mercoledì 18 aprile 2012

Enrico Suso. Insegnamenti spirituali

Il libro dell'eterna Sapienza


Nella prima parte dell’opera, ossia Il Libretto della Sapienza, Suso traccia una biografia interiore essenziale parlando in forma anonima. Un uomo «indisciplinato» si era perso in una vita di peccato, «nei sentieri della dissomiglianza». Cristo, l'Eterna Sapienza, facendogli provare dolcezza e amarezza, lo attirò, finché lo riportò sul retto sentiero della Verità divina.
Riflettendo sull'esperienza vissuta, egli parlò a Dio così: «Fin dall'infanzia ho cercato non so che cosa, con grande desiderio. Tuttavia che cosa significhi questa realtà che cerco non l'ho ancora capito. Non so che cosa sia, ma attira a sé il mio cuore e senza di essa non potrò mai trovare una pace vera. Che cos'è ciò che così gioca in me in modo così misterioso?» (1, 81-82). In altre parole, come aveva riconosciuto da sempre anche la filosofia, in ogni uomo è presente un desiderio di pienezza e di felicità. Come possibile ottenerla? Chi può procurarla?
Cristo, presentandosi nella forma della Sapienza Eterna, così gli rispose:
«Non lo riconosci? Eppure ti ha abbracciato amorevolmente, ti ha spesso sbarrato la via, finché non è riuscito a conquistarti interamente per sé. Ora spalanca i tuoi occhi interiori e guarda chi sono io. Sono io, l'Eterna Sapienza, io che ti ho scelto per me, stringendoti nell'abbraccio della mia eterna Provvidenza. Ti ho spesso sbarrato la strada ogni volta che ti saresti separato da me. Tu hai sempre trovato resistenza, in tutte le cose; questo è il segno più sicuro che testimonia ai miei eletti che io li ho scelti per me» (1, 82).
Suso, con evidenza, ripercorre suggerimenti agostiniani. L'uomo è catturato da un desiderio e da una brama di completezza a cui non sa rispondere. Egli cerca di colmare il suo bisogno amando le cose di questo mondo ma nessuna di esse lo può appagare. La vera risposta a queste sete, che è sete d'infinito, è la Sapienza eterna, il Cristo. Egli guida il cammino di ogni uomo, accompagnandolo nel suo sbandamento; lo lascia provare le delusioni inevitabili che derivano dalle sue scelte sbagliate finché l'uomo non ritrovi il sentiero che lo porta ad accogliere ciò che merita il vero amore e l'appaga.
Il peccatore allora chiese al Signore: «Perché non ti sei manifestato a me molto prima? Per quali faticose vie ho dovuto trascinarmi!». Ascoltiamo la replica del Signore: «Se l'avessi fatto, tu non avresti riconosciuto il mio bene così intensamente come ora» (1, p. 83). 


