martedì 26 marzo 2024

Camaldoli 27.03.24

 «PREFERISCO RIMANERE NELLA CARNE» 

(Fil 1,23)

1. «[Cristo Gesù], pur essendo nella condizione di Dio, svuotò se stesso» (Fil 2,6-7). 

Giovanni rivela questo «essere nella condizione di Dio», come un essere presso Dio (1,1), rivolto verso il seno del Padre (1,18) oppure come un modo di vederlo: «Colui che è da Dio, solo questi ha veduto il Padre» (Gv 6,46). 

Vedere il Padre significa conoscere il suo progetto, il suo volere, le sue intenzioni. Gesù vede la “preoccupazione” del Padre, la fa sua e volontariamente decide di assumerla e realizzarla. 

A Mosè Dio dovette rivelarla; da solo il profeta non l’avrebbe intuita: «Ho guardato attentamente l’afflizione del mio popolo, ho udito il suo grido, conosco le sue sofferenze, sono sceso per liberarlo per farlo salire» (Es 3,7-8). Gesù, guardando Dio, osserva ciò a cui Egli è interessato, guarda là dove guarda Dio, il quale <siede nell'alto ma si china a guardare sulla terra, verso il povero sull'immondizia> (cf Sal 112,5-6). 

Il Padre non deve rivelargli niente. Ciò che è di Dio, è anche suo. Lo rivela un passo della Lettera agli Ebrei: «Entrando nel mondo, (Cristo) dice: […] un corpo mi hai preparato. Ecco io vengo per fare o Dio la tua volontà (Sal 39,7-9 LXX)» (Eb 10,5-7).

Il farsi carne di Gesù è l’evento decisivo. Egli che vive nella beatitudine, sceglie il peggio. La sua generosità appare in questa decisione originaria. «Dio non ha fatto se non opere mirabili. L’azione più sorprendente, tuttavia, è stata la sua volontaria umiliazione, quando ha assunto la nostra carne e ha condiviso le nostre sofferenze» (Bruno di Segni PL 164, 836). Rivela la sua carità impensabile e inarrivabile, non per le buone opere compiute sulla terra ma perché ha voluto farsi carne. 

Gesù, pur mostrando le scelte tipiche di un uomo giusto, rivela piuttosto il modo di ragionare di Dio, ciò che pensa il Padre nel cielo, meglio ancora ciò che è Dio, ossia una perenne e pura donazione di sé. Per questo, Gesù è l’esegesi di Dio: Egli la Grazia fatta carne («è apparsa la grazia di Dio» (Tt 2,11); egli è la Buona volontà di Dio (Eudokia) (Lc 2,14). Gli uomini non vengono definiti in base a ciò che sono, ma in base a ciò che Dio pensa di loro: «pace sulla terra agli uomini della Eudokìa» (Lc 2,14). 

Il cristianesimo non è, quindi, in primo luogo, una religione (raccolta dei doveri degli uomini verso le divinità o verso Dio, cf. Cicerone De natura deorum II,28) ma accoglienza della disponibilità di Dio verso di loro. 

La missione del Figlio mostra queste caratteristiche del cuore di Dio: Egli «non risparmia» il Figlio, cioè dona agli uomini il massimo di quanto poteva donare (Cf Rm 8,32). Lo dona ad uomini malvagi (Cf Rm 5,7-8) che lo avrebbero ucciso ed espulso dalla vigna (Cf Mc 12,8). Annuncia la sua disponibilità alla riconciliazione (sebbene sarebbero stati gli uomini a dover assumersi la responsabilità di questa iniziativa dal momento che erano stati loro ad infrangere il patto) (2 Cor 5,19). 

Gesù avverte questo essere del Padre che è anche suo. Si spende, perciò, a favore di uomini che non lo cercano, che non richiedono il suo donarsi a loro ma che, al contrario, lo rifiutano e lo disprezzano. Accetta una missione dalla quale non ricava alcun guadagno per sé. Il suo guadagno è la salvezza dei malvagi ai quali si mescola per poter considerarli e trattarli da fratelli (Cf Eb 2,11). 

Per Gesù, farsi carne è ben diverso dal farsi uomo. All’estremo è ciò che viene suggerito da Paolo: «Dio lo fece peccato» (2 Cor 5,21). Il Padre non lo considerò un peccatore, né lo punì come tale ma volle che sperimentasse il peggio del mondo dominato dal peccato. 

