martedì 18 febbraio 2025

Lettera ai Romani

 Guida alla lettera


L’intento di questo scritto è facilitare il lettore ad affrontare la Lettera ai Romani, uno degli testi più rilevanti del Nuovo Testamento. Scoprire ed amare il contenuto di questa lettera è come trovare un tesoro insperato. Nel presentarla, ho seguito le indicazioni degli esegeti che l’hanno studiata in modo approfondito (Penna, Pitta, Romanello, Attinger, Pulcinelli), ma ho anche attinto alla tradizione dei Padri (Ambrosiaster, Origene, Pelagio, Giovanni Crisostomo). 

Paolo ha imparato a conoscere Gesù da altri seguaci del maestro che l’avevano accolto come loro Signore prima di lui. Non è, quindi, il creatore ma il discepolo del Vangelo, il quale aveva cominciato a costituirsi e a diffondersi prima della sua predicazione e dei suoi viaggi missionari. Condivide la fede della Chiesa primitiva che venera come Messia il Crocifisso glorificato dal Padre e lo considera il Redentore degli uomini. 

La Lettera ai Romani (redatta nel 57 circa) è molto ricca perché in essa viene mostrato il vero volto di Dio Padre con una chiarezza maggiore rispetto a tutti gli altri scritti del Nuovo Testamento. Forse questo giudizio a qualcuno sembrerà eccessivo; vediamo allora qualche esempio che lo confermi. L’apostolo ricorda ciò che Dio ha detto di sé per bocca d’Isaia: «Sono stato trovato da quelli che non mi cercavano, mi sono manifestato a quelli che non chiedevano di me» (Is 65,1-2; Rm 10,20). È proprio questo uno dei temi principali della Lettera: Dio Padre si è manifestato a coloro che erano indifferenti, perfino ostili, nei suoi confronti e si è fatto trovare dagli uomini che, a loro danno, non lo ricercavano. 

Nel vangelo di Giovanni, leggiamo che Dio ha tanto amato il mondo da donare il Figlio (3,16). Il mondo potrebbe essere qualcosa di positivo e di meritevole d’amore. Paolo annuncia piuttosto che Dio si prende cura dei malvagi (Rm 5,6). Ancora di più: a favore di essi, per recuperarli, dona il suo stesso Figlio (Rm 8,32). Come canta il Preconio pasquale: «Per redimere il servo, hai impegnato il tuo Figlio!». Il Padre ha dato più importanza a noi, uomini peccatori che al suo Figlio Gesù. Un autore spirituale russo ha rilevato l’immensità dell’amore divino: «Prova verso [i malvagi] una compassione simile a quella che prova Dio nei confronti dell'umanità sprofondata nel peccato, lui che ha consegnato il proprio Figlio in sacrificio di redenzione per la creatura ostile, pur sapendo che la maggior parte degli uomini avrebbe deriso e disprezzato questa offerta» (I. Briancaninov, Preghiera e lotta spirituale… p. 72). 

Nella parabola dei lavoratori della vigna, il padrone, spinto da generosità estrema, dona il salario previsto per una giornata intera di lavoro ad operai che avevano lavorato un’ora soltanto (Mt 20,10). Paolo giunge perfino a dire che il Signore dona il salario anche a chi non ha lavorato per nulla (Rm 4,4-5). 

Nell’allegoria del Vangelo di Giovanni, i tralci recisi dal viticoltore, una volta disseccati, vengono raccolti da altri per essere gettati nel fuoco (15,6). Usando un’immagine simile, l’apostolo afferma che il Signore, dopo aver tagliato i rami d’ulivo improduttivi, continua a conservarli nella sua mano nella speranza di poter innestarli di nuovo, un fatto di per sé impossibile (Rm 11,23). 

Paolo, quindi, per il linguaggio e le immagini usate, rende più facile scoprire la misericordia sorprendente di Dio. 

Perché ha inviato questa riflessione ai fedeli delle comunità di Roma?

Desiderava far conoscere loro alcuni punti nevralgici della sua teologia. Due problemi gli stavano a cuore. Il suo insegnamento era stato frainteso o alterato (3,8: 6,1). Voleva, perciò, offrire un chiarimento e rasserenare le comunità, nella speranza che i romani lo aiutassero a realizzare la sua missione in Spagna (15,24), già programmata, in obbedienza all’incarico ricevuto di evangelizzare i pagani di ogni nazione (Gal 2,9). 

Un altro scopo della lettera era quello d’esortare i membri della comunità proventi dall’ebraismo (giudeo-cristiani) e quelli che, invece, in precedenza erano stati pagani (etno-cristiani), ad accettarsi senza diffidenze reciproche perché il Vangelo apre ai pagani la possibilità di far parte del popolo di Dio, alla pari con gli Israeliti. 

Nella prima parte, sintetizzo il messaggio centrale della Lettera. 

Nella seconda parte, scorrendo capitolo per capitolo, presento il significato del testo, attenendomi alle conclusioni riconosciute dalla maggioranza degli esegeti. 

Nella terza parte, cerco di richiamare dei motivi di teologia spirituale già presenti nella tradizione ecclesiale. 


Il messaggio centrale 

Un vangelo è l’annuncio di un evento benefico che si sta verificando, quindi non è una semplice teoria o una dottrina. Un profeta chiama vangelo la notizia del ritorno degli esuli da Babilonia o la ricostruzione di Gerusalemme (Is 52,7 e Rm 10,15; Is 40,9; 41,27; 61,1). Nel mondo greco-romano le imprese dei sovrani venivano proclamate come dei vangeli (euaggèlia cf iscrizione di Priene). Le prime comunità cristiane preferirono usare il termine al singolare, il vangelo, perché esso annuncia e dispiega l’azione incomparabile di Dio che salva veramente, ben diversa dalle intraprese dei potenti. 

Con il «suo» Vangelo, Paolo annuncia quella che ritiene l’azione decisiva di Dio, che dispiega ora tutta la sua potenza per offrire una salvezza risolutiva a chi avrebbe creduto a questo messaggio (Rm 1,16). Il Vangelo ha come centro la persona di Gesù e tutta la sua opera.

Nonostante le meraviglie operate dal Padre nella prima Alleanza, il male dominava ancora sulla terra ma la soluzione non poteva venire dagli uomini ma da Dio che aveva creato il mondo. Non abbandonò né ripudiò l’umanità, anche se lo respingeva, ma realizzò un intervento decisivo di risanamento per creare un mondo nuovo. 

A questo scopo, per introdurre il suo regno tra gli uomini, mandò nel mondo il Figlio Gesù. L’avvento del Regno di Dio rappresenta una svolta della storia, l’unico cambiamento reale. Cristo inaugura una nuova epoca, al termine della quale avrà luogo la trasformazione universale, quando Dio sarà tutto in tutti (Schnelle 445)

Il Regno è cominciato con il perdono di Dio all’umanità, grazie al servizio d’amore reso dall’uomo Gesù. Obbedendo al Padre fino ad affrontare la morte in croce, ha dissolto tutto il cumulo dei peccati degli uomini. Paolo chiama questo evento che concede il perdono di Dio ai malvagi ed avvia una nuova esistenza contrassegnata dalle buone opere, “giustificazione per grazia”. 

Gesù è un singolo individuo ma è anche una collettività; è un singolo uomo ma è anche l’umanità che corrisponde a Dio, la primizia di un nuovo raccolto. 

Gesù deve trovare persone capaci di essere come Lui e di continuare la sua opera, vuole suscitare altri figli di Dio. Costoro, però, possono farsi carico di un compito così impegnativo soltanto se Egli li rende partecipi di sé, se viene a vivere in loro. 

Cristo influisce sulla vita dei suoi amici, evitando che essi si trovino da soli, in balìa della loro debolezza, infondendo in loro lo Spirito Santo. 

Era denominata in questo modo la forza stessa di Dio. Lo Spirito aveva investito Gesù nel corso della sua vita terrena. Aveva formato la sua umanità nel seno di Maria e, soprattutto, lo aveva fatto risorgere da morte (8,11). 

Il cristiano comincia ad essere tale, cioè una persona che si conforma a Gesù, solo quando viene corroborato dall’energia dello Spirito. Solo allora può aspirare a raggiungere questo ideale e, almeno in parte, cominciare a compierlo (8,4). 

La morale cristiana non si fonda, quindi, sopra un principio etico, magari più valido di tutti gli altri; non si basa sulla generosità ammirevole del credente, ma sul fatto che Gesù viene ad abitare in lui e lo rende partecipe del suo Spirito, a partire dall’adesione di fede e dal Battesimo (6,4). 

L’obiettivo finale dell’opera del Padre consiste nel fare in modo che i credenti giungano a condividere la gloria del Risorto. Sfuggiti al giudizio e una volta glorificati, saranno davvero figli come il Figlio (8,23-24). 


Capitolo 1

Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio - che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture e che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della risurrezione dei morti, Gesù Cristo nostro Signore; per mezzo di lui abbiamo ricevuto la grazia di essere apostoli, per suscitare l'obbedienza della fede in tutte le genti (1,1-5). 

Palo si considera un inviato da parte di Dio, come un tempo erano stati chiamati ed inviati i profeti; è stato scelto er annunciare il Vangelo (Rm 1,1; cf Ger 1,5).

Il centro del Vangelo è Gesù (1,3) il quale, dopo dover cominciato ad agire sulla terra come Messia, dopo essere stato crocifisso dagli uomini, è stato risuscitato dal Padre e collocato alla sua destra perché potesse condividere la sua autorità. Nel corso della sua vita terrena, aveva proclamato la venuta prossima del Regno di Dio (Mc 1,15), anzi, aveva cominciato ad introdurlo nel mondo (Lc 11,0). Tuttavia aveva sperimentato il rifiuto ed era vissuto in una situazione di debolezza, perciò, pur avendo operato come un Inviato di Dio, era apparso come un Gesù «secondo la carne» (1,3). Ora invece vive «secondo lo Spirito» (1,4). La svolta è avvenuta con la risurrezione. Come ho detto, Dio Padre ha collocato il Figlio alla sua destra, facendogli condividere la sua gloria. «Dio gli ha conferito lo status di eguale» (Schnelle 444). 

Ora gode in pienezza di tutte le prerogative di Figlio (1,4) e può, quindi, svolgere la sua missione in modo autorevole ed efficace. Gesù ora è il Signore ancora vivente e può riprendere il suo progetto iniziale, con una energia prima sconosciuta (At 1,3). Questo evento fondamentale era stato preannunciato dai profeti nella Sacra Scrittura (1,2). 

Pur affermando di essere stato costituito come apostolo, si presenta in modo umile. Benchè abbia l’autorità per insegnare, è disposto anche ad imparare (1,12). Da molto tempo avrebbe desiderato di incontrare i romani ma soltanto ora potrebbe realizzare il suo desiderio (1,13). Conclusa questa premessa, comincia a presentare il suo messaggio. 

Inizio della trattazione

Io infatti non mi vergogno del Vangelo, perché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo, prima, come del Greco. In esso infatti si rivela la giustizia di Dio, da fede a fede, come sta scritto: Il giusto per fede vivrà (1,16-17).

Parla al negativo per affermare che egli crede fermamente nel Vangelo e che vuole dedicarvisi con tutte le sue energie. Esso è infatti “potenza di Dio” (1,16). Nella predicazione si dispiega tutta la potenza salvifica di Dio (1,16), il quale, per mezzo della parola dei suoi inviati, perdona gli uomini che accolgono tale messaggio per renderli giusti. Gesù Signore è capace di liberare il credente dal peccato e di renderlo santo. 

«L'efficacia persuasiva non proviene dalla composizione del discorso né dalla perizia nella scelta delle belle parole, ma dall'elargizione di una potenza divina. È per questo che anche Paolo dice: La mia parola e il mio messaggio non ebbero discorsi persuasivi di sapienza, ma conferma di Spirito e di potenza (1 Cor 2,4)» (Origene, Commento al Vangelo di Giovanni… p. 131).

Nel Vangelo si rivela la giustizia di Dio. Non si parla qui della giustizia esercitata dal giudice in tribunale ma della “rettitudine” di Dio, cioè della sua fedeltà alle promesse. È una qualità di Dio celebrata più volte nella Bibbia. Come aveva già compreso un antico Padre della Chiesa: «La qualità che si manifesta come misericordia è chiamata giustizia di Dio perché ha origine dalla promessa, e quando la promessa di Dio viene adempita, allora si parla di giustizia di Dio. È giustizia perché è stato dato ciò che fu promesso» (Ambrosiaster, CLR p. 103). 

Dio chiede all’uomo di corrispondere alla sua fedeltà con la fiducia in lui. Alla fede, più precisamente all’obbedienza di fede viene dato un valore primario. Questo significa che gli uomini possono entrare in comunione con Dio, non tanto ragionando su di Lui, come fanno i filosofi, e neppure pretendendo di realizzare una rettitudine morale ineccepibile. Piuttosto devono accogliere il progetto che Egli, per pura bontà, ha pensato a loro favore. In altre parole, non devono costruirsi una torre per salire fino al cielo, ma salire sulla scala che Dio Padre ha calato dal cielo sulla terra per loro, per dar loro la possibilità di salire fino a Lui. Gesù è la scala discesa dal cielo per noi e per mezzo di lui possiamo risalire al Padre (Gv 1,51). 

Nel Vangelo si rivela la giustizia, «non la tua ma quella di Dio. Non deriva dai vostri sudori né dai vostri sforzi, ma vi viene data per un dono dall’alto, senza che dobbiate fare qualcosa di più del semplice credere. Sembrava incredibile che un adultero, un libertino, uno scassinatore o un mago non solo evitino la punizione ma diventino dei giusti, grazie ad una giustizia elargita dall’alto. [Per convincere] lo prova facendo ricorso alla Bibbia» (Crisostomo., CLR 2,6), cioè al messaggio del profeta Abacuc: “Il giusto vivrà per la sua fede”» (2,4). 

Dio salva chiunque crede: la prospettiva della salvezza possiede un carattere universale perché vuole agire a favore di tutti gli uomini e non soltanto a favore del popolo d'Israele. 

La situazione dell’umanità

La situazione degli uomini, per quanto riguarda la relazione con Dio, è piuttosto pesante. Il mondo manifesta che “l’ira di Dio” agisce in esso! L’ira è la sua reazione al male ed essa si volge contro l’empietà e l’ingiustizia; non prova risentimento verso gli uomini ma condanna in modo netto le loro azioni sbagliate. Non è una reazione emotiva ma una constatazione imparziale ed opportuna. Non nasce dall’astio, ma dalla sua santità. «La collera di Dio non è altro che la sua salvezza rifiutata» (Attinger 36). Non è il Vangelo a rivelare l’ira di Dio perché essa è già evidente nella vita degli uomini; il Vangelo, piuttosto, è il mezzo decisivo per porre un rimedio adeguato. 

Il punto di vista dell’apostolo non è quello del moralista che si scaglia contro tutti. Egli ragiona da ministro del Vangelo che guarda con dolore i mali che affliggono l’umanità ma dal momento che li osserva dal punto di vista di Dio e non da quello degli uomini, sa già che sarà in grado di annunciare il rimedio che è già stato predisposto dal Signore. «Non fa il ritratto dell’umanità pagana, ma dell’empietà, ovunque si trovi» (Attinger 43). Bisogna ammettere che Dio ha ragione di disapprovare gli uomini perché, dopo aver conosciuto la verità, la soffocano nel loro agire. Non tutti sono malvagi ma tutti sono peccatori. 

L'ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell'ingiustizia, poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha manifestato a loro. Infatti le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute. Essi dunque non hanno alcun motivo di scusa perché, pur avendo conosciuto Dio, non lo hanno glorificato né ringraziato come Dio, ma si sono perduti nei loro vani ragionamenti (1,18-21)

Gli uomini sono stati capaci di conoscere Dio (1,19), hanno colto ciò che di lui si può venire a sapere. Hanno intuito la sua eterna potenza, manifestata nello splendore della creazione. Lo hanno conosciuto come di riflesso. Mi pare possibile usare questo paragone: godendo dei benefici del sole, gli uomini possono ammirare e godere della sua forza benefica, anche se non possono fissarlo con lo sguardo. Tuttavia, pur avendolo conosciuto, non lo hanno riconosciuto in modo tale da onorarlo come merita (1,21; Cf Sap 13,1-9). Il peccato non consiste, principalmente, nella trasgressione di questa o di quell’altra norma ma si pone come il rifiuto di riconoscere Dio, fino al punto da venerare la creatura (1,25). Lo attesta in modo particolare l’idolatria la quale, nel mondo giudaico era considerata fonte d’immoralità. 

