lunedì 1 luglio 2013

Dio Padre nella riflessione dei Padri (Hausherr)

Nata a Gerusalemme, in un ambiente tipicamente giudaico, e convinta fin dall’inizio di formare il vero Israele secondo lo spirito, la Chiesa esprime naturalmente il suo messaggio nei termini della teologia giudaica. Il giudaismo contemporaneo si concentrava sul messia nei quale vedeva, come la Chiesa, il punto di convergenza dell'Antico Testamento. La Chiesa identifica il messia con Gesù di Nazaret e vede in lui anche il fulcro da cui si irradia il Nuovo Testamento. La funzione essenziale del Cristo messia è il ruolo di mediatore: sommo sacerdote della nuova alleanza, egli è stabilito per gli uomini in tutti i loro rapporti con Dio (cfr. Eb 5,1). Egli è anzitutto il rivelatore di Dio. Non lo è solo e principalmente con le sue parole, ma con la sua stessa persona. Egli è la Parola, il Verbo di Dio; è il Nome del Padre, la sua Immagine perfetta. «Chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14,9); «Chi vede me, vede colui che mi ha mandato» (Gv 12,45). «Vedere», qui, vuoi dire contemplare con l'intelligenza aperta dalla fede. Non si può credere a Cristo senza credere al Padre, senza il quale Cristo non sarebbe niente, non direbbe niente, non farebbe niente. Tutto il suo essere esprime il Padre; tutti i suoi discorsi parlano del Padre. Per diventare cristiano e ricevere il battesimo basta dichiarare: «Credo che Gesù Cristo è il Figlio di Dio», come fece l'eunuco di Candace battezzato da Filippo; o professare la fede nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo, secondo il mandato lasciato agli apostoli (Mt 28,19) dal maestro risorto.
Origene e i padri studieranno più tardi questa funzione rivelatrice del Verbo incarnato. Quanto a noi, dobbiamo solo constatare questo fatto che si afferma fin dalla catechesi degli apostoli e poi ovunque presso i testimoni dei primi tempi, che cioè Cristo costituisce la grande prova r dell'amore di Dio per il mondo, anzitutto perché tramite lui abbiamo conosciuto il Padre.
Conviene notare fra l'altro che se Cristo è prevalentemente questo, cioè la rivelazione del Padre e dei suoi disegni paterni, non ci sarà nessuna differenza reale fra una spiritualità cristocentrica e una spiritualità teocentrica: fermarsi al Mediatore senza andare con lui, tramite lui e in lui dove egli intende condurci, sarebbe come non riconoscerlo, poiché sarebbe non riconoscerlo per quel che è.
   Non solo rivelatore, ma colui che introduce. Quella che gli asceti cristiani chiameranno scienza semplice, cioè esclusivamente mentale nel senso povero e attuale della parola, non ci servirebbe a molto. Ci renderebbe forse contemplativi alla maniera dei platonici, ma non ci darebbe il possesso del bene sommo. Invece, conoscere, nel linguaggio realista della Bibbia, significa possedere: «Si forte attrectent eum», come dice il semita Paolo di Tarso agli atenesi (At 17,27). Cristo non illumina solo,. lamenti, ma santifica e salva l'uomo integrale, spirito, anima e corpo (cfr. iTs 5,23), conducendolo al Padre per farlo partecipare alla sua immortalità e alla sua beatitudine. «Per la fede in lui abbiano accesso (tèn parrésìan) in piena fiducia» (Et 3,12) e osiamo dire: «Padre nostro che sei nei cieli».
Questo duplice aspetto dell'opera di Cristo si riscontra nella doppia esegesi di Gv 1,18: «Dio nessuno l'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato», o secondo l'interpretazione proposta in base ad alcune varianti: «ci ha fatti entrare in lui».
Comunque, rivelazione della paternità di Dio e acquisizione della filiazione divina, è un'unica e identica realtà per chi ne vive o per chi sa che deve viverne. Per questo, spesso i padri non distinguono i due aspetti di quest'unico dono di Dio. Quando dicono «conoscere», intendono dire anche «possedere», perché «da questo sappiamo d'averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti» (IGv 2,3 ss). Chi pretende di conoscerlo diversamente «è bugiardo, e la verità non è in lui». E «chi professa la sua fede nel Figlio possiede anche il Padre» (IGv 2,23L perché «a quanti l'hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio» (Gv 1,12). «Essere chiamati», in questa lingua realista, equivale ad «essere» (cfr. IGv 3).
