domenica 27 aprile 2025

Spirito Santo e Conclave

 È lo Spirito Santo che elegge il Papa? 

Ecco come rispose Ratzinger (1997): 


“Non direi così, nel senso che sia lo Spirito Santo a sceglierlo. Direi che lo Spirito Santo non prende esattamente il controllo della questione, ma piuttosto da quel buon educatore che è, ci lascia molto spazio, molta libertà, senza pienamente abbandonarci. Così che il ruolo dello Spirito dovrebbe essere inteso in un senso molto più elastico, non che egli detti il candidato per il quale uno debba votare. Probabilmente l’unica sicurezza che egli offre è che la cosa non possa essere totalmente rovinata. Ci sono troppi esempi di Papi che evidentemente lo Spirito Santo non avrebbe scelto.”



sabato 26 aprile 2025

Senso del mistero


 

Falso senso del mistero

Dicendo stupore per il mistero Pasquale non intendo in nessun modo ciò che a volte mi pare si voglia esprimere con la fumosa espressione senso del mistero. 

A volte tra i presunti capi di imputazione contro la riforma liturgica vi è anche quello di averlo eliminato dalla celebrazione. Lo stupore di cui parlo non è una sorta di smarrimento di fronte ad una realtà oscura o ad un rito enigmatico, ma è , contrario, la meraviglia per il fatto che il piano salvifico di Dio ci è stato rivelato Pasqua di Gesù, la cui efficacia continua a raggiungerci nella celebrazione dei misteri ovvero dei sacramenti . [Mistero nel Nuovo corrisponde alla rivelazione avvenuta in Cristo cfr Ef 1,3 -14]

Resta pur vero che la pienezza della rivelazione ha, rispetto alla nostra finitezza umana, una eccedenza che ci trascende e che avrà il suo compimento alla fine dei tempi quando il Signore tornerà. Se lo stupore nei confronti della Pasqua del Signore è vero, non vi è alcun rischio che non si percepisca, pur nella vicinanza che l'incarnazione ha voluto, l'alterità della presenza di Dio. Se la riforma avesse eliminato quel senso del mistero [come realtà enigmatica e fumosa] più che un capo di accusa sarebbe una nota di merito. La bellezza, come la verità, genera sempre stupore e quando sono riferite al mistero di Dio, porta all'adorazione.

Desiderio desideravi, 25

domenica 20 aprile 2025

Vi porto in alto

Il Signore, pur essendo Dio, si fece uomo e soffrì per chi soffre, fu prigioniero per il prigioniero, condannato per il colpevole, sepolto per chi è sepolto, risuscitò dai morti e gridò questa grande parola: 

Venite, o genti tutte, oppresse dai peccati e ricevete il perdono. 

Sono io, infatti, il vostro perdono, 

io la Pasqua della redenzione,

io l'Agnello immolato per voi,

io il vostro lavacro,

io la vostra vita, 

io la vostra risurrezione, 

io la vostra luce, 

io la vostra salvezza, 

io il vostro re. 

Io vi porto in alto nei cieli. 

Io vi risusciterò e vi farò vedere il Padre che è nei cieli.

Io vi innalzerò con la mia destra.

Melitone di Sardi


Corpo glorioso

 Anzi questa esistenza rappresenta il compimento della corporeità tanto che si potrebbe dire pienamente compiuto soltanto quel corpo che è interamente ricettato nello spirito... Il vero e proprio significato del corpo umano si farà manifesto soltanto nella risurrezione e nella gloria.

La redenzione è il secondo divino inizio, dopo il primo, la creazione. E quale inizio! Se qualcuno chiedesse che cosa è redenzione, essere stati redenti? La risposta dovrebbe essere: il risorto . Lui nella sua esistenza concreta, nella sua umanità gloriosa è il mondo redento. Ecco perché si chiama primogenito di tutte le creature, primizia. In lui la creazione fu inserita nell'esistenza eterna di Dio.

Romano Guardini

Risurrezione

 La risurrezione fu un evento. La fede cristiana non inizia con una nuova grande  idea, intuizione, ideale o insegnamento, ma con un fatto che è accaduto. La  formazione e la continuazione della comunità cristiana non fu l'ostinata determinazione da parte dei discepoli di restare fedeli agli ideali di Gesù, bensì la loro risposta nella fede all'azione di Dio di risuscitare Gesù dai morti. Fin dall'inizio la fede cristiana non fu un buon consiglio ma una buona novella;

l'evento fu inteso come atto di Dio, non come ultima impresa di Gesù. La risurrezione è l'atto di Dio per il Gesù che ha sofferto la condizione di vittima in una vera morte umana e che è entrato impotente nel regno della morte come qualsiasi altro essere umano. Alle origini cristiane la fede nella risurrezione riguardava Dio, non qualcosa di straordinario inerente a Gesù;

la risurrezione è stata un evento unico, trascendente. Fu un atto unico di Dio che incise su questo mondo, ma non localizzabile in questo mondo alla modo in cui possono esservi collocati eventi spazio-temporali. Non è quindi in se stessa un evento del tipo di quelli che possono essere studiati dagli storici. La risurrezione è un fatto di azione di Dio percepito mediante la fede. Con eventi del genere gli storici non possono avere a che fare; possono soltanto occuparsi di coloro che in simili eventi hanno creduto e degli effetti della loro fede;

fin dall'inizio l'evento fu un evento interpretato. In quanto atto di Dio potè essere percepito e recepito solo nei termini della struttura mentale di coloro che vi credettero, già formata. Anche se ai fini della trattazione si può separare l'evento dall'interpretazione, nella realtà storica i due aspetti sono strettamente intrecciati. Non è possibile che qualche seguace di Gesù prima sia arrivato a credere che l'evento era accaduto, e poi in un secondo momento l'abbia interpretato in un certo modo. L'interpretazione era intrinseca alla percezione;

quando Gesù fece la sua comparsa, la nozione di risurrezione era già presente nella fede giudaica ed era un luogo comune nella teologia dei farisei (per es Dan. 12,2; Mc. 12,18-27; Gv. 11,17-24). La fede giudaica nella risurrezione non era una teoria dell'immortalità dell'anima umana ma un modo di affermare la fedeltà di Dio quando sembra che non vi sia in questo mondo un modo coi cui Dio possa rendere giustizia al suo popolo fedele. L'affermazione che Dio ha risuscitato Gesù non era quindi semplicemente dichiarare che i discepoli avevano ritrovato il loro idealismo o che a Gesù era accaduto qualcosa di spettacolare, ma la testimonianza dell'atto di Dio;

la risurrezione fu percepita e interpretata in vari modi (non molti), tutti inquadrabili nella cornice generale del pensiero apocalittico. Alcune correnti del l'Antico Testamento più recente e della prima fede giudaica rappresentavano la risurrezione dei morti come momento della vittoria di Dio al termine della storia, come vittoria finale di Dio sui nemici della vita e come ristabilimento nella giustizia del popolo fedele di Dio (v. sopra, 7.6). È molto importante capire che per i primi cristiani la risurrezione non era semplicemente qualcosa di spettacolare che Dio aveva compiuto per Gesù, ma rappresentava il fronte avanzato dell'evento escatologico, l'inizio della nuova era. Dio ha risuscitato Gesi dai morti come «primizia» del raccolto definitivo che sarebbe presto avvenute (1 Cor. 15,20-23). Fede nella risurrezione non è semplicemente credere che il corpo che era morto è tornato alla vita o che la mattina di pasqua il sepolcro era vuoto;

poiché la risurrezione afferma l'azione trascendente di Dio, ogni qualvolta si dica qualcosa della risurrezione si è davanti allo stesso problema di qualsias discorso su Dio: parlare dell'ultraterreno in termini terreni, nel senso che ciò comporta l'uso di un linguaggio mitologico. Per premunirsi da malintesi è utili richiamare alcuni punti riguardo a ciò che la fede nella risurrezione non è:

la fede nella risurrezione non è la credenza nell'immortalità, la credenza che l'anima «immortale» di Gesù sia in qualche modo «sopravvissuta alla morte»;

la fede nella risurrezione non è semplicemente l'esperienza soggettiva del ricordo potente di Gesù che continua a vivere nel cuore dei suoi discepoli, oppure la convinzione che Gesù continua a chiamare le persone a impegnarsi per la sua causa. La risurrezione non è solo un'esperienza capitata ai discepoli; è accaduta a Gesù, prima e indipendentemente dall'esperienza dei discepoli, della quale fu la causa generatrice;

la fede nella risurrezione non ha nulla a che vedere con fantasmi, comunicazioni speciali, sedute spiritiche e vari fenomeni parapsicologici;

la fede nella risurrezione non ha a che fare con una rinascita o un ripristino della vita di questo mondo, sul tipo di recuperi sbalorditivi come quelli che accadono sul tavolo operatorio;

la fede nella risurrezione non è nata adattando idee mitiche associate al nascere-e-morire delle antiche divinità della fertilità, anche se le immagini associate a questi miti poterono essere usate per esprimere la fede cristiana;

risuscitato da Dio fu Gesù. Il problema non fu «se ci sia una vita dopo la morte», ma la fedeltà di Dio alla vita che Gesù aveva vissuto. A essere risuscitata fu la persona di Gesù, non semplicemente i suoi insegnamenti o la sua causa. Gesù aveva incarnato la volontà di Dio, aveva rappresentato che cosa s'intende che sia una vita veramente umana al servizio di Dio. Le istituzioni di questo mondo, secolare e sacro, avevano respinto questa vita nel modo più vergognoso e crudele immaginabile. La risurrezione significava che Dio aveva reintegrato e confermato questa vita, questa persona, e che con questo iniziava a farsi realtà ad opera di Dio la ri-creazione dell'umanità e del mondo.

venerdì 18 aprile 2025

Giuda: due interpretazioni

Icone di luciano mistrorigo
La rottura dell'amicizia compiuta da Giuda giunge in realtà fino nella comunità della Chiesa dove sempre di nuovo ci sono persone che prendono il suo pane e lo tradiscono. Gesù in quell'ora si è caricato del tradimento di tutti i tempi, sopportando così fino in fondo le miserie della storia. 

