mercoledì 14 maggio 2025

Boccaccini-Mariotti



Breve sintesi del libro Boccaccini e Mariotti. 

Studio molto accurato, dal grande valore ecumenico nel dialogo ebraico-cristiano.

Status quaestionis aggiornato e completo per ogni tematica affrontata


La via di Damasco

(129) L'esperienza di Paolo sulla via di Damasco è stata definita 1) prima come conversione, di tipo sia religioso che etico, da una religione a un'altra, poi 2) come reinterpretazione radicale della legge che avrebbe spinto Paolo ai margini del giudaismo; infine 3) come un passaggio da un gruppo giudaico ad un altro all’interno della religione d’Israele. (129)

Superando la tradizionale visione di Paolo contro il giudaismo, una nuova prospettiva ha spostato l'accento sui rapporti complessi tra Paolo e il giudaismo, sottolineando la perdurante ebraicità di elementi importanti del suo pensiero e del suo approccio esegetico alle Scritture di Israele. 

La maggior parte degli esperti è giunto oggi a condividere l'idea che, nell'autocomprensione di Paolo, l'evento di Damasco da una parte fu una chiamata profetica, dall'altra che il contenuto di questa chiamata fu una rivelazione del Gesù risorto. 

Se quindi da un lato Paolo si sentì investito di una missione come gli antichi profeti biblici e la sua esperienza si è narrata con queste categorie, dall'altra questo evento gli conferì la consapevolezza che con la resurrezione di Gesù l'era escatologica fosse arrivata e che quindi il presente andava vissuto con la consapevolezza dell'imminenza del giudizio finale. La figura di Paolo emerge come quella di un profeta ebreo apocalittico, fattosi seguace del messia Gesù il quale visse la sua emissione tra i gentili nell'imminenza del giudizio e in quest'ottica elaborò il proprio pensiero. 

Dalla comprensione della conversione paolina come abbandono del giudaismo siamo così passati all'abbandono dell'idea stessa di conversione. Il giudaismo non è la religione di origine di Paolo dalla quale egli si sarebbe allontanato da apostata. Egli disse morì ebreo e non ripudiò la religione dei suoi Padri, anche nel momento in cui si unì al movimento messianico dei seguaci di Gesù. 

La sfida è piuttosto quella di capire che tipo di ebreo Paolo divenne dopo la sua esperienza sulla via di Damasco. Affermare che Paolo fosse ebreo non significa infatti sostenere che gli fosse come tutti gli altri, un pensatore privo di originalità. La presenza di elementi propri, tuttavia, non lo colloca al di fuori del giudaismo, come avviene per altre figure preminenti come Filone Alessandrino, Giuseppe Flavio, o il Maestro di giustizia (Qumran). Ogni gruppo giudaico aveva le sue peculiarità che non hanno alcun parallelo in alcuno degli altri gruppi. (130-131)

Il giudaismo del tempo di Paolo non era monocentrico, ovvero costruito attorno a un unico polo normativo, ma policentrico, esprimendosi in un'ampia varietà di gruppi e movimenti. La rivelazione e la chiamata che l'apostolo ricevette sulla via di Damasco non lo hanno separato dalla tradizione giudaica e dalla fede dei padri ma lo hanno posto come seguace di Gesù nella ricca eredità spirituale della religione di Israele. 

È di questa originalità e della sua definizione e delimitazione che i massimi commentatori di Paolo si stanno occupando oggi a livello internazionale non di antiquate fantasiose speculazioni sul Paolo ellenista, nemico del giudaismo e inventore del cristianesimo e neppure di una ricerca semplicemente volta a individuare i perduranti caratteri ebraici del suo pensiero. Paolo non è un apostata né un cristiano di origine ebraica, non è né antigiudaico né post-giudaico ma un ebreo seguace di Gesù. (132)


Altri spunti di ricerca:

1. Paolo si riteneva un fedele ebreo ma alcuni suoi contemporanei non lo credevano tale e fu accusato di aver abbandonato la legge. Il passaggio del fariseismo ad un nuovo gruppo giudaico come il movimento Gesù fu un cambiamento radicale per Paolo, tanto da avere implicazioni significative sulla sua vita, ma non fu una conversione a un'altra religione. Paolo cambiò collocazione all'interno del giudaismo e questo lo portò a un ripensamento del significato della sua ebraicità. Non mise in discussione il giudaismo ma il modo in cui lo aveva inteso fino ad allora. Riguardo all'osservanza della Legge mosaica di Paolo negli Atti, per alcuni giudei contemporanei poteva sembrare che l'apostolo, con le sue affermazioni riguardo non necessarie circoncisione dei gentili, avesse egli stesso abbandonato l'osservanza della legge. Se da una parte questa era una loro interpretazione, dall'altra si cadrebbe nell'errore di pensare che tutti gli ebrei del primo secolo la pensassero allo stesso modo sulla necessità di circoncidere i gentili che volevano aderire giudaismo.