Ecco: in Gesù appare che cosa sia amore in tutto il suo splendore e, di conseguenza, diventa la persona che suscita verso di sé un amore totale ed esclusivo: «Nelle anime umane è deposta una grande e mirabile disposizione all’amore e alla gioia, la quale diviene pienamente operante alla presenza di Colui che è il vero amabile e diletto. È questa la gioia piena di cui parla il Salvatore» (N. Cabasìlas, Vita in Cristo, II, IX [92]). In Lui appare l’amore in tutta la sua interezza: «Non è mai accaduto che, pur desiderando il bene e la verità, gli uomini li abbiano conseguiti in modo puro» (ivi). In questo modo rivela all’uomo le sue potenzialità: «Prima non era noto quanto fosse grande la nostra potenza di amare e di godere» (ivi). 

Conclusa questa premessa, entriamo in argomento. 

2. Si trova nella Scrittura qualcuno che ha imitato la scelta del Figlio di Dio? La lettera agli Ebrei recupera la figura di Mosé. Qualcosa accadde in lui, prima della chiamata al roveto: "Mosè, divenuto adulto, rifiutò di essere chiamato figlio della figlia del faraone preferendo essere maltrattato con il popolo di Dio piuttosto che godere del peccato [...], come vedesse l'invisibile ἀόρατον ὡς ὁρῶν" (Eb 12,24-25.27). In realtà questo modalità di scelta dovrebbe essere tipica del credente, il quale dona ai beni invisibili la stessa concretezza di quelli visibili.

Paolo annuncia ai cristiani di Filippi la regola del discepolo. I discepoli di Gesù devono fare propria la sua generosità e considerare gli altri più importanti di se stessi. «Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù» (Fil 2,5); sentimento (phronema) è più che un ragionamento; è un progetto sapiente: «Sia in voi, ciò che fu in Cristo Gesù». 

Dal momento che questo proponimento è molto impegnativo, l’apostolo non lo impone in tutta la sua ampiezza ma vuole che, almeno, diventi l’orientamento della loro esistenza. 

L’intento di Paolo si scopre nel versetto di Fil 2,4: «Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri». La prima parte dell’invito richiama in modo più diretto lo stile di Gesù (non cercare il proprio interesse [ta eauton]); la seconda parte, quasi smentendo in parte la prima, accetta che i discepoli cerchino il proprio vantaggio ma, oltre a questo, devono cercare anche quello degli altri [kai ta eteron]. La forma più coerente dell’invito avrebbe dovuto essere espressa in questo modo: ciascuno non cerchi il proprio interesse, ma quello degli altri. Con l’aggiunta della congiunzione “kai”, ossia “ma anche”, l’apostolo unisce l’ideale con il reale. Esiste un ottimo da perseguire (cf 1 Cor 13,5), e un minimo da evitare. Spesso Paolo unisce alla proclamazione del bene ideale, la considerazione del cammino reale: «Tutta la Legge trova la sua pienezza in un solo precetto: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Ma se vi mordete e vi divorate a vicenda, badate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!» (Gal 5,14-15). 

Paolo attesta che sono pochi quelli che lo imitano, ad eccezione di Timoteo: «Non ho nessuno che condivida come lui [Timoteo] i miei sentimenti e prenda sinceramente a cuore ciò che vi riguarda: tutti in realtà cercano i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo» (2,21).

Nel corso della lettera, si mostra come modello ed annuncia le scelte concrete da lui attuate. Un momento nevralgico è costituito dal sentimento predominante che lo pervade mentre scrive. L’apostolo si trova in carcere (ad Efeso?). È in attesa della sentenza che verrà pronunciata dal magistrato romano: assoluzione o condanna a morte (per decapitazione)? A questo punto, sorge un dissidio nel suo cuore. 

«Sono stretto infatti fra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo. Persuaso di questo, so che rimarrò e continuerò a rimanere in mezzo a tutti voi per il progresso e la gioia della vostra fede» (Fil 1,23-25). È preso da due desideri intensi che quasi l’opprimono (synechomai). Da una parte spera che si realizzi quanto desidera per ottenere il suo vantaggio: sciogliere «la corda che tiene vincolata la nave al molo (analysai)» e raggiungere Cristo; dall’altra desidera che si attui ciò che sperano i suoi fedeli in vista del loro vantaggio, ossia che egli venga assolto e ritorni presso di loro. Infine, fa prevalere ciò che avvantaggia i suoi fedeli. 

