venerdì 22 febbraio 2013

De pauperibus amandis, 2 (Gregorio di Nissa)


Sulla parola del Signore: ciò che avete fatto non a uno di questi, l'avete fatto non a me

P. Cavallini, Giudizio universale, part.



Sono ancora intento a contemplare la manifestazione tremenda del Re, descritta dal Vangelo. Ancora il mio animo si perde di coraggio e prova timore nell’ascoltare quelle parole (Mt 25,31-40).  Mentre sono intento a contemplare la scena, mi sembra di vedere in qualche misura lo stesso Re dei cieli, - così viene denominato nella Bibbia - seduto con tono severo sul trono della gloria, sopra un trono maestoso che da sempre contiene Colui che non può essere contenuto. È come se vedessi le infinite miriadi di angeli, che circondano il Re (Ap 7,11); anzi è come se vedessi lo stesso Re, grande e temibile, il quale, dalla sua maestà ineffabile volge lo sguardo sull'umanità intera. Egli osserva tutti gli uomini di ogni generazione, succeduti ai loro padri, quanti se ne possono contare [dal principio] fino alla sua tremenda venuta. Si addensano vicino a lui e ad ognuno viene emessa una sentenza, conforme al comportamento tenuto in vita. A quelli che sono collocati a destra e che hanno operato il bene con libera scelta, come è detto, Egli concede il suo favore, mentre agli altri, a quelli che sono alla sinistra ma che hanno pensato in modo tortuoso e spregevole, vivendo conforme a questo sentire, commina una punizione. Lo sento rivolgersi agli uni e agli altri; ai primi parla con voce dolce e affabile  invitando: «Venite benedetti dal Padre mio», mentre agli altri si rivolge con espressione minacciosa, tale da risvegliare paura e terrore: «Andate maledetti!». 
Mi sento rabbrividire per le parole pronunciate e di stare lì con loro. Non avverto più nessuna delle cose presenti. Con la mente non rivolgo più l'attenzione a nessuna delle realtà offerte alla nostra attenzione, quali oggetto di indagine e di studio, benché non siano di scarso valore né meritino di essere accantonate. Preferisco invece pensare in quale modo venga a noi il Signore che è anche sempre presente. «Ecco io sono con voi ogni giorno» (Mt 28,20). Se crediamo che Egli è con noi, come potrà allora giungere ed essere dichiarato come non ancora presente? (M 473) «Se in lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo», come insegna l'apostolo (At 17,28), come può essere possibile che Colui che detiene in sé tutti quelli che abbraccia, stabilisca una qualche distanza da loro, al punto che da non essere più presente presso coloro che accoglie in sé e da dover essere atteso in un secondo tempo affinché possa essere veramente presente? Su quale trono può sedere un essere spirituale? Come può manifestarsi Colui che è invisibile? Quale immagine di sé può offrire, colui che è privo di forma ed essere circoscritto sopra un trono il Signore che trascende ogni limitazione? Come può attuare una presenza ancora più penetrante di quella che manifesta nel momento presente? Non vogliamo respingere queste domande come fossero questioni da rigettare ma, per quanto valore abbiano, ora mi accingo a parlare di argomenti che giovano a tutti. 

Davvero, infatti, ho pauro, temo quella minaccia e non rinnego il mio sentimento. Vorrei che anche voi foste toccati dal timore, senza disprezzare tale stato d'animo. Beato l'uomo che, spinto da vera religiosità, conserva sempre il timore! Chi disprezza questo sentire, ne subirà le conseguenze, dichiara la Sapienza (Pr 28,14). Prima di incorrere nella punizione, comportiamoci con sapienza, per non dover sperimentare tristi conseguenze. Come possiamo evitare la sciagura? Scegliendo quel cammino di vita che ora ci viene indicato dalla parola divina, sempre attuale e vivente. In che cosa consiste? «Avevo fame, avevo sete, ero straniero, ero nudo, ero ammalato, ero carcerato. Qualsiasi cosa abbiate fatto ad ognuno di questi, l'avete fatta a me». Per questo, dichiara: «Venite benedetti dal Padre mio!». 
