venerdì 19 luglio 2013

Il dolore nel cristianesimo. Getsemani

«Rendi al medico l'onore a lui dovuto per il bisogno che si ha di lui, poiché il Signore lo ha creato. Dio ha dato negli uomini la scienza, perché essi si gloriassero delle sue meraviglie. Con esse il medico cura e calma il dolore e lo speziale ne fa in unguenti» (38, 1-7). Con queste parole, il Siracide celebra l'opera altamente umanitaria del medico impegnato nella lotta contro il dolore. E anche nella dolce preghiera, Gesù ci fa chiedere: non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male. Male inteso nel suo significato più ampio: fisico e morale; sapendo bene che il male fisico può essere una fonte di meriti, non può anche diventare, per noi,  occasione di cadute. Gesù ha pregato per i suoi discepoli così: «Padre, non ti prego di toglierli dal mondo, ma che tu li custodisca dal male» (Gv 17,15). Cioè da tutti gli influssi malefici, ai quali sono esposti i discepoli in un mondo le cui opere sono malvagie. «Se vi perseguiteranno in una città, fuggite in un'altra» (Mt 10,13). Il cristiano non può, ordinariamente, mostrarsi scialacquatore della vita, della quale sa di essere non il padrone, ma depositario e custode. Del resto Gesù ce n'ha dato l'esempio: finché non giunse la sua ora, egli sfuggì sempre al bersaglio dei suoi avversari. Sono nel Getsemani e sulla croce, cioè nel dolore più straziante, egli prega il Padre per sé medesimo. Che bisogno aveva di implorare l'allontanamento dalla passione imminente, egli che poteva disporre di dodici legioni di angeli in sua difesa? (Mt 26,53). Se ha pregato nel supremo combattimento, tra la natura che s'abbatte e il volere divino che incalza, l'ha fatto per noi: per dichiararci tutta la legittimità di evitare quanto tormenta l'uomo. Quando, nonostante tutti i ripieghi, si rende chiara la volontà di Dio noi, come lui, si deve aderire di buon grado senza recriminare. La posizione del cristiano è equidistante dalla temerarietà che tenta Dio e dalla paura che ignora la presenza provvida di Dio. Non essere sensibile ai propri mali non è dell'uomo; il non saper sopportare non è cosa dell'uomo forte. Ordinariamente nella mente di chi soffre regna una gran confusione di idee, perché il male, di qualsiasi genere, ha il potere, almeno all'inizio, di turbare la serenità e scompigliare i giudizi. Se pensa, ad esempio, che sentire il dolore e confidarlo ad altri per coglierne un modesto sollievo, tolga il merito alla nostra sofferenza. ... Ritorniamo al giardino degli ulivi. Prima di affrontare la tremenda agonia, Gesù si premunisce, ai quali dichiara prende con sé tre testimoni ai quali dichiara semplicemente la sua incontenibile sofferenza. In quel frangente chiede il conforto di una compagnia estremamente indispensabile: vegliate e pregate con me. La chiede con schiettezza, come uomo bisognevole di sostegno e di sollievo. Purtroppo i tre gliela negano e il Padre gli manda un angelo del cielo per confortarlo. Il Padre approva la richiesta del figlio e si sostituisce al mancato conforto umano. 
Come si nasce e si vive nella società, oggi ancora nella società ci tocca soffrire ed è logico, è umano che si chieda collaborazione al prossimo in una cosa di così alta importanza. Tutto il merito sta nella volontà di aderire alla Volontà. «Quando mi sarà presentato l'amaro calice della sofferenza, io prenderò che passi via da me se è possibile. Ma se non è possibile, l'afferrerò allora con l'animo risoluto e non fisserò lo sguardo al fondo del calice per vedere se si potrà vuotare presto, ma guarderò a colui  che me lo offre. Mentre con fiducia alzerò la coppa, non dirò a nessun uomo: alla tua salute, poiché devo io sentire il sapore, ma dirò: alla mia salute, vuotandolo. Si, alla mia salute, perché io so che si tratta della mia salute quando lo vuoto, sino a non lasciarvi in fondo neppure una stilla» (Kierkegaard, Diario, 654). 

Antonino Russo, Missione salute (periodico camilliano)

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