martedì 26 febbraio 2013

Preghiera come respiro


Con una certa libertà filologica, Giacomo Leopardi nel suo Zibaldone (1817-1832) collegava il «meditare» al latino medeor, «medicare»: sarebbe, perciò, una sorta di medicina dell'anima. Certo è che il meditare orante è un'esigenza della fede, tant'è vero che l'orazione è un fenomeno antropologico universale. Noi ora cercheremo di delineare una mappa essenziale della sua struttura, mostrandone le ricadute vitali e personali. Quattro saranno i punti cardinali di questa guida che accompagnerà il nostro successivo pellegrinaggio spirituale nel Salterio come epifania della fede.
Il primo verbo è «fisico»: respirare, legato - come si diceva - all'os, la «bocca» che orat, «prega». Il filosofo Seren Kierkegaard (1813-1855) non aveva esitazioni quando annotava nel suo Diario: «Giustamente gli antichi dicevano che pregare è respirare. Qui si vede quanto sia sciocco parlare del perché si debba pregare. Perché io respiro? Perché altrimenti morrei. Così con la preghiera». Il teologo e cardinale Yves Congar (1904-1995), nella sua opera Le vie del Dio vivente, ribadiva questo tema: «Con la preghiera riceviamo l'ossigeno per respirare. Coi sacramenti ci nutriamo. Ma, prima del nutrimento c'è la respirazione, e la respirazione è la preghiera». L'anima che riduce al minimo la preghiera rimane asfittica; se esclude ogni invocazione, lentamente si strangola. Se si vive in un ambiente di aria viziata, l'esistenza intera si intristisce; così accade con la preghiera, che ha bisogno di un'atmosfera pura, libera da distrazioni esterne, allenata di silenzio.
Ecco, dunque, la necessità di creare un orizzonte intcriore limpido in cui sia possibile contemplare, meditare, riflettere, rivolgersi verso la luce di Dio. E interessante questa simbologia «fisica» per definire la preghiera. Essa pervade spesso i Salmi, che non di rado creano suggestivamente un contrappunto tra «anima» e «gola», perché unico è il vocabolo ebraico che le esprime, nefesh: «L'anima/gola ha sete di Dio, del Dio vivente ... Dio mio, Dio mio, dall'alba io desidero te solo, di te ha sete la mia anima/gola, desidera te la mia carne, in terra arida, assetata, senz'acqua» (Sai 42,3; 63,2). San Paolo ribadiva questa «fisicità», che non è meramente organica perché noi non abbiamo un corpo, ma siamo un corpo: «Offrite i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale» (Rm 12,1). Dobbiamo, quindi, ritrovare la spontaneità e la costanza del respiro orante esplicito e implicito, come la donna del Cantico dei cantici in quella sua stupenda confessione d'amore, fatta in ebraico di sole quattro parole: 'anìjeshenah welibbì 'er, «io dormivo, ma il mio cuore vegliava» (Ct 5,2). La fede, come l'amore, non occupa solo alcune ore dell'esistenza, ma ne è l'anima, il respiro costante.
«Il pregare è nella religione ciò che è il pensiero nella filosofia. Il senso religioso prega come l'orga-no del pensiero pensa.» Così il poeta romantico tedesco Novalis, ripreso in modo incisivo nella stessa lingua dal filosofo Martin Heidegger (1889-1976), sia pure in maniera inversa, denken ist danken, «pensare è ringraziare». Il secondo punto cardinale è, dunque, il pensare. La preghiera non è semplice emozione, deve coinvolgere ragione e volontà, riflessione e passione, verità e azione. Non per nulla san Tommaso d'Aquino considerava «l'orazione come un atto della ragione che applica il desiderio della volontà su Colui che non è in nostro potere ma è superiore a noi, cioè Dio».
La figura di Maria, tratteggiata dall'evangelista Luca (2,19), dopo aver vissuto l'esperienza della maternità divina, è esemplare: essa «custodisce le parole» e gli eventi vissuti, e nel suo cuore, ossia nella sua mente e coscienza, li «medita», in greco li raccorda in un'unità trascendente (symbàllousa), e questo è il vero «pensare» secondo Dio. L'intreccio tra preghiera e fede presuppone, appunto, un continuo travaso fra questi due atti, per cui si invoca colui che si conosce. Così, è proprio pregando che il Salmista può affermare che «Dio si è fatto conoscere in Giuda» (Sal 76,2). L'io dell'orante si incontra e dialoga con l'«Io sono» divino, rivelato al Sinai nel roveto ardente (Es 3,14). Chi prega conosce Dio e, alla sua luce, conosce se stesso, come suggeriva un altro filosofo, Ludwig Wittgenstein, nei suoi appunti del 1914-1916: «Pregare è pensare al senso della vita».