Che cosa apprendiamo da questo messaggio? L'osservanza dei comandamenti è benedizione, mentre la negligenza nell'osservarli, si tramuta in maledizione. È in nostro potere scegliere di incorrere nella conseguenza positiva o in quella negativa. La direzione verso la quale ci volgiamo velocemente, deciderà la nostra sorte futura. Volgiamoci allora verso la benedizione del Signore, il quale ha detto di ritenere come indirizzata a lui ogni atto di benevolenza rivolto verso i bisognosi. Soprattutto adesso, quando il comandamento trova molte possibilità di attuazione. Molti sono gli uomini privi del necessario, molti sono coloro che vivono la privazione nel loro stesso organismo perché consunti da qualche grave malattia. Trattiamoli con premura se vogliamo ottenere il premio promesso; mi riferisco in modo esplicito  a quelli che sono tormentati da qualche terribile male. Quanto più la malattia è difficile da curare, tanto più è evidente che chi si impegnerà in modo più deciso nell'osservanza del comandamento, riceverà una benedizione ancora più larga. Che bisogna fare? 
Non opporsi all'imperativo dello Spirito. Essa ci impone di non considerare degli estranei altre persone umane e di non imitare quelli che nel Vangelo vengono rimproverati, mi riferisco al sacerdote e al levita che se ne andarono via trascurando l'uomo bisognoso di compassione, che era stato abbandonato dai briganti, mezzo morto, come precisa il racconto evangelico. Se quelli furono biasimati perché non volsero neppure uno sguardo alle piaghe tumide del suo corpo, come potremo noi sfuggire alla riprovazione se ci comportiamo allo stesso modo di quelli che sono stati considerati colpevoli? Tanto più che lo spettacolo offerto dall'uomo che era s'era imbattuto nei briganti, non è diverso da quello che ci viene proposto da tanti uomini cilpiti dal male. Osserva quella persona costretto dal suo male ad assomigliare ad un quadrupede; al posto dell'unghia o degli artigli, afferra dei legni con le mani, imprimendo sul suolo delle strade un nuovo tipo di caratteri. Chi potrebbe immaginare, vedendo tali segni, che è stato un uomo ad imprimere queste tracce mentre si spostava? L'uomo è eretto nella positura, guarda verso il cielo, possiede delle mani per poter operare; curvato a terra, diventa un quadrupede e si distanzia di poco da un essere privo di ragione. Con la pelle villosa e ansimante ai bronchi, trae dei respiri violenti dal profondo. Allora bisogna dichiarare, senza mezzi termini, che vive in una maniera più penosa di un animale. Questi conservano fino alla fine le stesse caratteristiche ricevute alla nascita e nessuno di loro, in seguito a qualche sventura, modificano in un'altra forma le loro caratteristiche. Questi miseri, invece, come se si fossero estraniati, sembrano essere diventati un altro, non conservano il medesimo essere vivente. Le mani fungono da piedi e le ginocchia da gambe. Le gambe e i piedi naturali o si sono consunti, oppure come fossero dei timoni sporgenti, simili ad aggiunte, li trascinano a caso. Considerando che questi sono uomini, non ti curi che una persona come te conduca un'esistenza simile? Non hai pietà di un essere della tua stessa razza? Ti infastidisce l'averlo incontrato e provi avversione per chi ti supplica. Fuggi lontano da lui come se temessi l'assalto di una fiera. Perché ciò non accada, dovresti fare un nobile paragone: l'angelo si relaziona con te che sei un uomo, e pur essendo un essere incorporeo e materiale, non disprezza chi è mischiato alla carne e al sangue. Perché parlo degli angeli? Lo stesso Signore degli angeli, il re della beatitudine celeste, per te divenne uomo, si rivestì di una carne sordida e abietta con l'anima dalla quale era avvolta perché, dopo averle toccate, le tue malattie fossero risanate. Tu, invece, pur partecipando alla stessa condizione umana di quelle persone che sono nel dolore, eviti di incontrali. Non fare così, o fratello, non seguire un istinto malvagio. Considera chi sei e chi siano quelli sui quali hai questi pensieri: un uomo si pronuncia su altri uomini; non possiedi nulla in te stesso che ti sia così particolare da escluderti dalla natura comune. Non pensare di conoscere ciò che accadrà. Mentre non ti curi del dolore, finché si manifesta nel corpo di un'altra persona, prendi una decisione di carattere generale che va contro tutti; partecipi anche tu della natura come tutti. Perciò considera la questione come se essa riguardasse tutti. 
