sabato 23 marzo 2024

La scelta di Gesù


«[Cristo Gesù], pur essendo nella condizione di Dio, svuotò se stesso» (Fil 2,6-7). 

Giovanni descrive questo «essere nella condizione di Dio», come un essere presso Dio (1,1), nel seno del Padre (1,18) oppure come un modo di vederlo: «Non che qualcuno abbia visto il Padre, se non colui che è da Dio, solo questi ha veduto il Padre» (Gv 6,46). 

Vedere il Padre significa conoscere il suo progetto, il suo volere, le sue intenzioni. Gesù vede l’intenzione del Padre, la sua preoccupazione e volontariamente decide di assumerla e realizzarla. Lo rivela un passo della Lettera agli Ebrei: «Entrando nel mondo, (Cristo) dice: Non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Ecco io vengo per fare o Dio la tua volontà (Sal 39,7-9 LXX)» (Eb 10,5-7). A Mosè Dio dovette rivelarla; da solo il profeta non l’avrebbe intuita: «Ho guardato attentamente l’afflizione del mio popolo, ho udito il suo grido, conosco le sue sofferenze, sono sceso per liberarlo per farlo salire» (Es 3,7-8). Al contrario, Gesù guardando Dio, osserva ciò a cui Egli è interessato, guarda là dove guarda Dio. Il Padre non deve rivelargli niente. Ciò che è di Dio, lo fa suo. 

Il farsi carne di Gesù è l’evento decisivo. Egli che vive nella beatitudine, sceglie il peggio. La sua generosità appare in questa decisione originaria. Gesù rivela la sua carità impensabile e inarrivabile, non per le buone opere compiute sulla terra ma perché ha voluto farsi carne. Gesù, pur mostrando le scelte tipiche di un uomo giusto, rivela piuttosto il modo di ragionare di Dio, ciò che pensa il Padre nel cielo, meglio ancora ciò che è Dio, ossia una perenne e pura donazione di sé. Per questo, Gesù è l’esegesi di Dio: Egli la Grazia fatta carne («è apparsa la grazia di Dio» (Tt 2,11); egli è la Buona volontà di Dio (Eudokia) (Lc 2,14). Gli uomini vengono definiti non in base a ciò che sono, ma in base a ciò che Dio pensa di loro: «pace sulla terra agli uomini della Eudokìa» (Lc 2,14). 

Il cristianesimo non è, quindi, in primo luogo, religione (raccolta dei doveri degli uomini verso le divinità o verso Dio, cf. Cicerone De natura deorum II,28) ma accoglienza della disponibilità di Dio verso di loro. 

La missione del Figlio mostra queste caratteristiche del cuore di Dio: Egli «non risparmia» il Figlio, cioè dona agli uomini il massimo di quanto poteva donare. Lo dona ad uomini malvagi che lo avrebbero ucciso ed espulso dalla vigna. Annuncia la sua disponibilità alla riconciliazione (sebbene sarebbero stati gli uomini a dover assumersi la responsabilità di questa iniziativa dal momento che erano stati loro ad infrangere il patto). 

Gesù avverte questo essere del Padre e lo fa suo. Si spende, perciò, a favore di uomini che non lo cercano, che non richiedono il suo donarsi a loro ma che, al contrario, lo rifiutano e lo disprezzano. Accetta una missione dalla quale non ricava alcun guadagno per sé. Il suo guadagno è la salvezza dei malvagi ai quali si mescola per poter considerarli e trattarli da fratelli. 

Per Gesù, farsi carne è ben diverso dal farsi uomo. All’estremo è ciò che viene suggerito da Paolo «Dio lo fece peccato» (2 Cor 5,21). Dio non lo considerò un peccatore o né lo punì come un tale ma sperimentò il peggio del mondo dominato dal peccato. 