Giovanni non ci dà alcuna interpretazione psicologica dell'agire di Giuda. Ciò che è accaduto a lui, per Giovanni non è più psicologicamente spiegabile. È finito sotto il dominio di qualcun altro: chi rompe l'amicizia con Gesù, chi si scrolla di dosso il suo dolce gioco, non diventa libero, ma diventa invece schiavo di altre potenze, Anzi, il fatto che gli tradisca questa amicizia, deriva ormai dall'intervento di un altro potere, al quale si è aperto. Tuttavia la luce che, provenendo da Gesù, era caduta nell'anima di Giuda, non si era spenta del tutto. «Ho peccato dice ai suoi committenti», cerca di salvare Gesù e restituisce il denaro. Tutto ciò che aveva ricevuto da Gesù rimaneva iscritto nella sua anima e non poteva dimenticarlo. Purtroppo il suo pentimento diventa disperazione. Egli vede ormai solo se stesso e le sue tenebre e non vede più la luce di Gesù che può illuminare e superare anche le tenebre. C'è, quindi, anche un pentimento errato: un pentimento che non riesce più a sperare, ma che vede ormai solo il proprio buio, è distruttivo e non è un vero pentimento. Fa parte del vero pentimento la certezza della speranza una certezza che nasce dalla fede nella potenza maggiore della luce fattasi carne in Gesù. 

Benedetto XVI


Secondo la narrazione di Matteo, sembra che Giuda si penta per quanto ha fatto. 

«Allora Giuda, il traditore, vedendo che Gesù era stato condannato, si pentì e riportò le trenta monete d'argento ai sommi sacerdoti e agli anziani dicendo: “Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente”. Ma quelli dissero: “Che ci riguarda? Veditela tu!”. Ed egli, gettate le monete d'argento nel tempio, si allontanò e andò ad impiccarsi» (Mt 27,3-5). 

Il primo segno del pentimento è infatti la restituzione dei denari. mendo pubblicamente il suo peccato, Giuda cerca il perdono. Le sue parole (ho peccato consegnandovi sangue innocente), sono una confessione che rafforza e spiega il significato del suo pentimento, espresso del versetto precedente. Le sue parole sono identiche a quelle in uso nella Bibbia ebraica per esprimere la richiesta di perdono dei peccati. Per la stragrande maggioranza dei casi, l'espressione “Ho peccato“ esprime un equivocabile assunzione di responsabilità da parte di chi ha commesso tale peccato davanti a Dio e gli uomini. 

Dopo tale confessione, da Dio ci si può attendere una punizione, immediata o dilazionata, o il perdono dei propri peccati. Perché dunque il suicidio di Giuda?

Giuda cerca, anzitutto, di tornare dietro a ripagare il danno, restituendo i denari. Trova però l'opposizione dei sacerdoti e cerca, allora, un'altra strada. La morte in sé, secondo alcuni filoni della riflessione ebraica, porta al perdono dei peccati. Nel giudaismo il peccato viene suddiviso in due forme principali, alle quali corrisponde la relativa espiazione. La prima forma è quella del peccato compiuto per inavvertenza, senza intenzione, peccato può essere espiato con un sacrificio. Il secondo caso è quello del peccato commesso come un atto di deliberata disobbedienza. 

I peccati perdonabili possono essere rimessi in due modi, sempre a condizione che il peccatore sia pentito e provi rimorso: mediante l’espiazione del kippur (cioè il giorno del perdono) e mediante la morte, che è espiazione per tutti i peccati. Ne diviene che con la morte quasi tutti i peccatori sono riconciliati con Dio. Secondo l’insegnamento dei rabbini, non è sufficiente chiedere scusa, ma è richiesto un atto espiatorio. 

Provando ad applicare quanto detto al nostro testo, sembrerebbe che il peccato di Giuda possa rientrare nella seconda categoria, quella di un’azione deliberata. Da questo Peccato ci si può liberare o mediante l'espiazione del kippur, o con la morte. Non si può escludere che qui Matteo possa pensare a tutte due queste modalità. Possiamo ritenere che Giuda può aver tentato di risolvere il suo dramma con i mezzi ritenuti idonei nel sistema religioso del suo tempo, magari anche attraverso il suicidio. A fronte di un tentativo fallito di trovare un segno di perdono dai sacerdoti, a Giuda non resterebbe che ritirarsi per ottenere un espiazione con l'altro mezzo possibile, quello della morte. 

La morte di Giuda può essere confrontato con una con un altro caso della tradizione ebraica, dove si narra del suicidio di un certo Alcimo. Questi dopo aver ucciso 60 innocenti, si pente e per espiare si infligge tutti i quattro tipi di morte previsti in tribunale. La morte di quel colpevole, secondo la comprensione giudaica, compie l'espiazione. In conclusione si può pensare che per i lettori di Matteo di fronte alla morte dell'apostolo, non solo difficilmente avranno interpretato il suo suicidio come un espressione del suo profondo peccato e di depravazione, come poi invece farà la successiva tradizione cristiana, ma potrebbero anche avere intravisto nel suo gesto un atto di auto-espiazione. 

Dal punto di vista cristiano, Gesù con la sua fedeltà a Dio e il suo amore, ha ottenuto il perdono dei nostri peccati. Anche per noi, tuttavia, è necessario il pentimento. Ogni ulteriore espiazione (gli atti positivi conseguenti al nostro pentimento) non sono necessari per essere perdonati ma per esprimere la verità del pentimento, per crescere nella carità, recuperando il tempo perduto, e per collaborare alla salvezza di tutti

Cf. Giulio Michelini, Matteo, san Paolo.



giovedì 17 aprile 2025

Lavanda dei piedi

Nel brano della lavanda dei piedi la parola puro è significativa. Così [Giovanni] riprende un concetto fondamentale delle della tradizione dell'Antico testamento, come pure del mondo delle religioni in genere. Per poter comparire davanti a Dio, entrare in comunione con lui, l'uomo deve essere puro. Quanto più entra nella luce, tanto più si sente bisognoso di purificazione. Nel Vangelo di Marco vediamo la svolta radicale al concerto di purezza poiché purezza ed impurità si realizzano nel cuore dell'uomo e dipendono dalla condizione del suo cuore (Mc 7,14-23). 

Come diventa puro il cuore? L’interpretazione liberale ha detto che Gesù avrebbe sostituito la concezione rituale della purità con quella morale. Questo non è sufficiente per cogliere il proprio del suo messaggio. Se così fosse, allora il cristianesimo sarebbe essenzialmente una morale, una specie di riarmo etico. Ma con ciò non si rende giustizia alla novità del Nuovo Testamento. 

La lavanda dei piedi attuata da Gesù appare come la via di purificazione ma il lavacro che ci purifica è l'amore di Gesù si spinge fino alla morte. Non è soltanto la sua parola. La parola di Gesù [la parola della fede che purifica i cuori] non è soltanto parola, ma è Lui stesso. 

Questo elemento basilare è ribadito da Paolo quando dice che siamo giustificati nel suo sangue. Nella diffusa aspirazione dell'umanità alla purezza, Gesù stesso ci indica la via: Egli, che è insieme Dio e uomo, ci rende capaci di Dio. 

A partire da questo si capisce poi anche il discorso sul nuovo comandamento. Gesù riprende l'invito alla vicendevole lavanda dei piedi, elevandola a principio. Poiché qui entra in gioco la novità del Nuovo Testamento, quindi la questione circa l'essenza del cristianesimo, è molto importante ascoltare con una particolare attenzione. È stato detto che la novità si rivela nella parola del comandamento dell'amare come «Io vi ho amato», nell’amare fino alla disponibilità a sacrificare la propria vita per l'altro. Se in questo consistesse l'essenza e la totalità del nuovo comandamento, allora il cristianesimo sarebbe da definire come una specie di estremo sforzo morale. L'essenziale proprio anche in queste parole non è l'appello alla prestazione somma ma il nuovo fondamento dell'essere, che ci viene donato. La novità può derivare soltanto dal dono della comunione con Cristo, del vivere in lui. Solo se ci lasciamo ripetutamente lavare, rendere puri dal Signore stesso possiamo imparare a fare insieme con lui ciò Egli ha fatto. Il comandamento nuovo non è semplicemente una esigenza nuova e superiore: esso è legato alla novità di Gesù Cristo, al crescente essere immerso in lui. 

Proseguendo su questa linea, Tommaso ha detto: La nuova legge è la Grazia dello Spirito Santo. Agostino riassumeva tutto questo nella famosa formula: concedi quello che comandi e poi comanda quello che vuoi. Il dono diventa esempio e rimane sempre sempre un dono. Essere cristiani è innanzitutto un dono, che però poi si sviluppa nella dinamica del vivere ed agire insieme con questo dono. 



martedì 15 aprile 2025

La preghiera di Gesù gv 17

 In questa preghiera compaiono alcuni temi: il dono della vita eterna, la consacrazione di Cristo e dei suoi discepoli, la rivelazione del Nome di Dio, l’unità dei discepoli

La vita eterna

Il termine «vita eterna» non significa la vita che viene dopo la morte, mentre la vita attuale è appunto passeggera e non una vita eterna. Vita eterna significa la vita stessa, la vita vera, la quale può essere vissuta anche nel tempo e che poi non viene più contestata dalla morte fisica. È ciò che interessa: abbracciare già fin d'ora la vita, vita vera, che non può più essere distrutta da niente e da nessuno. Questo significato di vita eterna in modo molto chiaro capitolo sulla resurrezione di Lazzaro: «Chi crede in me, anche se muore, vivrà chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno» (Gv 11,25).  «Io vivo e voi vivrete» (Gv 14,19). Gesù ha detto questo ai suoi discepoli durante l'ultima cena  mostrando ancora una volta che per il discepolo di Gesù è catterizzante che egli vive; che egli quindi, al di là del semplice esistere, ha trovato ed abbracciato la vera vita, della quale tutti sono in ricerca. In base a tali testi, i primi cristiani si sono chiamati semplicemente i viventi. Ciò che tutti cercano è la vita stessa, la vita piena e perciò indistruttibile. 