Perché le sofferenze che osservi non ti muovono ad un interiore sentimento di solidarietà?
Il ricordo ancora mi opprime. Ho visto una situazione di sofferenza degna di suscitare misericordia, ho visto uno spettacolo che costringeva al pianto. Uomini s'aggirano per strade frequentate; anzi non più veri uomini ma residui umani di persone che un tempo erano uomini. Essi richiedono di essere considerati tali per qualche segno o qualche traccia di umanità [che è loro rimasta]. Non mostrano in se stessi le caratteristiche per le quali potrebbero essere riconosciuti come uomini. Soli fra tutti gli altri, odiano se stessi; soltanto loro maledicono il giorno della loro nascita; come è normale da attendersi, odiano quel giorno perché è stato l'inizio di una vita del genere. Sono uomini ma si vergognano a considerarsi appartenenti al nostro genere umano, perché, se fossero considerati tali, temerebbero di screditare con la loro appartenenza, la nostra comune umanità. Vivono sempre in miseria, hanno sempre motivi di lamentela. Finché si esaminano, trovano sempre motivazioni di pianto. Sono incerti per quale membro del loro corpo debbano lamentarsi maggiormente, per quelle che ancora hanno o per quelle che hanno perduto; per quelle che la malattia ha consumato o quelle sono rimaste in balia della malattia. Soffrono o perché vedono come esse si siano ridotte oppure perché, dal momento che la loro vista si è abbassata a causa di qualche malanno, non possono neppure vederle; o perché le vedono così malridotte mentre ne parlano, oppure perché non possono neppure parlare delle loro sofferenze, dal momento che una malattia li ha privati anche della voce. Soffrono per il modo con il quale si nutrono, poiché non possono neppure alimentarsi con facilità; o perché un morbo impedisce una corretta alimentazione avendo consunto parti del corpo vicine alla bocca, o perché si sentono ormai come morti a causa delle sventure capitate loro, oppure perché hanno perso la sensibilità. Dov'é finita la vista? L'odorato? Il tatto? dove sono finiti gli altri sensi? Mentre un po' per volta, la malattia cresceva di intensità, la cancrena li ha consumati. Per questo vagano da un luogo all'altro, come gli animali si muovono di continuo alla ricerca di un pascolo più abbondante. Affrontano qualsiasi pericolo pur di ottenere cibo in baratto, come viatico, e a tutti, invece di domandare con le parole, mostrano i segni delle loro malattie. Hanno bisogno che qualcuno li conduca per mano, in seguito alla loro infermità, e si sostengono a vicenda tenendo conto delle difficoltà comuni. Poiché ognuno è privo dell'uso di qualche membro, ognuno si presta come un sostegno per l'altro e possono così tutti utilizzare le membra di altri al posto di quelle che hanno perduto.  Non vivono isolati - anche la disgrazia insegna qualcosa per la conduzione della vita - ma preferiscono ritrovarsi insieme tra loro. Solidarizzano tra di loro e quindi, per far in modo che la gente sia più disponibile nei loro confronti, mendicano in gruppo; ognuno aggiunge la sua sofferenza a quella dell'altro, e poi donano alla collettività il penoso guadagno; in questo modo ognuno stimola di più la compassione perché ha aggregata la propria alla disgrazia dell'altro. Uno tende le mani mutilate un altro mostra il ventre infiammato e gonfiato, un'altro la faccia dilaniata e un'altro ancora un polpaccio in cancrena. Ognuno mostra quella parte del corpo che ha malata. 