2. È molto improbabile che al tempo in cui è stata scritta la lettera ai Romani, il movimento gesuano si percepisse come staccato dal giudaismo. I discepoli di Gesù vivevano la loro fede all'interno della comunità giudaica ma sembra che essi enfatizzassero gli aspetti negativi del giudaismo. Forse Paolo scrive ai non ebrei di Roma per mediare tale situazione ricordando loro il rispetto dovuto verso il popolo ebraico. 

Paolo non abbandonò mai il giudaismo che considerava il più grande dono di Dio all'umanità, ma cerco sempre un equilibrio tra la speciale chiamata dei giudei e quella dei gentili all'interno di una visione del mondo apocalittica, una prospettiva che non era condivisa da tutti gli ebrei. 

È attestata l’esistenza di una comunità giudaica che intendeva la circoncisione soltanto come simbolo spirituale. Alcuni ebrei, seguendo questa visione, avevano smesso di praticare la circoncisione. 

La conversione sembra essere un concetto estraneo all'epoca in cui visse Paolo ma all'epoca si era o giudei o gentili, una terza scelta non era possibile. Il concetto stesso di religione è moderno e nell’antichità si parlava invece in termini di parentela con gli altri cultori della divinità prescelta. Con questo principio il giudaismo condivideva con le altre tradizioni religiose il fatto che esce fossero fondate su relazioni e obbligazioni nei confronti delle proprie divinità. Si parlava in termini di fedeltà o lealtà il cui oggetto erano le usanze ancestrali.

Il dominio del male

162. Al centro delle preoccupazioni dell’apostolo è la riflessione sul problema del male. Questo mondo non è più cosa molto buona come venne stimato da Dio perché il male ha corrotto l'originaria bontà dell'universo. Non è un problema esclusivamente paolino, ma una riflessione che accomuna tutte le componenti giudaiche del secondo Tempio, che si divideranno circa la spiegazione da offrire riguardo al problema della presenza del male nel mondo. In particolare, il tema risulta centrale nella visione del mondo apocalittica, dove il male è visto come il risultato di una ribellione cosmica, generatrice di una forza corruttrice che esercita il suo dominio in questo mondo, non come frutto del libero arbitrio dell'uomo. 

Si è spesso voluto isolare l'apostolo dall'influsso dell'apocalittica, contrapponendo la spiegazione antropologica adamitica che gli offre dell'origine del male a quella cosmologico-angelica propria delle tradizioni apocalittiche. Tuttavia nel primo secolo le due concezioni, nate in ambiti diversi, erano variamente combinate, integrandosi e relazionandosi a vicenda. I testi apocalittici, dalle parabole di Enoch alla Apocalisse di Giovanni, vedono nel serpente dell'Eden non un animale ma una presenza angelica maligna. Nelle parabole di Enoch si afferma che il serpente che induce in errore Eva non era la più astuta di tutte le bestie selvatiche ma Gadrel, uno degli angeli ribelli a Dio. L’Apocalisse di Giovanni parlerà apertamente di Satana come del grande drago, colui che chiamiamo il diavolo. Distintivo quindi non è più il peccato di Adamo o la ribellione degli Angeli, ma la presenza o meno di un agente superumano, uno degli angeli caduti o Satana stesso come forza ribelle a Dio. La diffusione del male non è mera conseguenza del libero arbitrio dell'uomo. Satana regna oggi come il dio di questo mondo. Il richiamo di Paolo al serpente che nella sua malizia sedusse Eva è fatto in un contesto in cui egli mette in guardia i Corinzi dalle macchinazioni di Satana. 