Queste sono le due grandi idee, incarnate in una stessa realtà, che occupano il primo posto nella coscienza cristiana dei primi tempi: il Cristo Figlio di Dio e la paternità divina che ci ha rivelato e comunicato unendoci a se stesso. Separare questi due aspetti del nostro discorso, equivale a praticare la vivisezione. Per avere la sensazione del contatto con la vita, bisogna leggere i testi liturgici, le lettere di sant'Ignazio di Antiochia, le pagine dottrinali di sant'Ireneo. Anche le ingenuità contorte del Pastore di Erma possiedono un calore che non potrebbero avere le costruzioni sistematiche. E tutto questo, ancora ardente di vitalità nella sua espressione senza affettazioni, inizia già l'analisi e la selezione. 
La mistica di Cristo (se dobbiamo chiamare con questo termine vago e moderno una realtà così antica e precisa) è fatta di fede semplice e totale: semplice, perché esclude ogni duplicità nel senso che diremo; totale, perché non lascia niente fuori della sua azione. Non ci si può dare a Cristo con metà della propria anima; non si divide il proprio spirito tra la visione del mondo che egli insegna e ideologie con essa incomparabili; non si scommette su due valori così diversi come quello di Dio e quello del mondo (Ign. Magn. V, 2); non si deve parlare di Cristo quando si nutrono avidità terrene (Ign. Rom. VII, 1). Questo sdoppiamento dell'anima (dipsychia), che agli antichi incuteva ribrezzo, si manifesta attraverso l'esitazione nella preghiera (cfr. Gc 1,6) o la perplessità ansiosa di fronte alle incertezze del futuro. Una piccola frase enigmatica (secondo gli studiosi, per es., Funk 1, p. 12, nota 4) si ripete nella Didachè e nella Lettera di Bamaba, come se fosse molto chiara: «Non chiederai con ansia se questo avverrà o non avverrà». Malgrado l'aggiunta «nella preghiera» a questa frase nei Canoni ecclesiastici e nelle Costituzioni apostoliche, sembra più conforme allo spirito del tempo intendere intendere con ciò ogni preoccupazione di avere altre certezze sul futuro oltre a quelle più che sufficienti che da la fede nella Provvidenza: «II Padre tutto misericordioso e benevolo ha viscere per coloro che lo temono. Effonde le sue grazie con dolcezza e bontà su quelli che si accostano a lui con cuore semplice. Diffidiamo dunque della doppiezza, e la nostra anima non si crei dei fantasmi a proposito dei suoi doni che sono imparagonabili e magnifici. Che non si applichi mai a noi questa parola della Scrittura: Infelici quelli che hanno un'anima doppia, quelli che dubitano nei loro cuori e dicono: abbiamo già sentito dire questo fin dal tempo dei nostri padri; ma ecco che siamo invecchiati e niente di tutto questo è mai sue cesso...» (Clemente, XXIII, 1-3). Niente di più opposto alla fede pura delle pratiche pagane di divinazione: «Figlio mio, non osservare il volo degli uccelli, perché questo porta all'idolatria; guardati dagli incantesimi, dai calcoli astrologici, dalle purificazioni superstiziose; rifiuta persino di vederli e di ascoltarli, perché tutto questo porta all'idolatria» (Didachè, III, 4).
Simili testi si rifanno alla fede in Dio Padre; ma questa non si distingue realmente dalla fede in Cristo, liberatore dell'uomo, proprio perché è il rivelatore del Padre. In lui, e per mezzo di lui nel Padre suo che è il nostro, bisogna avere una fede incrollabile (Ign. Smir. I, 1), una fede integra, come dirà Erma (Precetto V, 2, 3; cfr. IX, 6). Potremo riconoscerla dalla grandezza d'animo che ispira: «La longanimità è piena di grandezza e di forza, essa possiede un potente e vigoroso dinamismo che si sviluppa con grande rigoglio; è gaia, allegra, senza preoccupazioni; rende gloria al Signore in ogni occasione; non conserva alcuna amarezza; in tutto rimane dolce e serena. Simile longanimità dimora in coloro che possiedono la fede integra (tèn pistìn echónton holókiéron)» (Precetto V, 2, 3).