Da notare: non dice che rimarrà nel corpo (come viene tradotto) ma nella “carne”. Rimanere nel corpo potrebbe andare incontro ad una vita felice ma rimanere nella carne significa continuare ad esporsi ad una esistenza travagliata. Qui Paolo sta mostrando come imita Gesù: questi si trovava in una forma di vita esente da travagli ma, andando contro se stesso, volle farsi carne. Paolo si trova già nella carne ma rinuncia ad una vita felice e vuole continuare ad affrontare tutti i travagli del suo mistero. Cristo ha scelto la discesa e Paolo rinuncia all’ascesa. L’intenzione è identica: preferire rimanere nella carne. «So che rimarrò e continuerò a rimanere in mezzo a tutti voi (oida oti menò kai paramenò)» (Fil 1,25)

3. La regola di Paolo è stata seguita dagli uomini dello Spirito lungo la storia della Chiesa. È come se esistesse un sinodo permanente, che oltrepassa i secoli e i luoghi, convocato dallo Spirito. Vediamo alcuni casi. 

3.1. Guglielmo di saint Thierry (1085-1148) insegna che la comunione con Dio è l'unica vera sorgente di felicità per l'uomo. 

Tuttavia questa aspirazione non distrae affatto il cristiano dal suo impegno a favore della terra. A creare gioia è il fatto di amare; più precisamente di essere, per quanto possibile all'uomo, ciò che Dio è: amore disinteressato, fedeltà a tutta prova, accondiscendenza misericordiosa. 

Il contemplativo, condotto da un sentimento d'amore totale, riesce ad intuire, a leggere sul volto di Dio i pensieri e i desideri che lo riguardano. Questo non significa che egli deve sviluppare delle considerazioni astratte, ma discernere la propria missione. Contemplativo è, allora, colui che comprende con chiarezza il volere di Dio su di sé e che poi vi si conforma in totale fedeltà. «La <carità> trova dolce rivolgere sempre <lo sguardo> verso quel volto e, come su un libro di vita, leggervi le leggi della vita <adatte> per sé, e comprenderle, illuminando la fede, consolidandola speranza e risvegliando la carità» (Natura e valore dell’amore, 27). 

Il fatto di gustare Dio fa sgorgare nell'amante il desiderio di partecipare all'amore che lo riempie di gioia stupita. L'anima sapiente, gustando solamente Dio, «spoglia l'uomo dell'uomo» (cit 50), ossia, mentre ammira l'amore di Dio, lo assimila e, di conseguenza, elimina da sé ogni traccia di meschinità che si oppone ad esso. 

Se questo è il sentire di Guglielmo, non stupisce che egli, a sua volta, condivida e faccia sua la scelta già compiuta da Paolo: «Anche se la vita di Paolo si svolgeva tutta nei cieli, egli non si negava ogni volta che era necessario stare accanto agli uomini sulla terra», osserva Guglielmo (cit 26). 

3.2 La testimonianza più preziosa ci viene offerta da Riccardo di San Vittore (1110-1173). 

L'uomo viene paragonato ad un pezzo di ferro che deve perdere la durezza ed essere reso malleabile nelle mani di Dio. Il ferro ha bisogno di percorrere diverse fasi di trasformazione e di lavorazione: riscaldarsi, arroventarsi, liquefarsi. Ora, tutte le esperienze spirituali gratificanti sono tutte modalità con Dio cerca di riscaldare e arroventare il cuore dell'uomo che, al principio appare rigido come un pezzo di ferro. Alla fine, però, esso si liquefa per assumere la forma, ossia la missione, assegnatagli da Dio. «Come i fonditori, dopo aver liquefatto i metalli e preparato gli stampi, modellano come vogliono qualsiasi figura [...], così l'anima in questo stato si adatta facilmente a qualsiasi cenno della volontà divina, anzi, per un desiderio spontaneo, si dispone ad ogni sua decisione e piega ogni sua volontà all'approvazione di Dio» (I quattro gradi della violenta carità, 42). Solo dopo aver vissuto questa liquefazione, l'uomo diventa capace di assomigliare a Dio. Ogni grado mistico non è fine a se stesso ma prepara il trasferimento della stessa carità di Dio nel cuore dell'uomo, secondo il messaggio: «Siate gli imitatori di Dio come figli amatissimi e vivete nell'amore come anche Cristo vi ha amato e ha sacrificato se stesso per voi a Dio, quale oblazione e sacrificio di soave profumo» (Ef 5,1-2). 