Il motivo per cui Paolo mette l'accento sul Peccato di Adamo deriva dalla personalizzazione del parallelismo che gli stabilisce tra i due figli di Dio, Adamo e Gesù. La visione apocalittica del mondo emerge in Paolo come la struttura essenziale che plasma tutti gli aspetti della sua teologia. Essa condiziona anche l'idea che Paolo ha della legge e del rapporto tra ebrei e gentili, nonché la sua concezione della missione messianica di Gesù come rimedio ultimo al dominio del male. 164

Altri spunti

Non tutti gli studiosi sembrano concordi nell'attribuire a Paolo l'idea di una personificazione del male; riducono l'idea di Potenza malvagia a metafora, ritenendo che Paolo si riferisca non tanto all'apocalittica quanto ad un concetto sapienziale. Penna riscontra invece una chiara convergenza tra Paolo e l'apocalittica nell'interpretazione dell'idea di peccato. Emerge una condizione di base, impersonale, del peccato più che un singolo atto. Il peccato al singolare non è soltanto l'insieme dei peccati di tutti gli uomini. In Rm 5-8 si ha una tematizzazione del peccato in cui è evidente la personificazione di hamartia (Peccato). Esso entra nel mondo, vi regna così che gli uomini ne sono schiavi, venduti a essa e ne ricevono una paga. È persino paragonata a un inquilino che abita a casa mia privandomi dei miei diritti di proprietario, e uccide; ma in definitiva è oggetto di una sentenza di condanna. 

All'interno del giudaismo del secondo Tempio si è diffusa l'idea di una progressiva personificazione del male. Il peccato, a partire dalle occorrenze in romani 5-7, dovrebbe essere quindi considerato non solo come potere cosmico ma anche come un essere personale che irrompe nel mondo e opera contro Dio. L'uomo sotto il peccato non può nulla, è schiavo e il suo volere è incapace di desiderare e raggiungere il bene. Ciò non però non togliere la sua responsabilità e colpevolezza quando compie il male. Il peccato così è quello stesso inganno che inverte le categorie di bene e male, che avrebbe contraddistinto anche la vita di Paolo prima dell'evento di Damasco. L'apostolo criticherebbe la teoria delle due vie di Siracide, poiché l'uomo ingannato dal Peccato non è più capace di sapere ciò che è bene e male secondo Dio. Il peccato abiterebbe in lui, nonostante egli non lo abbia scelto. Tutta l'umanità sarebbe vittima di questo potere. L'azione che l'uomo può mettere in campo contro questa entità è vista da Paolo come una vera e propria battaglia è l'uomo può vincere solo con l'aiuto di Dio. L'irruzione di Dio nel mondo con Cristo stabilisce la sua signoria e porta la Liberazione per coloro che sono schiavi del male. (162)

Israele e le genti

(196) Paolo era convinto che il tempo in cui viveva fosse l'ultima ora della storia. Il presente , compreso tra le due parusie del messia, è già il tempo escatologico, ma non lo è ancora in senso definitivo. Prima del ritorno di Gesù come giudice, il male ancora esercita il suo dominio in questo mondo. La prima venuta del messia ha comunque creato una situazione nuova: in primo luogo riguardo ai peccatori per i quali si è aperta una nuova via di salvezza che la Legge non poteva loro offrire, segnata da un atto di perdono e di giustificazione; in secondo luogo, riguardo al ruolo dell'atteggiamento da avere verso i gentili in un nuovo contesto temporale che possiamo definire già come l'inizio dell'era escatologica. È proprio a causa della consapevolezza di questa specifica temporalità, tra il già è il non ancora, che il movimento dei discepoli di Gesù e quindi Paolo diventano missionari verso i gentili. 

Le questioni che Paolo si pone in quanto ebreo, ruotano attorno a due aspetti fondamentali : i gentili battezzati devono farsi proseliti e osservanti della legge attraverso la circoncisione? Come far convivere nelle sue comunità coloro che erano ebrei per nascita e coloro che vi giungevano dalle genti? In nessun modo Paolo si spinge ad affermare che i cristiani che facevano parte di Israele dovessero abbandonare la circoncisione e la pratica della Legge. Anzi invita circoncisi (ebrei divenuti discepoli di Gesù) e incirconcisi (ex pagani) a rimanere ciascuno nello stato in cui si trovavano al momento della chiamata del battesimo . 

a) Nelle fonti apocalittiche (ebraiche) vediamo definirsi due concessioni contrapposte circa il rapporto tra ebrei e gentili nei tempi finali. Nella tradizione degli Esseni i tempi ultimi erano visti come il momento di maggior frizione tra gli ebrei e gentili. La diffusione del male costringe sulla difensiva gli eletti, l'intero popolo ebraico (costringe ancora più quel gruppo di eletti tra gli eletti che, come sotto assedio, si stringe attorno all'obbedienza della propria abitudine settaria). 

b) Nella tradizione enotica invece Israele e le genti sono ugualmente esposte al dominio del male e destinate a unirsi nel tempi finali in una comune prospettiva di salvezza, quale indicata nell'apocalisse dove il regno è aperto agli eletti di Israele e delle genti prima ancora della loro trasformazione finale nel mondo a venire in un unico popolo. 