Sant'Ignazio, a sua volta, possiede e predica agli altri «uno spirito senza esitazione che è il Cristo», cioè, secondo lo stile inimitabile di Igna-zìo, uno spirito che, dal momento che si tratta di Cristo, non conosce più alcuna esitazione o dubbio o secondi fini, un atteggiamento dell'a-nima (una mentalità) tutto d'un pezzo, senza pecca ne incrinatura (Troll. 1, 1); e questo non per servirsene ali'occasione, ma radicato nel fondo stesso della natura. Una fede che non sia solo un atto di intelligenza momentanea, ma che sia noi stessi, in un certo senso identica alla nostra anima; una fede che per grazia di Dio sia di un'unica fonte, «setacciata, decantata, depurata di ogni elemento estraneo», una fede che esulta senza riserve nella passione del Signore, entusiasta della passione del Signore, senz'ombra di scetticismo, iun:a penetrata (del pensiero) della sua risurrezione (cfr. Smir. I, 1). Il vescovo di Smirne sta decisamente dalla parte della qualità più che della quantità: vuole cristiani «pieni della grazia di Dio, senza divisioni (adiakritós) e alieni da ogni macchia estranea» (Rom., Saluto); teme le divisioni, ma si guarda dal confonderle con il necessario discernimento che garantisce i fedeli contro le dottrine false e contro quelli che le insegnano (Fil 3,1).
L'errore che più detesta era il docetismo, che vuole vedere nell'umanità di Cristo solo un'apparenza. La sua fede totalitaria va al Cristo reale, storico, «Figlio di Dio e figlio di Maria», «al Cristo della stirpe di Davide, nato da Maria, che è stato veramente dato alla luce, che ha mangiato e bevuto, che è stato veramente perseguitato sotto Ponzio Pilato, stato veramente crocifìsso ed è morto sotto gli occhi degli abitanti del cieio, della terra e degli inferi» (Troll. IX, 1). La vita terrena del Figlio di Dio è una storia e non un mito, come diceva già san Pietro (2Pt 1,16) e come la Chiesa, adempiendo la sua missione di testimone di Cristo, affermerà sempre contro tutte le mitologie, contro tutti gli «gnosticismi», contro tutti i modernismi e contro tutte le ideologie elaborate sul mito del XX... o del XXXVI secolo. E una storia fornita di date, come attesta la menzione frequente di Ponzio Filato; è situata nello spazio, nonostante la sua portata universale ed eterna.
Ignazio di Antiochia e i martiri suoi fratelli non muoiono per un Cristo di amorosa immaginazione, rappresentante di una generosa utopia. La sua fede non è una questione di sensibilità ne il prodotto di una devozione ardente. E una convinzione virile, assoluta, ispirata dal semplice richiamo dei grandi fatti della vita di Cristo (nascita, passione, croce e risurrezione), ma vista alla luce del principio primo di ogni teologia cristiana.
Il mistero di Cristo nessuno l'ha espresso e nessuno poteva esprimerlo più chiaramente di Gesù stesso con la sua coscienza di Inviato di Dio:
Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna (Gv 3,16).
Questa meravigliosa piccola frase, che può sembrare sentimentale a menti «forti» e superficiale, presuppone e racchiude nella sua sostanza o implica come conseguenza tutta la metafìsica, tutta la teologia dell'An-tico e del Nuovo Testamento, tutta la morale e tutta la mistica del cristianesimo. E attorno ad essa che si sono combattute tutte le battaglie cosiddette cristologiche dei primi secoli e che si fronteggiano ancora oggi, consapevolmente o inconsapevolmente, tutte le ideologie di sostituzione. Da quando è stata pronunciata questa frase, o meglio da quando la verità in essa condensata è stata annunciata in questo mondo, l'umanità è malata di Cristo, nel senso che è diventata consapevole di essere malata, in presenza di questo medico che le rivela il suo male presentandosi come medicina. Il messianismo, in quanto aspirazione a una salvezza proveniente come rugiada dal cielo, non è un fenomeno isolato; l'intensità particolare che questa aspirazione assume in Israele dimostra soltanto l'intelligenza e l'eccezionale destino di questo «popolo di Dio». A lui, fino ad oggi e fino àll'ultimo giorno, per mezzo di lui a tutti i popoli e ad ogni uomo che viene in questo mondo, è posta una domanda al di sopra di ogni altra domanda: «Quid vobis videtur de Christo?: Che cosa pensate del Cristo?» (Mt 22,42).
E Cristo stesso a farla; e ne precisa immediatamente il senso, orientando verso la risposta, con queste parole: «Di chi è figlio?» (Mt 22,42). La cristianità risponderà sempre con Ignazio di Antiochia: «Figlio dell'uomo e insieme Figlio di Dio» (Ef. XX, 2). Queste due qualità fanno di lui «il solo medico, carne e spirito nello stesso tempo, generato e non generato, vita vera nella morte, da Maria e da Dio, un tempo soggetto al dolore e ora impassibile, Gesù Cristo, nostro Signore» (Ef. VII, 2).