Che dire? Forse è sufficiente, per evitare di peccare contro la nostra natura umana, compiangere le sventure degli uomini, esaminarne a parole i malanni e commuoverci nel richiamarli? O forse non abbiamo bisogno di mostrare con i fatti il nostro sentimento di compartecipazione e di solidarietà? Il passare dalle parole ai fatti è come da un progetto passare alla sua realizzazione. La salvezza non sta nelle parole, dice il Signore, ma nel compiere le opere di salvezza (Mt 7,21; Lc 6,46). Perciò noi dobbiamo praticare il comandamento che è in relazione con loro. Nessuno pensi che sia sufficiente provvedere cibo mandandolo a chi abita in qualche regione lontana, estraniandolo dalla nostra vita. Questo modo di pensare non rivela alcun atteggiamento di misericordia e di solidarietà ma piuttosto è identico a quest'altro sentire: che tutti gli uomini spariscano del tutto dalla nostra vita. Non ci vergogniamo della nostra condotta di vita? Non ospitiamo sotto il nostro tetto porci e cani? Anzi spesso il cacciatore non allontana il cagnolino nemmeno dal suo letto. So che l'agricoltore bacia il vitello. Anzi più ancora: il viandante con le sue mani lava i piedi dell'asino, lo pulisce dal sudiciume e si prende cura del suo giaciglio. Con persone appartenenti alla nostra stessa umanità agiremo in modo meno caritatevole di come ci comportiamo nei confronti degli animali? Assolutamente no, fratelli! Cerchiamo di avere lo stesso comportamento anche verso gli uomini. Dobbiamo ricordare bene chi siano quelli sui quali stiamo prendendo una decisione. Siamo uomini che decidono di altri uomini e non dobbiamo separarci da loro dimenticando che siamo della stessa umanità. «Unico è l'ingresso e unica l'uscita dalla vita» (Sap 7,6). Tutti abbiamo gli stessi bisogni circa il cibo e la bevanda; il sostentamento della vita è identico per tutti. La formazione del corpo è uguale per tutti e il temine della vita avviene allo stesso modo per tutti. Nessuna delle realtà esistenti ha una consistenza salda. A somiglianza di una bolla, il nostro spirito sostiene il nostro corpo soltanto per un tempo limitato. Non appena ci spegniamo, non lasciamo in vita nessuna traccia di questo rigonfiamento passeggero. Quanto ai ricordi su colonne, su pietre ed epigrafi neppure quelli durano a lungo. Rifletti allora in te stesso all'insegnamento dell'apostolo: «Non inorgoglirti ma temi» (Rm 11,20). Difficile capire se hai colto la durezza di questo insegnamento. Tu fuggi, mi dici, il malato? Perché ti rimprovero?  Potrebbe un uomo essere incriminato il cui umore è corrotto e marcio, perché il suo sangue è stato mescolato con la bile nera? Dovremmo prestare attenzione ai medici che studiano la malattia. Che male c'è se la sostanza dell'uomo è mobile e instabile ed è soggetto alla malattia? Non vedi che, oltre a persone in buona salute, ci sono persone che spesso soffrono per le malattie, bolle o infiammazioni in seguito queste malattie che si sviluppano in suppurazione, arrossamento e infermità? Che cosa dobbiamo fare? Non possiamo combattere la malattia che colpisce un membro del corpo? D'altra parte, siamo attenti a curare un membro malato contando sulla salute del corpo nel suo insieme. Quindi la malattia non è abominevole, perché una cura ripristina la salute al membro [M.484] stressato. Perché rifuggire da queste cose? Non dobbiamo temere la minaccia di colui che dice: «Andate via da me nel fuoco eterno. Nella misura in cui l'avete fatto non a uno di questi, l'avete fatto non a me» (Mt 25.41,45).