Riccardo, perciò, evoca il dissidio vissuto da s. Paolo - stare con Cristo o rimanere nella carne per amore degli uomini? -; condivide interamente la scelta già compiuta dall'apostolo e ripensa con ammirazione a Mosé che rifiuta di essere accolto da Dio da solo mentre il popolo viene destinato alla rovina (Es 32, 32) (cit 44). 

In conclusione, ciò che conduce la persona umana allo scioglimento in Dio nella gioia piena dell'unione è anche la condizione che permette all'amante divino di scorrere facilmente verso il basso (facile ad inferiora currendo), nella piena disponibilità alla solidarietà più impegnativa. 

In quest’epoca, grazie alla riflessione di Guglielo e di Riccardo, viene elaborata la definizione più matura della contemplazione cristiana. 

3.3 Il valore dell’apporto dato da questi due teologi mistici, lo cogliamo operando un confronto con Eckhart (1260-1327). 

Anche Eckhart adopera l’immagine dell’uomo che rimane nel fuoco, questa volta a somiglianza di un legno. «Il desiderio di Dio è anche di donarsi completamente a noi. Accade lo stesso quando il fuoco vuole attirare il legno verso di sé e introdursi in esso: all'inizio trova che il legno è dissimile da sé, e per questo ci vuole del tempo. Prima rende il legno caldo e bruciante, e questo fuma e scricchiola, perché è differente dal fuoco. Poi, più il legno arde, più diviene calmo e tranquillo; più è simile al fuoco e più si acquieta, fino a divenire in se stesso completamente fuoco» (Sermoni, 11, 3, p. 164). 

Egli accoglie dal neoplatonismo l’idea che l’uomo può diventare fuoco, deificarsi. L’immagine del legno che s’acquieta corrisponde alle tappe più elevate conosciute da Riccardo ma qui manca l’ultima tappa, quella discesa. Per il mistico neoplatonico l’evento massimo sta nella fusione con l’Uno. Una uscita da questo stato è innimaginabile. 

3.4 Un’ultima testimonianza. Teresa d’Avila espone l’insieme degli effetti di chi è entrato nella «settima stanza». L’evento capitale consiste in questo: la «piccola farfalla è morta nella grande letizia di aver finalmente trovato riposo; in lei vive Cristo = Ahora, pues, decimos que esta mariposica ya murió, con grandissima alegría de haber hallado reposo, y que vive en ella Cristo» (Castillo Interior, Septimas Moradas, 3,1). 

Da questo evento scaturiscono diversi effetti tra i quali evidenzio il seguente: «Già avete visto le fatiche patite da queste anime per morire e poter godere di nostro Signore. Ora è tanto grande il loro anelito di servirlo, che non solo non vogliono più morire, ma vivere moltissimi anni soffrendo le pene più intense possibili perché il Signore sia maggiormente lodato, anche se di poco. Pur sapendo, come sanno, che la dipartita dell'anima dal corpo porta ad un godimento maggiore di Dio, non ci fanno caso… Scoprono la loro gloria nel poter servire in qualcosa il crocifisso. Talvolta, senza pensarlo, tornano i desideri di godere di Dio e di fuggire questo esilio … ma poi presto tornano al loro stato e offrono [al Signore] il medesimo desiderio di vivere, l’offerta più dolorosa che possano fargli» (VII,3,6-7). 

La testimonianza di Paolo ci aiuta a comprendere quella di Teresa ma ques’ultima ci aiuta a comprendere Paolo: vivere nella carne si precisa come servire il Crocifisso; accettare di continuare a vivere, è l’offerta più dolorosa che l’uomo possa fare al Signore (una ofrenda la más costosa para ella que le puede dar). Conoscere la Scrittura soltanto con l’esegesi, è uguale all’ignorare la Scrittura. Essa si comprende bene nel vissuto degli uomini dello Spirito. 