Cercare Dio nell’umanità di Gesù

L’uomo ritrova se stesso in pienezza aderendo a Cristo, Sapienza Eterna. Dopo questo avvio, che raccoglie in sintesi il cammino percorso, il Cristo offre al penitente il primo importante ammaestramento: chi cerca la sua grandezza divina, deve cominciare a contemplarla nella sua manifestazione nella sua vicenda umana. Dio deve essere cercato nella persona e nella vita terrena di Gesù; anzi è possibile cogliere per intero la vastità della sua grandezza nel comportamento che Egli ha tenuto nel corso della sua passione:
«Se tu vuoi contemplarmi nella mia divinità, devi imparare qui a conoscermi e ad amarmi nella mia umanità sofferente, poiché questo è il cammino più rapido verso l'eterna beatitudine. Il mio insondabile amore si mostra nella grande amarezza della mia passione, come il sole si manifesta nel suo splendore, come la bella rosa nel suo profumo, e come il potente fuoco nel suo calore ardente» (1,84).
Lo stesso insegnamento è ribadito anche in seguito: «Nessuno può giungere alla maestà divina né alla straordinaria dolcezza [che si prova nell'unione con Dio], se non è prima attirato dall'immagine della mia umana amarezza» (2. 86).
La Sapienza si rivela in tutto il suo fascino nella sua bontà straordinaria della quale ha dato piena manifestazione nel corso della passione e della morte in croce. Tuttavia, pur dando attenzione alle amarezze sperimentate dal Signore Gesù, non bisogna ad esse ma al loro significato. Ossia il cristiano deve scoprire, in primo luogo, l'amore che il Signore nutre per lui:
«Mai una bocca assetata desiderò più ardentemente una fresca fonte, di quanto io desiderassi aiutare i peccatori... Si saranno raccolte tutte le goccioline di pioggia, prima di poter misurare il mio amore per te e per tutti gli uomini» (4.94).
Il periodo storico dava importanza alla contemplazione della passione nel suo crudo realismo. Nei dipinti e nelle sculture la rappresentazione del Calvario appariva sempre più drammatica. Anche Suso insiste su questo aspetto ma non vi s’adagia come fosse il senso ultimo della meditazione. Non è sulla tortura fisica che si posa lo sguardo del contemplativo ma piuttosto sulla manifestazione della carità del Cristo: «Sono coperto di segni d'amore» (4.94). Un equilibrio forse difficile da conservare.
Suso, quindi, ritiene che la grandezza di Dio si manifesta nella sua forza d'amore e che questa appaia in modo pieno soprattutto nella morte di Gesù. Non cerca la sofferenza per se stessa ma piuttosto la dolcezza della comunione con Dio. Per conseguirla, però, è necessario diventare persone capaci d'amore; e per essere tali, bisogna saper affrontare gli impegni e le sofferenze che richiede il conseguimento di questo traguardo.
Il penitente non deve fare altro che acquisire lo spirito cavalleresco tanto celebrato a quell'epoca. «Entra con me nell'arena degli incrollabili cavalieri!» (2.86). Questi sapevano affrontare sacrifici, lotte e gravi pene d'amore. Perciò anche chi cerca Dio si deve armare. «Armati ora soprattutto di fermezza... ».
Mentre, però, negli scontri cavallereschi aveva rilievo piuttosto la forza fisica, ora avviene uno spostamento sul versante dell'interiorità. Noi non dobbiamo imitare tanto le sofferenze fisiche di Gesù ma combattere dentro di noi tutte le manifestazioni del peccato e dell'egoismo.  Nel lasciare tutto ciò che potrebbe far fuorviare dalla salvezza, il lottatore abbandona la propria volontà e rinuncia a se stesso. Così diventa «come un moribondo che va e che non ha più niente a che fare con questo mondo» (2.86-87; cf. 5.100).
Di fronte a questa risposta l'entusiasmo del neo cavaliere si raffredda. Emerge la paura di morire a se stesso; il penitente deve lasciarsi assicurare dal Signore stesso: se uno vive l'amicizia con Dio, troverà facile percorrere questo cammino: «La sequela della mia passione non ti deve spaventare; infatti colui al quale Dio diventa intimo, tanto da fargli sentire lieve la sofferenza, non può lamentarsi. Nessuno gioisce in me di più per la dolcezza straordinaria di colui che vive con me la più dura amarezza» (2.88). In altre parole, entrando nella viva comunione con Dio, maturando attraverso il rinnegamento di sé, l’uomo ritrova interamente se stesso. 