In risposta a questo comportamento disonesto, Dio reagisce non provocando delle sofferenze ma abbandonando gli uomini a loro stessi: 

poiché non ritennero di dover conoscere Dio adeguatamente, Dio li ha abbandonati alla loro intelligenza depravata ed essi hanno commesso azioni indegne: sono colmi di ogni ingiustizia, di malvagità, di cupidigia, di malizia; pieni d'invidia, di omicidio, di lite, di frode, di malignità…

«Dio li ha abbandonati significa che Egli ha permesso che accadesse loro ciò che avevano scelto. Ha abbandonato a loro stessi, gli uomini che l’avevano abbandonato per primi. Essi non si erano serviti delle creature per innalzarsi fino a Lui, ma agirono in senso contrario. Che cosa doveva fare? Doveva costringerli? Agire in questo modo non sarebbe stato corretto. Non poteva fare altro che lasciarli a se stessi e così, sperimentando la negatività delle loro scelte, avrebbero abbandonato ogni malvagità» (Crisostomo, CLR 3,3). 

Quando gli uomini conservano una relazione viva con il Signore e lo riconoscono, si comportano con il prossimo in modo leale e soddisfacente. Dal momento che lo rifiutano, Egli è costretto ad abbandonarli a loro stessi. Cala, allora, la tenebra nel cuore, e gli animali più pericolosi escono dalle loro tane. Privi della luce divina, gli uomini vengono a conoscere la forza delle passioni sregolate che si acquattano dentro di loro. Servendosi di cataloghi di vizi elaborati dai moralisti antichi, elenca una serie di mali.

Spicca la condanna dell’omosessualità. Presso il giudaismo, gli atti del genere erano considerati la perversione intenzionale della volontà del creatore (1,26). L’omosessualità come orientamento non scelto dalla persona era ignoto a Paolo, come a tutta l’antichità. 

L’elenco delle colpe si conclude con quattro note pesanti (ben evidenziate dall’alfa privativo proprio della lingua greca) che sottolineano la progressiva carenza di carità: insensati (a-synétous), sleali (a-synthètous), senza cuore (a-stòrgous), senza misericordia (an-eleémonas). Il peggio sta quindi nel raffredamento dell’amore o perfino nella sua assenza. Non afferma che ogni persona accumula tutte le note negative elencate, ma dichiara che nessuno è esente da colpa. Anziché riconoscere la malizia degli atti malvagi compiuti, gli uomini tentano di riaffermarli, di vantarsene quasi, spegnendo la luce della ragione e il richiamo della coscienza. 

«Dio permise che noi rimanessimo in balia d'istinti disordinati e fossimo trascinati fuori della retta via dai piaceri e dalle cupidigie, seguendo il nostro arbitrio. Certamente non si compiaceva dei nostri peccati, ma li sopportava; neppure poteva approvare quel tempo d'iniquità, ma preparava l'era attuale di giustizia, perché, riconoscendoci in quel tempo chiaramente indegni della vita a motivo delle nostre opere, ne diventassimo degni in forza della sua misericordia, e perché, dopo aver mostrato la nostra impossibilità di entrare con le nostre forze nel suo regno, ne diventassimo capaci per la sua potenza» (Lettera a Diogneto 9,2). 


Capitolo 2

Ora Paolo sembra rivolgersi ad un interlocutore che, dopo aver ascoltato le critiche sollevate, le ha condivise tutto compiaciuto: «Chiunque tu sia, o uomo che giudichi, non hai alcun motivo di scusa perché, mentre giudichi l'altro, condanni te stesso; tu che giudichi, infatti, fai le medesime cose. Eppure noi sappiamo che il giudizio di Dio contro quelli che commettono tali cose è secondo verità» (2,2-3)

Gli uomini tendono a credersi migliori degli altri e a criticare in modo aspro il comportamento altrui. Chi condanna l’altro, finisce col condannare se stesso, perché, in realtà, agisce allo stesso modo. 

L’aspetto più imbarazzante del giudizio di Dio sta nell’essere secondo verità (2,2). Il suo scopo è rendere a ciascuno secondo le sue opere, con perfetta imparzialità (2,6). 

Paolo continua a polemizzare contro il moralista che giudica gli altri. Invece di mettersi al di sopra di loro, dovrebbe riconoscere che anch’egli, dal momento che sbaglia, meriterebbe la riprovazione del Signore. Non dovrebbe cercare di abusare della sua bontà ma convertirsi in modo da non essere condannato nel giudizio veritiero di Dio: «Tu che giudichi quelli che commettono tali azioni e intanto le fai tu stesso, pensi forse di sfuggire al giudizio di Dio? O disprezzi la ricchezza della sua bontà, della sua clemenza e della sua magnanimità, senza riconoscere che la bontà di Dio ti spinge alla conversione? Tu, però, con il tuo cuore duro e ostinato, accumuli collera su di te per il giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio, che renderà a ciascuno secondo le sue opere» (2,3-5). 


Il mondo pagano ed ebraico

Prosegue a descrivere la vita degli uomini caratterizzata dalla facilità a peccare. Gli ebrei trasgrediscono la legge ricevuta da Mosè mentre i pagani trasgrediscono i suggerimenti della loro coscienza (2,9-13). I pagani avrebbero la possibilità di seguire la legge che Dio ha scritto nei loro cuori, fino a poter essere legge a se stessi. Non si mostrano, però, degli osservanti rigorosi dei richiami della coscienza ma la tradiscono. «Quando i pagani, che non hanno la Legge, per natura agiscono secondo la Legge, essi, pur non avendo Legge, sono legge a se stessi. Essi dimostrano che quanto la Legge esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti, che ora li accusano ora li difendono» (2,14-15).

«La verità ha scolpito nei nostri cuori, per la mano stessa del Creatore, il principio: ciò che non vuoi sia fatto a te, non farlo tu agli altri. A nessuno fu mai permesso di ignorare questo comandamento, anche prima che fosse data la legge scritta» (Agostino, PL 36,673). 

[Conclude la sua analisi richiamando il giudizio che verrà esercitato da Dio: «Così avverrà nel giorno in cui Dio giudicherà i segreti degli uomini, secondo il mio Vangelo, per mezzo di Cristo Gesù» (2,16). In che cosa consiste questo giudizio? Si riferisce al giudizio finale o all’ora in cui Dio Padre, rendendosi conto del dominio del Peccato sul mondo, interviene inviando il Figlio, concedendo il perdono e dando inizio ad una nuova umanità?]

Mostrate le incoerenze dei pagani, Paolo si sofferma a criticare i suoi «fratelli» ebrei (2,17). Si sta domandando: qual è la funzione della Legge mosaica nel disegno di Dio e qual è il significato della scelta particolare nei confronti d’Israele?

Gli ebrei, infatti, oltre alla legge del cuore, hanno ricevuto una Legge scritta. In questo modo, hanno conosciuto in maniera più chiara quale sia il volere di Dio. Una migliore conoscenza, non rende necessariamente migliori. Anzi, può rendere orgogliosi, spingere i detentori della dottrina a considerarsi guida dei ciechi (2,19). Se, poi, la Legge non viene praticata, la maggiore sapienza si trasforma in pura presunzione. La trasgressione della Legge da parte dei credenti disonora Dio (2,24). 

Aggiunge un’altra osservazione. Gli Ebrei erano orgogliosi della circoncisione, un segno fisico che, richiamando la loro appartenenza al popolo del Signore, li distingueva dai pagani. Neppure questa distinzione ha un grande valore. Il pagano che obbedisce ai dettami della coscienza, deve essere stimato molto di più dell’ebreo che trasgredisce la Legge (2,26). «Certo, la circoncisione è utile se osservi la Legge; ma, se trasgredisci la Legge, con la tua circoncisione sei un non circonciso. E così, chi non è circonciso fisicamente, ma osserva la Legge, giudicherà te che, nonostante la lettera della Legge e la circoncisione, sei trasgressore della Legge» (2,25-29). 

Paolo ricorda, piuttosto, il valore della circoncisione del cuore raccomandata nella Bibbia: «Giudeo, infatti, non è chi appare tale all'esterno, e la circoncisione non è quella visibile nella carne; ma Giudeo è colui che lo è interiormente e la circoncisione è quella del cuore, nello spirito, non nella lettera; la sua lode non viene dagli uomini, ma da Dio (ivi)».

Ecco due passi significativi della Bibbia sulla circoncisione più gradita a Dio: «Circoncidete il vostro cuore ostinato» (Dt 10,16). «Circoncidetevi per il Signore, circoncidete il vostro cuore» (Ger 4,4). 

L’apostolo ha così accennato a due fonti di salvezza che rimangono sempre valide nel tempo: la legge naturale o legge del cuore proposta a tutti gli uomini (annunciata nel patto con Noè) e la legge di Mosè (alleanza del Sinai) rivolta a tutti gli ebrei. A tutti suggerisce di agire con lealtà verso il prossimo e questo suggerisce la coscienza d’ognuno.

Il Signore accompagna tutti gli uomini nel cammino della vita ma essi, anziché obbedire, trasgrediscono la legge assegnata loro e cadono vittime del Peccato, che è come il Dominatore tirannico del mondo. 

La situazione è grave ma ancora sanabile. La rottura tra Dio e gli uomini non viene mai da Dio. Se gli uomini fossero stati capaci di liberarsi dal male con le loro sole forze, Dio Padre non avrebbe avuto bisogno di mandare nel mondo il Figlio suo e se il mondo fosse così malvagio da essere irrecuperabile, non avrebbe cercato di risanarlo. 


Capitolo 3

Obiezioni e schermaglie

Paolo ha equiparato pagani ed ebrei accomunandoli nel peccato. Non è un giudizio troppo azzardato? Gli ebrei non hanno alcun vantaggio sui pagani? Per la logica dell’argomentazione ci si attenderebbe la risposta: «Nessuno!», invece la risposta è al contrario: «Sì, certamente!». Hanno ottenuto il grande vantaggio di aver ricevuto «le parole di Dio», un tesoro incomparabile (3,1). Inoltre Dio è sempre rimasto fedele al suo popolo, all’alleanza e alle promesse, anche quando esso non avrebbe meritato tanta fedeltà. «Se alcuni furono infedeli, la loro infedeltà annullerà forse la fedeltà di Dio? Impossibile! Sia chiaro invece che Dio è veritiero, mentre ogni uomo è mentitore» (3,4). 

L’apostolo ha cambiato registro: dagli atti umani, è passato a considerare l’agire del Signore. Gli ebrei sono grandi non tanto per ciò che sono, ma per ciò che il Signore ha fatto per loro. Al rigore della giustizia, ha mostrato sempre di preferire la misericordia (In questo modo anticipa il discorso sulla giustificazione per grazia che sta per annunciare). 

Respinge un’obiezione rivolta contro il suo insegnamento: se il perdono fa risaltare la bontà del Signore, i peccatori compiono un’azione utilissima perché permettono a Dio di mostrare l’ampiezza della sua misericordia. Di conseguenza, non dovrebbero essere riprovati ma elogiati; quindi, conviene peccare! Alcuni lo accusano di sostenere questa opinione: «Non è come alcuni ci fanno dire: “Facciamo il male perché ne venga il bene”; essi ci calunniano ed è giusto che siano condannati» (3,8). L’obiezione non era affatto così acuta. È ovvio che, se la cura intrapresa rivela la perizia del medico curante, ciò nonostante, nessuno cerca di ammalarsi. «Anche se Dio può trarre il bene dal male, il male resta male, e Dio non lo può tollerare» (Attinger 61). 


L’intervento salvifico del Signore

Dopo aver rintuzzato le critiche, riprende il filo principale del suo discorso e rivela la gravità della malattia che affligge l’umanità. Tutti gli uomini sono colpevoli: «Abbiamo già formulato l’accusa che, Giudei e Greci, tutti sono sotto il dominio del peccato» (3,9). Non parla di peccati ma di Peccato! Preferisce usare il singolare perché vuole segnalare la tirannia di una potenza negativa personificata. Dal momento che questa conclusione è piuttosto severa, non gli basta far conoscere la sua opinione ma si appoggia sulla Parola di Dio che ribadisce il medesimo enunciato: non c’è un giusto, nemmeno uno (Cf 3,10-18). Se la Legge attesta con fermezza che gli uomini sono rimasti peccatori anche dopo la sua promulgazione, essa riconosce, in modo indiretto, la sua inefficacia nel liberare l’umanità dal male. I comandamenti, anziché essere degli incentivi al bene, si riducono soltanto a fornire il catalogo delle trasgressioni (5,19-20). 

In conclusione: l’uomo, ogni uomo, deve tacere ed accettare il risultato della diagnosi che lo dichiara colpevole davanti a Dio (3,19). La torre che mirava a conquistare il cielo è crollata e non c’è altro da fare che osservare le macerie. 

A questo punto, stando così le cose, ci sarebbe potuto aspettare un severo intervento punitore da parte di Dio mentre, al contrario, Egli vuole recuperare l’umanità smarrita. 

Paolo annuncia una svolta inaspettata creata da Dio: «ma ora (nynì de)» (3,21). Da qui in avanti tutto cambia in modo radicale. Riprende l’annuncio espresso all’inizio della sua trattazione (1,17). Parlando di «ora» stabilisce un tempo “prima” e “dopo Cristo”. La sua considerazione però è più teologica che cronologica. Dal nostro sguardo umano rileviamo una svolta nel tempo, ma dal punto di vista divino Cristo è l’Agnello immolato fin dalla creazione del mondo (Cf 1 Pt 1,20). Tutta la storia umana è stata illuminata dalla sua Pasqua. 

Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù. È lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue» (3,23-25)

Gli uomini non mostravano più la gloria di Dio, perché avevano perduta l’innocenza (3,23). Chi non glorifica Dio non spegne la gloria di Dio ma la propria, ma ora il perdono viene dato in modo gratuito (3,27). La positività del nuovo corso non dipende da ciò che hanno fatto gli uomini in meglio, ma da ciò che ha fatto Gesù per loro. L’evento decisivo nella storia sta nella missione del Figlio. 

Grazie alla santità di Gesù, un uomo tra gli uomini, l’umanità può vantare di essere stata fedele a Dio in modo perfetto. Gesù, obbedendo al Padre fino ad affrontare la morte in croce, dissolve tutto il cumulo dei peccati degli uomini. Dio, quando guarda a noi, ci vede attraverso il Figlio Gesù: per l’obbedienza di uno solo, tutti sono costituiti giusti (Cf. 5,19). «Il mio spirito non è che un nulla, ma è associato alla croce, la quale se è scandalo per gli increduli, per noi invece è salvezza e virtù eterna (cfr. 1 Cor 1,20-23)» (Ignazio, agli Efesini, 18,1).

«Dio è giusto e come tale non poteva giustificare gli ingiusti: volle perciò che ci fosse l'intervento di un propiziatore affinché venissero giustificati per la fede in lui quanti non potevano essere giustificati per le proprie opere (Orig.,CLR, p. 155)». 

Egli viene elevato da Dio e posto allo sguardo di tutti perché è il segno del perdono divino per tutti gli uomini (3,25). «O dolce scambio, o ineffabile creazione, o imprevedibile ricchezza di benefici: l'ingiustizia di molti veniva perdonata per un solo giusto e la giustizia di uno solo toglieva l'empietà di molti!» (Lettera a Diogneto 9,6). 

Gesù è il suo dono massimo e perciò gli uomini vengono a conoscere la giustizia (per giustizia s’intende la sua santità o fedeltà) divina in tutta la sua ampiezza. La Sacra Scrittura (Legge e Profeti) aveva già preannunciato che la misericordia divina avrebbe prevalso su tutto (3,21): «Quale dio è come te, che toglie l'iniquità e perdona il peccato al resto della sua eredità? Egli si compiace di manifestare il suo amore. Egli tornerà ad avere pietà di noi, calpesterà le nostre colpe. Tu getterai in fondo al mare tutti i nostri peccati» (Mi 7,1819).

Il suo perdono si riversa su tutta l’umanità e raggiunge perfino gli uomini del passato (3,25). L’unica cosa che viene richiesta è quella di credere in questo dono e affidarsi a Dio. 

I destinatari della grazia di Dio sono tutti gli uomini, nessuno escluso: «Forse Dio è Dio soltanto dei Giudei? Non lo è anche delle genti? Certo, anche delle genti! Poiché unico è il Dio che giustificherà i circoncisi in virtù della fede e gli incirconcisi per mezzo della fede» (3,29-30). 

Precisazioni

La giustificazione è una cosa diversa dalla salvezza. La giustificazione agisce nel presente ma la salvezza è un bene futuro e corrisponde alla partecipazione alla gloria del Risorto. Ora Dio ci riabilita con il suo perdono, donato gratuitamente, ci offre l’energia per camminare, ci rende compagni di viaggio del suo Figlio Gesù: questa è la giustificazione. La salvezza sta nella glorificazione. 