Ma come si può aggiungere a ciò? L'uomo la trova mediante la conoscenza, presupponendo con ciò il concetto biblico di conoscere, secondo cui il conoscere crea comunione, è un essere tutt'uno con il conosciuto. 

Non qualunque conoscenza è la chiave della vita, bensì il fatto che «conoscano te, l'unico vero Dio è colui che hai mandato Gesù Cristo» (Gv17,3).

 Il cristiano non crede ad una molteplicità di cose. Crede semplicemente in Dio, crede che esiste solo un unico vero Dio. Questo Dio gli si rende accessibile in colui che gli ha mandato, Gesù Cristo. Nell'incontro con lui avviene quella conoscenza di Dio che diventa comunione e con ciò diventa vita. Vita eterna e quindi un avvenimento relazionale. Mediante la relazione con Colui che è egli stesso la vita, anche l'uomo diventa un vivente. In questa vita, che Giovanni chiama zoe distinguendola dal bios, l'uomo deve inserirsi. È la relazione con Dio in Gesù Cristo a donare la vita che nessuna morte è in grado di togliere. Questo vivere in relazione è un modo dell'esistenza ben concreto, si intende che fede e conoscenza non sono un qualsiasi sapere presente nell'uomo fra altre cose ma ciò che costituisce la forma della sua esistenza. 

2. La consacrazione

Giovanni parla di una triplice consacrazione; il Padre ha consacrato il Figlio e lo ha mandato nel mondo; il Figlio consacra se stesso e chiede che, a partire dalla sua consacrazione, i discepoli siano consacrati nella verità. 

Che significa consacrare? Consacrato, cioè santo nel senso pieno è solo Dio stesso. Santità è l'espressione usata per esprimere il suo modo d'essere, l'essere Divino come tale. Santificare, consacrare significa il trasferimento di una realtà, di una persona o di una cosa, nella proprietà di Dio, specialmente la tua destinazione al culto. 

Da una parte consacrazione, nel senso di santificazione, è una segregazione dal resto dell'ambiente. La cosa consacrata viene elevata in una nuova sfera e non è più a disposizione dell'uomo. Tuttavia, proprio perché è donata totalmente a Dio, questa realtà esiste ora per il mondo. Segregazione e missione formano un'unica realtà completa. Pensiamo alla vocazione particolare di Israele: da una parte il popolo è segregato da tutti gli altri popoli, ma dall'altra lo è proprio per svolgere un incarico per i popoli, per tutto il mondo. La rivendicazione totale dell'uomo da parte di Dio, la segregazione per lui, è allo stesso tempo una missione per i popoli. Anche nella parola di Gesù, consacrazione e missione sono strettamente connesse l'una con l'altra. 

Questa consacrazione di Gesù da parte del Padre è identica ad incarnazione: l'unità piena col Padre e esistenza totale per il mondo. Gesù appartiene interamente a Dio e proprio per questo è totalmente a disposizione di tutti. 

Ma se il Padre lo ha consacrato [da principio], che cosa significa allora «Io consacro me stesso»? La santità di Gesù non è un essere diverso dal mondo in modo statico, ma è una santità che gli acquista man mano nel compimento del suo impegno per Dio e contro il mondo. Essere contro il mondo, è esistere a sua favore. Compimento però significa sacrificio. Nel sacrificio Gesù è contro il mondo e allo stesso tempo egli è per esso.

Arriviamo ora alla terza consacrazione di cui si parla nella preghiera di Gesù: «Consacrali nella verità» i discepoli devono essere coinvolti nella consacrazione di Gesù; anche in loro deve compiersi questo passaggio di proprietà, questo trasferimento nella sfera di Dio e con ciò realizzarsi il loro invio nel mondo. «Io consacrò me stesso, perché anch'essi consacrati nella verità»: la loro consacrazione è partecipazione all’essere consacrato di Gesù. La verità purificatrice e santificatrice è Cristo stesso. In lui devono essere immersi, di lui devono essere come rivestiti e così sono resi partecipi della sua consacrazione, del suo incarico sacerdotale, del suo sacrificio.

La rivelazione del Nome

Un altro tema fondamentale della preghiera sacerdotale e la rivelazione del nome di Dio. «Io ho fatto conoscere loro il tuo nome». Con queste parole Gesù si presenta come il nuovo Mosè [al quale Dio aveva rivelato il suo Nome». Il nome di Dio era più di una semplice parola. Esso significava che Dio si lasciava invocare, era entrato in comunione con il suo popolo. Era realmente presente eppure rimaneva sempre immensamente più grande e inafferrabile. Quando Gesù dice di aver fatto conoscere il nome di Dio e di volerlo far conoscere ancora, non intende con ciò riferirsi ad una qualche parola nuova. La rivelazione del nome è nuovo modo della presenza di Dio tra gli uomini. In Gesù Dio entra totalmente nel mondo degli uomini e chi vede Gesù vede il Padre. La rivelazione del nome avviene perché, come dice Gesù: «L'amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro» (17,26). Mira alla trasformazione del cosmo, affinché Esso in unità con Cristo diventi in modo totalmente nuovo la vera dimora di Dio. 

Lo stesso Cristo come persona è il nome di Dio, l’accessibilità di Dio per noi. «Ho fatto conoscere il tuo nome e lo farò conoscere». L'auto donazione di Dio in Cristo non è una cosa del passato: «lo farò conoscere». Dio viene continuamente incontro agli uomini finché essi possono andare incontro a lui. Far conoscere Cristo significa far conoscere Dio. Mediante l'incontro con Cristo, Dio viene verso di noi, ci attrae in sé per condurci al di là di noi stessi verso l'ampiezza infinita della sua grandezza e del suo amore. 

L’unità dei discepoli

Un altro grande tema della preghiera sacerdotale è la futura unità dei discepoli di Gesù, la futura chiesa è inclusa nella preghiera di Gesù ed egli invoca l'unità per i futuri discepoli. L'unità dei discepoli non è un fenomeno mondano. Questo il Signore lo dice molto chiaramente: l’unità non viene dal mondo, anzi le stesse forze del mondo conducono alla divisione. Nella misura in cui nella chiesa è all'opera il mondo si finisce nelle divisioni. L'unità può venire solamente dal Padre mediante il Figlio. [L’unità della Chiesa deve essere anche visibile e non soltanto nascosta nel mistero (Bultmann)]. La preghiera di Gesù per l'unità mira proprio a questo: l'unità dei discepoli la verità della sua missione si renda visibile agli uomini. L'unità deve apparire, essere riconoscibile. È riconoscibile precisamente come qualcosa che altrove nel mondo non esiste. Mediante l'unità umanamente inspiegabile dei discepoli di Gesù presso tutti i tempi, viene legittimato Gesù stesso. Così Dio si rende riconoscibile come creatore di un'unità la tendenza del mondo alla disgregazione. Per questo la fatica per un'unità visibile dei discepoli di Cristo rimane un compito urgente per i cristiani di tutti i tempi e di tutti i luoghi. 

Appunti da J. Ratzinger (Benedetto XVI) in Gesù di Nazaret/2


lunedì 14 aprile 2025

Riassumo alcune riflessioni sull’escatologia cristiana, tratte da un libro di valore del noto biblista R. Penna («Ecco ora il momento favorevole». Il tempo e la storia fattori di base dell’identità cristiana, San Paolo, Cinisello Balsamo 2024)

La tematica escatologica è legata al momento liturgico attuale in cui celebriamo la Pasqua del Signore, Alfa ed Omega, Principio e Culmine della storia, individuale e collettiva. 

«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli» (Gal 4,4-5). 

Se vogliamo ridurre all'essenziale il messaggio di questo testo paolino ed esprimerlo davvero in due parole, dobbiamo semplicemente dire che l'apostolo afferma la realizzazione dell'eschaton (la fine) nel tempo, quindi all'interno della storia. Nulla è più paradossale di un'affermazione del genere. Essa contrasta, sia con la mentalità greca, che neanche conosce un vero e proprio éschaton temporale, sia con la fede giudaica, per la quale l'éschaton pone necessariamente fine alla storia. 

Come mai Paolo giunge a una dichiarazione tanto sorprendente? A questo interrogativo possiamo dare una risposta complessiva. L'idea di vivere ormai alla fine dei tempi appartiene già alla coscienza tipica di tutto il cristianesimo delle origini; Paolo perciò la condivide con altri ambienti della tradizione. 

Ricordiamo alcuni testi principali, che si possono accostare al nostro e che insieme ne differiscono in qualche misura. Anzitutto richiamiamo i termini con cui Marco sintetizza fin dall'inizio la predicazione di Gesù: «ll tempo è compiuto» (1,15). L'uso del verbo «compiere» accosta questo passo a quello di Gal 4,4 (dove compare pleroma) per indicare appunto un compimento; anzi, il fatto che il verbo sia un perfetto dice al lettore attento che il compimento si è già verificato e, insieme, il suo effetto perdura nel tempo. Nell'intenzione di Marco, questo compimento non è futuro, ma coincide già con la presenza effettiva di Gesù, qui e ora: è lui che dà valore al tempo, trasformandone il significato per il suo discepolo. Marco impiega il termine kairós che ha una sfumatura diversa rispetto a chrónos. Esso, infatti, indica non il tempo in genere, ma il tempo concreto, determinato in funzione di un soggetto o di un gruppo di soggetti. 