4. La regola di Paolo e dei santi sta, quindi, nell’imitazione di Gesù: conseguire il culmine della carità oppure, detto altrimenti, cercare il vantaggio dell’altro fino a perdere se stessi. 

Il cristiano non deve limitarsi ad essere buono o a fare opere buone ma far nascere Cristo in se stesso. Diventa una persona del tutto spirituale o un contemplativo, nel senso più pregnante del termine, quando per lui il Vangelo non è più un dovere o un proposito da perseguire ma un fatto naturale (Cf G. Pomerio, Vita contemplativa I,XII,1). 

Che cosa significa? Il santo è colui che frena la passione, il contemplativo la domina. Vediamo un esempio: il perdono. Esso si presenta in varie gradazioni. La rinuncia alla vendetta è il primo grado indispensabile. Forse per qualcuno giungere a questo è molto difficile e ritiene che sia il massimo possibile. Tuttavia può accadere che pur non facendo niente di male né pronunciando alcuna parola vendicativa, conservi un sentimento di amarezza e quindi può capitargli di godere se sente qualche altro ha afflitto il suo avversario. Si vendica così per procura. Se uno è maturato nell’amore, supera anche questo genere di amarezza e non gode del male di cui può soffrire il suo offensore, ma forse non riesce a provare piacere se questi viene onorato o se riceve del bene. La liberazione definitiva dal rancore sta in questo: «Bisogna gioire per la contentezza del proprio fratello e fare di tutto per servirlo e preparare ogni cosa per dargli onore e soddisfazione» (Cf Doroteo, VIII,93). Solo chi gode della fortuna del suo nemico ha ottenuto in pienezza la carità dello Spirito. 

Vediamo la testimonianza di Teresa d’Avila dalla quale si scorge in che modo il perdono sia divenuto un sentimento naturale: «Quando sono perseguitate, queste anime godono di grande gioia interiore, con una pace ancora più profonda di quella provata negli stati precedenti, senza alcun rancore per coloro che le fanno, o desiderano fare, del male. Anzi, nei loro confronti vivono una carità particolare, per cui, se li scorgono in difficoltà, ne partecipano teneramente e farebbero qualsiasi cosa per liberarli; li raccomandano a Dio volentieri e donerebbero loro le grazie ricevute dal Signore perché non lo offendano mai più» (VII,3,5). 

Le opere buone sono il risultato di una collaborazione tra l’uomo e la grazia, ma la nascita in noi della Carità o di Cristo è un’opera del tutto gratuita da parte dello Spirito Santo. Egli è colui che produce nel cuore dell’uomo la gioia immensa ed incomparabile di chi ha accettato di perdere se stesso. «Alla veemenza dell’amore corrisponde in tutto la gioia, all’amore si accorda sempre il diletto: ad amore grandissimo segue grandissimo diletto [akolouthei megìstô mégiston]» (N. Kabasìlas, ivi [92]). Tutta la vita impegnata del cristiano, allora, è soltanto attesa della venuta dello Spirito dentro di lui: «L’azione di santificazione e la grazia dello Spirito collaborano per lo stesso scopo; convergendo nella stessa persona, la riempiono d’una vita santa e felice, una con l’aiuto dell’altra. Se una rimane senza l’altra, non ottiene nulla. Né la grazia di Dio può venire ad abitare nella persone che la rifiutano, né la forza della virtù umana è tale da essere in grado da sola a far salire le anime alla forma perfetta della vita, qualora risultasse priva della grazia. Se il Signore non costruisce la casa e non custodisce la città, invano veglia il custode o fatica il costruttore (Sal 126,1). In un altro passo leggiamo: Non con la loro spada ereditarono la terra, né li salvò il loro braccio, sebbene avessero usato spade e braccia nelle varie battaglie, ma li salvò la tua destra, il tuo braccio e la luce del tuo volto (Sal 43,4). Che cosa ha voluto insegnare? Ha parlato della collaborazione con la quale il Signore, dall’alto, soccorre i credenti che stanno lottando; ha aggiunto poi che quanti credono di vincere contando solamente sulla loro energia, non devono affatto porre la loro fiducia nella loro buona volontà ma devono piuttosto credere che potranno ottenere il risultato sperato [soltanto] quando Dio lo vorrà concedere» (Gregorio di Nissa, De Instituto christiano, 11)

Il punto di partenza del monaco può essere buono ma ancora molto misero. Gli uomini sono dominati normalmemte dall’amore per se stessi e questo tipo d’amore rimane anche nella ricerca di Dio: «amare Deum propter se» (Bernardo). Lo spirito di gratuità penetra soltanto lentamente. 