Il termine espiazione è stato molto equivocato. Il martirio di Gesù sulla croce non è stata la vendetta di Dio su di lui, scelto come rappresentante di tutti i peccatori. La condanna alla croce è stato un crimine perpetrato dagli uomini (At 2,23). Nella sua prescienza, Dio lo ha permesso perché da questo male estremo poteva ricavare l’estremo rimedio. Perciò il termine strumento di espiazione significa strumento di perdono. 

Nella Bibbia il perdono viene chiamato anche copertura; nel perdono il peccato viene coperto. Questo non significa, però, che i peccati vengano soltanto nascosti, come se fossero gettati sotto un tappeto. Gli uomini non sono costretti a rimanere ancora e sempre peccatori. Il Signore ci riabilita veramente. Anche se conserviamo un’inclinazione al male e rimaniamo sempre tendenzialmente egoisti, possiamo evitare il male e soprattutto, diventare persone d’amore, veri suoi figli (6,19). Dopo averci donato il suo perdono, Dio ci renderà persone capaci di seguire le sue leggi. Ci perdona non per compatirci in eterno ma per renderci persone responsabili e mature, capaci di agire rettamente. Ciò apparirà più chiaramente in seguito (capp. 6 e 8). Giustificazione significa anche rendere giusti, creare uomini capaci di vivere santamente. 

La redenzione era l’atto con il quale qualcuno, per solidarietà, sborsando del proprio denaro, liberava un altro dalla prigionia o dalla schiavitù. Nel caso di Gesù l’immagine del pagamento è soltanto una metafora. Dio non sborsa nulla a nessuno (tanto meno al diavolo). Redenzione significa che Gesù si è impegnato per noi, donando se stesso in modo estremamente generoso. 

Paolo conclude il capitolo con una precisazione importante. La remissione dei peccati gratuita e universale, non viene a sorpresa perché la Sacra Scrittura l’aveva già prevista. Perciò egli assicura che non sta stravolgendo l’ordine di Dio ma che, al contrario, lo sta servendo: «Togliamo dunque ogni valore alla Legge mediante la fede? Nient’affatto, anzi confermiamo la Legge» (3,31). 


Capitolo 4

Il messaggio dell’apostolo, esposto nei capitoli precedenti, è stato inteso come molto incoraggiante, ma sarebbe stato considerato credibile soltanto se fosse apparso in sintonia con la Sacra Scrittura (3,31). Del resto Paolo non intendeva «togliere valore alla Legge», ma ribadirla. La vicenda del patriarca Abramo, a suo parere, è la migliore conferma di ciò che sta annunciando: Dio giustifica per un puro dono della sua benevolenza gratuita. Infatti la familiarità con Dio di Abramo non dipese dai suoi meriti ma dal volere del Signore che lo scelse per amore. 

Gli ebrei e i giudeo-cristiani erano abituati a considerare Abramo come uno scrupoloso osservante delle norme e un modello di obbedienza. Se Abramo avesse voluto vantare opere buone davanti al Signore, questo suo vanto non sarebbe contato nulla agli occhi di Dio perché Egli aveva già deciso di sceglierlo per pura bontà. «Se infatti Abramo è stato giustificato per le opere, ha di che gloriarsi, ma non davanti a Dio» (4,1-2). 

L’argomento in discussione

Ricordiamo il dibattito ecclesiale che indusse l’apostolo a riflettere con maggiore penetrazione su Abramo. Egli insisteva perché i pagani venissero accolti dalla comunità allo stesso titolo degli ebrei ma, secondo alcuni, quest’ammissione andava contro l’insegnamento biblico. Così pensavano:

1. Soltanto chi osserva i comandamenti di Dio può essere giustificato da Lui, non certo chi neppure li conosce. I pagani, quindi, dovevano prima di tutto apprendere e osservare le norme di Mosè (diventare ebrei) e poi farsi battezzare. 

2. Ogni maschio veniva circonciso a norma di legge. Come è possibile che i pagani, senza farsi circoncidere, diventino figli di Abramo che, in modo eroico, si era sottoposto a questa norma quando ormai anziano?

Paolo fa notare che la Bibbia, proprio parlando di Abramo, presenta anche un’altra prospettiva: 

«Ora, che cosa dice la Scrittura? Abramo credette a Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia» (4,3). Dio, senza tener conto delle sue opere, lo scelse con un atto d’amore gratuito e apprezzò la fiducia che il patriarca ripose in lui. Dio, infatti, gli promise di donargli una discendenza numerosa come le stelle. Il patriarca si fidò di lui e la fiducia mostrata lo rese gradito a Dio. La sola fiducia (non altre prestazioni) gli venne «messa in conto» come un atto di giustizia. Abramo si convinse che Dio può prendersi cura anche di un uomo che di per sé non merita nulla. È possibile paragonare il santo Patriarca ad un peccatore perdonato per puro dono? Sì perché, quando il Signore invitò Abramo a stringere un’amicizia con lui, questi era ancora un pagano e venerava le divinità (Cf. Gs 24,2-3). Agiva anch’egli da empio. Venne scelto e chiamato, allora, per un suo dono, non per la sua rettitudine. Abramo, in seguito, si fidò di Dio e della sua promessa e per questo venne considerato da Lui un uomo giusto, gradito a Lui.

Il Signore si comportò con lui come un imprenditore che dona il salario ad un lavoratore che non ha faticato per nulla: «A chi lavora, il salario non viene calcolato come dono, ma come debito; a chi invece non lavora, ma crede in Colui che giustifica l'empio, la sua fede gli viene accreditata come giustizia» (4,4-5). 

A conferma di quanto sta dicendo, Paolo ricorda un altro passo della Bibbia in cui si legge che il Signore, per sua bontà, può decidere di non «mettere in conto» il peccato: «Così anche Davide proclama beato l’uomo a cui Dio accredita la giustizia indipendentemente dalle opere: Beati quelli le cui iniquità sono state perdonate e i peccati sono stati ricoperti; beato l’uomo al quale il Signore non mette in conto il peccato!» (Rm 4,3-8). 

Abramo e il peccatore perdonato sono paragonabili a due lavoratori che hanno ricevuto il salario senza aver lavorato per nulla. Dio agisce con tutti gli uomini in un modo così generoso, ebrei o pagani che siano (4,9). Agisce più da amico dell’uomo che da amministratore di meriti o di demeriti. 

Abramo, giustificato per fede

Quando venne apprezzato da Dio per il suo atteggiamento di fede, il patriarca non era circonciso e si trovava nella stessa condizione di un pagano. Il Signore non attese che si sottomettesse a questa pratica per poi premiarlo con la promessa di donargli molti figli ma agì al contrario. Prima si legò a lui con la promessa, senza vincolarla a qualche condizione, e solo in seguito gli chiese la circoncisione, quale segno dell’amicizia già stabilita da Dio per pura benevolenza (4,10-11). 

I pagani chiamati al Vangelo vivono una vicenda simile. Anch’essi ricevono un salario per una prestazione di lavoro che in realtà non hanno mai svolto. Il tesoro incomparabile della vita nuova del Vangelo lo ricevono per pura grazia. 

Abramo, padre degli ebrei diventa così anche padre dei pagani. Gli uni e gli altri, però, per poter vantare davvero d’essere suoi discendenti, devono imitare la sua fiducia nella gratuità dell’agire di Dio (4,11-12). 

 Il Signore ama agire in questo modo dando valore alle sue promesse e alla fiducia degli uomini in Lui (4,14). Se, invece, avesse dato un valore decisivo soltanto all’osservanza delle norme, la storia di salvezza sarebbe stata impossibile (4,14-15), perché essa si fonda sulla fedeltà di Dio e non su quella degli uomini. 

La stessa richiesta la rivolge ora ai pagani che vengono a conoscere il Vangelo: «Eredi dunque si diventa in virtù della fede, perché sia secondo la grazia, e in tal modo la promessa sia sicura per tutta la discendenza: non soltanto per quella che deriva dalla Legge [per gli ebrei], ma anche per quella che deriva dalla fede di Abramo [i pagani], il quale è padre di tutti noi» (4,16). 

Abramo modello di fede

Il patriarca è una figura esemplare di credente per tutti, ebrei e pagani. Si fidò del Signore che gli aveva promesso di donargli un figlio quando ormai non poteva più sperare in un dono simile, perché lui e la moglie Sara erano troppo vecchi per poter generare. Credette sperando contro ogni speranza (4,18):

«Egli non vacillò nella fede, pur vedendo già come morto il proprio corpo e morto il seno di Sara. Di fronte alla promessa di Dio non esitò per incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto egli aveva promesso era anche capace di portarlo a compimento. Ecco perché gli fu accreditato come giustizia». Era certo che Dio potesse chiamare all’esistenza cose che non esistevano ancora e ridare la vita dove sembra regnare la morte» (4,19-22)

I pagani che credono al Vangelo, esprimono un atto di fede altrettanto coraggioso: credono nella risurrezione di Cristo e sono certi di poter riprendere vita nonostante la loro morte spirituale. Sono convinti d’essere perdonati per la morte di Gesù e di poter essere santificati grazie alla sua risurrezione (4,25). 

La fede è estrema fiducia in un Dio Padre creatore, desideroso e capace di dare vita. Dio, infatti, ha operato l’impossibile: ha reso giusti dei malvagi e ha ripristinato la vita là dove regnava la morte (nel corpo di Abramo e in quello di Cristo). Non basta soltanto ritenere che esista un Essere superiore ma è necessario «fare sì che Dio – e solo Lui- abbia peso nella nostra vita» (Attinger 88). La fede, però, è un atto di risposta che appartiene alla grazia, è grazia; non è, in primo luogo, una capacità o un merito del credente (4,16 Cf Gv 6,29). 

In conclusione: la chiamata dei pagani al Vangelo corrisponde allo stile normale di Dio. Dio agisce con gli uomini per pura generosità e chiede a loro soltanto di fidarsi di Lui. Accade di nuovo ciò che si era già verificato nel passato. 

L’osservanza delle norme viene richiesta in un tempo successivo ma non è la condizione per cominciare a stabilire un rapporto con lui il quale, per recuperare tutti, comincia con una chiamata libera da qualsiasi condizione. L’unica cosa richiesta è fidarsi della sua bontà sorprendente. L’analisi compiuta sulla Sacra Scrittura conferma, quindi, la possibilità che avvenga una giustificazione per grazia, a prescindere dal comportamento precedente degli uomini. 


Capitolo 5

Il contenuto del Vangelo è già stato esposto con chiarezza. Paolo può finalmente dedicarsi a parlare di Gesù e mostrare la prospettiva meravigliosa aperta da lui per tutta l’umanità. Dopo aver parlato di redenzione, Paolo presenta il Redentore e tutti i benefici portati da lui. 

Giustificati dunque per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio (5,1-2).

Al presente, il cristiano si trova in pace con Dio, vive immerso nella grazia, si trova in uno stato che gli converrebbe conservare in tutti i modi (5,1-2). Nel passato, quando Cristo morì sulla croce, venne perdonato e reso gradito a Dio (5,1) e, per quanto riguarda il suo futuro, spera di godere della piena manifestazione della grandezza di Dio, partecipando alla gloria del Risorto. Passato, presente e futuro gli sono assicurati. 

Se viene così amato da Dio, come mai anche il credente incontra tante tribolazioni? Paolo sta pensando forse a tutti i travagli che deve sopportare nella sua missione. Sperimentare la sofferenza non è un motivo per dubitare dell’amore di Dio perché perfino quella può tramutarsi in un vantaggio. Nell’affrontare i travagli, il cristiano impara ad esercitare la perseveranza, la resistenza al male, sicuro che sarà ricompensato. Il suo impegno lo renderà ancora più fervente e fiducioso del risultato: «Ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza» (5,3-4). La perseveranza è facile perché ad agire in noi è l’amore donatoci dallo Spirito. 

Siamo certi, poi, di non illuderci sul risultato finale perché la vita futura è già cominciata nell’ora presente, a titolo di caparra. Dal momento che gode della presenza dello Spirito Santo, il cristiano possiede la forza che gli permetterà di risorgere. «La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (5,5). Il dono massimo che Dio avrebbe potuto elargire, lo ha già riversato in lui per intero (ekkechytai), come si versa un liquido da un recipiente ad un altro. Non ci ha dato soltanto qualcosa ma tutto quanto, perfino tutto quello che è Lui. 

Cristo morì per i malvagi

L’elargizione dello Spirito è il primo e principale dono della Pasqua. 

Nel tempo stabilito, ossia quando Dio ritenne che fosse arrivato il momento più adatto, Cristo morì per gli empi (5,6). Nessuno mette a repentaglio la propria vita per soccorrere dei malvagi. Caso mai, uno si sacrifica a favore delle persone che ama e dalle quali si è sentito amato o per salvaguardare dei beni vitali. Alcuni eroi antichi si erano sacrificati per la salvezza della loro parentela e della loro città, non certo per favorire persone riprovevoli. Gesù, invece, muore a vantaggio di coloro che non meritavano alcun soccorso. Tra questi siamo inclusi anche noi.

L’osservare questo fatto inaspettato, ci rende fiduciosi riguardo al giudizio che Dio pronuncerà su di noi. Chi ha ricevuto gratuitamente il condono totale del debito accumulato, non ha più paura di incontrare il suo creditore d’un tempo. «A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita» (5,9-10).

Dio infatti ha agito in modo contrario a quanto accade di solito. In via normale è l’offensore a dover preoccuparsi di ingraziarsi la persona che ha offeso, mentre il Signore ha preso l’iniziativa per rappacificarsi con i suoi offensori, cioè noi. A questo punto, anziché aver paura di Dio, possiamo gloriarci di lui, sentirci rassicurati per quanto ha fatto per noi (5,11). 

Adamo e Cristo

Paolo continua a voler far comprendere in tutti i modi la sovrabbondanza di grazia procurata da Gesù per tutti. Egli dà inizio ad una nuova stagione nella storia e per questo motivo non è paragonabile ad un grande re come David o a un grande legislatore come Mosé. È paragonabile soltanto ad uno che è anteriore a tutti i grandi personaggi e che non appartiene a Israele ma a tutta l’umanità, cioè a Adamo, il capostipite di tutti gli uomini. Traccia perciò un confronto tra Cristo e Adamo. Il primo ha un carattere mitico, il secondo è una figura storica. Adamo personifica l’umanità oppressa dal peccato; Cristo è di fatto l’inizio della nuova umanità, rinnovata grazie alla sua azione risanatrice. 

«Quindi, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, e così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato…» (5,12) 

Adamo peccò e così fece entrare nel mondo il peccato e la morte. Gli uomini, suoi discendenti, eredi del suo fallimento morale, confermarono e ripeterono, a loro volta, la sua scelta nefasta (5,12). L’umanità si è dimostrata schiava del Peccato, l’oppressore che la domina. 

[Variazioni nella comprensione della preposizione eph’o: nel quale tutti peccarono; a causa del quale: da questo evento tutti hanno ricevuto una spinta al peccato; a condizione che… la morte avrebbe raggiunto tutti, se avessero peccato; per questo (al ken ebraico), dal momento che tutti muoiono, è evidente che tutti hanno peccato)]. 

Nell’epoca più antica, prima che Mosè promulgasse la Legge, peccato e morte già dilagavano. Il peccato esiste anche quando non c’è una Legge. È male non tanto perché sia la trasgressione d’una norma, ma per ciò che è in se stesso. Un esempio: fumare danneggia il fumatore a prescindere da qualsiasi legislazione a proposito. «Fino alla Legge infatti c’era il peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la Legge, la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire» (5,12-14). 

Adamo e Cristo sono entrambi dei capostipiti per i loro discendenti ma Cristo è il rovescio di Adamo perché «il dono della grazia non è come la caduta» (5,15). «Ha più potere la giustizia nel vivificare che il peccato nell’uccidere» (Pelagio 5,15 p.107): 

- Adamo procurò la morte agli uomini; Cristo offre a tutti doni incomparabili. «Se per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo si sono riversati in abbondanza su tutti» (5,16). 

- Bastò un solo uomo a provocare una moltitudine di condanne; bastò Gesù solo a far sì che numerose condanne si tramutassero in una assoluzione. «Il giudizio infatti viene da uno solo, ed è per la condanna, il dono di grazia invece da molte cadute, ed è per la giustificazione» (5,16). 

- Adamo fece entrare nel mondo il regno della morte; Cristo invece introdusse in esso il regno della vita (5,17). La vita, donata da lui, non è un’esistenza qualsiasi ma un vero regnare. «Infatti se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo» (5,17).

In conclusione: la santità di Gesù ha ottenuto il perdono per tutti e l’inizio di una nuova esistenza “regale” (5,18-19): «Come dunque per la caduta di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera giusta di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione, che dà vita. Infatti, come per la disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti» (5,18-19).