L'opposizione netta che Paolo esprime nella lettera ai Galati alla circoncisione dei gentili battezzati non indicava che per lui essi non dovessero diventare parte di Israele, né tantomeno esprimeva un superamento del rituale per i battezzati di origine ebraica. Perché i gentili si unissero all’Israele escatologico, Paolo non riteneva fosse necessaria la circoncisione, ovvero che i non ebrei dovessero diventare ebrei dopo essere diventati seguaci di Gesù. Ciò che maggiormente contava era la fede in quel Gesù messia che di fatto ne permetteva l'innesto nell'ulivo buono, ovvero l'incorporazione nell'Israele escatologico. 

Se in Cristo non c'è giudeo né greco, né schiavo né libero, né maschio né femmina, ciò significa già in questo mondo la fine della loro inimicizia ma soltanto alla fine dei tempi la distinzione tra i ebrei e gentili sarà abolita così come la distinzione tra uomo e donna e quella tra padrone e servo. 

Prima dell'instaurazione definitiva del regno, nell’Israele escatologico, tra il già il non ancora, i gentili rimangono gentili incirconcisi con la propria coscienza a guidarli nell'osservanza della legge naturale e gli ebrei restano ebrei circoncisi nell'osservanza della Torah. 

Parlare di Paolo ebreo, e osservante della legge, appare ancora oggi uno scandalo. Ma non è una novità : è quello che affermano gli Atti degli Apostoli per i quali non c'è nulla di vero nella calunnia che egli non osservasse la legge e i rituali del Tempio, un'accusa che lo stesso Paolo rigetta fermamente. 

Altrettanto Paolo chiedeva agli altri ebrei che si erano uniti alla comunità cristiana: qualcuno è stato chiamato quando era circonciso? Non lo nasconda . Il messaggio di Paolo non è l'abrogazione della Torah per i circoncisi ma l'annuncio che in questo tempo intermedio tra la venuta e il ritorno del messia si è manifestato un ulteriore dono di grazia, quello quella giustificazione per fede offerta indipendentemente dalla legge ai peccatori, sia ebrei che gentili, che si pentono nell'imminenza del giudizio. In virtù del sacrificio di Cristo i confini della salvezza si sono in tal modo allargati ad accogliere anche coloro (ebrei e gentili) che ne sarebbero dovuti rimanere esclusi, compensando così con un atto di grazia gli effetti della diffusione del male e liberando l'umanità dal gioco del peccato, conseguenza della colpa di Adamo su istigazione di Satana. La venuta e il sacrificio di Cristo sono l'evento cosmico attorno al quale ruota e si ricapitola la storia della salvezza. 199

Messianismo paolino

(230) Per lungo tempo si è presupposta una dicotomia assoluta tra la cristologia paolina e il messianismo giudaico nella direzione di una sua reinterpretazione in senso universalistico. Al messia giudaico Paolo avrebbe contrapposto il Signore riducendo il termine da titolo messianico a mero sinonimo di Gesù. Tale approccio appartiene ormai al passato. La cristologia non è il risultato di un processo di ellenizzazione e di estraneazione dal giudaismo ma una variante di messianismo giudaico. 