Se pensiamo che le cose stiano così, non avremmo questo atteggiamento verso chi sta male al punto da separarci da loro e da considerare una colpa ciò che sto compiendo, ossia il fatto che mi prenda cura degli sventurati. Allora, se crediamo che il Signore sia affidabile, cercheremo di praticare i suoi comandamenti, dal momento che, se non li avremo osservati, non saremmo considerati degni di ottenere i beni sperati. Lo straniero, il nudo, l'affamato, l'ammalato, il carcerato, e tutti gli altri poveri ricordati dal vangelo sono tutti inclusi in questo misero che hai incontrato. Gira senza meta e privo di tutto; non possiede nulla ed è bisognoso del necessario a causa della miseria nella quale è caduto in seguito ad una malattia. Poiché non ha una casa e neppure può contare su un salario, poichè non è in grado di lavorare, ha bisogno di tutto ciò che è necessario per vivere. Vive come un prigioniero, rinchiuso dalla sua malattia. 
Compiendo questi servizi hai praticato tutto ciò che ti veniva richiesto dai comandamenti e hai reso tuo debitore Colui che è il Signore di tutti a motivo della solidarietà che hai avuto verso questo povero. Perchè vuoi spegnere la tua vita? Chi non vuole avere per amico il Dio di tutti, non fa altro che diventare nemico di se stesso. Osservando i comandamenti, godrai della sua amicizia, mentre, al contrario, lo allontanerai da te se agirai in modo duro e insensibile. «Prendete su di voi il mio giogo», e per giogo intende la pratica dei comandamenti. Obbediamo al Signore che ci da questo comando, accogliamo su di noi il giogo di Cristo, lasciamoci afferrare dai legami del suo amore. Non scuotiamo via da noi questo giogo perché é soave e leggero. Non affatica la spalla di chi vi si sottomette ma la rinvigorisce. «Seminiamo nella benedizione», dice l'apostolo, «affinché meritiamo nella benedizione» (2 Cor 9,6).  Da questa seminagione germoglieranno molte spighe. La messe che proviene dall'osservanza dei comandamenti è abbondante. I germogli favoriti dalla benedizione ci sollevano in alto. 
Vuoi sapere a quale altitudine ci solleva la crescita di questi germogli? Ci fanno toccare l'altezza dei cieli. Quanto più ti impegnerai in queste attività, porterai frutto per acquisire tesori celesti. Non diffidare di queste parole e non disprezzare l'amicizia verso questi miseri. La loro mano può essere mutilata ma non è incapace di ricevere l'aiuto. I loro piedi possono essere inerti ma ancora capaci di correre verso Dio. I loro occhi possono essere illanguiditi, ma, grazia all'anima, possono contemplare i beni invisibili. Non limitarti ad osservare la deformità del corpo. Aspetta per un po' di tempo, e potrai vedere un'infinità di cose mirabili. Le cose che sono composte di una sostanza passeggera, non durano per sempre. Quando l'anima avrà potuto liberarsi dall'intreccio con le realtà corruttibili e terrene, allora potrà scorgere la sua bellezza. Ecco una prova di questo discorso: il ricco gaudente, dopo questa vita,  non disprezzò più la mano del povero, ma chiese che il dito del povero, che un tempo era corrotto, gli portasse una goccia d'acqua alla lingua, nella speranza che almeno l'umidità rimasta attorno al dito del povero, toccasse la sua lingua; non avrebbe chiesto questo se non avessi visto che quel corpo un tempo misero risplendere oramai come un essere spirituale, come l'anima. E' ovvio che quel ricco, in quel mutamento di vita, si ricredesse inutilmente! Che apprezzasse la sventura che quel misero aveva sofferto in questo mondo, che si lamentasse della sua sorte, poichè aveva ereditato una vasta fortuna a danno della sua anima. Se avesse potuto tornare in vita a