La proclamazione della Legge, avvenuta nel corso della storia tramite Mosè, anziché eliminare i peccati, favorì la loro proliferazione. Divenne un incentivo più che un freno (questo fatto paradossale verrà ripreso e spiegato nel cap. 7): «La Legge poi sopravvenne perché abbondasse la caduta; ma dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia. Di modo che, come regnò il peccato nella morte, così regni anche la grazia mediante la giustizia per la vita eterna, per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore» (5,20-21).

Il male aveva desertificato tutta la terra. Dio non si arrese e la irrigò con una pioggia ancora più abbondante. Il peccato abbondò ma la sua grazia sovrabbondò (5,20). Tale cambiamento, però, non opera in modo automatico ma richiede il consenso e la collaborazione di chi si affida a Lui. 


Capitolo 6

La grazia di Cristo è libertà dal peccato. 

Paolo chiarisce un fraintendimento del suo insegnamento che aveva suscitato scandalo: se Dio è sempre disposto a perdonare e se l’uomo, anche se non ha opere buone da presentargli, si riconcilia Lui soltanto mostrando fiducia nella sua bontà, non conviene restare nel peccato ed evitare la fatica che costa l’agire bene? Anzi, “continuiamo pure a peccare e così faremo risaltare ancora meglio la sua misericordia!”. 

Secondo il pensiero dell’apostolo, prendere una decisione del genere sarebbe insano perché il peccato è, di per sé, un male che danneggia chi lo compie. Offende Dio perché corrode la vitalità dell’uomo. «Che diremo dunque? Rimaniamo nel peccato perché abbondi la grazia? È assurdo! Noi, che già siamo morti al peccato, come potremo ancora vivere in esso?» (6,1-2). Paolo non si limita ad esortare il cristiano a non peccare ma gli fa sapere che egli è già morto al peccato. Deve rendersi conto di questo evento. Come è avvenuto ciò?

Il significato del battesimo

L’agire del cristiano prende inizio da Cristo; non si fonda sopra un principio etico ma sopra un evento, la Pasqua di Gesù. L’etica cristiana avvisa che c’è qualcuno, Gesù Cristo Salvatore, che può risanarci in modo completo e renderci irreprensibili. Dal momento che gli siamo molto cari, ci vuole completamente diversi da quello che siamo e simili a lui per quanto possibile. 

Si entra in contatto con lui tramite il Battesimo. La relazione amichevole con lui non consiste in una semplice conversazione tra amici, sotto l’ombra di un fico, ma nella partecipazione all’evento drammatico della sua morte e risurrezione. 

Battezzare significa immergere (baptizo). Il battezzando non soltanto si immerge in Cristo ma nella sua morte. 

«Non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella su morte? Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova» (6,3-4).

«Il cristiano viene per così dire avvolto e abbracciato da Cristo, il quale, molto più dell’acqua che ne è solo un simbolo, passa a costituire il suo nuovo spazio vitale. In quanto tale, Cristo risulta essere il sostituto e l’esatto opposto del Peccato, nel quale il cristiano ormai non ha più la propria residenza» (Penna, Battesimo…, 82-83). 

Il battesimo è un’immersione totale in Cristo a somiglianza di un seppellimento. Egli ci fa morire, seppellire e risorgere con lui. È morto perché ottenessimo il perdono e l’annullamento dei nostri peccati e il battesimo ci immerge in lui e in questo suo progetto (6,3). Come ho detto, l’apostolo non esorta i credenti a smettere di peccare, ma proclama che essi sono già morti al peccato. La morte di Gesù è il tesoro inesauribile e inestimabile, il punto culminante di tutta la sua opera. Non è morto al posto nostro per evitare che noi moriamo ma, al contrario, per fare in modo che noi possiamo morire con Lui. A partire da quel momento, siamo nuovi e completamente diversi perché realmente possiamo cominciare ad essere tali. 

Cristo, dopo la morte, ottenne dal Padre la risurrezione ricevendo un corpo glorioso. Noi, come primo passo, cominciamo a camminare in una vita rinnovata e soltanto in seguito avremo anche noi un corpo glorioso come il suo: «Se siamo stati intimamente uniti a lui a somiglianza della sua morte, lo saremo anche a somiglianza della sua risurrezione» (6,5). 

L’essere “intimamente uniti” traduce il termine greco symphytoi; significa letteralmente essere connaturati e crescere insieme. Affiora subito alla mente l’allegoria di Gesù: siamo come tralci inseriti nella vite (Gv 15,1-8). In altre parole, il battezzato non si limita a imitare Cristo come Egli fosse un modello esterno a lui ma assimila il suo modo di essere. Assorbe le sue qualità. 

Cristo fu crocifisso con il suo corpo fisico e noi crocifiggiamo il nostro uomo vecchio (6,6). Morire al peccato, non significa soltanto evitare i peccati, ma essere radicalmente sottratti alla sfera d’influenza del Peccato (Penna, cit. 103) 

Partecipare alla Pasqua di Cristo, più che imporsi un impegno etico gravoso è godere di una vita nuova: «Se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui» (6,8). 

È cominciare a godere di una vita che vincerà la morte stessa. «Morì per il peccato una volta per tutte; ora invece vive, e vive per Dio. Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù» (6,9). Cristo morì una volta per tutte (ephapax) (Cf Eb 9,26-28; nei misteri ellenisti l’adepto moriva più volte con il suo dio il quale moriva e ritornava in vita obbedendo al ciclo della natura). Ora è vivo senza che sia possibile per lui morire. Vive col Padre e per il Padre, per realizzare il suo Regno. Anche il battezzato comincia a vivere di questa vita e per lo stesso scopo (mentre l’adepto dei misteri non iniziava una vita etica). 

Schiavi del Signore

Non ritiene sufficiente quanto ha detto e lo ribadisce servendosi della prassi della schiavitù, ben conosciuta nella sua epoca. La sua essenza stava nella costrizione ad obbedire ad un padrone. L’uomo serve al Peccato o alla Giustizia. Non c’è una via di mezzo. Quando agisce in concreto o sta obbedendo al Male o alla Santità. L’apostolo suggerisce ai suoi interlocutori di ricordare ciò che avevano vissuto. Quando si erano consegnati al Peccato come schiavi, avevano compiuto cose che avevano procurato loro piacere immediato ma intanto erano diventati prigionieri delle loro passioni e persone malvagie. 

Ringrazino Dio! Apprendendo l’insegnamento trasmesso dai ministri del Vangelo, hanno potuto liberarsi da una schiavitù divenuta col tempo impossibile da sopportare e si sono sottoposti alla Giustizia (6,17). Ora provano vergogna per quanto avevano fatto e per quello che erano diventati (6,21) ma non devono più temere. Diventati schiavi di Dio, riescono a vivere con santità e sanno di ottenere la vita eterna. Il passato è passato e il futuro radioso. 

In conclusione, il battezzato è libero dal peccato, un padrone che paga consegnando alla morte i suoi schiavi e si consegna a Dio, un padrone che paga donando la vita eterna (6,23). 

Capitolo 7

Libertà dalla Legge

L’apostolo continua ad esporre i grandi benefici procurati da Gesù. Ha appena dichiarato che il battezzato è morto al Peccato ed ora afferma che è morto anche alla Legge. L’affermazione non poteva non allarmare! Che cosa significa? È morto in questo senso: non deve più appoggiarsi su di essa per cercare di liberarsi dal male perché la Legge non possiede la forza sufficiente per offrirgli questa opportunità. L’Antico ordinamento religioso che aveva al suo centro la Legge di Mosè è stato superato dal nuovo ordinamento creato da Gesù. Per questo dice ai battezzati: non siete più sotto la Legge ma sotto la grazia (6,14). 

Vivendo in Cristo Gesù, il battezzato sa che cosa deve fare ed ottiene l’energia necessaria per compiere ciò che si è proposto; quindi è libero nei confronti della Legge. Si trova nella stessa situazione di una donna che, divenuta vedova, è completamente libera nei confronti del marito defunto e può risposarsi (7,1-4). Paragonare la Legge ad una moglie defunta non è un esempio molto indovinato (caso mai è il battezzato che si svincola dalla Legge o muore ad essa) ma è necessario stendere un confronto tra due situazioni di vita, tra l’esistenza di di chi vive appoggiandosi sulla Legge mosaica e l’esistenza di chi vive in Cristo. Cristo è meglio di qualsiasi Legge. «Ora possiamo vivere nella novità dello Spirito e non nella vecchiezza della lettera» (7,6). Senza l’assistenza dello Spirito, anche le parole “spirituali” di Gesù finirebbero con l’appartenere alla vecchiezza della lettera. 

Considerata in se stessa, la Legge di Mosè è santa; ogni comando di cui è composta, è giusto e buono (7,12). Tuttavia chi si ripromette di osservarla, s’accorge di essere travolta da una forza intima che gli impedisce di attuare il suo proposito. Si scontra con la potenza del Peccato. Questa energia negativa, per avere la meglio su tutti, si serve delle passioni che sono presenti in ogni uomo e dalle quali viene dominato con estrema facilità. La forza della volontà e la chiarezza della razionalità vengo scompaginate dagli istinti e dai desideri passionali (7,7). L’uomo, anche quello ben intenzionato, appare spesso come un fuscello trascinato dalla corrente. 

Una proibizione, anziché persuadere e condurre al bene, infastidisce la persona alla quale viene imposta. Anzi, ciò che viene proibito affascina (7,8). La legge, perciò, anziché produrre un comportamento positivo, ottiene il contrario. Il Peccato si serve del richiamo della norma per ottenere l’opposto di ciò che essa suggerisce. La Legge, quindi, al di là delle sue intenzioni, anziché reprimere Peccato, offre ad esso l’opportunità di esplicarsi in tutta la sua tracotanza.

Nel trasgredire le nome, gli uomini si rendono conto di quanto sia forte in loro l’istinto che inclina all’egoismo (7,13). Essendo troppo appesantiti, «carnali», ossia schiavi del proprio interesse, non sono in grado di adempiere i suggerimenti «spirituali», i nobili intenti che si prefiggono a livello teorico. Paolo conclude facendo risaltare l’aspetto più drammatico: l’uomo non è libero. Non lo è, perché non riesce a fare il bene a cui aspira (7,22-23). Vorrebbe compiere il bene ma ottiene il contrario. 

Non riesco a capire ciò che faccio: infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto. Ora, se faccio quello che non voglio, riconosco che la Legge è buona; quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene: in me c'è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me (7,15-24). 

Il dissidio interiore che lacera la persona era già stato riconosciuto dai pensatori del mondo antico e non era necessario che venisse fatto conoscere da una rivelazione. Paolo annuncia che è possibile ricomporre finalmente questa frattura grazie all’opera di Gesù: «Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!» (7,25). 


Capitolo 8

Nel continuare ad esporre i benefici portati da Gesù, ora annuncia quello più grande che corrisponde all’effusione dello Spirito, il quale anima il cristiano soprattutto a partire dal Battesimo. È lui il dono massimo di Dio, come aveva già suggerito (5,5). Si raggiunge ora una delle vette della lettera; il grande protagonista è lo Spirito che caratterizza l’identità stessa del cristiano e lo rende figlio nel Figlio (Cf. Pulcinelli, 112). 

Vita in Cristo e nello Spirito

Chi vive in Cristo Gesù (ecco una definizione del cristianesimo!), divenuto capace di evitare ciò che il Signore disapprova, sfugge con facilità al rischio di essere disapprovato da Dio nel giudizio futuro. Il pericolo estremo è superato ed allora Paolo prorompe in un grido di liberazione: «Non c'è dunque più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù. Poiché la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte» (8,1).

Chi si trova in Cristo Gesù non vive più nell’ordinamento della Legge ma in quello della Grazia. Lo Spirito crea una nuova realtà, un nuovo essere, crea un destino identico tra il battezzato e Gesù. Questo evento provoca delle conseguenze positive soprattutto riguardo all’agire morale. La persona umana che un tempo aveva conosciuto l’ineluttabilità del peccato e della morte che ne seguiva, ora, invece, si apre alla possibilità di conoscere una vita piena (8,2). La svolta è stata determinata dalla venuta di Cristo nel mondo come uomo. 

Ciò che era impossibile alla legge, perché la carne la rendeva impotente, Dio lo ha reso possibile: mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e in vista del peccato, egli ha condannato il peccato nella carne, perché la giustizia della legge si adempisse in noi, che non camminiamo secondo la carne ma secondo lo Spirito (3-4).

Egli, uomo come noi, visse in perfetta santità e così annullò il peccato in se stesso (e nell’umanità). Lo vinse pur vivendo una vita umana incline a peccare. Condannò il peccato, non il peccatore. Ora comunica ai battezzati questo modo d’esistenza del tutto inedito (8,3-4). Dio può compiacersi di loro, come si era compiaciuto di Gesù, ed evitare di escluderli dalla comunione con sé. Cristo, donandoci il suo Spirito, trasferisce in noi la sua santità. 

Quelli infatti che vivono secondo la carne, pensano alle cose della carne; quelli invece che vivono secondo lo Spirito, alle cose dello Spirito. Ma i desideri della carne portano alla morte, mentre i desideri dello Spirito portano alla vita e alla pace. Infatti i desideri della carne sono in rivolta contro Dio, perché non si sottomettono alla sua legge e neanche lo potrebbero. Quelli che vivono secondo la carne non possono piacere a Dio (8,5-8).

La carne non è il nostro corpo fisico ma la persona umana in quanto avversa a Dio. C’è una enorme diversità tra il vivere secondo la carne (katà sàrka), cioè prigionieri dell’inclinazione al male e il vivere secondo lo Spirito divino (katà pneuma). I desideri che provengono dall’egoismo producono in noi una vita spenta. In apparenza siamo vivi, ma in realtà siamo morti, incapaci di stabilire una vita di comunione con Dio e con il prossimo. 

Al contrario, i desideri suscitati in noi dalla presenza dello Spirito ci consentono di godere di una vita piena, la cui caratteristica è la pace. La pace, infatti, significa pienezza, essere colmi di beni. 

Lo Spirito è un ambito vitale che genera un certo tipo di esistenza (8,5). Facciamo un esempio. Come un albero di pere, può produrre soltanto pere e non un altro genere di frutta; mentre un altro tipo di albero, come un melo, non può produrre pere, così chi è unito allo Spirito, produce beni spirituali e soltanto quelli. 

È lo stesso dire: lo Spirito abita in noi (8,9) e dire: Cristo dimora in noi (8,10). Dobbiamo appartenere a Cristo in permanenza, perché un ramo non si stacca per riattaccarsi poi al tronco. Se produciamo frutti spirituali, vuol dire che siamo rimasti uniti a Gesù. Di per sé saremmo morti per il peccato ma, invece, viviamo da uomini giusti. 

La vita che già possediamo, poi, è l’inizio della glorificazione futura (8,11): se lo Spirito divino che ha risuscitato Gesù abita in noi, il Padre che ha risuscitato Cristo darà la vita anche ai nostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in noi (Cf 8,11). Come ho già rilevato, lo Spirito di Dio crea un destino identico tra noi e Gesù. 

Figli di Dio

Lo Spirito ottiene il meglio per noi quando ci rende figli di Dio. Essere figli non significa soltanto essere amati da Dio (in questo senso tutti gli uomini possono essere detti figli, in modo particolare Israele) ma poter vivere la stessa esistenza di Gesù. Finora soltanto Gesù era stato denominato Figlio, ma adesso anche noi partecipiamo a questa qualifica. Con Lui, chiamiamo Dio “Abbà”, godendo d’un privilegio inaudito. Partecipando alla confidenza che Gesù nutriva verso il Padre, ci liberiamo dalla paura che suscita angoscia e volontà di ribellione. 

«Tutti quelli infatti che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: «Abbà, Padre!» (8,14-15)

Nel futuro, l’essere figli ci permetterà di partecipare alla glorificazione di Gesù come suoi “coeredi”: «Se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria» (8,17). 

Gesù non è stato esentato dai travagli connessi alla sua missione ma anzi li ha accolti proprio perché, essendo Figlio, collaborava con il Padre. Lo stesso avviene anche al cristiano (8,17). 

Nella sofferenza, è normale desiderare di passare allo stato di gloria, nella quale i figli sono liberi da ogni male e rivestiti di splendore (8,18.21). 

Siamo figli ma non siamo angeli e poiché il mondo fisico è l’ambito di vita dal quale non possiamo prescindere, anche tutto il nostro mondo parteciperà alla nostra gloria (8,20-21). 

Abbiamo cominciato ad essere salvi ma la salvezza totale non si è ancora realizzata. Siamo persone di speranza (8,24-25). Abbiamo intrapreso il cammino della salvezza ma non abbiamo ancora raggiunto il traguardo. Perciò siamo gioiosi e sofferenti nello stesso tempo. Non è incoerente mostrare talora un volto triste. 

Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili; e Dio che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio (8,26-27).