In ultima analisi, in Gesù appare che cosa sia amore in tutto il suo splendore e, di conseguenza, diventa la persona che suscita verso di sé un amore totale ed esclusivo. «Nelle anime umane è deposta una grande e mirabile disposizione all’amore e alla gioia, la quale diviene pienamente operante alla presenza di Colui che è il vero amabile e diletto. È questa la gioia piena di cui parla il Salvatore» (N. Cabasìlas, Vita in Cristo, II, IX [92]). In Lui appare l’amore in tutta la sua interezza: «Non è mai accaduto che, pur desiderando il bene e la verità, gli uomini li abbiano conseguiti in modo puro» (ivi). In questo modo rivela all’uomo le sue potenzialità: «Prima non era noto quanto fosse grande la nostra potenza di amare e di godere» (ivi). 

Conclusa questa premessa, trattiamo l’argomento del ritiro. Paolo annuncia ai cristiani di Filippi la regola dei credenti che consiste in questo: i discepoli di Gesù devono fare propria la generosità di Gesù e considerare gli altri più importanti di se stessi: Sia in voi, ciò che fu in Cristo Gesù (Fil 2,3). 

Dal momento che questo proponimento è molto impegnativo, l’apostolo non lo impone in tutta la sua totalità ma vuole che diventi l’orientamento della loro esistenza. L’intento di Paolo si scopre nel versetto di Fil 2,4: «Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri». La prima parte dell’invito richiama in modo più diretto lo stile di Gesù (non cercare il proprio interesse [ta eauton]); la seconda parte, quasi smentendo in parte la prima, accetta che i discepoli cerchino il proprio vantaggio ma, oltre a questo, devono cercare anche quello degli altri [kai ta eteron]. La forma più coerente dell’invito avrebbe dovuto essere espressa in questo modo: ciascuno non cerchi il proprio interesse, ma quello degli altri. Con l’aggiunta della congiunzione “kai”, ossia “ma anche”, l’apostolo unisce l’ideale con il reale. Esiste un ottimo da perseguire (cf 1 Cor 13,5), e un minimo da evitare: «Tutta la Legge trova la sua pienezza in un solo precetto: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Ma se vi mordete e vi divorate a vicenda, badate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!» (Gal 5,14-15). 

Paolo attesta che sono pochi quelli che lo imitano, ad eccezione di Timoteo: «Non ho nessuno che condivida come lui [Timoteo] i miei sentimenti e prenda sinceramente a cuore ciò che vi riguarda: tutti in realtà cercano i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo» (2,21).

Nel corso della lettera, egli mostra le scelte concrete da lui messe in opera. Un momento nevralgico  è costituito dal sentimento che lo pervade mentre scrive. L’apostolo si trova in carcere (ad Efeso?). La sua esistenza si svolge nella precarietà. Ha bisogno del soccorso dei Filippesi che si fa aspettare. È in attesa della sentenza che verrà pronunciata dal magistrato romano: assoluzione o condanna a morte (per decapitazione)? A questo punto, sorge un dissidio nel suo cuore. 

«Sono stretto infatti fra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo. Persuaso di questo, so che rimarrò e continuerò a rimanere in mezzo a tutti voi per il progresso e la gioia della vostra fede» (Fil 1,23-25). È preso da due desideri intensi che quasi l’opprimono (synechomai). Da una parte spera che si realizzi quanto desidera per ottenere il suo vantaggio: sciogliere «la corda che tiene vincolata la nave al molo (analysai)» e raggiungere Cristo; dall’altra desidera che si attui ciò che sperano i suoi fedeli in vista del loro vantaggio, ossia che egli venga assolto e ritorni presso di loro. Infine, fa prevalere ciò che avvantaggia i suoi fedeli. La sua aspirazione più forte, la sua “epitymia”, sarebbe quella di trovarsi con Cristo, e questa soluzione è quella che preferirebbe senza alcun dubbio. Tuttavia si orienta verso il vantaggio dei fratelli. 

Da notare: non dice che rimarrà nel corpo (come viene tradotto) ma nella “carne”. Rimanere nel corpo potrebbe andare incontro ad una vita felice ma rimanere nella carne significa continuare ad esporsi ad una esistenza travagliata. Qui Paolo sta mostrando come imita Gesù: questi si trovava in una forma di vita esente da travagli ma, andando contro se stesso, volle farsi carne. «Di fronte alla gioia che gli era posta dinanzi, si sottopose alla croce» (Eb 12,2). Paolo si trova già nella carne ma rinuncia ad una vita felice e vuole continuare a vivere nel travaglio. Cristo ha scelto la discesa e Paolo rinuncia all’ascesa. Nonostante l’apparente opposizione dei due movimenti, la direzione è identica: preferire rimanere nella carne. 