Gesù Cristo nostro Signore: questo nome che la liturgia gli da attraverso i secoli garantisce nella sua complessità l'unità di Cristo che gli eretici cominciarono molto presto a dividere, proprio a causa della loro incapacità di elevare l'anima fino all'intelligenza di quest'insondabile amore che Dio ci testimonia in Christo Jesu Domino nostro (san Paolo, Ef 3,11). I doceti prima, gli gnostici dopo non hanno saputo credere a simile condiscendenza da parte del Trascendente. Nel loro tentativo di renderla comprensibile, secondo le categorie della loro sapienza umana, o hanno soppresso l'umanità reale di Cristo, e quindi la condiscendenza, o hanno rimosso la dignità al di là di una gerarchla di eoni inventati per salvaguardare la trascendenza. Cristo da una parte, Gesù dall'altra: è la fine della salvezza quale la annunciava la «buona notizia» del vangelo, cioè la salvezza tramite l'incarnazione di una Persona realmente divina in una natura veramente umana, in un''unione per la quale la teologia avrebbe trovato solo più tardi la qualificazione di ipostatica, ma che la fede fin dalle origini aveva affermato decisamente, attribuendo allo stesso soggetto sia i nomi divini eternamente propri del Verbo sia i nomi umani assunti nel tempo da Gesù di Nazaret. Il Cristo nato da Maria, Gesù Cristo nostro Dio, ripete continuamente il vescovo di Antiochia (Ef., Saluto; Smir. I, 1; Troll. VII, 1; ecc.) insieme a tutti i credenti.
Solo a questo prezzo ci salva, perché, come dice sant'Ireneo e come diranno dopo di lui Gregorio di Nazianzo e tutti i teologi, la nostra salvezza consiste appunto in questo: «II motivo per cui il Verbo di Dio si è fatto uomo e il Figlio di Dio è divenuto figlio dell'uomo, è che l'uomo, unito al Verbo di Dio e ricevendo l'adozione, diventi Figlio di Dio» (Adversus haereses. III, 19; PG 7, 939; B = Sagnard, SCh 34, p. 80). Pur senza la parola, abbiamo qui l'idea della deificazione dell'uomo, scopo dell'incarnazione di Dio. Questa dottrina — di cui il teologo per antonomasia, Gregono di Nazianzo, darà la classica formulazione: «il Verbo di Dio si è incarnato affinchè io diventi Dio tanto quanto lui è diventato uomo» (Discorsi teologici. III, 19; PG 36, 100 A) — racchiude grandi enigmi dei quali le prime generazioni non hanno avuto il tempo di prendere coscienza fino a discuterli, come faranno più tardi i difensori dell'ortodossia, contro eretici meschini; erano troppo occupati a vi-verla per provare il bisogno di analizzarla al solo scopo di esprimerla secondo le abitudini mentali dei greci. Non si vive di corpi chimici semplici; la vita si mantiene e si sviluppa soprattutto grazie ai nutrimenti molto complessi forniti dagli esseri viventi. Spiritualmente, è la venuta del Cristo vivente, l'assimilazione globale del suo insegnamento, che nutre l'anima più delle sottili analisi dei dati della fede. I primi tempi avevano soprattutto bisogno di cristiani disposti al martirio, e questa disposizione si crea e si mantiene in un clima di intimità con il Cristo totale, più che nel clima rarefatto delle controversie. Ignazio di Antiochia, che in un certo senso si può chiamare il tipo ideale del martire, non sembra avere nessuna curiosità per il particolare e per l'accessorio. Il tempo dei vangeli apocrifi, o per lo meno il tempo della loro fioritura, non è ancora giunto. Il ricordo continuo dei grandi fatti della vita di Cristo ha più efficacia nell'unire a lui tramite la fede e l'imitazione che gli aneddoti sui quali si soffermeranno le Meditazioni di uno Pseudo-Bonaventura. Sarà sempre così. Dei padri del deserto, «successori» dei martiri, per esempio, «sappiamo che il cibo ordinario della loro pietà era l'Antico e il Nuovo Testamento; ma non li vediamo preoccupati circa i particolari degli episodi della vita di Cristo» (J. Bremond, Les Pères du désert, II, p. 527). Ma Ignazio — come Giovanni suo maestro e Paolo e tutti i veri apostoli — non si stanca mai di ripetere ai suoi i grandi avvenimenti, le grandi tappe di Cristo nel compimento della sua missione d'a-more, perché egli stesso se ne nutre in continuazione.