Ci spinge a pregare perché la preghiera, pur essendo l’atto più costruttivo, è sempre piuttosto difficile. Con facilità la trascuriamo. Il cristiano prega sempre nello Spirito per accoglierlo con maggiore disponibilità. Suggerisce al Padre ciò di cui abbiamo bisogno realmente, senza esserne consapevoli. «Il nostro parlare a Dio resta carnale: sappiamo solo gridare i nostri bisogni. Proprio qui interviene lo Spirito Santo: si impadronisce del grido uscito dal nostro essere diviso, lo trasforma in preghiera [appropriata] ed è questa preghiera che giunge al Padre celeste. La preghiera vera è di per sé ineffabile» (Attinger, 173). 

Noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all'immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli.

Intanto il figlio di Dio sa che ogni avvenimento è permesso e condotto dal Padre per fare in modo che la vicenda di Cristo si realizzi anche in lui. Gesù non è soltanto un figlio unico ma il Primogenito di molti altri fratelli (8,29) ed essi riceveranno il dono di conformarsi a lui. Scelti da Dio dall’eternità, sono stati chiamati alla fede. Vivono il processo di giustificazione in vista dello loro glorificazione (8,30). Ogni privilegio concesso ai credenti viene dato perché giunga a vantaggio di tutti. La predestinazione non è una decisione di salvezza o perdizione eterna ma un segno rivolto a tutti. Tutti gli uomini possono avvantaggiarsi nell’incontrare dei Vangeli viventi, delle persone che ricordano Cristo da vicino. 

Stupore riconoscente

Paolo conclude queste considerazioni lasciandosi afferrare da vivo stupore riconoscente (8,31). «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?» (8,31). Se Dio ha voluto porsi al nostro fianco, nulla potrà ostacolarlo nel riversare la sua benevolenza. Egli viene descritto come Colui che ha voluto dedicarsi interamente agli uomini, ad ogni uomo. Anzi ci ha preferiti al Figlio suo. Se non ha risparmiato per noi neppure il Figlio a lui caro, ci donerà tutto quanto ci è necessario per accogliere il suo progetto. Lo ha consegnato a noi, ma Gesù ha accettato questa consegna in modo volontario. Soltanto un gesto così perturbante, poteva scuoterci nel profondo e renderci convinti d’essere amati. 

Il giudizio si volgerà a nostro favore. Infatti, se Dio ha perdonato perfino i malvagi, tanto più si prenderà cura degli uomini che ha voluto giustificare. Neppure Cristo desiderà condannarci perché ha accettato di morire in croce per noi pur di recuperarci e, da Risorto, stando presso il Padre, continua a provvedere a noi. 

Nulla può impedire a Dio di raggiungerci con il suo amore. Per ribadire questa verità, Paolo elenca sette situazioni estreme:  

la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati (8,36-37).

Egli ha già incontrato queste tribolazioni e non ha bisogno di lavorare di fantasia. Si è sentito talora come una pecora da macello (8,36). Le potremo superare non per la nostra destrezza ma perché il Padre ci verrà in soccorso in modo efficace.

Da sette, le situazioni diventano subito dieci per ribadire la medesima convinzione: «nessuna realtà creata» che come tale è inferiore al Creatore, proprio nulla, potrà impedire a Dio di raggiungerci con il suo amore dal momento che viviamo in Cristo Gesù. Padre e Figlio collaborano perché otteniamo la santità e la gloria. Non esiste rottura nel rapporto tra noi e Dio che dipenda da Lui. 


Capitolo 9

Paolo ha concluso la descrizione dei beni del credente ottenuti grazie all’impegno di Gesù. Ora espone il suo pensiero riguardo ad una grave domanda che lo preoccupa: qual è il destino del popolo d’Israele che ha rifiutato di credere a Gesù e ha rinnegato il suo Messia? Dio ha fallito nel suo progetto? Dovrà ora respingere il suo popolo per sempre? Nei capitoli nove, dieci ed undici riflette sul destino del popolo a cui appartiene. 

Paolo distingue tra il figlio che discende dai patriarchi per generazione fisica e il figlio che, invece, viene scelto da Dio in vista di un suo progetto particolare: il figlio della promessa. Il caso più evidente è rappresentato dai due figli di Isacco: Giacobbe venne scelto ed Esaù, al contrario, venne messo da parte. Non significa che venne diseredato ma che non ricevette un ruolo importante come quello avuto dal fratello (9,10-11). 

Il Signore preferì l’uno rispetto all’altro prima ancora che nascessero, quando nessuno dei due poteva, accampando azioni meritorie, vantare una superiorità morale sull’altro. Dio ama agire in base alla sua misericordia, mentre gli uomini sono interessati soprattutto a valutare secondo i meriti, dando valore primario alla giustizia (9,15-16). Decise in questo modo per motivi conosciuti soltanto da Lui. È opportuno evitare di contestare il Signore ponendoci al suo livello ma dobbiamo fidarci delle sue decisioni, senza sospettare che agisca in modo sconveniente (9,20). 

Nel caso in cui qualcuno resista al suo volere, come fece Faraone, Dio non viene sconfitto da una creatura, anzi la stessa ostinazione finirà col dare risalto alle «astuzie» messe in campo dalla sua misericordia (9,17). 

Paolo ribadisce il suo insegnamento sulle scelte misteriose di Dio, servendosi dell’immagine del vasaio. Egli crea vasi sia per un uso nobile, sia per uno normale; entrambi, però, sono utili e il vaso meno nobile non ha motivo di protestare contro il vasaio (9,20-21). 

Gesù insegna la stessa cosa nella parabola degli operai dell’ultima ora. I lavoratori che avevano cominciato a faticare alla fine della giornata e che, per questo, avevano diritto ad una paga molto ridotta, ricevono, invece, la ricompensa piena, come se avessero lavorato già dalle prime ore. Così sorprendente si mostrò la generosità compassionevole del padrone (Mt 20,1-16). 

Dietro questi ragionamenti, l’apostolo vuole affermare questa verità: i figli scelti (che ricevono la primogenitura) ora sono quegli ebrei e perfino quei pagani che hanno creduto in Gesù. Attraverso di loro, Dio continua il suo progetto, come un tempo aveva fatto con Isacco e con Giacobbe. Non rimane bloccato dalla mancanza di fede della maggioranza degli ebrei. 

I pagani erano dei vasi diventati inutilizzabili, adatti soltanto ad essere infranti mentre il Signore li ha sopportati con grande pazienza fino a farli diventare oggetti preziosi che mostrano la sua misericordia risplendente di gloria (9,22). 

L’attuale agire del Signore non rappresenta una novità dirompente. Nella Bibbia viene detto che il Signore ha continuato ad operare la sua salvezza anche mediante una parte minoritaria del popolo, quella che era stata denominata il “resto” (9,29). Viene detto anche che persone un tempo furono escluse dal popolo di Dio, sarebbero state incluse grazie al suo perdono gratuito (9,24). 


Capitolo 10

Paolo continua a riflettere sulla situazione religiosa dei suoi fratelli ebrei. Hanno zelo per Dio ma non hanno ancora compreso né accolto la novità creata da Dio mediante la Pasqua di Gesù. Dio ha voluto donare a loro, come a tutti gli uomini, la sua santità, in modo pieno e gratuito, ma essi preferiscono continuare a perseguire una loro giustizia, sforzandosi di osservare la Legge [senza poter contare sull’aiuto decisivo dell’opera di Gesù e del vigore del suo Spirito]. Non hanno compreso che dopo la missione di Cristo l’ordinamento antico è stato superato. Cristo è la conclusione di un lungo cammino di attesa e la fine di esso (10,4). 

Il Deuteronomio avverte che per essere considerati giusti, bisogna essere persone obbedienti alle norme della Legge, altrimenti si incorre nella condanna. Paolo ha già parlato dell’insufficienza di questo tentativo perché neppure l’osservante più scrupoloso, nonostante tutti gli sforzi, è in grado di evitare sempre il peccato. 

Tuttavia Mosè ha suggerito anche che la Parola di Dio è vicina ed accessibile ad ogni uomo. Questa Parola è Gesù Cristo. Trovarlo è facilissimo. Non bisogna cercare cose impossibili come salire fino al cielo o scendere negli abissi. Non occorre tirarlo giù dal cielo per farlo scendere da là o estrarlo dagli abissi per riportarlo in vita. Tutto questo è già accaduto ed ora, per godere dei suoi doni, è sufficiente accogliere la parola della predicazione degli apostoli (10,8), credere in lui con tutta la nostra persona. Questo richiede la persuasione del cuore e la professione esplicita della fede (10,9-10), come avviene nel Battesimo. 

L’apostolo, poi, esorta a partecipare al culto delle assemblee cristiane che venerano Gesù, così come Israele adorava Dio. Gesù è invocato Signore (Kyrios) con lo stesso titolo con cui era supplicato Dio e farà sperimentare la ricchezza della sua misericordia a favore di tutti gli uomini (10,12-13).

La fede comincia dall’ascolto del messaggio portato dagli inviati di Cristo Risorto (10,17). Dall’invio viene l’annuncio, dall’annuncio segue l’ascolto che fa scaturire la fede e la fede si apre all’invocazione, al culto che salva. Ormai questo annuncio si sta espandendo su tutta la terra. I pagani lo accolgono con gioia. L’apostolo spera che gli Ebrei si lascino coinvolgere spinti da una invidia santa (10,19). Il Signore si lascia trovare da persone che finora non l’avevano mai cercato (11,20) e continua a sollecitare un popolo che non è mai stato fedele a lui come Egli avrebbe desiderato (10,21). 


Capitolo 11

Che cosa accadrà ora agli ebrei increduli? Sono condannati a motivo dell’indurimento del loro cuore?

Esclude in maniera netta che Dio ora rifiuti il popolo d’Israele. I suoi doni sono irrevocabili, senza pentimento (11,29). Che cosa ha deciso allora il Signore? Per renderci consapevoli del progetto, Paolo si serve dell’immagine dell’innesto. Un agricoltore inserisce un germoglio sano in una pianta inselvatichita perché da esso si sviluppi una ramificazione fruttifera. Al contrario, Dio opera un procedimento che avviene al contrario di ogni logica ed innesta un germoglio sterile in una pianta sana, un olivo rigoglioso, nella certezza che esso verrà reso produttivo partecipando alla vitalità di tutto l’albero. In altre parole, i pagani di per sé isteriliti, vengono inseriti nel popolo d’Israele, stimato come un ceppo provvisto di grande santità. Potranno così portare frutto anch’essi (11,17). 

Il ceppo santo di Israele ha prodotto, però, anche molti rami che si sono rivelati improduttivi. Sono gli ebrei che hanno rifiutato la fede in Cristo. L’agricoltore, purtroppo, ora deve rimuoverli, tagliarli via dall’olivo. Di solito avviene che i rami tagliati disseccano, divenendo sterili per sempre. Invece il Signore li tiene nella sua mano e cerca l’occasione propizia per innestarli di nuovo (11,23). 

Agostino applica lo stesso atteggiamento anche verso i cristiani che hanno abbandonato il Signore: «La vite, spandendosi dovunque, conosce sia i tralci che le sono rimasti uniti, sia quelli che ne furono recisi, e sono rimasti lì vicino ad essa. Ma tuttavia la Chiesa continua a richiamare chi si smarrisce, perché anche di questi rami tagliati l’Apostolo dice: “Dio infatti ha la potenza di innestarli di nuovo” (Rm 11, 23). Sia dunque che si tratti di pecore erranti lontane dal gregge, sia che si tratti di rami recisi dalla vite, non per questo Dio è meno potente per ricondurre le pecore o per reinnestarle nella vite. Egli infatti è il sommo Pastore, egli è il vero agricoltore» (Discorso 46,18).

L’agire di Dio sfida sempre ogni logica. A motivo della tenacia della sua misericordia, cerca di ammorbidire la durezza degli ebrei increduli e si ripromette di recuperare l’intero Israele. Un giorno esso sarà salvato (11,26). Non viene precisato né il tempo, né il modo. 

Ora il Signore sembra interessato maggiormente a salvare i pagani ma, in realtà non ha alcuna intenzione di respingere gli ebrei con i quali si è legato con un patto. 

Del resto, tutti gli uomini avrebbero potuto essere condannati, mentre sono stati recuperati: Dio ha sopportato con grande magnanimità gente meritevole di collera, pronta per la perdizione (9,22). Permette che tutti disobbediscano e cadano nel peccato, perché su tutti possa riversare la sua misericordia (11,32). 

Paolo prorompe in un grido d’ammirazione per la tenacia impensabile dell’amore divino (11,33). Suscitare una tale ammirazione stupita è tra gli intenti della lettera ai Romani. 

Capitolo 12

Nei primi tre capitoli, l’apostolo ha promulgato il Vangelo della giustificazione per grazia. Poi si è dilungato a precisare quali benefici derivino da questa azione di Dio, portata a termine per opera di Gesù (capp. 5-8). Ha fatto sapere, poi, che Dio continua a mostrarsi fedele nei confronti del suo popolo Israele che, invece, per lo più, appare indifferente e perfino ostile al suo progetto (9-11). Finora ha parlato in modo prevalente di Dio e della sua misericordia. 

Nel capitolo attuale (il dodicesimo) e in quelli seguenti (13-15), espone quale deve essere la risposta degli uomini all’iniziativa divina, dopo aver riconosciuto la sua misericordia così sorprendente. 

Paolo comincia rievocando la misericordia divina. Parakalò: chiedo a voi, vi supplico, vi incoraggio ad accogliere le conseguenze pratiche di quanto vi ho annunciato riguardo all’agire di Dio. Avete ora la possibilità di offrirvi a lui in dono, imitando la sua carità. Nel loro culto, i pagani e gli ebrei offrono dei sacrifici materiali, mentre Dio chiede che la vostra vita diventi un atto di culto. Dovete distinguervi sempre di più dal modo di pensare e di agire degli altri uomini, ma soprattutto comprendere sempre meglio ciò che il Signore vi chiede e vi dona la possibilità di fare (12,2). Più che seguire delle norme fissate, lasciatevi trascinare dalla forza della carità. 

La carità esige l’edificazione di una comunità e questa presuppone la rinuncia ad ogni atteggiamento egoistico. La comunità è un unico corpo composto da molte membra ed ognuna esercita la sua funzione con diligenza a vantaggio di tutti (12,6-8). 

L’apostolo elenca le azioni a cui si deve dare la prevalenza e gli atteggiamenti interiori con i quali vanno accompagnate. Raccomanda il fervore accompagnato dalla gioia che rende capaci di affrontare le tribolazioni e le difficoltà. Il fervore è alimentato dalla preghiera perseverante. 

Rimarca lo stile di pacificazione nella conflittualità che, di per sé, sarebbe quello tipico del cristiano: benedire il persecutore, non rendere male per male, non farsi giustizia da soli, beneficare il nemico, cercare di vivere in pace con tutti e cercare di vincere il male con il bene (12,14-21). 


Capitolo 13

La comunità cristiana, mentre cerca di costituirsi come organismo animato dall’amore, vive all’interno di un consorzio più ampio, la società civile, con la quale è in relazione, alla quale dona molto ma dalla quale anche riceve molto. 

Paolo non sviluppa qui una riflessione articolata sulla istituzione statale ma è preoccupato piuttosto di soffocare un sentimento di rifiuto globale, dovuto al fatto che i fedeli avrebbero potuto sentirla come ostile. La Chiesa antica ha vissuto la sottomissione anche a uno Stato persecutorio; oltrettutto la sua lealtà fungeva da argomento apologetico. 

Lo Stato non è una creazione del Vangelo ma appartiene alla sfera della creazione che è buona e degradata nello stesso tempo, come l’uomo è una creatura voluta da Dio ma contrassegnata dal peccato. Offre elementi di bontà e comportamenti che provocano l’ira di Dio. È una istituzione provvisoria che verrà annientata insieme a tutto il nostro mondo e sostituita dalla cittadinanza celeste, già iniziata nel nostro presente, e a quest’ultima soltanto i cristiani appartengono in modo totale e definitivo. 

Le autorità sono stabilite da Dio perché senza di esse la convivenza sarebbe impossibile ma non tutto ciò che esse impongono corrisponde al volere di Dio. È necessario, in questo caso, obbedire a lui piuttosto che agli uomini (At 5,29). Agli arbitrii dell’autorità, il cristiano si oppone con la denuncia profetica e con la disobbedienza per motivi di coscienza. 

La spada dell’autorità, almeno sul piano teorico, cerca di limitare o annientare l’insorgere di altre violenze, magari più pericolose ancora, dalle quali ci protegge. Da questa punto di vista è esecutrice dell’ira di Dio, cioè della sua disapprovazione della malvagità. Così protetto, il cristiano rinuncia più facilmente alla vendetta. Anche nel momento presente, quindi, Dio giudica e interviene secondo criteri a noi inaccessibili. 

