'uomo, il bisogno radicale della natura di compiersi nella grazia, la sua costitutiva dipendenza dal dono gratuito che Dio gli fa della Sua vita in Cristo, lungi dal mortificarlo, appare come il sigillo della Sua reale grandezza: solo in Cristo l'uomo diviene veramente se stesso, assurge alla sua vera statura: «Cristo rivela l'uomo all'uomo» proprio perché unendolo a Dio lo porta oltre se stesso. Non possiamo qui soffermarci oltre sui particolari di un dibattito che, come noto, infervorò l'ambiente teologico cattolico per più di un decennio. Il Concilio Vaticano II, così come il magistero pontifìcio più recente, hanno a nostro avviso già ampiamente reso giustizia al Cristoccntrismo antiestrinsecista della nouvelle théologie. Qui interessava piuttosto sottolineare quanto la tesi di fondo di Surnaturel sia profondamente radicata nella teologia patristica, soprattutto greca. In fondo, come già detto, non si trattava d'altro che di riproporre intatto, in tutta la sua portata, il paradosso che i Padri avevano spesso descritto con stupore: il mistero della vocazione dell'uomo, l'unico essere finito nell'universo fatto per accogliere in se l'Infìnito. Così già Gregorio di Nissa nella II omelia sul Cantico dei Cantici, si rivolgeva alla natura umana: «Conosci quanto fosti onorata dal creatore al di sopra di tutta la creazione. Non il cielo è divenuto immagine di Dio, non la luna, non il sole, non la bellezza degli astri, nessuna altra delle cose che appaiono. (...) Nulla è così grande tra gli esseri da essere commisurato alla tua grandezza. Il cielo intero è compreso dalla mano di Dio, la terra e il mare sono contenuti nel suo pugno. E tuttavia, Colui che è tale e tanto grande, Colui che tiene tutta la creazione nel palmo della sua mano, tutto intero diviene contenibile in te e in te dimora e non sta allo stretto abitando nella tua natura» (H. Langerbeck, Gregorii Nisseni in Canticum Canticorum, Leiden 1960, II, p. 68). A questo proposito, è interessante notare l'ammirazione con cui già molto prima dell'uscita di Surnaturel, l'amico di de Lubac. J. Daniélou, descriveva la concezione del rapporto tra grazia e natura che egli aveva trovato nel Nisseno, concezione così diversa da quella della teologia cattolica allora imperante. Così scriveva: «Siamo qui di fronte a una concezione molto particolare, inversa per certi aspetti a quella della teologia occidentale. In questa ci si presenta un uomo "naturale", al quale la grazia viene sopraggiunta. Di conseguenza il pericolo è quello di un umanesimo autonomo, che esclude il soprannaturale. Nella prospettiva di Gregorio è l'inverso ad essere vero: ciò che è primitivo, è l'immagine di Dio, ed è invece l'uomo così detto "naturale" che è sopraggiunte. Ne segue che il centro di equilibrio non è affatto il medesimo: è la vita presente che è affetta da un carattere di pronunciata instabilità, perché l'uomo aspira a risalire al piano della sua vera dignità, che è l'esistenza paradisiaca, noi diremmo soprannaturale. La necessità della vita nello Spirito è in questa visione della massima evidenza: è solo in essa che l'uomo torna al suo vero equilibrio». 
Non si può poi in questa sede tacere la profonda incidenza che il ritorno ai Padri ebbe sul rinnovamento dell'ecclesiologia cattolica. Va detto che si tratta in questo caso di un movimento di pensiero assai precedente e più vasto rispetto al ristretto circolo di Fourvière. Ci limitiamo qui a richiamare alcuni nomi tra quelli che più hanno contribuito, attraverso lo studio dell'ecclesiologia patristica, a tale rinnovamento. Bisogna innanzitutto menzionare, già nel XIX secolo, il nome di J.A. Mohler, il cui influsso sulla teologia a lui successiva fu incalcolabile, a tal punto da farsi sentire persino in autori russi ortodossi come Chomjakov. Nel secolo XX spiccano i nomi di C. Journet, G. Bardy, H. Rahner, K. Delehaye e Y. Congar. Tutti questi hanno in comune il ritorno ad una visione più mistica e meno giuridica della Chiesa: la Chiesa è innanzitutto koinonìa, mistero di comunione. La Chiesa è il mistero del Corpo di Cristo edificato dal Padre nello Spirito Santo. Il gruppo dei gesuiti di Fourvière si inserì in questa corrente di pensiero già avviata. De Lubac, in particolare, pubblicò nel 1944 uno dei suoi più importanti studi di ecclesiologia, Corpus mysticum. In esso il teologo gesuita, ricorrendo alla teologia simbolica in uso nel primo millennio, rimetteva in primo piano il legame tra Eucaristia e Chiesa. L'Eucaristia e la Chiesa sono l'una simbolo dell'altra ed entrambe lo sono del corpo fisico di Cristo. Nella Chiesa antica, fino al medioevo, l'Eucaristia era denominata corpo mistico di Cristo. Il corpo fisico di Cristo ne era «il tipo» mentre era la Chiesa ad essere chiamata corpo reale, poiché ciò che è più reale, nella concezione antica, non è il mezzo, che è ancora un'immagine (eikòn), ma il fine escatologico verso cui l'economia della salvezza tende: il Corpo totale di Cristo, la Chiesa. Con ciò de Lubac non intendeva affatto stravolgere la teologia tradizionale. Egli mirava semplicemente a ridare ai moderni la coscienza della solidarietà profonda che esiste tra la Chiesa e l'Eucaristia, reagendo alla riduzione individualistica in cui spesso era scivolata la dottrina sacramentale cattolica. L'Eucaristia è - per usare una splendida espressione di Agostino citata da de Lubac - dulcis esca unitatis e non esiste per altro scopo che per l'edifìcazione dell'unità del Corpo di Cristo. Si trattava di ridare peso a quanto proclama con un impareggiabile gioco di parole la liturgia bizantina: l'Eucaristia è Koinonìa tòn agion: comunione dei santi e insieme comunione ai doni santi. Comunione dei santi che si realizza mediante la comunione dei doni. Sarebbe troppo lungo ricostruire nel dettaglio le ricchissime implicazioni che il recupero della prospettiva patristica ha avuto sulla ecclesiologia cattolica del XX secolo, se è vero, come è stato affermato, che esso è stato «il secolo della Chiesa». Gli effetti di questo movimento sono comunque ben riscontrabili nella costituzione dogmatica sulla Chiesa del Concilio Vaticano II Lumen Gentium. Tanto che uno storico come Charles Pietri ha potuto scrivere che «la costituzione dimostra di essere talmente impregnata di immagini della letteratura cristiana antica da rifletterne lo spirito persino quando non ne cita esplicitamente i testi» (C. Pietri, L’ecclesiologie patrstique et Lumen Gentium..., pp. 511-537). 

cf. Paolo Prosperi, Il ritorno ai Padri: le Sources Chrétiennes, in La Nuova Europa 1 (2005) 59-70. 

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