Circa la salvezza tramite la redenzione e la deificazione, non c'è quindi bisogno di interrogarsi, come si fa ai giorni nostri, se il Cristo ce la procura con i meriti della sua passione o con il contatto della sua incarnazione. Ci salva con tutto se stesso. La croce non avrebbe nessun valore redentore, se colui che l'accetta per obbedienza al Padre non fosse perfetto Dio e perfetto uomo. Nel disegno reale di Dio l'incarnazione non può venire separata dalla morte e dalla risurrezione, se non per una sterile veduta dello spirito. Tutta l'opera di Cristo in quanto dottore, medico, modello, sommo sacerdote e vittima, vincitore della morte ed eternamente vivo, lui che ci nutre con la sua carne nell'unità della Chiesa, tutta quest'opera attiva e passiva è richiesta per compiere in noi i paterni disegni di Dio. Con la venuta di Cristo in questo mondo, «ogni magia fu smascherata, ogni legame d'iniquità spezzato, l'ignoranza distrutta, l'antica regalità rovesciata. Con la manifestazione di Dio in forma umana, in vista di una novità di vita etema, quello che era stato deciso da Dio riceveva un inizio di esecuzione (su questa terra). Questo spiega lo sconvolgimento universale: quella che stava preparandosi era la distruzione della morte» (Ign. Ef, XIX, 3).
Al di sopra di tutto vi è quindi il piano di Dio; esso è perfetto da tutta l'eternità, come l'amore e la saggezza lo hanno voluto. Perfetta e senza difetti è anche la realizzazione di questo piano, per mezzo della fede e della carità. E anche questo fa parte del mistero di Cristo. Attirato dai cristiani a Cristo, il nuovo convertito aveva un lungo cammino da percorrere, un magnifico compito da realizzare. A questo proposito, regnava nello spirito dei fedeli una perfetta chiarezza. Ad un pagano messo in allarme dallo spettacolo della nuova religione, un autore ignoto espone le quattro tappe del programma. Non potremo fare di meglio che adottare questa divisione: è tuttora valida, anche e soprattutto se nella pratica abbiamo un po' dimenticato qualche sua parte. Non si tratta tanto di un processo logico, quanto di uno sviluppo psicologico. Il testo greco che ce lo fa conoscere presenta all'inizio una difficoltà risolta in modo diverso dai critici. Due traduzioni si giustappongono. «Se anche tu t'innamori di questa fede, riceverai anzitutto la conoscenza di un Padre»; oppure: «Se tu..., e se l'abbracci, comincerai a conoscere il Padre» (cfr. H. I. Marrou, A Diognète, SCh 33, p. 76). Nel primo senso la conoscenza del Padre è l'inizio di ciò che seguirà; nel secondo, essa è solo a uno stadio iniziale. Sono vere entrambe le cose: la conoscenza del Padre precede qualsiasi sviluppo della vita cristiana; e di conseguenza essa cresce di pari passo con questo sviluppo. Non si tratta in nessun caso di una scienza «semplice», ma di una conoscenza spirituale attraverso la fede, la speranza e la carità.
Per capire l'effetto prodotto sul neocristiano dalla rivelazione della paternità divina, bisogna rimettersi nella situazione in cui si trovava il mondo di allora. Venute in maggioranza dal paganesimo, avendo comunque conosciuto quell'atmosfera pagana, fatta, come dice san Giovanni, di triplice concupiscenza, cioè di quei desideri violenti o dolorosi generati dal sentimento di insoddisfazione, di povertà, di incompletezza, le prime generazioni cristiane sapevano cosa vuoi dire «non avere speranza». Il nostro tempo, come del resto tutti i tempi e forse anche di più, è perfettamente adatto a farci ritrovare questo sentimento, malgrado e forse proprio a causa dei suoi progressi tecnologici. Non dobbiamo immaginarci un'antichità priva di piaceri: dai più eccitanti negli anfiteatri, fino ai più delicati della poesia o dell'arte, ne offriva ai beati possidentes altrettanti, se non di più, della nostra epoca assillata da sconvolgimenti sociali. Non insisteremo sulla testimonianza del popolino, perché potrebbe esserci il sospetto che non vale più oggi e perché la sua voce quasi non giunge fino a noi.
Ascolteremo quindi i «pauci» per i quali viveva, faticava e mori»» il genere umano (cfr. Lucano, Pharsalia). Erano felici? Filosofi e letterati hanno scritto molto sulla vita beata, suìVeudaemonia. Perché la e crescevano o perché la cercavano? In ogni caso i loro libri sono tutto, fuorché autobiografie di persone felici. Abbiamo preso l'abitudine di parlare della felicità dell'infanzia: questo appariva assurdo ad Aristotele e inimmaginabile a sant'Agostino. Non si può essere felici nell'incoscienza, cioè in una situazione dalla quale è assente la prima condizione della felicità umana, cioè l'intelligenza, la facoltà di contemplazione; ne in uno stato di vita che impone il lavoro, perché «contemplatio otiosorum est»,
Interroghiamo quindi quelli che possiedono queste due cose. E lasciamo da parte le due comode parole, pessimismo e ottimismo; non sono che sistemi e partiti presi, se non questioni di temperamento e quindi infrarazionali e infraumane. Cristo ci ha insegnato a giudicare le dottrine dai loro frutti. La civiltà antica ha reso felici coloro che sono i suoi rappresentanti autentici e che hanno potuto godere in modo più integrale dei beni che ad essi offriva? Per il momento non parliamo nemmeno di Epitteto, poiché fu schiavo; ma ricordiamoci che i suoi simili costituivano la massa dell'umanità, e che Marco Aurelio si rallegra per avere potuto leggere i suoi «ricordi» (Tà eis heautón = Ricordi, I, 7).