Le disillusioni dell’attaccamento

Suso introduce ora un elemento basilare per la sua spiritualità, ossia l'imitazione di Gesù mediante il distacco. Il distacco e, poi, come si vedrà in seguito, l’abbandono a Dio, sono due prospettive spirituali che Suso riprende da Meister Eckhart, divenendo due elementi fra i fondamentali per tutta la spiritualità renana. Dio ci educa nella vita affinché impariamo a vivere distaccati, ossia liberi da ogni attaccamento egoistico. L’abbandono consente il distacco.
All’epoca, veniva data grande importanza al sentimento del compatimento con Cristo. Il fedele veniva indotto a piangere sulle vicende della passione e a trovare forme di patimento. Suso ridimensiona questa tendenza di devozione fa dire a Cristo: «È per essere imitato che ho patito». Non è importante commiserare il Signore ma piuttosto realizzare la sua vita esemplare. «Ogni piagnucoloso lamento» è bandito. Gesù desidera trovare persone che condividono la sua esperienza e le sue convinzioni: «Un cuore simile mi è più caro che se tu piangessi sempre per me» (3.91).
La vera risposta al grande amore del Signore per noi sta nel formare in noi l'atteggiamento del distacco. Che cosa significa? Potremmo definirlo autodominio, libertà dalle passioni. Nella pratica l'uomo libero (o distaccato) è chi riesce a stare al di sopra di tutto ciò che provoca piacere o dolore. Essere dominati da qualcosa o temere qualcosa ci può allontanare dal compiere il volere di Dio.
Tuttavia, anziché cercare di defire tale atteggiamento, è preferibile circoscriverlo mediante  esemplificazioni.  Ne parla già al capitolo terzo: «Tu devi cercare in me ogni tuo riposo, amare la scomodità del corpo, sopportare volentieri il male che viene dagli altri, desiderare che ti disprezzino, rinunciare ai tuoi desideri e morire a tutti i piaceri» (3. 91-92). L'attaccamento consiste, al contrario, nel lasciarci dominare dal piacere, oppure nel nutrire risentimento verso il prossimo.
Il rischio più grave della persona religiosa consiste nel tentativo di comporre insieme la devozione con il mantenimento di un vivere mondano, conservare «un cuore mondano dall'apparenza spirituale».
In realtà è impossibile amare il Signore e dedicarci nello stesso tempo ad interessi o ad amori fugaci. Cogliamo un'eco della proibizione del Vangelo: non è lecito servire a due padroni. Se già l'amore terreno esclude concorrenti, tanto più l'amore per Dio.
«Come potrebbe convivere l'amore eterno con quello temporale quando quello temporale non può sopportarne un altro? Si inganna chi immagina di poter ospitare il Re di tutti i re in una locanda comune e di relegarlo nell'alloggio appartato per i servi. Colui che intende ricevere degnamente l'alto ospite deve tenersi del tutto separato dalle altre creature» (6.105).
Gli amori fugaci non sono le persone o le cose che amiamo rettamente ma quelli intrisi d'egoismo. Questo tipo d'amore non merita il nome d'amore ma è preferibile chiamarlo attaccamento. Anche oggi si parla di attaccamento al denaro, al potere, alla carriera, ai piaceri devastanti. Riferendosi ai religiosi, Suso insiste anche sulla necessità di staccare il cuore dai rapporti poco corretti con i secolari. Tali amicizie sono inconcludenti e fonte di dissipazione: «Prima che gli uomini vengano condotti nell'interiorità da uno di loro, da mille ne saranno tratti fuori; prima di essere educati una volta con la dottrina, saranno tante volte confusi dai cattivi esempi» (6.108).
La condizione degli uomini che dipendono dai loro attaccamenti, divenuti in seguito dei bisogni, è miserevole:
«Essi si trovano in una profonda cecità, sono impegnati in grandi lotte per gioie che non diventeranno mai piacere né felicità completa. Prima che loro capiti una gioia saranno colpiti da dieci sofferenze, e quanto più inseguiranno i loro desideri, tanto più rimarranno insoddisfatti. I cuori empi non possono che vivere ogni momento nella paura e nel timore. La stessa piccola gioia che tocca loro, diventa del tutto amara, poiché l'ottengono con la fatica, e la conservano con grande angoscia e la perdono con grande amarezza» (6.106).
Volgendo lo sguardo al passato viene a predominare il sentimento di rimpianto e di rimorso: «Che mi è rimasto dei miei amori se non il tempo perduto, le parole volate via, la mano vuota, poche opere buone e una coscienza gravata di colpe?» (7. 117).
Infine, al termine di questa disanima, giunge la sentenza basilare frutto d'esperienza: «Il cuore non ha mai potuto trovare nella creatura né vero amore, né gioia totale, né duratura pace del cuore» (6.106).
L'uomo che avrebbe potuto essere un re, diventa invece uno schiavo, tutto intento ad accrescere il proprio danno, sprecando tempo prezioso, che è un dono irrecuperabile. Immerso in questa dolorosa servitù, cerca di sfuggire alla consapevolezza della propria miseria, «abbellendo il fondo con un'apparenza luminosa». Cade in una clamorosa contraddizione: per sfuggire al giogo del Signore, si assoggettano ad un peso opprimente (6.107).
Per uscire da questa condizione miserevole, dovrebbero chiedere aiuto al Signore. Egli, la Sapienza, attesta: «In ogni  momento sono pronta ad aiutarli... io non mi allontano da loro, sono loro che si allontanano da me» (6.107). La Sapienza non ci lascia privi dell'amore (che rimane l'energia più profonda dell'uomo) ma sostituisce un attaccamento (ossia un amore egoistico di se stessi) con l'amore per ciò che è un vero bene, ossia con un amore che procura libertà. La scelta vincente sta, allora, nell'abbandono degli amori fugaci per amare Dio in modo esclusivo e totale. Questo è l'unico modo per uscire da tale vicolo cieco. 