Il cristiano presta i suoi servizi alla comunità civile per amore verso gli uomini, libero dalla paura o dalla finzione (13,5-6). 

Vale sempre e sempre rivolto a tutti il comando dell’amore vicendevole. Questo è il cuore della Legge mosaica ma anche della legge (naturale) della coscienza (13,8-10). 

Il cristiano sta vivendo un momento di passaggio: la tenebra notturna si dilegua ma manca ancora del tempo per poter godere della luce piena. Trovandosi ancora al buio, s’accorge di possedere le armi della luce, la battaglia si risolverà a favore del bene (13,11-13). 


Capitolo 14

Paolo tratta ora una questione che gli stava a cuore e sulla quale si dilunga. Il suo intento è quello di evitare discordie tra i credenti che provenivano dall’ebraismo (giudeo-cristiani) e quelli che erano stati un tempo pagani (etno-cristiani). 

Gli ebrei erano abituati a rispettare rigorose norme di carattere alimentare. Di per sé la Legge proibiva soltanto l’astensione dagli animali definiti impuri ma alcune correnti giudaiche avevano esteso questa proibizione fino a proibire il consumo di tutte le carni (Cf Dn 1,8-16). Inoltre avevano stabilito altre pratiche ed osservanze in certe scadenze del calendario (14,5). Questo comportamento suscitava la derisione e il disprezzo da parte degli etnocristani. Forse dei giudeo-cristiani, per evitare tensioni, trasgredivano delle norme alle quali, però, si sentivano obbligati in coscienza. Diventavano allora persone “deboli”, a rischio di peccare, rispetto agli altri che liberi da scrupoli, si sentivano “forti”. 

L’apostolo invita tutti all’accoglienza reciproca evitando atteggiamenti di disprezzo o di condanna gli uni contro gli altri (14,10-12). Devono imitare l’accoglienza verso tutti manifestata da Dio stesso (14,3). Tutti infatti adottano un loro particolare stile di vita animati dal desiderio di essere fedeli al Signore Gesù, il quale ha il potere di rendere ogni credente capace di fedeltà secondo la sua particolare convinzione (14,4). Tutti appartengono a lui durante questa vita ed anche oltre la morte (14,8). 

Bisogna evitare che, proprio all’interno della comunità, qualcuno perisca trascinato da altri a trasgredire ai dettami di coscienza (14,15). Ogni credente è prezioso ai suoi occhi e per tutti ha donato la sua vita (14,15). 

A suo parere, non esiste una differenza religiosa tra i cibi e nessun alimento è impuro (14,14). Il Regno di Dio introdotto da Gesù è interessato a far acquisire beni spirituali molto più rilevanti (14,17) ma, proprio la novità creata dal Signore esige un profondo rispetto reciproco fondato sulla carità (14,21). Bisogna imparare a mettere da parte le proprie convinzioni, non vincolanti, quando questo è necessario per favorire la comunione. 


Capitolo 15

Nei primi versetti riprende e conclude l’argomento sviluppato nel capitolo precedente. Ogni credente deve cercare di edificare il prossimo e evitare ogni motivo di scandalo. Non si tratta di farci carico di un comportamento marginale, ma di imitare lo stile di vita di Gesù. In tutta la vita non curò mai il proprio interesse ma si spese per quello degli altri (15,3.7); non soltanto li beneficò ma accettò con pazienza i loro insulti. Lo attesta la Sacra Scrittura che offre sempre un insegnamento molto utile per consolidare la nostra speranza.  

La comunità, composta di giudeo ed etno-cristiani, devono accogliersi imitando Gesù che si pone a servizio degli Ebrei per attuare la promessa di Dio ai Padri e che serve anche i pagani per manifestare la sua misericordia. 

L’apostolo ha esaurito tutte le sue istruzioni e comincia a congedarsi dalle comunità.

Ora deve chiedere il loro aiuto e per questo riprende ad usare un linguaggio molto dimesso. Non è il loro fondatore e neppure una loro guida specifica. Si scusa di aver voluto impartire istruzioni, comunicando loro insegnamenti che già conoscevano. Detto questo, richiama ciò che più gli interessava. Ricorda che egli è un servitore di Cristo, accreditato da lui. Ha realizzato in modo magnifico l’incarico ricevuto. È come un sacerdote che offre a Dio non vittime sacrificali ma una miriadi di persone che si dedicano a Dio, così che la sua missione è un vero atto di culto. Questo è stato reso possibile per il fatto che Cristo stesso ha agito per mezzo di lui. 


Capitolo 16

L’apostolo, nel congedarsi dai Romani, si dilunga nei saluti ma ci offre anche alcune notizie interessanti sul momento che sta vivendo. 

Siamo nel 57 d. C. (circa), a Corinto, durante l’impero di Nerone. È ospitato in casa di Gaio, presso una chiesa domestica (16,23), dove detta la sua lettera ad un “tachigrafo” (stenografo) di nome Terzo 16,22). La lettera viene poi consegnata a Febe (16,1), una collaboratrice membro autorevole della comunità di Cencre (il porto di Corinto), la quale la porterà con sé a Roma e la esporrà a quelle chiese. Si tratta di un’ipotesi ben fondata. Nonostante la triste fama che gli è stata attribuita, egli non è affatto un misogino; al contrario vanta numerose collaboratrici. 

Si contano almeno cinque chiese domestiche alle quali verrà consegnato lo scritto: presso Prisca ed Aquila (16,3); presso Aristobulo (16,10); presso Narciso (16,11); presso Asincrito (16,14), presso Filologo (16,15). 

Le lettere venivano scritte in un contesto comunitario e venivano lette in comunità. Il latore dello scritto era la persona più indicata per esporla, chiarendo eventuali concetti rimasti più oscuri. 

Nella storia della Chiesa, l’interpretazione della lettera ha causato discussioni anche molto vivaci. Ora noi la leggiamo con più facilità perché possiamo contare sui risultati ottenuti in seguito a tanti studi diligenti e faticosi.  

L’apostolo conosce un numero considerevoli di Romani. Li avevi incontrati nei suoi lunghi viaggi. Il Vangelo si diffondeva attraverso la comunicazione di questi viaggiatori che affrontavano i rischi della navigazione e del cammino su strada; in molti casi non si trattava di viaggi missionari ma comuni, per affari, di necessità. 

Termina la lettera raccomandando ai fedeli di fare attenzione a personaggi in movimento che possono corrodere il Vangelo (16,17-18). Satana li sta aggredendo, ma Dio stesso lo schiaccerà sotto i loro piedi. 

La vera conclusione dello scritto è la glorificazione di Dio che sta svelando il suo progetto d’amore: permettere a tutti i pagani di conoscere il Vangelo, la persona e l’opera di Gesù. Egli li rende capaci di obbedire al Figlio suo per ottenere la salvezza (16,25-27). L’obbedienza della fede è la virtù più preziosa (1,5 e 16,26).


Riflessione conclusiva

Secondo la carne e secondo lo Spirito

Agli inizi della lettera, Paolo riporta una professione ereditata dalla Chiesa: Gesù «nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della risurrezione dei morti, Gesù Cristo nostro Signore» (Rm 1,3-4). Non ha elaborato un suo credo personale ma ha aderito a quello che veniva professato nelle comunità dei seguaci di Gesù che proclamavano la morte e risurrezione di Cristo (il kerigma). 

La formula intende dare rilievo all’autorità che Dio Padre ha affidato a Gesù a partire dalla sua risurrezione, che è intesa e proclamata come un insediamento regale. Ora Egli può portare a compimento la missione di Re - Messia già iniziata quando viveva sulla terra. Il riferimento essenziale del cristiano, tuttavia, non è tanto la risurrezione, ma la persona di Gesù, vivente nell’oggi. 

Gesù è vivo e la forza vitale che il Padre ha mostrato nel risuscitarlo agisce nel presente. Egli non è uno dei maestri del passato che ha lasciato un prezioso insegnamento ai discepoli dando loro l’incarico di attuarlo. La forza del suo movimento sta nel fatto che egli è una cosa sola con i suoi seguaci, vive in loro ed agisce in ogni tempo per suscitare nel mondo uomini simili a lui e comunità che si conformano al suo stile di vita. 

I cristiani non aderiscono a nuovi messaggi religiosi o a nuove leggi ma alla persona di Gesù: «Il ricordo di me è più dolce del miele, il possedermi è più dolce del favo di miele» (Sir 24). Egli li trasforma a sua immagine in modo tale da poter ripresentarsi agli uomini d’ogni epoca. Così auspicava Andrea da Creta: «Attraverso le nostre aspirazioni, entri nel nostro cuore, si stabilisca completamente dentro di noi, trasformi noi totalmente in lui ed esprima se stesso» (Disc. 9; PG 97, 2002). 

La Risurrezione, tuttavia, non rende la vicenda umana di Gesù obsoleta ma la rende gloriosa ed attuale. Le energie della nuova creazione ci rendono capaci di riprodurre in noi il Maestro nel suo umile servizio. Chi è risorto con Cristo, presenta agli uomini la figura di Gesù sulla terra, colmo di carità. Paolo non conobbe Gesù mentre viveva in terra ma solo dopo che da Risorto si manifestò a lui. Frequentando, tuttavia, le comunità dei suoi discepoli che si erano formate dall’inizio subito dopo la Pasqua, lo ha conosciuto in maniera più completa e ha attinto «le regole di vita» che risalivano a lui (1 Ts 4,2).

Nessuna nuova vita spirituale è autentica se non ripresenta lo stile di povertà adottato da Gesù. Gesù vivente mostra con orgoglio i segni della sua passione, sulle mani, sui piedi e al costato. Sono quelli il suo vero vanto. Un’apparizione del Risorto priva di questi contrassegni sarebbe un’illusione demoniaca, come viene testimoniato nella vita di S. Martino: «Un giorno il diavolo gli apparve circondato da una luce scintillante, rivestito di una veste reale, il viso sereno che neppure lontanamente somigliava al diavolo. A vederlo, Martino rimase come inebetito. Allora, per primo, il diavolo disse: “Martino, riconosci quello che vedi: io sono il Cristo. Sul punto di ritornare sulla terra, ho voluto innanzitutto rivelarmi a te”. Allora il vescovo, illuminato da una rivelazione dello Spirito, disse: “Non crederò alla venuta del Cristo, se non avrà l'aspetto e le sembianze del giorno della sua passione, e se non porterà le stimmate della croce”». A queste parole, l'altro subito svanì come il fumo» (Sulpicio Severo, Vita di Martino, XXIV). 


Riconoscere il Signore

Paolo non fu interessato soltanto alla salvezza dei fratelli ebrei ma la sua missione fu quella di rivolgersi a tutti i popoli per donare ad essi Colui che poteva risanarli. 

È consapevole che l’umanità, dominata dal Peccato, disconosce Dio e vuole rendersi autonoma da lui. 

La caratteristica più evidente della religione diffusa nell’antichità stava nella venerazione delle divinità e nell’idolatria. I pagani erano idolatri e spesso anche gli ebrei erano caduti in questa degenerazione (Cf 2 Re 17,12.16-17). Nella rappresentazione delle divinità, l’immensità di Dio viene ridotta in misure misere e distorcenti. Del resto, qualsiasi concetto su Dio, anche quello più appropriato, rimane sempre inadeguato. Per questa ragione, i filosofi avevano contestato l’idolatria e le pratiche immorali connesse. Solo il Verbo conosce il Padre in modo adeguato e solo lui può farlo conoscere. «Il Verbo conosce il Padre, per quanto invisibile e indefinibile per noi, e anche se è inesprimibile, viene da lui espresso. Il Padre è la realtà invisibile del Figlio, come il Figlio è la realtà visibile del Padre» (Ireneo, Contro le eresie, IV,6,3). 

Paolo osserva una incongruenza nell’agire degli uomini. Per soddisfare il bisogno di senso e il desiderio di dedicarsi a qualcosa da amare in assoluto, al posto del Creatore adora la creatura, attribuisce ad una creatura qualità divine e stabilisce da sé il dio a cui servire e le modalità per fare ciò. 

Ciò che si apprezza e si ama sopra ogni cosa facilmente si trasforma in un culto. Dal momento che l’uomo tende a diventare ciò che ama, nel venerare un idolo, dà tutto se stesso alla nullità e diventa un nulla. 

L’umanità non soltanto disconosce Dio ma tende ad abbandonarlo del tutto. Nell’epoca contemporanea, secondo alcuni, l’umanità deve affermarsi contro l’idea stessa di Dio: «Io stesso oggi mi accuso e solo io posso anche assolvermi, io l’uomo. Se esiste Dio l’uomo è nulla» (J.-P. Sartre, Il diavolo e il buon Dio, X, 4).

Al contrario, la Sacra Scrittura avverte che l’abbandono di Dio provoca, invece, la rovina dell’uomo: «Hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, e si sono scavati cisterne, cisterne piene di crepe, che non trattengono l’acqua» (Ger 2,13). «Cresce forse il papiro fuori della palude e si sviluppa forse il giunco senz'acqua? Ancora verde, non buono per tagliarlo, inaridirebbe prima di ogni altra erba. Tale è la sorte di chi dimentica Dio; la sua fiducia è come un filo e una tela di ragno è la sua sicurezza: se si appoggia alla sua casa, essa non resiste, se vi si aggrappa, essa non regge» (Gb 8,11-15). 

La reazione di Dio al rifiuto degli uomini non è la vendetta. Con un intento pedagogico li abbandonò al loro volere perché facciano esperienza dell’ammaestramento del profeta: «Renditi conto e prova quanto è triste e amaro abbandonare il Signore tuo Dio, e non avere più timore di me» (Ger 2,19). «Com’è amara la tua malvagità! Ora ti penetra fino al cuore» (Ger 4,18). 

Il credente autentico, più che polemizzare, dapprima sperimenta e poi manifesta che l’adesione al Signore è liberante. «Servire a lui è come servire alla luce, servire alla vita, alla verità, alla giustizia, alla santità: tutto ciò è il Signore» (Eusebio, PG 23,1240). 

«Le cose visibili sono certo belle, il cielo ci delizia, il sole ci rallegra ma più che di tutto questo, io mi rallegro nel Creatore. Questa è la mia delizia, questo è il mio piacere, in questo ho beni senza fine» (Eusebio, PG 23,1289). «Chi chiede a Dio un altro premio all'infuori di lui e per questo vuole servirlo, considera ciò che vuole ricevere più prezioso di colui dal quale vuol riceverlo. Il premio di Dio è Dio medesimo. Questo ama, questo predilige il salmista. Se amasse qualche altra cosa, l'amore non sarebbe casto» (Agostino, PL 37,928). 


Giustificazione

Il giudizio che Paolo pronuncia sull’umanità è severo, come del resto avevano fatto i profeti e Gesù stesso. «Sono diventato come uno spigolatore d'estate, come un racimolatore dopo la vendemmia! Non un grappolo da mangiare, non un fico per la mia voglia. L'uomo pio è scomparso dalla terra, non c'è più un giusto fra gli uomini: tutti stanno in agguato per spargere sangue; ognuno con la rete dà la caccia al fratello. Le loro mani sono pronte per il male: il principe avanza pretese, il giudice si lascia comprare, il grande manifesta la cupidigia, e così distorcono tutto. Il migliore di loro è come un rovo, il più retto una siepe di spine» (Mi 7,1-4). 

Gli uomini, pur conservando la loro dignità, erano come precipitati in un abisso e non potevano uscirne da soli né volgersi al bene (anche se il loro libero arbitrio non era affatto estinto, ma solo attenuato e indebolito). 

Lo stesso vale anche per oggi: «Chi può dire: ho purificato il cuore, sono mondo dal mio peccato?» (Pr 20,9). «Forse non troverà in te colpe gravi; allora non troverà niente [di male]? Raccogli tutte le minuzie e vedrai se non formino una massa enorme. Le goccioline d'acqua, pur essendo tanto piccole, formano i fiumi e trascinano persino i macigni» (Agostino, PL 37,1699). 

Dio reagisce al peccato non condannando ma perdonando, nel tentativo di rendere gli uomini da peccatori a santi: «Sono stato trovato da quelli che non mi cercavano, mi sono manifestato a quelli che non chiedevano di me» (Is 65,1-2). Questo intervento di risanamento viene chiamato da Paolo giustificazione per grazia. 

R. Penna la tratteggia con queste parole: «Il Dio dell'evangelo non giudica l'uomo, o meglio lo giudica peccatore, poi semplicemente lo giustifica. Il punto di partenza è che l'uomo, ogni uomo, in realtà è una persona che ha sempre molte cose da farsi perdonare. Ed ecco l'imprevisto: ciascuno di noi, non potendo autonomamente uscire dal suo invischiamento nel male con le sue sole forze, ne è riscattato con un atto di pura grazia da Dio stesso sicché egli è per definizione colui che giustifica l'empio. Egli cioè non tiene conto della nostra condizione malvagia e tanto meno della nostra presunzione di uscirne a suon di vantati meriti, ma interviene a nostro favore prescindendo del tutto dalle nostre opere, non solo da quelle cattive (che possono deprimerci) ma anche da quelle buone (che possono inorgoglirci), tutte passibili di connotare ancora delle distinzioni tra gli uni e gli altri» (L’Evangelo come…, 211). 

