venerdì 13 ottobre 2023

Lettera ai Filippesi 3

 Capitolo 3

1Per il resto, fratelli miei, siate lieti nel Signore. Scrivere a voi le stesse cose, a me non pesa e a voi dà sicurezza. 

Nella lettera troviamo diversi richiami alla gioia (1,4.25; 2,2.29; 4,1.10) La gioia non possiamo farla nascere in noi in modo forzato, costringendoci quasi ad essere sorridenti e gioiosi, ma essa scaturirà in noi in modo spontaneo se ci stabiliremo in Cristo. In quasiasi situazione, la relazione vera e profonda con lui e, mediante lui, con Dio stesso, ci fa sperimentare la gioia. Anzi quando più siamo di Dio e ci doniamo a Lui, tanto più sperimenteremo questo stato di esistenza. Essa è più di un sentimento ma un modo di essere. L’unica vera e continua fonte di gioia sta nella nostra conversione e santificazione permanente. 

L’apostolo vuole ripetere lo stesso insegnamento che ha dato finora (la meditazione sullo svuotamento del Cristo) perché lo considera fondamentale per la vita di fede. Lo fa volentieri e per i suoi ascoltatori sarà estremamente utile. La ripetizione continua degli stessi concetti ed esortazioni è necessaria per memorizzarli e per riuscire infine a praticarli. 

2Guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi operai, guardatevi da quelli che si fanno mutilare! 3I veri circoncisi siamo noi, che celebriamo il culto mossi dallo Spirito di Dio e ci vantiamo in Cristo Gesù senza porre fiducia nella carne, 4sebbene anche in essa io possa confidare. 

A chi sono rivolte queste irrisioni che arrivano inaspettatamente in uno scritto colmo di affabilità? Cani era l’epiteto assegnato dagli ebrei ai pagani. Il cane era uno degli animali impuri. Chiamandoli cani, gli ebrei, nell’intento di salvaguardare l’integrità della fede, volevano impedire che i loro correligionari fraternizzassero con quelli. Perché richiamare ai Filippesi questo linguaggio sprezzante? 

Paolo, ora, dirige l’attenzione sulla questione che lo ha aggravato, in maniera drammatica, nella sua missione; pensa, cioè, alla problematica sollevata con forza da alcuni ebrei che erano diventati cristiani. Secondo loro, soltanto gli ebrei potevano godere della salvezza portata dal Messia Gesù. Chi non era tale per nascita, doveva diventarlo per scelta, cominciando col farsi circoncidere. Secondo Paolo, invece, - e questa fu la convinzione ammessa dagli apostoli -  non era affatto necessario che i pagani diventassero ebrei prima di ricevere il battesimo cristiano (At 15, 1.11). Non obbligava, quindi  i pagani a circoncidersi né a sottostare ad altre norme obbligatorie per gli ebrei. 

Non abbiamo motivi per pensare che a Filippi fosse stata sollevata questa questione ma l’apostolo, conoscendo quanto fosse diffusa e perturbante, cerca di premunire i suoi fedeli. Temendo la venuta di ebreo-cristiani legati alla tradizione, predispone la comunità a tale eventualità, usando un linguaggio  duro, che dovrebbe essere chiarificatore del suo pensiero. Sono loro, i tadizionalisti rigorosi, a meritare il titolo di cani perché, sconvolgendo la fede dei pagani convertiti, rischiavano di allontanarli da Cristo. Non vuole diffondere l’uso di questo nomignolo né diffondere odio verso i suoi oppositori, ma mettere a fuoco, con un linguaggio scioccante, il pericolo che essi sono per tutti, in quanto svalutano la salvezza portata da Cristo e allontano i pagani dal Vangelo. 

Li chiama inoltre cattivi operai. Denomina la pratica della circoncisione una mutilazione, o la riduce ad una semplice incisione. Scherza sulle parole: la circoncisione, chiamata peritomê, viene denominata da lui katatomê (mutilazione, incisione). Spiega in breve perché la circoncisione non sia più necessaria (un insegnamento sconvolgente per un ebreo!): i cristiani sono i veri circoncisi, perché venerano il Signore con la loro vita lasciandosi guidare dal suo Spirito. La loro esistenza è attuazione del nuovo patto con Dio previsto dai profeti, al punto da essere definita circoncisione. Non bisogno di sottoporsi a questa pratica chi ha già raggiunto lo scopo a cui essa mirava: fae entrare il circonciso nell’alleanza con Dio. 