Ed ecco ora un uomo libero, Lucrezio, considerato da alcuni il più grande poeta latino, superiore a Virgilio. In ogni caso è un personaggio intelligente e che si dice filosofo; erudito per giunta e libero da ogni scrupolo {religio, come dice lui) che lo potesse disturbare nella sua ricerca del benessere; tutto sommato per niente falso. Eppure, diceva un esperto (Louis Laurand, autore del Manuel des Etudes classiques), sui suoi circa seimila versi, seicento sono buoni, e su quei seicento una sessantina sono ineguagliabili. E sono proprio quelli che cantano, per lo più, la miseria dell'uomo.
O miseras hominum mentes! o pectora caeca! Qualibus in tenebris vitae quantisque periclis degitur hoc aevi quodcumque est! (De rerum. natura, II, 14-16)
...Che misere menti, che ciechi
cuori han sortito i mortali! E in che tenebrore di vita
scorre, e in quali perigli quest'ombra del vivere nostro!
E questo nel bei mezzo di una tirata sulla felicità del saggio epicureo: il saggio supererà ogni terrore con lo studio razionale della natura, come ama ripetere Lucrezio (ibid. I, 146-148; II, 60-62).
E fuori discussione, infatti, che la natura possa essere fatta da Dio per la felicità dell'uomo: «Tanta stat praedita culpa»\ (ibid. V, 199). Non ci prende nemmeno in giro, il che sarebbe già un segno d'interesse; pro-
duce e stritola nell'indifferenza più totale; e il più disarmato dei suoi rampolli è quel piccolo essere che è uomo, l'uomo in generale:
Tum porro puer, ut saevis projectus ab undis navita, nudus humi ^acet, infans indigus omni vitali auxilio, cum primum in luminis oras nixibus ex alvo matris natura profudit;
vagituque locum lugubri compiei, ut aequum est cui tantum in vita restet transire malorum (Ihid. V, 222-227)^
...Or ecco, di naufrago al pari, che l'onda getta irata sul lido, si giace per terra il bambino nudo, ad esprimersi inetto, di tutt. '  SI viver soccorra privo, dal primo istante che, a furia di doglie, Natura via da l'alvo materno lo trasse a la luce del giorno:
ed i vagiti, . ."-l'^'Tipie il luogo, risuonan lugubri;
com'è giusto, cui ranto d'affanni la vita riserbi.
Ed ecco la conclusione di uno studioso (J. J. M. Zonneveld, «Angore metuque». Uno studio lessicale sul fenomeno dell'angoscia nel «De rerum natura» di Lucrezio, Utrecht-Nijmegen 1959, p.
(Lucrezio) a volte assume l'aria aggressiva di l      : deve combattere un nemico palpabile, a volte scivola insensibilmente verso un pessimismo pieno di un profondo disfattismo, soprattutto verso la fine dei suoi libri in contrasto con l'inizio nettamente ottimista. La cosa ancora più deprimente è che numen e religio romani sono le tentazioni insaziabili delle cup-pedines...
Trascinato dalle forze di distruzione, egli glorifica la morte immortale e denigra l'amore, perché pieno di passioni passeggere, e vede come, in seguito a un decadimento delle sue forze, la natura soccombe in un fragoroso crollo finale. Ma è solo la catastrofe descritta alla fine del sesto libro che getta l'ombra più fosca sull'intero poema: l'angoscia che prova il poet" di fronte ali'annientamento totale nella mors immortalis. E la peste ad Atene che costituisce veramente l'ultima fine senza domani, senza nessuna prospettiva di pace e di felicità.
Al termine di questo studio sarà il caso di chiederci se Lucrezio non sia precipitato anche lui in quella disperazione che è la fine così tragic del poema De rerum natura.