In realtà, ciò che si compie è il «mio» tempo: io sono chiamato in causa dalla presenza di Gesù; segue, infatti, l’invito al pentimento e alla fede. Quindi in Marco, per quanto risuonino echi apocalittici, la prospettiva non riguarda la macrostoria ma la storia di ogni singolo ascoltatore delle parole di Gesù, come per dire che è arrivato per lui il momento decisivo della sua vita.

 Nella Lettera agli Ebrei (1,2) leggiamo che Dio ci parlò nel Figlio «alla fine dei giorni, che sono questi». Contrapponendoli al passato (pálai, «una volta»), quando Dio parlava ai padri per mezzo dei profeti, l'autore evidenzia tutta la differenza che connota ormai il presente a motivo dell'intervento del Figlio. È lui, è la sua presenza che fa si che i giorni attuali si debbano computare qualitativamente come ultimi (definitivi e conclusivi). 

Ciò che qui viene detto a proposito della rivelazione in parole, in Eb 9,26 lo si dice della sofferenza patita da Gesù: sottolineando la differenza con i sacrifici del sacerdozio ebraico, l'autore dichiara che in lui il sacrificio si è compiuto una sola volta, «adesso (nyni), alla conclusione dei secoli». Quest'ultima locuzione è comune nelle apocalissi giudaiche, ma in riferimento al futuro intervento di Dio alla fine dei tempi. Qui invece, l’“adesso” mette in rilievo non solo il tempo presente dei destinatari come tempo salvifico escatologico, ma soprattutto il tempo della rivelazione di Cristo come tempo del compimento escatologico. 

[Altri testi At 2,17; 1 Cor 10,11]. 

Ritornando a Gal 4,4 si devono rilevare tre elementi: 

1. La missione del Figlio

Tutti gli scritti cristiani, infatti, collegano la nuova concezione del tempo con la venuta di Gesù, con il suo ministero, con la sua morte e la sua risurrezione, e con il dono del suo Spirito. Bisogna però riconoscere che in Gal 4,4, più che altrove, l’accenno al Figlio è caricato di un'enfasi particolare, sia perché sta al centro di una frase principale, sia perché il concetto stesso di invio (exapésteilen) è raro nel Nuovo Testamento (oltre a Rm 8,3, si vedano anche Gv 3, 16; 1Gv 4,9). 

Sullo sfondo non si può non sentire risuonare l'invocazione di Sap 9,10: «Mandala dai cieli santi, e inviala dal trono della tua gloria», che suppone la pre-esistenza di una Sapienza divina presso il Signore nei cieli. Oltre a questo specifico parallelismo, già la semplice idea di una missione da parte di Dio implica comunque una cristologia forte, in quanto suppone che colui che viene inviato goda di una pre-esistenza presso l'Inviante. È proprio la missione di questo Figlio a costituire il tempo nella sua pienezza. Ma una tale missione non è a vuoto. Dio non agisce senza scopo. Infatti, il periodo iniziato al v. 4 continua poi con due frasi finali, che appunto specificano il fine della missione e che, pertanto, contribuiscono assolutamente a delineare i contorni esatti della pienezza di cui si parla.

2. Il superamento della Legge

Alla connotazione del Figlio «nato sotto la Legge» corrisponde subito il primo scopo di quella nascita: «Per riscattare coloro che erano sotto la Legge» (4,5a). È qui che comincia a delinearsi lo specifico della concezione paolina sulla pienezza del tempo. Tutto ciò suppone in Paolo una concezione negativa della legge e della sua funzione. Fondamentale per Paolo è la convinzione davvero evangelica che finalmente in Cristo ci è stato tolto questo gioco di schiavitù. Proprio tale atto liberatorio appartiene di pieno diritto alla pienezza del tempo.

3. L'adozione a figli

La figliazione cristiana consiste poi propriamente nella ricezione dello Spirito del Figlio nei nostri cuori dove egli grida : «Abba padre!». Ecco la pienezza del tempo! Nel fatto di potersi rivolgere a Dio in termini pienamente filiali. Nella lettera agli Efesini si dice che siamo diventati familiari di Dio, ammessi a pieno titolo nella sua intimità. 

Il costitutivo di un rapporto del genere non sta in una figlizione autonoma, come se Cristo avesse concesso a ogni credente la possibilità di rivolgersi a Dio da solo, a puro titolo personale secondo una figliazione parallela alla sua. Al contrario è chiaro che per Paolo il cristiano è figlio soltanto attraverso Gesù, il figlio vero unico, incomparabile. La pienezza infatti non consiste in un rinnovamento antropologico sganciato da Gesù; piuttosto il rinnovamento antropologico viene attratto nella dimensione della pienezza mediante l'invio e l'opera salvifica di Gesù. 

L'evento pasquale determinò una vera svolta per i cristiani circa la percezione dell'identità di Gesù. Pietro, poco dopo la Pasqua, affermò che il Risorto era «l'iniziatore (archegós) della vita» (At 3,15), avendo compiuto «ciò che aveva annunciato per bocca di tutti i profeti» (At 3,18) e lo esaltò come «capo e salvatore» (At 5,31). 

Paolo poi dichiara che a Gesù crocifisso Dio «donò il nome di Signore, che è sopra ogni altro nome» (Fil 2,9). Altrove l'Apostolo qualifica Gesù risorto come «ultimo Adamo» (1Cor 15,45), cioè un nuovo progenitore, come se in lui si riprendesse da capo la storia dell'umanità. Gli venne riconosciuta la divinità in modo esplicito o implicito: «Il Verbo era Dio» (Gv 1,1); «Mio Signore e mio Dio» (Gv 20,28); «il nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo» (Tt 2,13); «in lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità (Col 2,9); «tutto sostiene con la sua parola potente» (Eb 1,3). 

Mentre la crocifissione appartiene alla storia, la risurrezione è una interpretazione di essa (e della persona di Gesù), a partire dalla fede. L’attività e la persona di Gesù vennero sottoposte a tante interpretazioni quante furono le persone o le comunità che se ne interessarono poiché Egli superava qualsiasi possibilità di incapsularlo in una sola definizione. 

Venne proclamato Signore, Emanuele, Sacerdote (lui che era laico) Salvatore, Unigenito, Agnello sgozzato eppure ben ritto in piedi. Tutti questi titoli dicono molto di più sulla sua identità rispetto a quelli di maestro, profeta, messia. Molteplicità non significa eterogeneità, ma pluralità di ritratti che si fondono un unico quadro tutto sommato armonioso. 

La risurrezione di Gesù non rappresenta soltanto un passaggio dalla morte alla vita, ma è un innalzamento presso Dio, alla sua destra, voluto da Dio stesso. Ora, anche in quanto uomo, è collocato su un piede di uguaglianza soteriologica con Dio, tanto da donare lo stesso Spirito. La parola economia, usata dalla Lettera agli Efesini per parlare dell’azione del Risorto, non significa realizzazione, dispensazione, ma, secondo il suo senso letterale, amministrazione, conduzione, guida, governo. La pienezza dei tempi ha il valore continuativo di una durata e comprende l'insieme delle occasioni e dei momenti utili per la salvezza che stanno tra la resurrezione di Gesù e la sua venuta finale. 

Secondo la prima coscienza cristiana, la Pasqua dà inizio alla pienezza del tempo. 

La risurrezione di Gesù, di conseguenza, non è un evento isolato, come ad esempio la resurrezione di Lazzaro. È, piuttosto, una primizia e perciò richiede di essere proseguita e completata dalla risurrezione generale. In questo senso è un evento escatologico che appartiene necessariamente al tempo finale. 

Nella trattazione esposta al cap. 15, dove Gesù Risorto è presentato come il nuovo Adamo (1Cor 15), Paolo pensa soprattutto alla risurrezione universale degli uomini. Il futuro dell'uomo è legato alla vicenda di Cristo ma la novità di Cristo risorto si comprende solo in rapporto alla relazione con la condizione umana (o adamica) di base. Escatologia e cristologia si presentano talmente fuse da condizionarsi e chiarirsi a vicenda.

Lo sguardo sull’uomo è ottimistico. La risurrezione rappresenta la promozione globale dell'uomo tutto intero, l'elemento corporeo insieme a quello spirituale, in opposizione alla tradizione greca, che è d'impronta spiritualistica (dal momento che è interessata soltanto all’immortalità dell’anima, mentre disprezza il corpo). Paolo parla di un «corpo spirituale». Il corpo stabilisce una continuità tra il mondo presente e quello futuro. La Bibbia riconosce un’opposizione tra carne e spirito, ma non tra corpo e spirito. Il corpo è opera dell’atto creatore di Dio e questo suggerisce la positività dell’attuale condizione umana. 

In questo capitolo, parlando di Adamo, infatti Paolo non accenna al tema del peccato (come avviene in Romani 5). L’Adamo contrapposto a Cristo  non è l’uomo contrassegnato dal peccato ma semplicemente l’uomo creato e mortale il quale nel tempo presente vive una situazione misera rispetto a quella del Risorto. Tuttavia ora viene annunciata la vittoria escatologica sulla morte. Il nemico estremo, allora, non è il peccato ma la morte, intesa non in senso spirituale ma fisico. 

È possibile, allora, stabilire un confronto tra Gesù terreno ed ogni altro uomo. Egli visse realmente come compartecipe del primo Adamo. Il corpo “psichico”, cioè terreno, non ancora trasformato dallo Spirito, non è di necessità peccaminoso perché nel suo corpo “psichico”, Cristo fu tentato come noi in tutto senza commettere peccato. 