C'è, però, un terzo e sorprendente cardine dell'orazione: è il lottare. Il pensiero corre alla scena biblica notturna che si svolge sulle sponde dello Jabbok, affluente del Giordano (Gen 32,23-33): là Giacobbe duella con l'Essere misterioso che alla fine rimane l'Ignoto, ma che è così forte da cambiare al suo interlocutore il nome da Giacobbe in Israele, mutandogli quindi la vita e la missione. È lui che ancora lo colpisce nel corpo slogandogli l'articolazione del femore, ferendolo perciò nell'esistenza, ed è ancora lui che lo benedice affidandolo a una nuova storia («spuntava il sole, quando Giacobbe passò Pe-nuèl...»). Ora, è curioso notare che il profeta Osea ha interpretato questa esperienza del patriarca biblico come un'invocazione a Dio e, quindi, come una preghiera: «Lottò con l'angelo, vinse, pianse e implorò la grazia» (Os 12,5). A questa dimensione della preghiera e della fede dovremo dedicare ampio spazio, perché la forma dominante dell'orazione salmica è proprio la «supplica».
Essa sboccia dal dolore, diventa interrogazione lacerante rivolta a Dio, sperimenta anche il silenzio e l'assenza divina, s'incarna nel grido salmico ripetuto da Cristo in croce: «Dio mio. Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Si riproduce nella continua protesta di Giobbe, il quale giunge al punto di sentire Dio come una belva: «che digrigna i denti sopra di me e affila gli occhi... mi afferra per il collo per stritolarmi ... coi suoi arcieri mi trafigge i reni senza pietà ... mi apre ferita su ferita, mi si avventa addosso come un guerriero» (Gb 16,9-14).
È quel «contendere/lottare» con Dio che già spiegava il nome «Israele» secondo la Bibbia (Gen 32,29) e che Giobbe ribadisce nel suo incessante lamento:
«È con l'Onnipotente che io voglio discutere, è con Dio che desidero contendere» (Gb 13,3). È, ancora, quella notte dello spirito che avvolge grandi mistici come san Giovanni della Croce, il quale però con le celebri strofe del suo Cantico spirituale, partendo proprio dall'assenza oscura, ci conduce all'ultimo punto cardinale luminoso, quello della presenza amorosa e dell'abbraccio intimo: «Dove ti sei nascosto, o Amato, lasciandomi nel gemito? Come il cervo fuggisti, dopo avermi ferito: uscii dietro a te gridando, ed eri andato via...».
Alla fine, allora, si ha rincontro: il quarto verbo della preghiera è l’amare. Esso delinea la meta suprema della preghiera e della fede che è espressa attraverso l'altro genere dominante del Salterio, accanto alla supplica, cioè la lode fiduciosa e gioiosa. Alcune spiritualità marcano maggiormente la trascendenza, Finaccostabilità divina che deve essere solo contemplazione, ammirata e celebrata, ma che è arduo amare. Gli antichi Sumeri cantavano al dio Eniil per «le sue molte perfezioni che rendono attoniti», consapevoli però che egli era «come una matassa arruffata che nessuno sa dipanare, un arruffio di fili di cui non si vede il bandolo». Anche l'islam esalta l'inattingibile gloria divina, un sole accecante che al massimo lascia un riflesso nella pozzanghera d'acqua che è l'uomo, per usare un'immagine di quella religione. Eppure, l'autentico approdo dell'orazione è l'intimità tra il fedele e il suo Dio, tant'è vero che la stessa spiritualità musulmana tende a questo abbraccio. Infatti, Rabi'a, la mistica di Bassora delI'VIII secolo, sotto il firmamento stellato dell'Oriente, cantava: «Mio Signore, in cielo brillano le stelle, gli occhi degli innamorati si chiudono. Ogni donna innamorata è sola col suo amato. E io sono sola qui con te».
Nella fede cristiana l'intimità è piena perché Dio è invocato 'abba', «babbo», nell'oratio dominica per eccellenza, il Padre nostro, scelto da Gesù come preghiera distintiva del cristiano. Ormai non è solo un Dio del quale parlare, ma al quale parlare in un dialogo ove gli sguardi s'incrociano. È il momento della preghiera silenziosa: «contemplatelo e sarete raggianti» canterà il Salmista (34,6). È la stessa esperienza degli innamorati che, finito il colloquio delle parole, si guardano negli occhi. E quello è il linguaggio più intenso e dolce, più vero e intimo, come suggeriva Pascal, convinto che nella fede come nell'amore «i silenzi sono più eloquenti delle parole».
Mettiamoci, allora, nello stesso atteggiamento dell'orante biblico del Salmo 123, in un delicato e tenero scambio di sguardi tra il fedele e il suo Dio:
«A te levo i miei occhi, a te che siedi nei cieli. Ecco, come gli occhi dei servi alla mano dei loro padroni ... così i nostri occhi sono rivolti al Signore nostro Dio finché abbia pietà di noi» (vv. 1-2). È in questo incrocio silenzioso degli occhi che sboccia la contemplazione orante.

Card. Gianfranco Ravasi

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