Oltre all'epicureo Lucrezio, abbiamo lo stoico Marco Aurelio. Nessun uomo come lui ebbe tutto per essere felice: salute, denaro, posizic ne, successi di ogni genere, e soprattutto saggezza, o per lo meno filosofia, e filosofia stoica. Nobiltà d'animo, quindi, lontana dalla volgarità dei gaudenti o dei vanitosi. Non è certo a lui che l'abuso dei piaceri fa dire, come a Lucrezio, deluso:
...Medio de fonte leporum
surgit amari aliquid, quod in ipsis floribus angat.
(De rerum natura, IV, 1133-1134)
...Sorge dal mezzo di tali delizie qualche cosa d'amaro, che i fiori medesimi attosca.
Possiamo credere a Marco Aurelio: se è riuscito a risolvere per sé il problema umano, siamo disposti a dimenticare che ha avuto bisogno per questo di un concorso di circostanze tali che pochi uomini possono avere a disposizione. Ma la sua sorte è da lui stesso ritenuta invidiabile? Gli bastò convincersi che era sopportabile. A proposito di tale considerazione particolarmente rassegnata, un traduttore osserva: «Si ammira la bellezza letteraria, l'abile (troppo abile) equilibrio, il fascino poetico di questo pensiero» (A. I. Tranoy in Mare Aurèle, Pensées, Paris 1925, p. 42). Quindi, uno dei tanti letterati? Cercavamo qualcos'altro in questo grande e onesto personaggio. La nota continua: «Ricordiamo tuttavia che il suo passaggio sulla terra non ispira nessuna idea malinconica a Marco Aurelio». Che non ci si consenta di giudicare noi stessi! O piuttosto solo capire e simpatizzare. Nella vita dell'uomo la durata è un punto, la sostanza, passeggera; la sensazione, opaca; la struttura di tutto il corpo, destinata a marcire; l'anima, una banderuola; la fortuna, imprevedibile; la fama, impercettibile. In poche parole, tutto ciò che riguarda il corpo, un fiume che passa, e ciò che riguarda l'anima, sogno e vapore; la vita, una guerra e un passaggio da stranieri; il ricordo postumo, oblio. Che cosa, allora, ci può guidare? Una cosa sola, la filosofìa». E la filosofia consiste soprattutto, per Marco Aurelio e per tutti gli antichi, nella meléto thanàtou, cioè nell'aspettare la morte con serenità, perché vi si vede solo la dissoluzione degli elementi di cui si compone ogni vita.
Anche Geoffroy Saint-Hilaire (Pensées de Mare Aurèle, Pans 18/6, p. 47) sente il bisogno di avvertire lo sprovveduto lettore che «questi pensieri hanno la grandezza di Pascal, senza averne l'inguaribile tristezza». Ci sia concesso vedere in quest'osservazione un imperdonabile insulto nei confronti del cristiano che voleva essere Pascal. Gli umili cristiani del tempo di Marco Aurelio credevano di avere trovato, o meglio ricevuto dall'alto, il rimedio perfetto per la tristezza (la conoscevano per esperienza) dei loro contemporanei, compreso l'imperatore filosofo. Anche loro dicevano: non c'è che un pilota, uno solo; ma non aggiungevano: è la filosofia; e se più tardi adottarono questo termine, intendevano con filosofia il loro stato stesso di discepoli di Cristo loro salvatore.
In fondo, la grande pietà che proviamo leggendo Marco Aurelio, vedendo la sua bell'anima degna di una sorte migliore, sta nel constatare gli eroici sforzi di pensiero e di virtù che questa persona viva fa per rassegnarsi seriamente a non essere altro che il giocattolo di una natura anonima e impersonale. Se c'è provvidenza solo nel senso stoico di questo termine, cioè come necessità e fatalità, anànké e heimarménè, l'uomo vale più della sua causa prima. Marco Aurelio considererebbe simile asserzione una bestemmia (ma chi viene bestemmiato, se nessuno ci sente?). La sua ostinazione a mantenersi in stato di adorazione verso il «comune hègemonikón» (Ricordi, VI, 36) ci muove ad ammirazione e spavento insieme. Tutto si svolge come se questo Principio primo si nutrisse e vivesse del nostro schiacciamento (questo ricorda il rimprovero che sant'Agostino rivolgeva al manicheismo). Non c'è altra salvezza per me che volere il bene di lui e, per quanto mi riguarda, procurarglielo lasciandomi definitivamente sbranare da lui. Ah, se ci fosse Qualcuno! Il mio annientamento potrebbe diventare amore, la mia rassegnazione trasformarsi in gioia! Il vocabolario di Marco Aurelio ignora la parola, evangelica per eccellenza, charà, «gioia».