Piuttosto Paolo evidenzia una  differenza tra “un prima” e un “poi”, tra una prima creazione (denominata terrestre o psichica) e un’ultima creazione (denominata pneumatica). Non è possibile farle coesistere? Esiste una inconciliabilità tra mondo presente e futuro? Per rispondere a questo interrogativo dobbiamo prestare attenzione al concetto di «Spirito vivificante», un attributo assegnato a Gesù. Lo Spirito ha vivificato Gesù facendolo risorgere dai morti e spesso nel Nuovo Testamento lo Spirito viene identificato come Colui che vivifica. Questa azione raggiungerà il suo culmine nella vita eterna ma Cristo è diventato «Spirito» già a partire dalla Pasqua e quindi anche il tempo presente riceve un influsso salvifico da Lui. Questa azione salvifica è risanante ma anche elevante. La salvezza è già parzialmente ma realmente presente, connessa alla signoria di Cristo. Il suo Spirito abita già nel cristiano, in vista della tappa definitiva. 

Chi aderisce a Cristo nella fede partecipa al momento decisivo della salvezza. Per i cristiani è giunta la «fine dei tempi» (1 Cor 10,11). 

Il primo segno del compimento dei tempi consiste nell’effusione dello Spirito, annunciata dal profeta Gioele (3,1), un’effusione universale, senza distinzione tra giovani e vecchi, schiavi e schiave. Essa si verifica nella Chiesa (At 2,17). L’evento di Pentecoste è un segno della venuta degli ultimi tempi (Cf Ez 36,26; Is 44,3). Lo Spirito non è soltanto un principio di vita interiore, ma è soprattutto un impulso e una forza per la testimonianza; è una realtà potente che dinamizza i suoi beneficiari (At 1,8). 

L’intervento divino già «qui ed ora» cambia le cose alla radice. La novità non è rimandata alla fine dei tempi, come avviene nell’apocalittica. 

Si spiega così l'idea di rinascita, che si trova in bocca Gesù nel suo colloquio con Nicodemo (Gv 3,3-5). Addirittura, secondo Paolo, chi è unito a Cristo già realizza in sé e vive la novità prevista al «compimento dei tempi (eschaton)». Non si tratta di un ritorno all'indietro verso gli inizi dell’umanità, bensì di un dato nuovo, connesso con l'Ultimo (Cristo), non con il primo Adamo. Questo aspetto va tenuto presente per correggere la tesi che vede Paolo proteso verso una ritorno imminente di Cristo. In realtà per chi è in Cristo, la fine è già sostanzialmente arrivata, come certifica l'intima unione con lui mediante il battesimo che implica la morte dell'uomo vecchio. In questo senso Paolo condivide il concetto giovanneo di vita eterna già iniziata (Gv 5,24). 

I battezzati sono rigenerati al punto da essere costituiti in uno stato di santità, in uno stato di rinnovamento completo. Paolo definisce i suoi destinatari “santi”, come del resto tutta la tradizione biblica ritiene che nel popolo eletto sia presente una santità oggettiva, connessa con la sua elezione e la partecipazione alla stessa santità di Dio. Questa qualità o santità di cui viene dotato ogni battezzato non è di ordine morale, quindi non è acquisibile con il personale sforzo etico, ma consiste in uno stato di base che è anteriore a ogni impegno individuale, quale dono immeritato, libero e gratuito di Dio. Su questa linea si pone l'intero discorso circa la giustificazione per fede, cioè per grazia. Anche il concetto di santificazione, raccomandata in alcuni passi, si spiega come trasposizione sul piano etico di una condizione pre-morale. 

La vita cristiana è il termine a cui miravano le Scritture (cf. 1 Cor 10,11): considerando le vicende d’incredulità di Israele nel cammino nel deserto, Paolo esorta: badate che ciò non avvenga anche a voi. 

Esiste un parallelo tra il compimento delle Scritture realizzatosi in Cristo e il loro compimento nella vita cristiana. Il “compimento dei tempi” non avviene soltanto oggettivamente in Cristo, al di fuori di noi, ma anche nella nostra stessa esistenza cristiana, nella nostra soggettiva esperienza di fede e di amore. Il cristiano partecipa «alla fine», è personalmente coinvolto. La pienezza dei tempi non è soltanto contemplata come un evento esterno, compiutasi nell'esistenza di Cristo, ma viene anche vissuta come un evento che tocca nel vivo ogni cristiano. Certo non si darebbe alcuna fine dei tempi, se non ci fosse stato l'evento Cristo. Il dato cristologico è determinante, è il fondamento, il punto di svolta. È in Cristo che avviene il cambiamento di era, ma il cristiano deve essere cosciente che la svolta coinvolge lui stesso. Tutto è avvenuto perché lui ormai sappia di vivere, per grazia, alla fine dei tempi: «Ecco ora il tempo favorevole! Ecco ora il giorno della salvezza» (2 Cor 6,2). 

Ciò è confermato dall'Apocalisse quando annuncia la sconfitta del grande drago, del serpente antico, avvenuta mediante l’effusione del sangue dell'Agnello: «Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio e la potenza del suo Cristo» (Ap 12,10). 

Secondo il quarto Vangelo, con la personale adesione a Cristo, già si sono compiuti per il cristiano gli eventi escatologici della resurrezione e del giudizio (Gv 5,24-25); si può parlare a suo riguardo di escatologia realizzata o inaugurata. Maria, la sorella di Lazzaro attesta riguardo al destino del fratello: «So che resusciterà nell'ultimo giorno». Alla questa fede tradizionale Gesù contrappone una nuova visione delle cose: «Io sono la resurrezione la vita.., chiunque vive e crede in me non morirà in eterno» (Gv 11,24-26). Il messaggio decisivo di Giovanni è l’ottenimento di una vita eterna, a cui è correlato quello di resurrezione. La fede è un affidamento a Cristo, un’autoconsegna radicale a Colui che è personalmente «la via la verità e la vita» (Gv 14,6). 

Dialettica tra presente e futuro

La fede cristiana passa dalla certezza del tempo già compiuto all'attesa di tempi ancora da compiersi: «Proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la meta [...]. La nostra cittadinanza, infatti, è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo» (Fil 3,13). L'elemento nuovo non è tanto l'escatologia, bensì la tensione fra il decisivo “già adempiuto” e il “non ancora completato”, tra presente e futuro. L'idea cristiana di una fine dei tempi rimandata al futuro ha la sua matrice nel giudaismo e nell'apocalittica giudaica. 

Ci fu un’attesa da parte delle primissime generazioni cristiane di una fine imminente, in modo da rimanere deluse per la mancata venuta del Signore? 

I cristiani delle generazioni successive alle prime non percepirono affatto la mancata venuta di Cristo come un problema e non c'è traccia di questa nelle fonti antiche. Se ne diedero una ragione teologica come leggiamo in una lettera della seconda generazione: «Davanti al signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo. Il Signore non ritarda nell’adempiere la sua promessa, come certi credono, ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca ma che tutti abbiano modo di pentirsi. Il giorno del Signore verrà come un ladro» (2 Pt 3,8-10). 

L’immagine del ladro indica l’impossibilità di calcolare la fine. 

I termini Apocalisse o apocalittico non erano sinonimi di catastrofe. L'Antica letteratura di questo genere non si proponeva di coltivare l’inquietudine o la paura ma al contrario, tendeva a spiegare l'origine del male del mondo e ancor più a offrire un messaggio di speranza alle vittime. Emerge una vera e propria teologia della storia che vede in Dio il conduttore degli avvenimenti al quale la fede Cristiana associa del Cristo Risorto. 

Rimane intatta, tuttavia, per il cristiano una proiezione in avanti, pur sapendo che essa è motivata da una novità ormai resa presente. L'autore della Lettera agli Ebrei paragona la speranza del futuro ad un’ancora. Il paragone con questo strumento è quanto mai sorprendente ed efficace: sorprendente perché si tratta di un’ancora gettata in avanti o in alto invece che in basso ed è efficace perché nulla più di essa comporta l'idea di salvezza e stabilità in mezzo al turbinare dei flutti. La vera ancora è il crocifisso glorificato a cui la comunità si aggrappa come ad nuovo sommo sacerdote che ha offerto se stesso ed è entrato come precursore per noi al di là del velo del Santuario. Cristo è il nostro predecessore, dunque la speranza è soprattutto oggettiva: non si tratta del nostro personale soggettivo sperare, quanto un senso di fiducia verso colui al quale tendiamo. 

Viene annunciato: «la speranza che vi attende nei cieli» (Col 1,5). «Cristo in voi, speranza della gloria» (27). Associare Cristo e la speranza significa semplicemente sapere che essa è assimilata alla definitiva vita divina a cui noi siamo destinati in Cristo. Sullo sfondo c’è una convinzione apocalittico-giudaica secondo cui il giusto possiede già un tesoro in cielo. La differenza notevole che intercorre tra lo scritto paolino e quelli giudaici, sta nel fatto che per i cristiani il tesoro in cielo non sono le nostre buone opere, ma è Cristo in persona: ed è come dire che la salvezza non ce la procuriamo noi da soli ma in Lui. 

In ogni caso è al futuro che lo sguardo viene rivolto. Questo significa che il tempo storico è gravido di prospettive, nonostante le derive nichilistiche che ritengono inutile il senso del tempo e della storia, il senso del futuro. Il tempo, infatti, è abitato da una pienezza per il dono della presenza di Gesù Cristo, morto e risuscitato; esso perciò è pieno di momenti favorevoli, in cui poter vivere secondo il ritmo della speranza che apre al futuro; e quanto si realizza in esso è decisivo per la pienezza ultima, per il futuro assoluto e definitivo.

Riguardo all’escatologia cristiana, dobbiamo distinguere tre aspetti costitutivi: il collettivo, l’individuale e considerare il valore qualitativo del futuro che ci attende. 