L’amore per Dio

Suso che la libertà, con la conseguente nuova possibilità di vita, scaturisca da un amore intenso per il Signore. Tutta la vita dell'uomo dipende da ciò che egli ama, dalla nobiltà e dall'intensità dell'amore a cui si lascia legare. Scegliendo il Signore, o meglio, lasciandosi prendere dal suo fascino, il credente aderisce ad un bene che lo appaga senza impoverirlo. L'aspetto affettivo diventa predominante ma qui non si tratta soltanto di puro sentimento perché il bene scelto è anche del tutto ragionevole. Amare il Signore come sommo bene è un atto di ragione e un atto di sentimento. L'uomo deve rispettare la sua più autentica identità:
«Nella tua natura tu sei uno specchio della divinità, sei un'immagine della Trinità, sei un riflesso dell'eternità. E come io nella mia eterna immutabilità sono il Bene che è infinito, così tu sei infinito nei tuoi desideri; e come una gocciolina d'acqua aggiunge poco alla vasta profondità del mare, altrettanto poco può fare tutto ciò che il mondo ti può offrire per esaudire i tuoi desideri» (10.128).
Il Signore possiede la capacità di attirare a sé il cuore dell'uomo, in modo tale da spegnere qualsiasi altro attaccamento:
«Tu sai offrirti così amorevolmente e con tale tenerezza che tutti i cuori dovrebbero aspirare a te e provare uno straziante desiderio del tuo amore. Dalla tua dolce bocca sgorgano parole d'amore così vive che hanno ferito molto profondamente parecchi cuori nel fiore dei loro giorni, tanto che in loro si è spento ogni amore passeggero» (7.110).
Anzi soltanto il Signore è l'unico che può amare tutti e, nello stesso tempo, donarsi ad ognuno, come se esistesse quell'unico individuo:
«Io sono un amante che non si rinchiude nell'unicità, né si disperde nella molteplicità. In ogni momento io sono preoccupato e sollecito solo per te, mi facci amare da te solo e compio tutto ciò che riguarda te, come se non mi dovessi occupare di tutte le altre cose» (7.114).
Il credente che, conquistato da tanto amore, sceglie di donarsi interamente a Dio, riceve la libertà, la purificazione della coscienza e il dono di una gioia tale da essere avvertita come caparra del dono celeste:
«Il mio amore può alleviare del grave peso dei peccati i cuori di coloro che sono all'inizio del cammino e dare loro un cuore libero, benevolo, puro e creare in loro una coscienza pura e irreprensibile. Dimmi che cosa esiste al mondo che possa stare al pari di tutto ciò? Tutto questo mondo non potrebbe controbilanciare un cuore simile, perché l'uomo che dona il suo cuore a me solo vive nella gioia, muore nella certezza, e possiede il regno dei cieli quaggiù e lassù, per l'eternità» (7,113).
Nell'abbracciare la prospettiva della fede, l'uomo che si apre all'amore di Dio sa che potrà comprendere Dio e accogliere il suo dono nella misura in cui si aprirà realmente a Lui: «Io, il Bene soprannaturale, immutabile, mi dono a ciascuna creatura a seconda del modo in cui è capace di accogliermi» (7.111). Man mano, si cresce nell'amore di Dio, il distacco da tutti i beni sensibili diverrà sempre più marcato e meno sofferto:
«Io sono un Bene assolutamente puro; e a colui che, in questa vita, riceve una sola goccia di me, sembreranno amare tutte le gioie e tutti i piaceri del mondo, ogni bene, ogni onore gli sembreranno immondizia, nullità» (7.113).
Soltanto l’amore per Dio dona la libertà. 