La regola di Paolo è stata seguita dagli uomini dello Spirito lungo la storia della Chiesa. È come se esistesse un sinodo permanente, che oltrepassa i secoli e i luoghi, convocato dallo Spirito, che raduna tutti coloro che sono animati da spirito evangelico e resistono fino al sangue nella lotta contro il peccato (Eb 12,3-4). Vediamo alcuni casi. 

Guglielmo di saint Thierry (1085-1148) insegna che la comunione con Dio è l'unica vera sorgente di felicità per l'uomo. Tuttavia questa aspirazione non distrae affatto il cristiano dal suo impegno a favore della terra. A creare gioia è il fatto di amare; più precisamente di essere, per quanto possibile all'uomo, ciò che Dio è: amore disinteressato, fedeltà a tutta prova, accondiscendenza misericordiosa. 

Il contemplativo, condotto da un sentimento d'amore totale, riesce ad intuire, a leggere sul volto di Dio i pensieri e i desideri che lo riguardano. Questo non significa che egli deve sviluppare delle considerazioni astratte, ma discernere la propria missione. Contemplativo è, allora, colui che comprende con chiarezza il volere di Dio su di sé e che poi vi si conforma in totale fedeltà. «La <carità> trova dolce rivolgere sempre <lo sguardo> verso quel volto e, come su un libro di vita, leggervi le leggi della vita <adatte> per sé, e comprenderle, illuminando la fede, consolidandola speranza e risvegliando la carità» (Natura e valore dell’amore, 27). 

Il fatto di gustare Dio fa sgorgare nell'amante il desiderio di partecipare all'amore che lo riempie di gioia stupita. L'anima sapiente, gustando solamente Dio, «spoglia l'uomo dell'uomo» (Natura e valore dell’amore, 50), ossia, mentre ammira l'amore di Dio, lo  assimila e, di conseguenza, elimina da sé ogni traccia di meschinità che si oppone ad esso. 

Se questo è il sentire di Guglielmo, non stupisce che egli, a sua volta, condivida e faccia sua la scelta già compiuta da Paolo: «Anche se la vita di Paolo si svolgeva tutta nei cieli, egli non si negava ogni volta che era necessario stare accanto agli uomini sulla terra», osserva Guglielmo (Natura e valore dell’amore, 26). 

La testimonianza più preziosa ci viene offerta da Riccardo di San Vittore (1110-1173). 

L'uomo viene paragonato ad un pezzo di ferro che deve perdere la durezza ed essere reso malleabile nelle mani di Dio. Il ferro ha bisogno di percorrere diverse fasi di trasformazione e di lavorazione: riscaldarsi, arroventarsi, liquefarsi. Ora, tutte le esperienze spirituali gratificanti sono tutte modalità con Dio cerca di riscaldare e arroventare il cuore dell'uomo che, al principio appare rigido come un pezzo di ferro. Alla fine, però, esso si liquefa per assumere la forma, ossia la missione, assegnatagli da Dio. «Come i fonditori, dopo aver liquefatto i metalli e preparato gli stampi, modellano come vogliono qualsiasi figura [...], così l'anima in questo stato si adatta facilmente a qualsiasi cenno della volontà divina, anzi, per un desiderio spontaneo, si dispone ad ogni sua decisione e piega ogni sua volontà all'approvazione di Dio» (I quattro gradi della violenta carità, 42). Solo dopo aver vissuto questa liquefazione, l'uomo diventa capace di assomigliare a Dio. Ogni grado mistico non è fine a se stesso ma prepara il trasferimento della stessa carità di Dio nel cuore dell'uomo, secondo il messaggio: «Siate gli imitatori di Dio come figli amatissimi e vivete nell'amore come anche Cristo vi ha amato e ha sacrificato se stesso per voi a Dio, quale oblazione e sacrificio di soave profumo» (Ef 5,1-2). 