quale tipo di persone avrebbe scelto di appartenere? A quelli che in questo se la godono o a quelli che invece vivono negli stenti? E' certo che preferirebbe la condizione dei disagiati. Insiste che un messaggero  sia mandato presso i fratelli dal mondo dei morti affichè non avvenga che anche quelli, rovinati per l'arroganza della ricchezza, immersi nei piaceri della bella vita, non venissero trascinati nella voragine dell'ade e andassero in rovina per la dolcezza del piacere. Ascoltando questo racconto, non dovremmo imparare un po' di saggezza? Perché non ci impegniamo in quell'affare che ci ha suggerito il divino apostolo: «La nostra abbondanza supplisca alla loro mancanza affinché anche la larghezza del loro perdono torni a nostra salvezza nella vita che seguirà in futuro» (2 Cor 8,14). Se vogliamo essere trattati benevolmente, anticipiamoli facendo loro del bene. Se vogliamo essere saziati nella vita futura, adesso offriamo loro refrigerio. Se vogliamo essere guariti dalle ferite del peccato, soccorriamoli nelle loro necessità concrete. «Beati i misericordiosi, perché otterranno misericordia» (Mt 5,7). 
Intanto qualcuno dice che il comandamento [che ci impone di essere solidali], dovrà essere osservato in futuro, in qualche altra circostanza ma che, nell'attuale evenienza, non sia opportuno avere scambi e relazioni con gli ammalati. Si dice che per non restare contagiati in modo involontario, è preferibile non rischiare di avvicinarsi a loro. Sono chiacchiere, scuse, pretesti! Sono veli splendidi esposti per smascherare la nostra negligenza nell'osservanza dei comandamenti di Dio. La verità è un'altra. Non dovremmo obbedire a Dio ed avere paura, né dobbiamo curare un male mentre soffriamo per un altro male. Quanti, come è possibile verificare, di coloro che si sono occupati di soccorrere questi miseri per tutto il corso della vita, dalla giovinezza alla vecchiaia, e godevano di sana costituzione, hanno avuto problemi di salute a causa del loro servizio? Non è normale che accada una cosa del genere. E' vero invece che qualcuna di queste malattie ha suscitato paure e apprensioni. Parlo di forme contagiose, di malattie che si sviluppano per cause esterne, per l'inquinamento dell'aria o dell'acqua e in questa circostanza sembra che chi si è ammalato per primo trasmetta poi il morbo a chi l'avvicina. Da parte mia non credo proprio che una malattia possa trasmettersi ad una persona sana, soltanto per una relazione tra le due persone. Una situazione precaria [dal punto di vista sanitario], provocando fenomeni simili a quelli della malattia, diventa la causa per la quale il morbo si trasmetta da quelli che si sono già ammalati ad altri che sono ancora sani. Tuttavia avviene in seguito che la virulenza del morbo si attenui all'interno [del corpo] e poiché il sangue può resistere alla degenerazione dovuta all'infusione di umori patologici, l'influsso della malattia si limita soltanto alla persona che l'ha contratta. Questa spiegazione viene suffragata da quest'altro indizio: qualcuna delle persone ammalate si è rinvigorita in modo consistente grazie al contatto frequente che avviene tra sani ed ammalati, anche se i primi si sono prodigati in modo splendido a curare gli infermi? Non l'ho mai osservato. Lo stesso fenomeno si verifica anche in senso contrario, ossia non avviene che degli ammalati trasmettano il loro male ad altre persone sane. Se i fedeli che osservano il comandamento dell'amore ottengono come premio eccellente il regno dei cieli, mentre nel loro corpo non subiscono alcun danno per essersi presi cura dei malati, che cosa ci può impedire di praticare il comandamento della carità? 