Il peccato, di per sé, suscita l’ira di Dio ma la misericordia divina consiste proprio nel rifiutarsi di esercitarla secondo giustizia. Prova viva ripugnanza verso il peccato ma giustifica il peccatore. Giustifica il peccatore, non il peccato. Gesù lo aveva insegnato: Dio è benevolo verso gli ingrati e i malvagi (Lc 6,35). Perdona per renderci capaci gradualmente di agire da uomini giusti. «Ecco: sei guarito! Non peccare più, perché non ti accada qualcosa di peggio» (Gv 5,14). «Neanch’io ti condanno; và e d’ora in poi non peccare più» (Gv 8,11). 

Agisce in questa maniera non perché il peccato sia un’azione irrilevante ai suoi occhi ma perché è estremamente buono. Se Dio attribuisse scarsa rilevanza al peccato, e lo considerasse una inezia, neppure la sua misericordia sarebbe grande. Nella parabola del servo spietato, il padrone assolve il debito enorme di diecimila talenti, in modo inaspettato e gratuito (Mt 18,21-35). 

Quello che Paolo ci fa conoscere dell’agire di Dio corrisponde all’istituto biblico della «controversia bilaterale» (riv; Cf Mi 6,2; Os 4,1). Chi aveva ricevuto un danno, convocava l’offensore e gli faceva notare i torti commessi nei suoi confronti. Se questi riconosceva di aver agito male e chiedeva perdono, si stabiliva un risarcimento e si ristabiliva la concordia. In modo analogo, Dio non convoca in giudizio ma cerca una riconciliazione con i peccatori. Chiede soltanto il pentimento. Il giudizio avverrà soltanto alla fine.

Espiazione

Il Vangelo mostra il volto più profondo, più attraente e più sorprendente di Dio Padre. Rivela che Egli ci chiama all’amicizia con Lui non perché siamo buoni ma perché Lui è buono e desidera renderci come è Lui. 

Ha cominciato a renderci santi grazie all’espiazione di Gesù. 

Ora dobbiamo comprendere bene il significato di questo termine che può essere frainteso perché nella nostra cultura ha un significato diverso da quello biblico. 

Possiamo dire così: il Padre ha ispirato il Figlio a rimanere fedele al suo compito, anche quando questo impegno comportava per lui una dedizione eroica. La Passione rappresenta la fedeltà estrema del Figlio alla sua missione. Come risposta all’amore fedele vissuto dal Figlio, che ha voluto porre come rappresentate degli uomini, Dio concede il perdono all’umanità intera. «L'ingiustizia di molti veniva perdonata per un solo giusto e la giustizia di uno solo toglieva l'empietà di molti!» (Lettera a Diogneto 9,6). La passione è stata onerosa per Dio ma un grande vantaggio per noi.

Ora l’umanità agli occhi di Dio non è soltanto iniqua e peccatrice, ma è anche quella santa che ha raggiunto in Cristo il suo vertice. Egli chiede al Padre: «“Non allontanare il tuo volto da me per l'umiltà delle mie membra”. Quando il Padre potrebbe allontanarsi dal Figlio?» (Prospero d’Aquitania PL 51,279). Parlando con un linguaggio giuridico, i meriti di Gesù diventano capitale comune di tutti, diventano nostri. Gesù agisce come singolo uomo ma anche come umanità, è una “personalità collettiva”. 

Per alcuni, espiare significa, invece, sorbire una punizione anche molto severa, per placare l’ira divina. Riferendosi a Gesù, il Padre sarebbe stato così adirato con gli uomini che soltanto il martirio del Figlio lo poteva rappacificare. Alcuni teologi ragionarono in questo modo: «Bisognava che Dio venisse Lui stesso contro il suo Figlio con tutti i suoi fulmini; e poiché aveva messo in Lui i nostri peccati, in lui doveva mettere anche la sua giusta vendetta» (J.B. Bossuet cit. in B. Sesboué, Credere, Queriniana, p. 271). 

Una lettura della Passione come prezzo vendicativo da pagare ci allontana dalla novità del Cristianesimo, ci dà una idea di Dio molto più vicina a Mardok e a Baal che al Dio Amore di Gesù (Cf G. Bruni, Avvenire, 30 ottobre 2019). 

Da dove è sorta l’opinione dell’espiazione come appagamento della giusta collera divina? Nel greco profano espiare (ilaskomai) significa placare il desiderio di vendetta di qualche divinità oppure il mostrarsi rappacificata da parte di qualcuna di esse. Talora la divinità si mostrava tale in seguito ad una prestazione umana spesso molto dolorosa. Era invalso l’uso dei sacrifici umani, compiuti anche da Israeliti, sebbene detestati e proibiti dai profeti (2 Cr 36,6; Ger 32,35; Ez 16,21; 20,31). 

Nella Bibbia, invece, espiare (chaphar) è praticamente sinonimo di perdonare. Un esempio: «Pesano su di noi le nostre colpe, ma tu perdoni i nostri delitti (techapperem)» (Sal 65,4). 

Quando un fedele israelita riconosceva il suo errore e voleva riconciliarsi con il Signore, suo Dio, portava in dono al tempio un animale da offrire come sacrificio ed Egli lo perdonava (alla lettera: espiava). Se il peccatore era povero non era costretto a sobbarcarsi una spesa onerosa ma bastava addirittura che offrisse due tortore o due giovani colombi (Lev 5,11). Il dono che il peccatore portava al tempio in realtà gli era già stato donato a lui dal Signore in precedenza. 

Paolo rende noto che è Dio stesso, Colui che è stato offeso, ad operare perché gli offensori si riconcilino con lui. È Lui a prendere l’iniziativa e gli uomini sono invitati a riconciliarsi con Colui che li ha già perdonati prima del loro ravvedimento (2 Cor 5,19-20). Quindi, nel linguaggio biblico neotestamentario, espiare vuol dire in pratica lasciarsi riconciliare con Dio, il quale non intende vendicarsi ma sollecitare un incontro di riconciliazione (J. Roloff in DENT 1732). 

L’offerta d’amore di Gesù sulla croce ci consente di ottenere la giustificazione. Invece di presentare al Padre animali da immolare, tortore o giovani colombe, offre se stesso, offre la sua obbedienza, a nome di tutti. «Quando poi giunse al colmo la nostra ingiustizia e fu ormai chiaro che le sovrastava, come mercede, solo la punizione e la morte, ed era arrivato il tempo prestabilito da Dio per rivelare il suo amore e la sua potenza (o immensa bontà e amore di Dio!), egli non ci prese in odio, né ci respinse, né si vendicò. Anzi ci sopportò con pazienza. Nella sua misericordia prese sopra di sé i nostri peccati. Diede spontaneamente il suo Figlio come prezzo del nostro riscatto: il santo, per gli empi, l'innocente per i malvagi, il giusto per gli iniqui, l'incorruttibile per i corruttibili, l'immortale per i mortali. Che cosa avrebbe potuto cancellare le nostre colpe, se non la sua giustizia? Come avremmo potuto noi traviati ed empi ritrovare la giustizia se non nel Figlio unico di Dio?» (Lettera a Diogneto 8,5). 

 Come si attua la giustificazione? 

La giustificazione per grazia non è un freddo atto giuridico ma un incontro vivo tra Dio e il peccatore, come appare nella vita di Gesù. 

Ripensiamo all’incontro tra Lui e Zaccheo (Lc 19, 1-10). Gesù gli rivelò il desiderio d’essere ospitato nella sua casa e per il pubblicano quel gesto d’amicizia inaspettato lo sollecitò ad un cambiamento di vita. Mostrandogli la sua bontà, colma di rispetto, Gesù condusse Zaccheo ad un vero pentimento e a dare avvio ad un nuovo comportamento, soprattutto in relazione al denaro. Una persona si pente quando comprende d’essere amata.

Vediamo come agisce per noi il Signore nel nostro presente. La giustificazione si attua, nel caso tipico, quando un adulto riceve il perdono dei peccati commessi prima del Battesimo. Oltre a questa evenienza, il Signore aiuta ogni battezzato a non compierne più nell’oggi (Capitula Caelestini [Ccel] 7 p. 80). «Nessuno, anche se è stato rinnovato dalla grazia del battesimo, è capace di vincere le insidie del diavolo e di dominare le concupiscenze della carne [cioè dell’egoismo], se non ottiene la perseveranza nella buona condotta per il quotidiano aiuto di Dio» (Ccel 3 p. 77). 

Gesù rende capaci di vivere da persone rette. Non disse: Senza di me, farete più fatica ad obbedire ai miei comandamenti ma, tuttavia, prima o poi, ci riuscirete. Disse invece: «Senza di me non potrete fare nulla» (Gv 15,5) (Cf Ccel 7, p. 81). Il suo aiuto indispensabile lo chiamiamo grazia. Ci viene donata non perché noi possiamo fare il bene più agevolmente ma perché riusciamo a compierlo realmente. 

Gesù Risorto, il Vivente, grazie alla presenza in noi del suo Spirito, ci dona la volontà di iniziare a fare il bene, l’energia per continuare a compierlo e la perseveranza necessaria per portare a compimento ciò che ha cominciato in noi (Cf Ccel 8, p.81). 


Libertà

Confondiamo con facilità il libero arbitrio, cioè la semplice facoltà di scegliere, con la libertà. Crediamo di essere liberi solamente perché facciamo ciò decidiamo, anche se in quel momento obbediamo ad impulsi irrazionali. La libertà, nel senso più profondo, è un’altra cosa. È la capacita di usare bene la nostra facoltà di scelta, nel momento della decisione e dell’attuazione. In realtà spesso l’uomo effettua scelte sbagliate di cui poi si pente. Talora, pur desiderando di fare il bene, compie il male, anche quando lo avverte come tale. Il libero arbitrio deve essere consolidato fino a raggiungere la libertà. 

Il nostro desiderio di bene e la spinta della nostra generosità vengono compressi dall’egoismo al punto che non riusciamo ad essere ciò che vogliamo essere. Lo Spirito di Cristo Risorto ci libera da queste catene. La libertà consiste nella capacità di essere ciò che abbiamo deciso di essere dopo che abbiamo appreso ciò che è giusto fare. Il cristiano giustificato, insieme al perdono e alla giustizia, riceve in dono la libertà. 

Dio non propone il bene con un atto di dominio al quale è necessario sottostare per non incorrere nella sua ira ma scrive la sua legge nel cuore in modo che quando l’uomo obbedisce a Lui, obbedisce anche a se stesso. La legislazione del Signore è una persuasione. 

Lo Spirito Santo rafforza in noi un sentimento che appartiene già all’uomo come creatura: «L'amore di Dio non è un atto imposto all'uomo dall'esterno, ma sorge spontaneo dal cuore come altri beni rispondenti alla nostra natura. Noi non abbiamo imparato da altri né a godere la luce, né a desiderare la vita, né tanto meno ad amare i nostri genitori o i nostri educatori. Così dunque, anzi molto di più, l'amore di Dio non deriva da una disciplina esterna, ma si trova nella stessa costituzione naturale dell'uomo, come un germe e una forza della natura stessa. Lo spirito dell'uomo ha in sé la capacità ed anche il bisogno di amare. L'insegnamento rende consapevoli di questa forza, aiuta a coltivarla con diligenza, a nutrirla con ardore e a portarla, con l'aiuto di Dio, fino alla sua massima perfezione» (Basilio, Regole ampie, Risposta 2,1). 

Vista l’importanza del sentimento spontaneo, perché allora far valere i comandamenti? Servono alle persone che hanno compresso il loro sentire più profondo per poterlo risvegliare. 

«La Legge non è fatta per il giusto, ma per gli iniqui e i ribelli, per gli empi e i peccatori, per i sacrileghi e i profanatori, per i parricidi e i matricidi, per gli assassini, i fornicatori, i sodomiti, i mercanti di uomini, i bugiardi, gli spergiuri e per ogni altra cosa contraria alla sana dottrina, secondo il vangelo della gloria del beato Dio, che mi è stato affidato» (1 Tm 1,8-11). Il comandamento è l’avvio sulla strada della libertà per chi è ancora incapace d’essere libero. 

L’aiuto di Dio non elimina il nostro arbitrio perché non vuole che diventiamo come dei manichini condotti da altri ma lo rende libero. Egli agisce di continuo in noi in modo che il nostro arbitrio «da tenebroso diventi illuminato, da traviato diventi retto, da malato diventi sano, da imprudente diventi provvido» (Ccel 9 p. 83). Noi avvertiamo che il nostro volere non manca e, dall’altra parte, c’accorgiamo che in ogni singolo atto della nostra volontà umana quello che conta è l’aiuto divino (Cf Ccel 5 p. 79). Così i suoi doni diventano anche nostri meriti (Ccel 9 p. 83). 

Alla fine, chi è libero, cammina nella carità (e perciò corre con cuore dilatato nella via dei comandamenti), raggiunge obiettivi sempre più elevati. Al contrario, la trasgressione dei principi etici e l’indifferenza verso il prossimo rivelano chiaramente che siamo schiavi della prigionia più grave, cioè quella di noi stessi. 


 La fede e le opere

Il Signore non pone alcuna condizione per il perdono, altrimenti il suo dono non sarebbe né gratuito, né universale. Tuttavia perché la sua offerta raggiunga il suo obiettivo, è necessario che l’uomo creda ad una bontà così grande e si affidi ad essa. La giustificazione per grazia (per puro dono) acquista, allora, il carattere di giustificazione per fede, in quanto Dio può riversare il suo dono soltanto nelle persone che accettano di credere al suo perdono. «Sebbene tu ti sia comportato finora in modo riprovevole; quand’anche tu abbia agito come una fiera, abbandonando del tutto la ragione e ti fossi aggravato di un’infinità di colpe, non appena sentirai annunciare il messaggio della croce e ti farai battezzare, cancellerai tutto il tuo passato» (Crisostomo, CLR 2,5).

I credenti, tuttavia, non creano da se stessi la fede capace di accogliere il dono di Dio. In noi c’è la predisposizione a corrispondere a Dio, ma l’atto concreto della risposta viene suggerito e accompagnato da lui. 

L’uomo «secondo la carne» è incapace di apprezzare ciò che gli viene mostrato da Dio, ma viene ispirato da lui perché l’accolga. Il suo progetto «il Padre celeste lo rivela a chi abbia voluto, attraendolo alla [verità] non per costrizione violenta, ma infondendo la dolcezza mediante lo Spirito Santo» (Fulgenzio di Ruspe, Ep. 16,18-19). 

Scosso da questa mozione, crede e riconosce che il Signore è Gesù, una confessione che nessuno può affermare se non per virtù dello Spirito Santo. Errano quelli che dicono: «Spetta a me voler credere; a Dio, invece, aiutare con la grazia». Lo stesso credere, cioè il manifestare consenso alla verità, è donato a noi da Dio (Cf Fil 2,29) (Cf. Fulgenzio, ivi). 

In conclusione, neppure la fede è un merito, magari l’unico merito che sia possibile attribuire all’uomo ma la giustificazione avviene soltanto per grazia, per iniziativa del Signore. 

Paolo è stato sospettato di essere stato permissivo riguardo al peccato e soprattutto di aver tolto ogni valore alle opere buone. Si tratta di due interpretazioni fuorvianti. Quanto al peccato, egli non si è limitato a suggerire di non peccare, ma ha detto che, a partire dal battesimo, il credente in Cristo è morto al peccato. 

Quanto alle opere, ha insegnato che chi è diventato nuova creatura nello Spirito, produrrà il frutto dello Spirito. Le buone opere sono una conseguenza spontanea del nuovo essere che ha ricevuto in dono. 

La giustificazione è cosa diversa dalla salvezza. Se la giustificazione iniziale avviene per puro dono, l’impegno per ottenere la salvezza richiede la collaborazione operosa dell’uomo che è già stato giustificato in modo gratuito. 

Il messaggio di Paolo si compone con facilità con la preoccupazione di Giacomo. La giustificazione viene concessa prima che il beneficiario sia in grado di agire bene. Essa è del tutto gratuita, senza prestazioni umane previe. Questo è il messaggio di Paolo: la giustificazione non richiede l’attuazione preliminare di buone opere.  