Riccardo, perciò, evoca il dissidio vissuto da s. Paolo - stare con Cristo o rimanere nella carne per amore degli uomini? -; condivide interamente la scelta già compiuta dall'apostolo e ripensa con ammirazione a Mosé che rifiuta di essere accolto da Dio da solo mentre il popolo viene destinato alla rovina (Es 32, 32) (I quattro gradi…, 44). 

In conclusione, ciò che conduce la persona umana allo scioglimento in Dio nella gioia piena dell'unione è anche la condizione che permette all'amante divino di scorrere facilmente verso il basso (facile ad inferiora currendo), nella piena disponibilità alla solidarietà più impegnativa. 

In quest’epoca, grazie alla riflessione di Guglielo e di Riccardo, viene elaborata la definizione più matura della contemplazione cristiana. 

Il valore dell’apporto dato da questi due teologi mistici, lo cogliamo operando un confronto con Eckhart (1260-1327). Anche Eckhart adopera l’immagine dell’uomo che rimane nel fuoco, questa volta a somiglianza di un legno. «Il desiderio di Dio è anche di donarsi completamente a noi. Accade lo stesso quando il fuoco vuole attirare il legno verso di sé e introdursi in esso: all'inizio trova che il legno è dissimile da sé, e per questo ci vuole del tempo. Prima rende il legno caldo e bruciante, e questo fuma e scricchiola, perché è differente dal fuoco. Poi, più il legno arde, più diviene calmo e tranquillo; più è simile al fuoco e più si acquieta, fino a divenire in se stesso completamente fuoco» (Sermoni, 11, 3, p. 164). 

Egli accoglie dal neoplatonismo l’idea che l’uomo può diventare fuoco, deificarsi. L’immagine del legno che s’acquieta corrisponde alle tappe più elevate conosciute da Riccardo ma qui manca l’ultima tappa, quella discesa. Per il mistico neoplatonico l’evento massimo sta nella fusione con l’Uno. Una uscita da questo stato è innimaginabile. 

Un’ultima testimonianza. Teresa d’Avila espone l’insieme degli effetti di chi è entrato nella «settima stanza». L’evento capitale consiste in questo:  la «piccola farfalla è morta nella grande letizia di aver finalmente trovato riposo; in lei vive Cristo = Ahora, pues, decimos que esta mariposica ya murió, con grandissima alegría de haber hallado reposo, y que vive en ella Cristo» (Castillo Interior, Septimas Moradas, 3,1). 

Da questo evento scaturiscono diversi effetti tra i quali evidenzio il seguente: «Già avete visto le fatiche patite da queste anime per morire e poter godere di nostro Signore. Ora è tanto grande il loro anelito di servirlo, che non solo non vogliono più morire, ma vivere moltissimi anni soffrendo le pene più intense possibili perché il Signore sia maggiormente lodato, anche se di poco. Pur sapendo, come sanno, che la dipartita dell'anima dal corpo porta ad un godimento maggiore di Dio, non ci fanno caso… Scoprono la loro gloria nel poter servire in qualcosa il crocifisso. Talvolta, senza pensarlo, tornano i desideri di godere di Dio e di fuggire questo esilio … ma poi presto tornano al loro stato e offrono [al Signore] il medesimo desiderio di vivere, l’offerta più dolorosa che possano fargli» (VII,3,6-7). 

La testimonianza di Paolo ci aiuta a comprendere quella di Teresa ma ques’ultima ci aiuta a comprendere Paolo: vivere nella carne si precisa come servire il Crocifisso; accettare di continuare a vivere, è l’offerta più dolorosa che l’uomo possa fare al Signore (una ofrenda la más costosa para ella que le puede dar). Conoscere la Scrittura soltanto con l’esegesi, è uguale all’ignorare la Scrittura. Essa si comprende bene nel vissuto degli uomini dello Spirito. 

La regola di Paolo e dei santi sta, quindi, nell’imitazione di Gesù: conseguire il culmine della carità oppure, detto altrimenti, cercare il vantaggio dell’altro fino a perdere se stessi. 

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