Ma quante volte, sotto la dura corazza aeila sua logica stoica, pos-; amo avvertire pulsazioni più umane e quasi lo slancio della sua anima verso una relazione più affettuosa con l'imperturbabile trascendente! Non solo verso gli «dèi», che sono una specie di surrogato, a immagine dell’uomo, del grande Anonino impassibile, ma verso «colui che governa» (cfr., per es., ibid. VI, 10). Qui Marco Aurelio diventa meno desolante, la sua «apatia» si fa meno forzata, un po' di spontaneità fa capolino attraverso il suo volontarismo che fa di necessità virtù
O miscuglio, groviglio, sparpagliamento; oppure unità, ordine, provvidenza. Nella prima ipotesi, perché dovrei avere la minima voglia di rimanere in un simile caos? Perché dovrei preoccuparmi di altre cose se non di «diventare un giorno polvere» (Iliade, VII, 99)? Perché anche turbarmi? Sarò preda della disgregazione, qualsiasi cosa faccia! Ma se l'altra ipotesi è (quella vera), adoro, mi rassereno, conto su colui che governa (ibid. VI, 10).
...Tutto dipende da questo: se c'è un Dio, va tutto bene (ibid. IX, 28).
E se c'è un Dio, che cos'è la Carità?
L'autocrate Marco Aurelio si dimostra meno audace del suo maestro, l'ex schiavo Epitteto. E quest'ultimo che ha dato dell'aspirazione umana verso un Dio sovrano e amorevole la formula migliore, in quat-teo parole, meravigliose, otto sillabe per l'esattezza, che potremmo scrivere come motto, come sottotitolo per una storia universale del desiderio umano. Ma per afferrare tutto l'imperioso vigore di queste poche sillabe, o per esserne afferrati come l'autore stesso, bisogna vivere con lui la tensione interiore che gliele fa proferire, quasi suo malgrado, ma con tutto il suo essere. La pagina che le racchiude rimane però interamente dominata da una nota falsa, la stessa che abbiamo potuto avvertire nell'imperatore stoico: «In realtà, non sei nato quando hai voluto tu, ma quando il mondo ha avuto bisogno di tè». Umiltà o presunzione, poco importa per ora. In ogni caso, in questa prospettiva, l'uomo è solo una cosa di cui una cosa più potente di lui si serve a proprio vantaggio. E tanto più notevole, quindi, che da questa rassegnazione immensa e assoluta ali'annientamento fisico e metafìsico scaturisca improvvisamente, come da una frattura, sotto la pressione di un sentimento più forte di ogni deduzione, un grido, un appello, una confessione, un'implorazione e virtualmente un atto d'amore:
...L'uomo di bene, ricordando chi è, da dove è venuto e perché è stato creato, si impegna per una sola cosa: come mantenere il suo posto con disciplina e sottomissione a Dio: «Vuoi che io continui a vivere? Vivrò da uomo libero, come un uomo di buoni natali, come hai voluto tu: perché tu mi hai creato, affrancato da ogni schiavitù per tutto ciò che mi appartiene. Ma non hai più bisogno di me? Come vuoi tu. Fino ad oggi, è per tè che sono rimasto, per nessun altro, ed ora obbedisco, me ne vado». - Come tè ne vai? — «Come hai voluto tu, da uomo libero, come tuo servo, come uno che ha il senso dei tuoi ordini e delle tue proibizioni. Ma finché sono al tuo servizio, chi vuoi che io sia? Magistrato o semplice cittadino, senatore o plebeo, soldato o generale, precettore o capofamiglia? Morirei mille volte piuttosto che abbandonare qualsiasi posto, qualsiasi ruolo che potrai assegnarmi, come dice Socrate. Dove vuoi che io abiti? A Roma, ad Atene, a Tebe o a Giaro? Ti chiedo una sola cosa; lì, ricordati di me. Se mi mandi in un luogo dove è impossibile vivere da uomo, lascerò questa vita, non per disobbedienza, ma perché tu avrai suonato per me la ritirata. Io non ti abbandono... Ma capisco che non hai più bisogno di me... (Epitteto, Discorsi, III, 24, 95-101).

E tutto quello che ti chiedo: là dove sarò per volontà tua, dovunque, lì ricordati di me. Abbi un pensiero per me. «Et dives sum satis, nec aliud quidquam ultra posco», potremmo aggiungere con la preghiera famosa con cui culminano gli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola. Accetto tutto, rinuncio a tutto e mi sottometto a tutto; mi riterrò ricco abbastanza purché tu pensi a me, non mi dimentichi e ti serva di me, consapevolmente. L'intollerabile, l'inaccettabile, l'ingiustificabile, è solo la sofferenza e l'appiattimento stupido nella solitudine dell'immensità incosciente.

Irenée Hausherr

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