Nel giudaismo dell'epoca convivevano concessioni messianiche diverse. Non ha neppure senso contrapporre la cristologia alta cristianesimo alla cristologia bassa del giudaismo. L'affermazione di una cristologia alta tra i primi seguaci di Gesù non rappresenta alcun elemento di rottura totale con il giudaismo, dove nozioni di cristologia alta erano già ampiamente diffuse in ambito apocalittico . Vide nel Signore Gesù una figura Divina superumana intermedia tra Dio e l'uomo. Resta aperto il dibattito sul grado di divinità da lui attribuito al messia Gesù. Soltanto alla fine del primo secolo , con il Vangelo di Giovanni, al Figlio, in quanto incarnazione del Verbo divino si applicherà il titolo di Theos, Dio uguale al Padre. Il fulcro della riflessione paolina su Gesù Cristo si trova nel parallelismo che egli stabilisce tra i due figli del Padre Celeste: Gesù, il figlio obbediente, e Adamo, il figlio disobbidiente. L'obbedienza di Cristo si manifesta il primo luogo essersi offerto come sacrificio secondo la volontà del Padre. Per questa via il messia divino e preesistente, dopo un'esperienza temporanea di abbassamento alla condizione umana e di morte, è stato non solo ristabilito nella sua condizione, ma sovraesaltato come Signore al centro dell'intera creazione ricevendo il nome che al di sopra di ogni altro nome, un nome che prima non gli apparteneva e che lo ha promosso sul campo a1 grado di divinità superiore a quello originario, al contrario di Adamo che ha subito la vergogna di una disonorevole degradazione. Ci vollaro decenni per affermare che il Figlio avesse lo stesso grado di divinità del Padre. Paolo è agli inizi di questo processo, ne rappresenta uno sviluppo importante, non il punto di arrivo. Egli ancora si esprime secondo le categorie messianiche del suo tempo incentrate sulla natura Celeste e preesistente del Figlio dell'uomo. Sarebbe Tuttavia. riduttivo confinare il problema del messianismo Paolino alla sola discussione circa la natura della divinità di Cristo. Di fondo riguarda la funzione che Paolo attribuisce al Signore Gesù e alla sua venuta terrena come messia, che ne fa il rimedio definitivo al potere del male nell'imminenza del suo ritorno e dell'istaurazione del regno. È ciò che i primi cristiani individuavano a riguardo dell'autorità data da Dio al Figlio dell'uomo sulla terra di perdonare i peccati e che Paolo vede realizzarsi in primo luogo nel dono della giustificazione per fede come conseguenza del sacrificio espiatorio di Cristo. 

Vie di salvezza in Cristo

Per un ebreo del secondo Tempio esistono due vie di salvezza: la legge naturale per i gentili e la legge mosaica per gli ebrei. Ad esse Paolo ne aggiunge ora una terza: la giustificazione per fede. Al dono della legge naturale, Dio ha aggiunto il dono dell'alleanza sinaitica, a causa delle trasgressioni. Paolo è un ebreo apocalittico e al centro del suo pensiero c'è una coscienza fortissima del potere cosmico del male, assieme a una coscienza fortissima della misericordia e della grazia di Dio che lo spinge a vedere Dio impegnato alla ricerca un rimedio per lo stato di peccato nel quale si trova l'umanità sotto il dominio di Satana, il dio di questo mondo. 

Rispetto alla legge naturale, la legge mosaica offre alla libertà dell'uomo un richiamo esplicito e quindi una conoscenza esplicita di ciò che è bene e di ciò che è male. La Legge tuttavia non ha il potere di porre l'uomo al riparo dal potere del male ma solo di rivelarne l'esistenza, ponendosi come benedizione per chi la segue ma anche come maledizione per chi la trasgredisca. 

Per contrastare il dominio del male è necessario un dono ancora più grande, già profeticamente annunciato ad Abramo nella stessa Bibbia. È questo dono che Paolo annuncia. Si è realizzato con il sacrificio della morte di Cristo ovvero la giustificazione per fede. Come apocalittico, Paolo aveva certo una visione molto drammatica e pessimistica della forza del male. Giunge persino a descrivere lo status dell'umanità come di un popolo sconfitto e reso schiavo del peccato, che vive sotto il dominio del peccato, e che quindi ha bisogno di essere riscattato a caro prezzo attraverso il sangue di Cristo. A suo avviso, questo non è solo un problema dei gentili, ma è un problema universale. Nessuno può affermare di essere risparmiato o immune dal male. 

Ogni ebreo del secondo tempio sarebbe stato d'accordo su questa nozione: essere giusti non significa essere senza peccato. I peccatori sono persone i cui peccati sono così seri e persistenti che la penitenza non è sufficiente a cancellarli. Il punto di Paolo è questo: al dominio del male, conseguenza di una ribellione cosmica manifestatasi attraverso il peccato di Adamo, Dio ha opposto un atto dalle conseguenze altrettanto universali: il sacrificio del Figlio. 