La pedagogia divina

Dio educa l’uomo all’amore. Il passaggio dall’egoismo alla carità non è né ovvio, né immediato. Volendo formare l’uomo che lo cerca, il Signore si serve di tre metodi piuttosto sorprendenti che non appaiono per nulla allettanti.
In primo luogo unisce all’amore il timore, ossia non si fa soltanto amare ma anche temere. «Il tuo volto adirato è così terribile, la tua sprezzante collera così insopportabile, povero me, le tue parole ostili sono così infuocate che trapassano il cuore e l’anima» (8.118). Viene spontanea una domanda: Dio può essere adirato o peggio ancora vendicativo? Tutto questo è senz’altro da escludere. Dio rimane sempre se stesso; Egli è amore ed opera sempre in vista del bene. Il peccatore, però, lo avverte come adirato: «Io sono il Bene immutabile, sono uguale e rimango uguale. Ma se io sembro disuguale, questo dipende dalla disuguaglianza di coloro che mi vedono ineguale a seconda che siano con il peccato o senza peccato» (8.119). Dio non cambia ma è l’uomo a cambiare, è lui che lo avverte differente, ora misericordioso, ora severo. Tuttavia tale severità non è soltanto apparenza. Il peccato rappresenta un vero impedimento alla comunione con Dio. Egli perdona per amore ma anche si rivela rigoroso per amore. «Io sono amabile per natura, ma sono un tremendo giudice del misfatto» (8. 119). Per comprendere bene, dobbiamo tornare alle proposizioni con le quali si apriva il libro: Dio educa infondendo dolcezza ma anche amarezza; si adira non divenendo ostile verso di noi ma permettendo che noi proviamo amarezza negli attaccamenti: «Ti ho spesso sbarrata la via» (1.82).
In secondo luogo, Dio si sottrae ai suoi amici, non facendo più percepire la sua presenza di consolazione. Chi cerca Dio deve aspirare a Lui stesso e non alla sua consolazione spirituale. Del resto Egli vuole che noi siamo liberi, staccati anche dal piacere spirituale. Il vero amico di Dio si comporta come l’angelo più nobile al quale nulla piace di più che fare la mia volontà in tutte le cose e «se sapesse che contribuirebbe alla mia lode raccogliere ortiche, questo sarebbe per lui la cosa più desiderabile da compiere» (9.122).
In terzo luogo, Dio permette che il suo amico conosca molte sofferenze (10, 127). Il motivo di questo fatto, sempre di carattere pedagogico, viene espresso meglio nel capitolo 13:
«Per natura essa [l’anima] è incline a una dannosa voluttà; perciò io semino il suo cammino di spine, le chiudo ogni sbocco con avversità, che ciò le dia gioia o sofferenza, perché non mi sfugga; io dissemino di dolore tutte le sue vie, perché non possa posare il piede del suo desiderio se non nella maestà della mia natura divina» (13.143).
Suso, raccomanda, allora, l’altro atteggiamento tipico della spiritualità renano-fiamminga, quello dell’abbandono. Il credente deve sempre cercare la libertà interiore, abbandonasi a Dio in modo totale. Il credente deve imparare a fidarsi di Dio in modo completo e in quest’atteggiamento di sottomissione fiduciosa ritrovare pace anche nella sventura.
Ogni malato crede che il suo male sia peggiore di tutti e ogni bisognoso crede di essere il più povero di tutti: se t'avessi dato altre sofferenze, sarebbe stata la stessa cosa. Abbandonati liberamente alla mia volontà in ogni sofferenza che voglio da te, senza escludere questa o quella. Non sai dunque che io voglio il meglio per te, con la stessa amicizia che tu hai per te stesso? Ma io sono l'Eterna Sapienza e conosco meglio ciò che è il meglio per te; hai provato dunque che le mie sofferenze visitano più intimamente e penetrano più profondamente e fanno progredire colui che le accoglie bene più rapidamente di ogni altra sofferenza liberamente scelta. Dimmi allora: Padre mio, fa di me ciò che vuoi (13. 144-145).
È tipica di Suso interpretare la vita cristiana come imitazione della passione del Signore. Il battezzato ottiene questo obiettivo soprattutto quando si lascia umiliare senza perdere la calma interiore. L’uomo spirituale, nella sua prospettiva, è colui che acquisisce la libertà interiore del Cristo accettando emarginazione e solitudine (l’intero capitolo 15 è dedicato a questo tema). Forse nessun altro ha insistito come lui su questi aspetti di per sé poco attraenti. Suso, tuttavia, non parla soltanto dell’accettazione delle umiliazioni o del dolore ma esorta ad imitare l’amore incomparabile di Gesù nei confronti dei suoi persecutori. Essere crocifissi con Gesù significa imitare la sua grande misericordia soprattutto nello spirito del perdono:

Se ti sforzerai di fare ciò che secondo te è il meglio, [ma] riceverai dagli uomini parole di scherno e gesti di disprezzo, se tu non soltanto rimarrai fermo e immobile, ma anche pregherai amorevolmente per essi il Padre celeste e li scuserai presso di Lui… Vedi, quante volte così morirai a te stesso per amore mio, altrettante volte rinverdirà e fiorirà in te la mia morte. Se le tue buone opere buone saranno così misconosciute tanto che da essere considerato tra i colpevoli, e se tu sarai incline a perdonare prontamente, dal fondo del cuore, coloro che ti tormentano … e se, inoltre, tu sarai pronto ad aiutare e a soccorrere con parole e con opere, per imitare il mio perdono verso quelli che mi crocifissero: allora sarai veramente crocifisso vicino al tuo Amato (15.159).

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