Alcune immagini accentuano il carattere comunitario o universale dell’azione definitiva di Dio: l’annuncio del giudizio universale, l’inaugurazione del Regno di Dio, la partecipazione ad un banchetto, la descrizione della Gerusalemme celeste, il millennio, le immagini negative (Geenna, fuoco tenebre…). La fede cristiana rifiuta il tema della reincarnazione. 

Il messaggio del Nuovo Testamento sembra privilegiare un’attesa definitiva di carattere universale ma l’incontro personale con Cristo è previsto in alcuni passi. 

Proprio Paolo, che pur testimonia l'attesa della venuta ultima del Signore Gesù tale da coinvolgere tutti insieme, scrive nella Lettera ai Filippesi di non avere ancora personalmente raggiunto la mèta, e precisa: «Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch'io sono stato conquistato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la meta, al premio della chiamata dall'alto da parte di Dio in Cristo Gesù» (Fil 3,12-14). L'idea soggiacente è quella del premio (3,14), inteso come pieno guadagno di Cristo, a motivo del quale ogni altra cosa è considerata spazzatura (3,8). Le categorie usate sono di tipo agonistico, sportivo e questa constatazione in qualche modo relativizza il linguaggio impiegato (cf 1 Cor 9,4). L'intento è quello di richiamare i lettori, in quanto cristiani, al senso di serietà e di responsabilità nella loro vita morale, che ha come sbocco un finale celeste. Secondo Paolo esiste un termine, anzi un traguardo da raggiungere, ed egli non lo ha ancora conseguito in pienezza. 

Nel Nuovo Testamento il piano individuale è testimoniato anche da altre immagini. Nella parabola del ricco avaro si sottolinea che Dio sta dalla parte dei poveri ma il ribaltamento è prospettato non alla fine dei tempi, ma già al termine della storia individuale di ciascuno, diversamente da quanto si costata a Qumran. 

Ricordiamo l'immagine presente nel termine Paradiso, parola di origine persiana che indicava un giardino recintato e quindi un luogo di riposo e di delizie. Col tempo acquisì una valenza religiosa per indicare la dimora celeste di Dio e dei giusti. Nel racconto del buon ladrone Gesù gli assicura il Paradiso nell’«oggi»  ma né Gesù né l'evangelista precisa il modo in cui si realizza l'essere con il Signore. Si tratta però di una salvezza non solo provvisoria ma piena è definitiva, come ben commenta Sant'Ambrogio: La vita è stare con Cristo, poiché dove c'è Cristo, c'è la vita, c'è il regno. Si potrebbe dire: dove c'è Cristo, c'è il paradiso. 

Tutte queste varie forme di linguaggio non sono di tipo informativo ma performativo. Più che comunicarci una rappresentazione descrittiva dell'aldilà tendono a incidere piuttosto sul comportamento della vita presente nei suoi rapporti con la vita futura. Si tratta di un linguaggio immaginoso, metaforico e la metafora implica una somiglianza approssimativa con la realtà. È certamente vero che la macrostoria del mondo non finisce con la microstoria del singolo e nessuno può pretendere di esaurire in sé la storia universale. C'è un di più che supera il singolo ed è ciò che riguarda tutti insieme. L'individuo è legato al destino collettivo ma è anche vero che con la morte individuale finisce una storia. Ciò che segue ad essa appartiene non più al provvisorio ma al definitivo. In quel momento, per il Cristiano, dopo che ha già vissuto pur in gradi diversi una comunione con Cristo, avviene un ulteriore incontro con lui, quello irrevocabile perché di un incontro si tratta. 


Fin dalle sue origini il cristianesimo crede fermamente, insieme a Israele, che la salvezza ultima dell'uomo non sia soltanto spirituale. Essendo stato creato insieme al cosmo e come parte di esso, anche il cosmo intero dovrà partecipare alla promozione finale e definitiva dell'uomo. Entrambi si salvano o si perdono insieme. C'è una inestricabile connessione tra l'uomo e il creato : se egli è libero e uno con se stesso, anche la natura sarà libera, dignitosa,  riconciliata. C’è una responsabilità dell'uomo nella Redenzione del Creato: più egli realizza la sua natura di figlio di Dio più questo si riverbera sul creato che recupera il proprio splendore originario, anteriore ad ogni avvenimento (Rm 8,19-23). 

La bella immagine del parto si applica ad entrambi, all'uomo e al cosmo, ma all'uomo è anche affidato uno speciale incarico, quello della levatrice. L'immagine del parto, tuttavia, esclude l'idea che il futuro escatologico sia un semplice ritorno al passato delle origini e quindi un loro ripristino. Non si parla di un ritorno al Paradiso perduto. Non è in gioco una restaurazione, si tratta invece di un «novum». 

Altre immagini parlano di cataclismi terrificanti ma queste descrizioni non devono inquietare più di tanto, in esse si presenta uno stereotipo collaudato da tutta una serie di scritti profetici e apocalittici. 

Su questa linea ma i termini più sobri sono rappresentati da quei testi che insistono sulla novità in quanto tale senza attardarsi sulla descrizione delle eventuali catastrofi: «Noi aspettiamo nuovi cieli e una nuova terra nei quali avrà stabile dimora la giustizia» (2 Pt 3,13). 

Alle immagini del parto e dei sommovimenti cosmici se ne aggiunge un'altra, quella della Nuova Gerusalemme. 

Fin dalle sue origini il cristianesimo non si rassegna al presente in un atteggiamento rinunciatario. Guidato dal principio secondo cui Dio non si incontra tanto nella staticità della natura quanto nel dinamismo della storia, sa che l’oggi è sempre precario e comunque superabile. Perciò coltiva un sogno: un mondo in cui la giustizia abiti in modo stabile, un mondo in cui scompaiono finalmente le lacrime del dolore e della morte. 

Il giudaismo prima ancora del Cristianesimo attribuisce a Dio il rinnovamento. 

Paolo qualifica il futuro ultimo del mondo con l'espressione: «Dio sarà tutto in tutti» (1 Cor 15,28), cioè tutte le cose raggiungono finalmente in Dio la loro pienezza e perfezione. Supponendo che Dio è amore, l'inferno consiste semplicemente nell'assenza di Dio. Le parole dell'apostolo prospettano nient'altro che la fioritura dell'amore in tutte le relazioni interpersonali, infatti solo l'amore non avrà mai fine. La concezione cristiana del Paradiso non consiste nel pensarlo come un luogo ma come una situazione qualitativa, una dimensione di vita, certo la migliore che si possa immaginare. Dio non sarà più di fronte al creato ma dentro di esso.

Il giorno ultimo

Il cristianesimo ha recepito da Israele l'idea di una venuta escatologica di Dio stesso o comunque del Messia come suo rappresentante per mettere fine alla storia e inaugurare un mondo nuovo. L'espressione è frequente già nell'Antico Testamento, particolarmente nei libri profetici e con tratti minacciosi, mentre il Nuovo Testamento, nel senso strettamente teologico (in riferimento a Dio), la impiega solo quattro volte e almeno in parte con tinte radiose. 

Qui viene usato con una certa frequenza lo stesso costrutto ma in termini chiaramente cristologici, dove cioè Kyrios serve per designare non il Dio di Israele (Adonay) ma il Signore Gesù Cristo. 

Un altro termine usato è quello di parousia. Nell’ellenismo indicava la visita solenne di un sovrano in una città. Mentre i cittadini dell’impero attendevano il sovrano in un luogo, i cristiani attendono il Signore nel tempo. Il termine parousia non indica mai la prima venuta di Cristo nella carne né la sua presenza interiore nei credenti. 

I passi neotestamentari sottolineano lo stare protesi verso il futuro; viene valorizzata la tensione di chi attende con ansia e con gioia un incontro decisivo. La posizione è la medesima del corridore nello stadio che è proteso in avanti. «So soltanto questo dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù » (Fil 3,13-14) 

Certo non si tratta di un avvento assoluto, come se colui che viene non fosse ancora noto poiché già ci fu un avvento legato all'incarnazione e alla resurrezione di Cristo. La sorpresa non potrà essere totale: l'avvenire cristiano è una specificazione e un complemento di ciò che egli conosce. La resurrezione seguì la croce, e l'avvento definitivo segue il corso storico. 

Soprattutto la cosa ultima non è un fatto astratto o materiale neutro o impersonale, bensì una persona viva di cui sappiamo non solo che deve venire ma che è venuta e che viene ed è già in cammino per incontrarci. Non si dice che noi abbiamo speranza, come se essa esprimesse soltanto un atteggiamento soggettivo di insicurezza, ma si dice che la nostra speranza ci attende nei cieli, dove l'incertezza dell'attesa è chiaramente sostituita dalla certezza del traguardo. 

Questo è il senso inerente alla definizione di Dio e di Cristo stesso come il Veniente (ho erchomenos). A monte di questa idea c'è l'antico concetto biblico di Dio «colui che è» ma anche «colui che sarà» (significato duplice del Nome di Dio rivelato a Mosé). Infatti egli è il Dio dell'esodo, dell'uscita, della liberazione, del superamento, dell'oltre, quasi che egli non fosse ancora mai completamente se stesso o meglio come se prospettasse all'uomo orizzonti sempre ulteriori essendo il Dio delle mille speranze. 