Nella cultura monastica ritorna di frequente l’immagine della scala (di Giacobbe). Per Doroteo di Gaza essa sta a segnalare l’avvicinamento all’adempimento dell’amore al prossimo: «Come posso volar via dalla Terra e trovarmi tutto in una volta su in cima alla scala? Questo non è possibile, ma bada bene, almeno, di non scendere in basso: non fare del male al prossimo, non ferirlo, non sparlarne, non offenderlo, non disprezzarlo e poi puoi anche fare un po' di bene consolando il tuo fratello con una parola, compatendolo, se ha bisogno di una cosa, dandogliela. Salendo i gradini ad uno, ad uno, con l’aiuto di Dio, arrivi in cima alla scala. Aiutando il prossimo, a poco a poco, arrivi anche a volere quello che giova a lui come quello che giova a te, e il profitto suo come il tuo. Questo vuol dire: amerai il prossimo tuo come te stesso» (Doroteo di Gaza, Insegnamenti spirituali, 154).

Non è facile per nessuno continuare a salire, superando gradino dopo gradino: «Ci sono alcuni di noi che, quando lasciarono il mondo, avevano per scopo l'acquisto delle virtù. Gli uni ci sono riusciti un po', ma poi si sono fermati. Altri [hanno camminato] fino a metà dell'impresa e si sono arrestati. Altri non ci sono riusciti per niente, è sembrato che uscissero dal mondo, ma invece sono rimasti nelle cose mondane, nelle passioni e nel loro fetore. Altri riescono a fare un po' di bene, ma poi lo distruggono, e ci sono anche alcuni che distruggono più di quanto hanno realizzato. Altri, poi, sono riusciti nelle virtù, ma nutrono disprezzo nei confronti del prossimo e neppure questi hanno ottenuto il loro scopo. Ciascuno di noi capisca dove sta» (Doroteo cit 107). 

Mi soffermo a considerare quest’ultimo pericolo: diventare giudici degli altri, credendosi spirituali. 

A volte capita che qualcuno venga perfino escluso. Esiste sempre il pericolo che si escluda qualcuno per il proprio comodo, non in vista del bene della persona. Ambrogio suggerisce agli esclusi questa invocazione: «Mi hanno abbandonato gli uomini perché le mie piaghe fanno loro schifo, quelle che io ho ritenuto di dover schiudere alla tua misericordia. Quelli dicono: Và fuori dai piedi, perché sei un peccatore. Allontanati che ci insozzi. Ma tu, o Signore, mi curi e non ti contamini, perché sei tu il Dio della mia salvezza, o Signore» (Ambrogio, I dodici Salmi, Salmo 37, PL 14, 1085.1087). 

Di per sé il monaco dovrebbe imitare la pazienza illimitata di Gesù: «Osserva il nostro Consolatore (Gesù), come mischiò tra i suoi dodici uno che avrebbe dovuto tollerare con pazienza» (Agostino, Esposizione sui Salmi, Salmo 54, PL 36, 635). 

Tuttavia, chi si vede escluso, a diritto o a torto, non deve abbandonarsi al risentimento ma affrettarsi a raggiungere l’ultimo posto. Se gli capitasse perfino di trovarsi seduto sull’immondizia, si ricordi che è proprio là il luogo privilegiato dove si posa lo sguardo di Dio, il quale: mekimì (qum) solleva me’afàr dalla polvere dal il misero, me’ashpòt dai luoghi sudici iarim (rum) innalza eviòn il povero (Sal 112,7-8). C’è una progressione: dapprima il Signore rimette in piedi (qum) poi innalza (rum). 

מְקִֽימִ֣י מֵעָפָ֣ר דָּ֑ל מֵֽ֝אַשְׁפֹּ֗ת יָרִ֥ים אֶבְיֽוֹן


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