Una volta ottenuta, l’uomo, sempre sostenuto dalla fedeltà di Dio diventa capace di operare bene. Può cominciare a camminare sulla strada verso la salvezza, che è la strada della carità. La fede lo rende operoso nell’amore. Questo è l’avvertimento di Giacomo (2,14-26). Le opere buone del cristiano non hanno lo scopo di rendere Dio benevolo verso di lui (perché lo è già da sempre) ma di far fruttificare, per riconoscenza, la capacità ricevuta di ben operare. 

Le opere buone dell’uomo rimangono sempre imperfette e hanno il bisogno di essere rettificate dalla bontà di Dio. Dio che giustifica il malvagio, per paradosso, deve usare la stessa misericordia anche verso il giusto, per renderlo sempre più tale.

Il Signore si mostra misericordioso verso i malvagi e paziente con i giusti; li educa a lungo perché possano superare le loro incongruenze. Al limite, si può essere, praticanti ma deboli credenti. Le opere buone dell’uomo sono inficiate da tracce d’egoismo, soprattutto da vanagloria. Non potrebbero mai da sole renderci conformi a Dio. Il Signore le accoglie pur nel loro scarso valore, apprezza anche soltanto il dono d’un bicchier d’acqua e cerca di renderci capaci a fare meglio. Non si comporta da giudice ma da padre. Valorizza il nostro sforzo più che prestare attenzione al risultato. In questa vita possiamo disporci ad essere cittadini del cielo grazie alla carità, ma non possiamo certo essere così integri da meritare la vita eterna. Ci verrà data non perché l’abbiamo conquistata ma per la larghezza del perdono divino.

«Gli uomini non possono essere costanti nel bene ma possono diventare capaci di fare il bene, anche con eroismo. Sono soggetti al mutamento a causa di tanti fattori, e per questo scivolano nel peccato. Tuttavia Dio non è un giudice severo della nostra mutevolezza. Si lascia placare da ciò che vorremmo [ossia dal nostro proposito], più di quanto non si lasci irritare da ciò che non siamo stati in grado di fare. Altro è non volere, altro è non potere. Tanti uomini hanno conseguito la gloria del giudizio celeste nei loro riguardi, con le più grandi opere della bontà, pur essendosi allontanati un pochino dal proposito della fede per l’instabilità della natura» (Ilario di Poitiers, 329.331). 

Dio non solo giustifica i malvagi ma anche i giusti che si compiacciono dei loro risultati, illudendosi a loro riguardo. Constatando la povertà delle nostre opere, è opportuno confidare nella giustizia di Gesù, nei suoi meriti piuttosto che nei nostri. Paolo, quando venne a sapere che poteva ereditare per grazia la giustizia del Signore Gesù, comprese che la sua era piuttosto misera. S’accorse che il suo guadagno, composto dal cumulo di meriti e osservanze d’una vita, se fosse diventato il pretesto per rinunciare al tesoro procuratogli da Gesù, sarebbe stato in realtà una perdita. 

Il rischio degli ebrei, dopo aver udito l’annuncio del Vangelo, consistette proprio nell’ignorare la giustizia di Dio che donava loro in Gesù e nel cercare di stabilire la propria (Cf Rm 10,3). Prima di Gesù non potevano fare altro che procurarsi una loro giustizia, ma dopo la sua morte avrebbero fatto meglio meglio ad accogliere quella messa a disposizione da lui.


Risarcimento

Il perdono troppo facile non diventa troppo comodo? Non c’è il rischio che si trasformi in un incentivo a peccare? Può un peccatore abbandonare la sua malizia senza sottoporsi ad un impegno gravoso? La vittima non ha il diritto d’un risarcimento?

Partiamo dall’ultima obiezione e riflettendo su questa è possibile rispondere alle altre. Sicuramente chi ha ricevuto un danno ha diritto di un risarcimento. 

Connessa all’espiazione è il dovere del risarcimento, espressi entrambi con lo stesso termine. Nella Bibbia, il legislatore si preoccupa che la persona danneggiata sia risarcita (Es 22,9-12; Gen 20,16; 31-39). Del resto, quanto più un peccatore è pentito, non solo evita di ripetere il male commesso, ma desidera offrire un indennizzo in modo volontario o secondo le norme stabilite (Cf Nm 5,5-8; Lc 19,8). 

Zaccheo mostra la serietà della sua conversione perché si rende disponibile a risarcire le persone che aveva derubato ma anzi fa molto di più perché desidera donare ai poveri la metà dei suoi beni. Era una persona chiusa nel suo egoismo, indifferente alle sofferenze altrui, crudele nei loro confronti ma ora si attua una svolta nel senso contrario. Qui vediamo un modello esemplare di risarcimento. Zaccheo non viene punito per i reati commessi ma con la forza della sua carità ha dato di più di ciò che poteva essere esigito da parte sua da una giustizia rigorosa. Più che infliggere sofferenza al colpevole, il risarcimento si attua cercando fare qualcosa di utile al prossimo (in primo luogo la doverosa restituzione Cf Nm 5,7). 

Soltanto il ladrone pentito ottenne una giustificazione che non fu seguita dalle opere di conversione perché non era più in grado di operare. Il ladrone si salvò per la sua fede, un orientamento nuovo di vita che, nel suo caso, non poteva più prolungarsi nelle opere buone. 

Il risarcimento offerto da Zaccheo ci aiuta a comprendere il significato ultimo dell’offerta di Gesù. Anch’egli, soffrendo la sua passione, ha dato per amore spontaneo ciò che Dio avrebbe potuto esigere dagli uomini per un compenso di giustizia. L’amore restituisce ciò che è richiesto dalla giustizia ma supera abbondantemente la sua misura. 

Il risarcimento rimane sempre un elemento essenziale del cammino di conversione, non bastano semplici parole di pentimento. 

Nella tradizione ecclesiale, l’assoluzione ottiene il perdono ma questo evento non è sufficiente ad annullare il danno che il peccato ha provocato. C’è ancora molto da fare per dissolvere il residuo del peccato, per rischiarare la zona d’ombra che ha lasciato in noi e nella vita degli altri. Possiamo essere ancora attratti verso il male, non essere pentiti in modo autentico. Continuando l’impegno vero di conversione, che rimane sempre il presupposto essenziale di ogni vero rinnovamento, ci purifichiamo in modo totale con la preghiera d’intercessione per gli altri, col testimoniare la fede per favorire la conversione di altri, con l’attuare gesti di solidarietà (la condivisione dei beni).


Universalità

Ci sono stati due atti creativi, due inizi assoluti: Adamo e Cristo. Entrambi furono plasmati in modo diretto dalle mani di Dio, il primo nel paradiso, il secondo nel grembo di Maria. Questa seconda creazione significa che Cristo non è il risultato del nostro progresso, ma il dono massimo di Dio. Egli rappresenta un nuovo inizio che ci offre la possibilità di progredire e raggiungere quella grandezza che Dio aveva pensato per noi dall’origine. Divenne come noi, perché diventiamo come Lui. 

L’azione di Dio, da un lato, appare gratuita ed universale perché offre la giustificazione a tutti gli uomini indistintamente, senza porre alcuna condizione, d’altro lato sembra del tutto esclusivista perché questa larghezza di grazia viene donata soltanto a chi crede nel Vangelo e viene battezzato. 

Che cosa accade, allora, agli uomini, alla maggioranza degli uomini che non hanno avuto nemmeno la possibilità di conoscere il Vangelo? 

Paolo offre un messaggio di salvezza che mira all’universalità degli uomini. Cristo è morto per i malvagi e, grazie alla sua obbedienza, tutti gli uomini sono costituiti giusti davanti a Dio. La redenzione, quindi, ha influenza su tutti ma in che modo questa opportunità si attua in pratica?

La salvezza avviene sempre grazie alla verità. Non c’è salvezza senza verità e la verità, una volta accolta, inizia a indirizzarci verso la salvezza (6,17). 

La verità piena di Dio è il Figlio Gesù, l’unico obbediente a Lui. Lo Spirito Santo, l’unico che conduce al Padre, può dispiegare tutta la sua energia nella misura in cui l’uomo conosce e si conforma a quella verità che è Cristo. 

La verità, però, viene instillata gradualmente in tutti gli uomini lungo il corso della loro vita. Dal momento che, anche prima della venuta di Gesù, gli uomini sono stati perdonati grazie all’obbedienza di Gesù in croce (3,25), la verità dello Spirito, frutto della croce, è stata donata a tutti da sempre, nella misura stabilita da Dio (e che soltanto Lui conosce). 

È necessario recuperare il valore delle tre vie di salvezza già indicate dall’apostolo: la legge scritta nel cuore, la Legge di Mosè che riprende e perfeziona la prima, la Legge del Vangelo che riprende e porta a compimento tutte le altre. Tutte queste legislazioni, apparse lungo la storia, sono scaturite dal Figlio di Dio, esposto come strumento di perdono davanti a tutti. La legislazione successiva, non abroga quella precedente. Mosè non intendeva sopprimere la legge del cuore e Gesù non ha voluto abolire la Legge di Mosè, ma ne ha scoperto il senso più profondo. 

Dio rende partecipi della salvezza tutti gli uomini grazie alla verità dischiusa a loro per la segreta ed universale mediazione di Gesù che rimane l’unico mediatore di tutte le forme di salvezza. Le vie non sono di uguale valore ma tutte conducono alla meta. 

La Chiesa è la presenza di Cristo e, grazie al suo servizio, la conoscenza del Vangelo si diffonde tra tutti gli uomini. Riguardo ad essa, riappare un metodo consueto preferito da Dio da sempre: se pone delle preferenze non lo fa per escludere ma perché la grazia particolare di chi viene scelto, torni poi a beneficio di tutti. La preferenza, frutto di pura grazia e senza merito da parte di chi viene scelto, diventa servizio di testimonianza. 


Peccato originale

Parlando del confronto tra Gesù e Adamo, non possiamo prescindere dalla dottrina del “peccato originale”, che suscita molte difficoltà di comprensione. Paolo non ne parla e nella sua lettera troviamo soltanto un punto di partenza di questa dottrina che verrà sviluppato in seguito dalla riflessione della Chiesa. Che cosa esprime questa concezione?

Cristo è il nostro Salvatore; non soltanto ci affianca perché riusciamo a condurre a termine, in modo più agevole, ciò che saremmo stati capaci di fare anche da soli; piuttosto ci sorregge affinché, con il suo aiuto, possiamo compiere ciò che, da soli, non saremmo stati capaci di fare, pur desiderandolo. Il suo intervento è perciò risolutore. Parliamo del peccato originale, infatti, per comprendere la radicalità della nostra impotenza ma soprattutto la forza della salvezza che Dio ci ha donato in Cristo. Tale insegnamento, allora, appartiene piuttosto alla meditazione e alla celebrazione delle opere di Dio. 

Egli, nella notte della sua passione, parlando ai discepoli spaventati ha detto loro: «Vegliate e pregate, per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole» (Mt 26,41). Possiamo riprendere e svolgere il suo monito in questo modo: “Siete colmi di buone intenzioni, vorreste essere miei discepoli, ma poi vi scontrate di continuo con la vostra debolezza. Soltanto se vi appoggiate a me, riuscirete a realizzare ciò che vi richiedo e che anche voi desiderate compiere”. 

Un motivo di disagio verso questa dottrina viene dal carattere mitico della sua enunciazione. Come è possibile essere responsabili del male compiuto da altri? Come può un neonato essere già colpevole? Di per sé queste obiezioni affermano una verità ma sorgono da un fraintendimento causato dal modo con cui è stata annunciata questa dottrina. In realtà il peccato originale non è un peccato. Si pecca soltanto quando si compie in modo deliberato e cosciente un’opera che consideriamo sbagliata o perfino cattiva. La dottrina ci avverte soltanto della nostra povertà. Non si parla di azioni ma di un modo di essere negativo che precede ogni nostro agire. Noi, pur essendo sue creature, dalla nascita siamo in rivolta contro Dio. 

Paolo parla del Peccato come di un Dominatore che ci opprime e soffoca la nostra libertà. La nostra incoerenza strutturale è più nefasta dei nostri atti egoistici perché rimane anche quando ci pentiamo. Un linguaggio mitico può cogliere e trasmettere più verità di un racconto storico e senz’altro è sempre più espressivo. 

In effetti, questa dottrina dice più verità di quanto ne vogliamo ammettere. Se infatti prescindiamo dal modo in cui è sorta, dalle polemiche e dai termini usati, dobbiamo concludere che non è facile smentirla. Il male che ci opprime non deriva soltanto dalla società, né da situazioni culturali provvisorie. Quest’ultime possono modificarsi ma una tendenza al male rimane come costante dell’uomo. I saggi hanno scoperto, con amaro stupore, di non saper compiere il bene desiderato e di sprofondare spesso nel male odiato. 

Paolo però infonde coraggio: il danno che abbiamo subito nell’essere come Adamo, è molto inferiore rispetto al vantaggio che riceviamo nell’essere stati resi solidali con Cristo, coeredi con Lui. Se un danno ci offre un risarcimento così ricco, è meglio subirlo che evitarlo. 

Sul piano pratico, la dottrina del peccato originale offre due vantaggi notevoli: ci aiuta a non presumere mai di noi stessi, poiché siamo sempre a rischio di ricadere nel male e ad usare una maggiore tolleranza verso tutti, poiché gli altri sono deboli come lo siamo noi. Possiamo compiere gli errori di quelli contro i quali abbiamo puntato il dito con tanta facilità. 

Conclusione

La Lettera impone due conclusioni che riprendo dalle opere di due uomini dello Spirito. 

1. È necessario in primo luogo coltivare la conoscenza di noi stessi, ammettere la nostra povertà ma soprattutto confidare nella bontà inesauribile del Signore: 

«Gli uomini sono soliti avere in grande stima la scienza; ma senza dubbio i migliori tra essi sono coloro che preferiscono la conoscenza di se stessi. Colui che, stimolato dal fervore dello Spirito Santo, ha già gli occhi ben aperti verso Dio e, nell’amore di lui, è divenuto conscio della propria miseria e, volendo ma non potendo giungere fino a lui, guarda in se stesso alla luce di Dio e scopre se stesso ed ha così acquistato la certezza che la sua malattia è incompatibile con la purezza di Dio, questi prova dolcezza nel piangere e nel supplicare Dio che abbia più e più volte misericordia, fino a quando si liberi di tutta la sua miseria, nel nome di suo Figlio, unico Salvatore e illuminatore dell’uomo… Bisognava dunque convincere l’uomo della grandezza dell’amore di Dio per noi e dello stato in cui eravamo quando ci ha amato; di questa grandezza [d’amore] perché non disperassimo, di questo stato [di povertà] perché non insuperbissimo (Agostino, De Trinitate, IV, 1.1-1.2). 

2. Il cristiano autentico imita la bontà gratuita di Dio verso i malvagi anche nei confronti di chi lo perseguita: 

«Non condannare l'empio e neppure colui che è apertamente un malfattore: “Stia in piedi o cada, ciò riguarda il suo padrone” (Rm 14,4). Non odiare chi ti calunnia né chi ti offende, né il brigante né l'omicida: essi ti crocifiggono alla destra del Signore, secondo una misteriosa disposizione dei giudizi di Dio; così, con piena coscienza e convinzione, potrai dire al Signore nella preghiera: “Ricevo quel che merito. Ricordati di me, Signore, nel tuo Regno”. Cerca di cogliere, nelle afflizioni che ti colpiscono, la tua inesprimibile fortuna, la tua elezione da parte di Dio, e prega con una preghiera ardente per quei benefattori: dalle loro mani sei strappato al mondo e dalle loro mani sei innalzato verso Dio. Prova verso di loro una compassione simile a quella che prova Dio nei confronti dell'umanità sprofondata nel peccato, lui che ha consegnato il proprio Figlio in sacrificio di redenzione per la creatura ostile, pur sapendo che la maggior parte degli uomini avrebbe deriso e disprezzato questa vittima. Tale misericordia, che va fino all'amore per i nemici, che si esprime con preghiere per loro, conduce a una conoscenza vissuta della verità» (I. Briancaninov, Preghiera e lotta spirituale… p. 72).

Bibliografia

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R. Penna, L’Evangelo come criterio di vita, EDB, Bologna 2009. 

R. Penna, Battesimo e identità cristiana: una doppia immersione, San Paolo, Cinisello Balsamo 2022. 


Ambrosiaster, Commento alla Lettera ai Romani, Città Nuova, Roma 1984. 

Giovanni Crisostomo, Commento alla lettera ai Romani, PG LX, 391-682. 

Origene, Commento alla lettera ai Romani/1. Volume I (Libri I-VI), Marietti, Casale Monferrato, 1985. Origene, Commento alla lettera ai Romani/2. Volume II (Libri VII-X), Marietti, Casale Monferrato, 1986. 

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Fulgenzio di Ruspe, Le Lettere, Città Nuova, Roma 1999. 

Ignatij Briancaninov, Preghiera e lotta spirituale, Gribaudi, Torino 1991. 



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