Talora Paolo, come in questo caso, preferisce usare un sostantivo, anziché un aggettivo. Ad esempio scrive: «…perché noi fossimo giustizia di Dio» (2 Cor 5,21). Bastava dire perché fossimo giusti. Il sostantivo, però, presuppone il raggiungimento di una pienezza. I cristiani vivono in pienezza il patto con Dio e non hanno bisogno di segni esteriori: sono di per sé circoncisione anziché semplici circoncisi. Il significato dell’espressione vantarsi in Cristo, in opposizione a confidare nella carne, viene chiarita nel versetto successivo. 

Se qualcuno ritiene di poter avere fiducia nella carne, io più di lui: 5circonciso all'età di otto giorni, della stirpe d'Israele, della tribù di Beniamino, Ebreo figlio di Ebrei; quanto alla Legge, fariseo; 6quanto allo zelo, persecutore della Chiesa; quanto alla giustizia che deriva dall'osservanza della Legge, irreprensibile. 7Ma queste cose, che per me erano guadagni, io le ho considerate una perdita a motivo di Cristo.

Confidare nella carne significa, in questo caso, dare importanza primaria ai riconoscimenti e ai privilegi sociali. L’ebraismo era una religione conosciuta da tempo, rispettata da molti, garantita da accordi con le autorità romane. 

Elenca sette privilegi di cui godeva come ebreo, per rendere certi che avrebbe potuto continuare a godere d’una situazione privilegiata: 1. Fu circonciso in piena conformità alle norme. 2. Apparteneva al popolo d’Israele (gli ebrei si denominavano Israele, un titolo dal valore religioso in quanto era il nome che Dio stesso aveva assegnato al capostipite Giacobbe, Cf Gen 32,29) 3. Proveniva dalla tribù regale di Beniamino 4. Era ebreo di nascita, da genitori entrambi ebrei 5. Aveva aderito al movimento farisaico, tra i più insigni e rispettati 6. S’era opposto ai cristiani fino a perseguitarli 7. Aveva osservato sempre le prescrizioni legali. Aveva tutti i titoli per vantare, all’interno della sua religione, una posizione invidiabile. Il numero sette indica perfezione. 

Quando aderì a Cristo, sapeva che avrebbe perso tutti i vantaggi elencati ed avrebbe annullata la sua posizione privilegiata ma lo fece lo stesso. Alla sua maniera, Paolo imita Cristo che, per raggiungere un fine superiore, si è spogliato di ogni suo vantaggio. 

8Anzi, ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo 9ed essere trovato in lui, avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede. 

Aderire a Gesù Cristo lo considerò il massimo bene. Anche a lui capitò il caso dell’agricoltore che, lavorando il terreno, vi trovò, in modo inaspettato, un tesoro, sepolto proprio lì da un defunto sconosciuto (Cf Mt 13,44). Questi pensò bene di vendere tutto per poter comprare quel campo. In realtà fu Dio a rivelare a Paolo Gesù Risorto, quando egli non solo non lo cercava ma lo disprezzava come falso profeta. Gli aprì gli occhi perché vedesse nel Crocifisso un tesoro celeste. 

Per capire tutto questo, dobbiamo comprendere bene il significato delle due forme di giustizia a cui accenna nel v. 9. Ha già esposto (o esporrà) questo messaggio di estrema importanza nella lettera ai Romani. Incontriamo un punto nevralgico della teologia paolina. 

Intato per giustizia si intende saper vivere santamente ed essere graditi a Dio. Nella Bibbia le persone rette vengono denominate giusti. Ora il giusto per eccellenza è stato Gesù. Anzi egli fu l’unico giusto, non solo perché visse senza peccato ma perché amo Dio con tutte le forze e preferì il prossimo a se stesso (ricordiamo l’inizio della riflessione al cap. 2). Il Padre lo gradì in tutto e per tutto. 

Così facendo Gesù recuperò tutta l’umanità. Come si esprime un canone eucaristico: Dio ha amato in noi, ciò che amava nel Figlio (Prefazio VII domenicale). Gesù incarnò un’umanità finalmente obbediente a Dio e da allora Dio attribuì a tutti agli uomini la grandezza di Gesù. Questa è la giustizia che viene da Dio. Gesù è stato giustizia grazie alla sua obbedienza e questa giustizia appartiene dal quel momento a tutta l’umanità. Quel tesoro che Gesù ha accumulato, con grande sorpresa, diventa nostro. «Per l’obbedienza di uno solo, tutti sono stati costituiti giusti» (5,19). «Gesù si fece povero perché noi diventassimo ricchi per mezzo della sua povertà» (2 Cor 8,9). 