Per Paolo esiste in parallelismo perfetto tra Adamo, figlio disobbediente di Dio, e Gesù il figlio obbediente di Dio. A causa della caduta di Adamo tutti gli esseri umani sono stati esposti alla potenza del male e di conseguenza molti (ma non tutti) hanno ceduto al peccato. Allo stesso modo, attraverso il sacrificio di Cristo a tutti è offerta la grazia del perdono e molti sono coloro che attraverso di essa saranno salvati. Paolo mai suggerisce che gli esseri umani abbiano perso il loro libero arbitrio e siano ora completamente incapaci di operare il bene. Il dominio del peccato non implica il venir meno completo della legge naturale e della legge mosaica. Giustificazione e salvezza non sono termini sinonimi, tra loro intercambiabili. Il male sotto il cui dominio tutti vivono a causa della ribellione di Satana e del peccato di Adamo non ha reso tutti gli esseri umani dannati, così come non tutti saranno salvi attraverso la giustificazione (257).

Cristo ha una centralità assoluta, un ruolo insostituibile. Il Cristo preesistente è il Signore del mondo e il secondo Adamo la cui morte viene a controbilanciare in modo definitivo il potere del male; è la risposta definitiva di Dio al problema del male. La giustificazione per la fede, che con la sua morte si è inaugurata, non è una terza via posticcia è irrilevante. È la via maestra tanto che Paolo considera il suo ministero più grande di quello di Mosè che annunciava la condanna dei trasgressori mentre Paolo annuncia la salvezza anche per il trasgressore. 

Quindi è necessario chiedersi se il dono della Grazia annulli i precedenti doni di Dio o se piuttosto si aggiunga o si sostituisca ad essi. A questo proposito fa sempre tenuto presente che, come nel caso del dono della legge mosaica, il fine del dono della giustificazione per fede è quello di allargare i confini della salvezza non di restringerli. Attraverso la giustificazione per fede, la misericordia di Dio offre ora una possibilità di salvezza gratuita per i peccatori, cosa che né alla legge naturale né alla legge mosaica era stato dato potere il potere di fare. Paolo non è un messaggero di sventura ma di misericordia. Al centro del suo messaggio è nell'annuncio dell'amore di Dio che si estende a tutti gli uomini anche i nemici, i molti, i peccatori che sono coloro per i quali specificatamente Cristo ha versato il suo sangue. In questo risiede la differenza non la contrapposizione tra il dono della legge e il dono della giustificazione. Non è la grazia che si contrappone alle opere. La Legge è un dono di grazia che offre salvezza a chi la obbedisce ma per i trasgressori essa è econdanna e maledizione. Mentre la giustificazione è un dono di grazia di Dio ai peccatori perché anche coloro che sono sotto la maledizione che è conseguente alla trasgressione della legge possano avere accesso alla salvezza. 


L'ostilità verso gli ebrei si è spinta al punto da considerare la pratica stessa della legge un fatto malvagio, proibito ai cristiani (p.258) Eppure Paolo non parla dell'alleanza con Israele della legge mosaica al passato ma al presente: Le Alleanze di Dio sono irrevocabili, la legge è buona e santa. Paolo immagina uno scenario in cui Cristo è l'unica via di salvezza ma la legge per i circoncisi non è abrogata. La legge naturale, la legge mosaica e la giustificazione per fede non sono vie tra loro mutualmente esclusive perché i doni non si annullano ma si integrano nel piano di Dio. Non si tratta però neppure di tre vie autonome separate perché tutto è ora da Paolo ricondotto al Cristo che, nella sua ermeneutica missianica, è il principio e il fine di ogni cosa e quindi unica via di salvezza che ricapitola le altre. Dal punto di vista di Paolo, la salvezza è sempre e comunque in Cristo il quale è colui che in virtù del quale esistono tutte le cose. Cristo è il fondamento della legge naturale, è la Sapienza rivelatasi all'umanità come strumento della creazione. Cristo è anche il fine della legge mosaica che di lui è profezia. Quindi nella prospettiva paolina, la salvezza in Cristo include non solo giustificati per fede ma anche coloro che tra le nazioni sono giusti secondo la legge naturale e coloro che tra gli israeliti sono giusti secondo la legge mosaica. Anch'essi ricevono la salvezza in Cristo pur non conoscendolo o non essendone consapevoli. 



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