Quando queste meravigliose promesse si realizzeranno? La tentazione è quella di cercare di stabilire delle scadenze. Alcuni passi sembrano ammettere una possibile previsione della venuta del Signore ma i segni sono fenomeni cosmici di difficile spiegazione. Altri passi affermano l’impossibilità di previsioni: il giorno verrà come un ladro nella notte. Resta l’invito paolino a fare buon uso del tempo (Ef 5,16).


domenica 13 aprile 2025

Figure messianiche

 


IL TEMPO LINEARE NEL GIUDAISMO

Il pensiero sul tempo, coltivato da Israele, è di altro genere e vale come presupposto della concezione cristiana, essendo di impostazione lineare. Si tratta della prospettiva messianica che, com'è noto, non appartiene alla tradizione culturale greco-romana. Non fa eccezione neppure il canto virgiliano sulla restaurazione dei saturnia regna, dove il discusso accenno alla nova progenies che viene dall'alto del cielo (denominata puer), se non è una metafora del tempo che ricomincia il suo ciclo, si riferisce verosimilmente al figlio (ma sarebbe poi stata una figlia) che Marco Antonio avrebbe generato con Ottavia, sorella di Ottaviano, dopo il patto di Brindisi stipulato tra i due triumviri nel 40 a.C. e che, suggellato da quel matrimonio. Si pensava avrebbe posto fine a ogni controversia riportando Roma all'età dell'oro. Benché dopo il IV secolo si sia cercato di dare una lettura cristiana di quei versi, la distanza dalla concezione messianica si conferma, se non altro, con l’idea di un ritorno indietro alla protologia (si vedano i verbi redit, redeunt) che sostituisce quella ebraica di una prospettiva escatologica. 

1. II messianismo

Fenomeno sostanzialmente interno al giudaismo, il messianismo esprime la speranza in un futuro radioso per il popolo d'Israele, e non solo, orientato verso «nuovi cieli e nuova terra» (Is 65,17; 66,22; ripreso in 2Pt 3,13; Ap 21,1) con l'intervento mediatore di un personaggio inteso come ultimo rappresentante e luogotenente di Dio. Per la verità, nell' Israele antico esisteva un messianismo senza Messia, secondo cui alla fine dei tempi sarebbe intervenuto Dio stesso a operare in prima persona la redenzione completa di Israele, oltre che del cosmo intero. Il concetto profetico di «giorno del Signore» (Am 5.18-20; GI 2,1.1 1; 3,4; Abd 15; Sof 1,7. 14-1 8; 2,2-3: Zc 14,1; Mi 3,23) esprime appunto l'attesa di questo intervento divino per la purificazione di Israele (Is 4,4-5) e l'instaurazione di una novità cosmica. Tuttavia, recuperando l'idea della svolta operata da David nella storia del popolo di Israele, prese sempre più corpo l'idea di un personaggio caratterizzato con i tratti regali di un discendente di quel re, che era stato il primo ad essere unto come tale. La nostalgia della monarchia portò anche dopo l'esilio babilonese a parlare dell'Unto per eccellenza (detto in ebraico māšîah), sia decantando Betlemme come luogo di provenienza di «colui che deve essere il dominatore in Israele» (Mi 5,1), sia come colui che «ricostruirà il tempio del Signore» (Zc 6,12), secondo un preciso riferimento storico a Zorobabele.

Si impose cosi come tipica e fondamentale la figura di un Davidide e, quindi, di un re, che già Isaia qualifica chiararmente come «germoglio di Iesse» s 11,1), e Geremia come un germoglio giusto per Davide un discendente che sieda sul trono della casa d'Israele («Rialzerò la capanna di Davide» (Amos 9,11). 

Ma spetterà a una tradizione letteraria posteriore sviluppare questa tematica. Così gli apocrifi Salmi di Salomone (metà del I secolo designeranno esplicitamente questo germoglio di Davide» (17,2la), oltre che come «servo» e «unto del Signore. La necessità di un personaggio del genere, benché emersa in epoca tarda, era ritenuta doverosa e inevitabile, sia perché la dinastia degli Asmonei aveva instaurato una monarchia irregolare, non essendo essi discendenti di Davide, sia perché a Gerusalemme nel 63 a.C. era entrato come conquistatore il romano/pagano Pompeo che aveva persino profanato il Tempio. 

Pur tralasciando le varie figure di "rivoluzionari" aspiranti alla regalità, sorte tra il I secolo aC. e il I secolo d.C., ancora la rabbinica Preghiera delle diciotto benedizioni alla quindicesima benedizione invoca Yhwh perché restauri presto il regno di Davide. Tuttavia, nel pensiero ebraico del periodo persiano cioè nel periodo compreso tra Ciro il Grande e Alessandro Magno, cominciarono ad apparire altri tipi di figure, per cosi dire anch'esse messianiche, caratterizzate da inediti tratti superumani e comunque sganciate dalla discendenza davidica. Queste figure sono essenzialmente cinque. 

 - Un profeta escatologico, identificabile sia con Elia che era stato rapito in cielo, sia con Mosè (con il suo preannuncio in Dt 18,15.18, riecheggiato a Qumran in 4QTestim 5-8).

 - II patriarca pre-diluviano Enoc, anche lui sottratto alla morte (Gen 5,24) e diventato figura centrale di un'ampia letteratura apocrifa detta appunto "enochica"14.

 - Il sacerdote Melchisedeq (Gen 14,17-24; Sal 110,4), il quale, presente nei manoscritti di Qumran (11QMelch; 4QFlor 1,10-13), dà corpo a una sorta di inedito messianismo sacerdotalele, contrapposto al deprecato sommo sacerdozio del tempo.

- I Figlio dell'uomo annunciato in Dn e poi ampiamente presente nel cosiddetto Libro dell'apocrifo l Enoc 37-71 17, -A parte va pure elencata almeno la figura dell'isaiano Servo sofferente (Is 52,13-53,12), il cui impatto però è piuttosto problematico. 

In ogni caso, al tempo di Gesù è ben attestata una speranza messianica dalle forti connotazioni nazionali politico-terrenistiche, con una loro realizzazione tanto storica quanto escatologica. Ed è una prospettiva che si trova attestata persino nel giudaismo ellenistico e precisamente in Filone Alessandrino, sia pure raramente, in un paio di testi da considerarsi messianici. Un dato è sufficientemente chiaro e importante ai nostri fini, ed è che secondo il mainstream judaism al volgere dell'era il Messia, non certo quello regale, non è destinato alla sofferenza. In Israele, com'è noto, la fede yahwistica favori lo sviluppo di una concezione del tempo e della storia che ha certamente delle connotazioni originali rispetto alla tradizione culturale greca, almneno al momento in cui dopo l'esilio babilonese la rilessione in materia diventa più matura e organica. Possiamo vedere questa originalità caratterizzata da tre componenti, diverse ma integrantisi a vicenda, che richiamo in modo sommario. La prima è che Dio stesso conducemgli avvenimenti secondo un proprio piano che, per quanto insondabile per l'intelligenza umana, non è perciò meno affidabile, distinguendosi comunque da chi ritiene che «il tempo è come un bambino che gioca lanciando i dadi» (Eraclito, Frammento 52); da questo di vista, la storiografia ebraica intende non tanto sottrarre all'oblio le cose degne di memoria quanto piuttosto leggere nella successione degli avvenimenti un senso, dato dalla presenza della mano di Dio che di volta in volta avvia, protegge, punisce o ricompensa, il suo popolo. 

La seconda componente consiste in una vịsione o concezione della storia in cui vengono compresi anche tutti i popoli, gentili inclusi, sia pur facendo perno su Israele stesso; in questo caso, l'universalità dell'orizzonte storico può prendere due forme: o partire dalle origini comuni a tutti e, quindi, dall'inizio stesso dell'umanità, in pratica dalla creazione; o proiettarsi su di una conclusione definitiva in cui tutti sono in qualche modo coinvolti. Questa in effetti è la terza componente caratteristica da mettere in in luce: lo sbocco escatologico del tempo; il divenire storico non non è un ápeiron indefinito; al contrario, cè nel futuro un Signore» che, se da una parte metterà fine al presente stato di cose negativo, dall'altra inaugurerà la fase di una nuova creazione in cui non ci saranno più né lacrime né lutto e il Signoresarà tutto in tutti. In questa prospettiva, il mito dell'età dell'oro viene capovolto e, se non viene inteso come il ripristino di una precedente condizione primordiale, è certamente preconizzato come una novità inedita a cui l'uomo è destinato (nonostante la provocatoria negazione di Qo 1,9: «Non c'è nulla di nuovo sotto il sole»). Elementi di queste tre caratteristiche si trovano certamente sparsi nel profetismo classico (cfr. rispettivamente, Is 46,10; 66,18-19; Am 5, 18-20).

2. La letteratura apocalittica

Ma è soprattutto nella successiva letteratura apocalittica che queste tre caratteristiche trionfano e vengono apertamente tematizzate. In particolare, gli studiosi del genere apocalittico sottolineano l'emergere di una netta periodizzazione della storia, la cui peculiarità però non va vista tanto nella suddivisione del tempo secondo la successione di regni o di settimane di anni (cfr. Dn 2 e il sogno della statua dai piedi d'argilla) quanto piuttosto nel ferreo determinismo che la contraddistingue: «La storia appare già scritta tutta da Dio all' inizio del tempo [...1. La periodizzazione è lo strumento più chiaro per esprimere il determinismo: ogni epo ca ha la sua caratteristica cheè quella voluta da Dio: in ogni caso però la storia procede sempre nella stessa direzione» (P. Sacchi). 

Tutto tende verso un ultimo giudizio divino, che non solo rinnoverà l'umanità purificandola dai malvagi, ma coinciderà anche con un rinnovamento del cosmo intero. L’apocalittica però, o meglio una parte di essa, è connotata anche da un'altra caratteristica, che è molto interessante per la comprensione del pensiero paolino. In alcuni filoni di questa letteratura, infatti assistiamo a una parziale svalutazione della Legge, che, se ci sorprende, ci rivela anche quanto complesso fosse il giudaismo delle origini cristiane. Facciamo qualche breve esempio.