Mi obietti che è ben difficile convincere, a forza di  esortazioni, a compiere spontaneamente queste opere che sono aborrite da tutti. Convengo con te: penso che sia difficile. Dimmi, però, quale virtù non implichi uno sforzo per essere acquisita in tutto? La Legge divina ha ordinato di affrontare sudori e fatiche per la speranza dei beni celesti, ha precisato che la strada che conduce alla vita è faticosa e in tutti i passi la considera stretta a causa delle fatiche e delle asprezze da affrontare. Stretta ed angusta è la strada che conduce alla vita. Che fare allora? Trascureremo la ricerca di quei grandi beni perché acquisirli costa fatica? Chiediamo ai giovani se la temperanza non risulti a loro impegnativa o che cosa sia più attraente, abbandonarsi alle passioni senza alcuna remora oppure vivere dominando se stessi? Ci proporremmo allora una vita piacevole e leggera, arrendendoci di fronte alle difficoltà della vita futura? Non è certo ciò che vuole da noi il Maestro di vita quando ha vietato di percorrere, per ottenere la vita, una strada larga, facile ma inclinata verso il basso. Entrate attraverso la porta stretta ed angusta. Proponiamoci allora un traguardo che si raggiunge con l'impegno e diamo valore ad esso; cerchiamo di far diventare un'abitudine di vita il comandamento che finora abbiamo trascurato; abbiamone molta cura finché godremo il vigore consueto delle persone sane. L'abitudine diventa una grande energia e ciò che sembrava più aspro, grazie alla costanza, diventa piacevole. Non diciamo: quanto è difficile [questo stile di vita]! Diciamo piuttosto che è molto fruttuoso per chi lo esercitaVisto che il guadagno è lauto, dobbiamo accettare la fatica in vista del risultato. Ciò che sembra duro, con il passare del tempo diventerà perfino piacevole, grazie all'abitudine acquisita. Se ce n'é bisogno aggiungo anche questa osservazione: la solidarietà verso gli sventurati è ricca di frutti anche per quanto riguarda questa vita ed è un'ottima scelta, per coloro che saggezza, una raccolta frutto di misericordia, indetta per venire incontro alle disgrazie altrui. Poiché tutta la nostra umanità è vincolata da una medesima condizione, e poiché nessuno non ha qualche sicurezza di vivere sempre nel benessere, né qualche garanzia, conviene sempre ricordarsi del comando evangelico, quando afferma: ciò che vogliamo gli uomini facciano a noi, facciamo anche noi a loro. Finché navighi tranquillo, porgi una mano a chi ha fatto naufragio. Attraversiamo lo stesso mare, affrontiamo la medesima tempesta, c'imbattiamo tutti nello scuotimento delle onde; sassi nascosti sotto il livello dell'acqua, scogli e promontori e tutte le altre occasioni di naufragio incutono la medesime paura a tutti i marinai. Finché sei tranquillo, finché  scorri sul mare dell'esistenza senza trovare ostacolo, non avanzare senza avere misericordia con chi ha urtato uno scoglio. Chi ti ha assicurato che avrai sempre una navigazione serena? Non hai ancora attraccato ad un porto dove riposare, non ancora sei libero dalle ondate, non ha ancora questa esistenza ti ha stabilito nella sicurezza. Ancora stai attraversando il mare della vita. In quel modo in cui ti comporterai verso quelli che hanno incontrato la sfortuna, allo stesso modo si comporteranno con te i tuoi compagni di navigazione. Andiamo tutti verso il porto in cui riposeremo, godendo del tratto di vita che ci sta davanti grazie al vento dello Spirito Santo. Ci viene proposta l'osservanza dei comandamenti e il timone dell'amore. Grazie al loro aiuto, raggiungiamo la terra promessa, nella quale si trova la grande città di cui architetto e costruttore è Dio stesso, al quale sia gloria e potenza nei secoli dei secoli. Amen. 

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