Paolo chiama questa giustizia che proviene da Dio, «giustizia mediante la fede», in quanto il tesoro diventa nostro, se accogliamo con fede il dono di Dio. Egli ci chiede soltanto di fidarci della sua straordinaria generosità e di approffitarne. 

L’altra giustizia è quella della Legge. È la santità che gli ebrei cercavano di ottenere agendo in conformità alla Legge di Mosè. Paolo stesso cercò a lungo di ottenere questa giustizia. Non solo lui, tutti gli uomini cercano di vivere con onestà. Ora non attribuisce nessuna importanza alla sua rettitudine. La sua santità era poca cosa rispetto a quella che gli ha offerto Gesù in modo gratuito. Aveva accumulato qualche moneta ma ora può ricevere un tesoro infinito. Anzi Paolo ritiene che tutti gli uomini falliscano nella ricerca della santità. La via della giustizia per la Legge è, in realtà fallimentare. Infatti gli uomini accumulano più atti di disobbedienza che di obbedienza, né riescono a diventare generosi come vorrebbero e dovrebbero. Nessuno riesce ad essere libero da stesso in modo pieno. Qualcosa ci blocca (l’apostolo lo chiamerà Peccato con la maiuscola). Dio non potrebbe anmmetterci all’amicizia con Lui (così com’era invece amico di Gesù, l’unico vero figlio) né donarci una vita eterna. Ora, però, abbiamo ricevuto in dono la giustizia di Gesù. 

Prospero d’Aquitania immagina questo dialogo tra Gesù e il Padre: «Gesù dice poi [a Dio Padre]: Non allontanare il tuo volto da me per l'umiltà delle mie membra. Quando il Padre potrebbe allontanarsi dal Figlio?» (Commento ai Salmi, 101,2 PL 51, 279)

Tutti i privilegi di cui godeva ad un certo punti li considerò una perdita. Non intende dire che si vergogna di essere stato ebreo (si considerò sempre tale, un ebreo che credeva in Gesù) o fariseo. Tutti i titoli acquisiti  potevano danneggiarlo, se per salvaguardarli, avesse rifiuto di credere in Gesù e di consegnarsi a lui. Anzi tutto ciò che gli impedisce di arricchirsi di Gesù diventa per lui un grave danno. Il tesoro che ora possiede si chiama conoscenza di Cristo e questa è superiore ad ogni altro bene. Conoscenza non significa soltanto un sapere della mente ma un’esperienza di vita, una partecipazione a ciò che è Gesù Risorto. 

Lo ha accolto nella fede come il suo Signore (v.8). Cristo diventa nostro bene, quando accettiamo di essere suoi: «Ti possegga il Signore, affinché tu Lo possegga» (Agostino, Enarrationes in psalmos, 34,12 PL 36, 331). «Nessuno possiede Dio, a meno che non sia posseduto egli stesso da Dio. Di conseguenza, diventi lui stesso possesso di Dio e Dio diventerà suo Signore e suo bene» (Pomerio Giuliano, De vita contemplativa, XVI, 2 PL 59, 460).

Comprendiamo ora meglio il contenuto della speranza dell’apostolo. A partire dalla rivelazione ricevuta a Damasco, cercò di guadagnare Cristo e di essere trovato in Lui (vv. 8-9). Ha voluto sperimentare il rovesciamento dei criteri di valore tanto raccomandato da Gesù: «Chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt 16,25). Chi, perde se stesso per guadagnare Cristo, trova se stesso: «Quando mi sarò stretto a Te con tutto me stesso, per me non ci saranno più dolore e fatica da nessuna parte, e la mia vita sarà viva, tutta piena di te» (Agostino, Confessioni, X,39). Anzi noi possiamo guadagnare noi stessi solo se troviamo Gesù e ci arricchiamo di ciò che Egli è: «Tu sollevi chi riempi di Te, e poiché io non sono ancora pieno di Te, sono per me un peso» (ibidem). «Non sia io la mia vita; basandomi su di me sono vissuto male, e sono stato per me causa di morte, mentre in Te rivivo» (ibidem, XII, 10). 

10perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, 11nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti.

Conoscere Gesù è sperimentare la sua Pasqua; è verificare come tutto ciò che Egli è, si trasferisce anche in noi. Siamo persone pasquali. Prima parla della risurrezione, poi delle sofferenze e della morte e in seguito ancora di risurrezione. Forse noi, istintivamente ci saremmo espressi in modo diverso: prima avremmo parlato della sofferenza e della morte, poi della vita nuova e infine della vita da risorti. 

In realtà, il cristiano dapprima sperimenta in sé la potenza della risurrezione. In altre parole, quando comincia a credere in Gesù, lo invade una potenza di vita fino ad allora sconosciuta. È il momento in cui Gesù, il Vivente, lo raggiunge personalmente. La caratteristica di quest’ora è la gioia. Anche se questi deve piangere sui propri peccati, questo pianto diventa un vero sollievo. Ciò che ha scoperto ora, aprendogli un futuro di speranza, vale molto di più del suo passato. «[L’anima rinnovata] si sente già realmente attratta dalle virtù. Come per Dio essere equivale a essere buono, così per l’anima, ormai giusta e santa, esistere non significa altro che vivere santamente, giustamente e piamente: santamente in se stessa, giustamente verso tutti, piamente rispetto a Dio» (Guglielmo di Saint-Thierry, Natura e valore dell’amore, 16)

Non è tutto qui. Il cristiano risorto, non soltanto impara ad evitare il male, ma acquista gradualmente la generosità di Gesù. Paolo quando divenne cristiano, divenne, nel contempo, anche missionario e sperimentò la comunione con le sofferenze di Gesù, presentata qui come una conformazione alla sua morte. Questo non deve creare turbamento. Ogni impegno serio d’amore, in ogni campo, sa affrontare contrarietà e sofferenze. Il nucleo del messaggio cristiano consiste in questo: nel donare se stessi, si conosce la vera gioia, anzi si partecipa alla beatitudine del Signore. L’apostolo non ha mai messo in discussione la sua scelta ma quanto più poteva identificarsi con il Cristo sofferente, tanto più riteneva riuscita la sua esistenza. 

Infine parla della possibilità di ottenere (katantaô) la risurrezione dai morti. 

In sintesi, il battezzato rivive il percorso di Cristo: giunto in possesso della vita nuova, non considera questa un privilegio di cui godere ma l’inizio di una rinuncia a se stesso. A conclusione di questo percorso di donazione, conosce l’apprezzamento di Dio Padre che glorifica la carità e fa entrare nella comunione con sé chi si è reso simile a Lui. In ultima analisi il cristianesimo è l’apertura all’uomo, da parte di Dio, della sua stessa beatitudine, la quale consiste nell’essere infinita donazione di sé. Dio è Amore, non può essere altro di diverso da ciò, non può essere di più, né di meno.  

La santità  crstiana attesta che questa apertura alla realtà di Dio è reale e che la persona umana non può trovare niente di meglio e di più grande. 

12Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch'io sono stato conquistato da Cristo Gesù. 13Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, 14corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù.

Paolo ha scoperto il dinamismo della fede, operante nella carità; ha conosciuto la partecipazione alla Pasqua del Signore che si dilata in tutte le sue dimensioni. Tuttavia sa bene che, nonostante il suo enorme progresso nella carità, è ben lontano dall’esaurire le potenzialità infinite del percorso intrapreso. Il suo vantaggio consiste nella continua disponibilità a crescere. Accetta, in verità, che il Cristo che lo ha «preso con la forza» (katelêmphthên), continui a farlo suo. Egli, come il corridore nello stadio, è sempre proteso in avanti, si sforza di vincere la corsa e di conseguire il premio destinato al vincitore. Dimentica i risultati ottenuti, rivolto verso il nuovo “record”. Non è un forzato, obbligato ad agire controvoglia ma, come avviene in genere ad un atleta, è lui stesso a desiderare un risultato migliore. Tuttavia questo slancio non è neppure del tutto una sua iniziativa ma una risposta ad una chiamata di Dio. Il Signore vuole che egli raggiunga il meglio di sé, vuole che si dilati per poter arricchirlo con doni sempre maggiori. In questo caso il premio non è qualcosa che egli ottiene soltanto a fine gara, poiché conoscere la carità è già una ricompensa. L’amore possiede in sé la sua ricompensa. 