Nel fondamentale apocrifo Enoc etiopico (o 1 Enoc), il Sinai e la legge di Mosè non sono la fonte ultima e più autorevole della rivelazione; questa invece rimonta al pre-diluviano Enoc e semmai coincide con la primordiale legge di natura: evidentemente questa è più antica e valida non solo per Israele ma per tutta l'umanità". In particolare, nel Libro dei Sogni (l Enoc 83-90, del II secolo a.C.), che pur descrive ampiamente la storia dell'esodo, compresa l'ascesa di Mosè al Sinai, sorprendentemente non si fa nessun cenno all'alleanza ivi stipulata e, quindi, a una teologia del patto basata sulla legge mosaica; infatti, il dilagare del male nel mondo ha di fatto privato Israele di qualsiasi superiorità nei confronti degli altri popoli: del male il popolo eletto è vittima al pari degli altri. Nel Libro dei Giubilei è vero che il racconto culmina con l' ascesa di Mosè al Sinai, ma chi parla per dare le leggi non è Mosè bensi un angelo. In Oracoli sibillini 3 si parla della Legge come se fosse quella di natura e si omettono le tipiche prescrizioni giudaiche sulla circoncisione e sugli alimenti; a tutti gli uomini è un appello alla conversione (3,624-634), e in particolare alla Grecia (3,740) perché anch'essa possa avere parte alla salvezza escatologica degli eletti. Anche i Testamenti dei dodici patriarchi oftrono spunti interessanti: da una parte, si parla dell'apparizione escatologica di Dio sulla terra non solo «per salvare la stirpe di Israele, e per raccogliere i giusti di fra le genti» (Testamento Neftali 8,3), ma addirittura per convincere «di colpa Israele per mezzo degli eletti fra i pagani» (Testamento Beniamino 10,10); dall'altra, viene prospettata la figura di un sacerdote escatologico che «aprirà le porte del paradiso e devierà la spada puntata contro Adamo» (Testamento Levi 18,10). dove il richiamo ad Adamo rappresenta un evidente superamento della prospettiva israelocentrica e un aggancio alle origini dell'intera umanità. Infine, sappiamo che nella comunità di Qumran la sola osservanza della Legge non è ritenuta sufficiente per la giustificazione, essendo ancor più necessaria l'appartenenza alla comunità stessa, che si autocomprende come della nuova alleanza (1QS 2,25-3,12).

Romano Penna



sabato 12 aprile 2025

Nessun karma per il pentito

 Pietro si mostra molto sicuro; pensa che per l’amore che prova verso il Signore sarà capace di dare la vita per lui. Magari anche noi avessimo questo sentimento! Noi deridiamo l’apostolo per la sua presenzione ma almeno lui aveva questa intenzione. In realtà Gesù sa che per il momento non sarà capace di sostenere questa prova ed allora prega per lui. «Ho pregato per te perché la tua fede non venga meno. Quando ti sarai consolidato, rafforza i tuoi fratelli». Simone Pietro, nonostante il tradimento, riuscirà a conservare la sua fede, grazie alla preghiera di Gesù. Lo ha già perdonato prima ancora che Pietro lo tradisca. Anche noi camminiamo nella fede grazie alla preghiera di Gesù, il quale in cielo, continua ad intercedere per noi. 


Gesù porta con sé in paradiso il ladrone pentito. Non ha fatto funzionare la legge del karma. Questa prevede che ognuno paghi interamente tutte le sue colpe e solo dopo aver compiuto tale espiazione, possa entrare nella pace. Sarà una legge giusta ma è troppo dura. Gesù non esige che ci salviamo da soli accumulando meriti su meriti, espiando tutto. Egli ci regala la sua santità; mette sul nostro conto tutti i meriti che ha guadagnato per noi. Non ha sofferto per il suo vantaggio ma per il nostro. Il modo migliore che abbiamo per ringraziarlo è quello di approfittare della sua generosità. Signore, quando ci accorgiamo d’essere poveri, insegnaci ad arricchirci impossendandoci del tuo tesoro che hai accumulato per noi


lunedì 7 aprile 2025

Reincarnazione e cristianesimo

Fin dalle origini il cristianesimo si distingue dalle religioni e dalle filosofie orientali, specie indiane, per il fatto che non prende affatto in considerazione il loro postulato della reincarnazione. In India, in effetti, sono fondamentali i concetti di karma (secondo cui, per il principio di causa-effetto, le azioni degli uomini, buone o cattive, devono essere ripagate in maniera corrispondente in rinascite successive) e di samsara (che è il ciclo stesso delle trasmigrazioni). In questa prospettiva si arriva fino a sostenere che le menomazioni fisiche o psichiche di un individuo non sono altro che punizioni di colpe commesse in esistenze precedenti. 

Per la verità, anche in Occidente l'antica Grecia conosceva almeno in parte la metempsicosi o, meglio, metensomatosi, più tardi detta palingenesi o rigenerazione: essa è un'eredità orfica e pitagorica (circa un principio divino imprigionato in ognuno di noi) che a partire da Platone, pur con variazioni, giunge fino al neoplatonismo della tarda antichità. In ambito giudaico, abbiamo una discussa testimonianza di Flavio Giuseppe, secondo cui Farisei ritenevano che l'anima è immortale ma che soltanto quella dei buoni passa in un altro corpo, mentre quelle dei malvagi sono punite con un castigo senza fine; egli si riferisce con ogni probabilità alla resurrezione .



A parte l'assoluta inconsistenza presunto di un presunto fondamento in specifici, inesistenti testi biblici, si può chiedere quali siano i motivi teoretici di derivazione biblica che rendono inaccettabile la reincarnazione. Sono sostanzialmente quattro, di cui i primi due hanno a che fare anche con la visione filosofica delle cose. 

1. Secondo la Bibbia l'uomo è concepito in modo unitario come un tutt'uno costituito pressoché inseparabilmente di anima e di corpo. Adamo è formato e definito semplicemente come un essere vivente. La resurrezione conferma questa visione. Contrariamente alla concezione platonica l'anima e il corpo non sono due unità accostate e unite insieme, come se le anime presistessero da sempre e si fossero unite al corpo solo in un secondo tempo: questa visione delle cose intende l'anima come la parte più nobile dell'uomo e il corpo soltanto come una prigione o al massimo un alloggio estrinseco. La speranza cristiana concerne non soltanto l'immortalità dell'anima ma tutto l'uomo compreso il corpo.

2. Un secondo motivo consiste nella visione biblica del tempo e della storia. Mentre molte religioni concepiscono il divenire in forma circolare come un eterno ritorno, sì che ogni evento non è che la ripetizione di un archetipo primordiale, la Bibbia invece pone con forza l'accento sulla unicità e irripetibilità dell’agire di Dio. Le sue scelte sono senza pentimento, egli non deve ripensarci a rifare di nuovo ciò che ha già fatto una volta. Lo si vede soprattutto nell'evento Gesù, nella sua vita morte e resurrezione che è qualcosa accaduto una volta sola e una volta per tutte. 

Ciò vale analogamente anche per la vita di ogni persona umana. Le esortazioni a riscattare il tempo presente e ad approfittare di «quest'oggi» invitano a valutare saggiamente le occasioni che nella vita attuale ci si presentano come uniche. La stessa cosa vale per le sofferenze patite in questo mondo: esse non sono paragonabili alla Gloria Futura che dovrà essere rivelata in noi.

3. Il terzo motivo ha a che fare con la tipica teologia cristiana della grazia, secondo cui la compiuta realizzazione dell'uomo non è tanto il frutto dell'impegno personale di ciascuno piuttosto dona incondizionato della grazia di Dio. Il principio del karma ritiene che l’agire umano determini meccanicamente il destino ultimo di chi lo compie. Ciò che conta allora è la prestazione morale del singolo in quanto richiede necessariamente una ricompensa adeguata, la quale si concretizza in un ciclo di rinascite diverso per ciascuno. Per il cristianesimo invece tutto parte si fonda sulla gratuità immotivata di Dio, il quale è misericordioso e imparziale al punto da elargire in modo indistinto a tutti la luce e la forza della sua superiore grazia.

4. L'ultimo motivo è di ordine cristologico: come Gesù Cristo ha realizzato una volta per tutte la redenzione dell'uomo con l'irripetibilità della sua morte in croce così egli verrà un'altra sola volta per mettere termine alla presente, instabile situazione del mondo, e inaugurarne una nuova, risolutiva. La presenza di Cristo tra gli uomini conosce un duplice momento: una volta nella storia passata e una volta nel compimento futuro, sia che questo secondo riguarda il singolo al momento della morte oppure l'insieme alla fine del mondo. Non che si tratti di incontri fugaci. Tutt'altro: Cristo si presenta per «essere con», cioè condividere una storia, una vita ma l'inizio degli incontri è puntuale, e soprattutto non c'è una terza volta!

La dottrina della reincarnazione, in definitiva, implica quella dell 'auto-redenzione, secondo cui ciascuno costruisce la propria salvezza da solo, esclusivamente in base alle proprie azioni. Ciò conduce all' idea terribile di una totale solitudine, come si legge in un antico testo indiano: «Terminata questa vita, non giovano né padre, né madre, né figli, né spose, né parenti: soltanto il merito permane. L'uomo nasce solo, solo muore, solo, poi, fruisce del merito, solo del demerito» (Manavadharmasastra, cit Dizionario delle religioni, Einaudi, Torino 1993, 401). Questa prospettiva, come si vede, è lontanissima dall'idea di comunione che costituisce la materia prima e fondamentale del cristianesimo. Qui l'ultima perfezione dell'uomo è solo in Dio, anzi è lui stesso. La comunione con lui e la vita in lui non possono mai essere propriamente opera dell'uomo, ma è un dono che comunque Dio non lesina a nessuno. Perciò né una vita né molte vite possono bastare per giungere alla perfezione. Dio è un orizzonte talmente vasto e irraggiungibile che egli si accontenta del limite a cui ciascuno perviene inquesta vita.

Romano Penna, Ecco ora il tempo favorevole, San Paolo, 2024, 127 ss.