15Tutti noi, che siamo perfetti, dobbiamo avere questi sentimenti; se in qualche cosa pensate diversamente, Dio vi illuminerà anche su questo. 16Intanto, dal punto a cui siamo arrivati, insieme procediamo. 17Fratelli, fatevi insieme miei imitatori e guardate quelli che si comportano secondo l'esempio che avete in noi. 18Perché molti - ve l'ho già detto più volte e ora, con le lacrime agli occhi, ve lo ripeto - si comportano da nemici della croce di Cristo. 19La loro sorte finale sarà la perdizione, il ventre è il loro dio. Si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra. 

Tutti i cristiani maturi nella fede partecipano al modo di sentire di Cristo, come è accaduto all’apostolo. Se ancora esitano, Dio li illuminerà. Intanto tutti possono continuare ad avanzare nella carità nella speranza di conseguire quello slancio continuo che lo ha coinvolto. 

Ci sono fedeli non ancora maturati ma anche fedeli che contrastano l’insegnamento del Vangelo. Quest’ultimi sono gli avversari, dei quali ha parlato all’inizio del capitolo, cioè gli ebreo-cristiani attaccati alla tradizione ebraica. Si sono fatti nemici della croce di Cristo. In che senso? Non danno alcun importanza all’umiliazione subita da Gesù, che ha accettato di farsi uomo ed obbedire al Padre fino alla morte, perché non pensano di poter contare sulla sua santità. Cercano, al contrario, di rendersi santi da sé, continuando ad osservare le norme alimentari che distinguono il puro dall’impuro e a vantarsi delle ciconcisione che riguarda le parti più intime del corpo. Il loro modo di pensare è tipico dell’uomo religioso (terrestre) che non è stato ancora illuminato dal Vangelo. 

20La nostra cittadinanza infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, 21il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose.

La comunità dei cristiani autentici seguono, invece, gli insegnamenti celesti, infusi da Dio stesso. Non pretendono di salvarsi grazie alle loro opere ma attendono il dono ultimo e gratuito di Dio. La salvezza definitiva consisterà nel partecipare alla gloria del Cristo Risorto, il quale ha ricevuto il potere di costituire una nuova creazione. 


«Protesi in avanti»

Nella storia della spiritualità cristiana, Gregorio di Nissa ha ripreso e valorizzato l’immagine dell’atleta che corre slanciandosi sempre in avanti. 

«Gli esseri spirituali si distinguono in due modi d'esistenza, tra l'increato e il creato. L'uno è sempre ciò che è, permane invariabilmente allo stesso modo, non può subire alcun incremento o alcuna diminuzione nel bene. L'altro, invece, giunto all'esistenza in seguito all'atto creativo, deve volgersi sempre alla Causa prima; conserva la sua bontà partecipando all'Essere trascendente e in un certo senso viene ricreato senza sosta poiché si trasforma; avanza verso il bene e dilata la sua bontà. Di conseguenza, neppure in questo caso si può verifìcare un limite; la sua crescita verso la pienezza non può essere circoscritta ma imita incessantemente quel Bene che sussiste dall'eternità e sebbene gli sembri d'aver raggiunto il livello massimo di grandezza e di perfezione si trova di continuo all'inizio di un'altra ascesa ancora più elevata. Nuovamente viene confermata la veridicità del detto dell'apostolo: dimentichi del passato, ci slanciamo verso la meta che ci sta davanti. Colui che viene considerato sempre più grande e che viene riscoperto come bene sovrabbondante, quando attrae a sé gli uomini che partecipano di lui, non permette loro di rivolgersi al passato; offrendo il godimento di doni più preziosi, fa svanire il ricordo di altri beni inferiori […] Abbiamo appreso che la natura divina, nella sua immensità, non è racchiusa da alcun limite. Chi cerca Dio non trova alcuna restrizione nella sua indagine tale da costringerlo a porre dei limiti precisi alla sua conoscenza oppure da obbligarlo a rallentare la sua ascesa mentre è slanciato verso il cielo. Al contrario, l'ardore che spinge verso l'alto nella conoscenza delle realtà più nobili, rimane sempre vivo in questa ricerca sconfinata e tutte le conoscenze più profonde che possono essere raggiunte dalla natura umana diventano il primo passo nella ricerca di beni più eccelsi» (Omelie sul Cantico dei Cantici, VI, PG 44, 835.892).


Nessun commento:

Posta un commento