venerdì 29 luglio 2011

Salmo 51

Pietà di me, o Dio, nel tuo amore; nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità. Lavami tutto dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro. (Salmo 51).

Nel primo versetto compaiono due qualità riferite al Signore: amore e misericordia. Partendo da noi (abbi pietà di me), ci indirizziamo verso di Lui, verso la bontà e la misericordia; solo dopo formuliamo la nostra richiesta in tutto il suo tenore: cancella la mia iniquità. Nel primo versetto chiediamo, dunque, l’eliminazione completa del nostro peccato. Non chiediamo soltanto che venga sopportato, scusato, coperto ma distrutto.

Chiediamo che la fedeltà di Dio compia ciò che è impossibile da parte nostra: cancellare il passato. La supplica ricorda la rassicurazione del profeta Michea: «Qual Dio è come te che togli l’iniquità… e ti compiaci di usare misericordia? Egli calpesterà i nostri peccati… getterai in fondo al mare tutti i nostri peccati» (Mi 7,18-19). Noi osiamo chiedere la cancellazione dei nostri debiti non come gesto di presunzione, o di furbizia ma perché sappiamo che è Dio il primo a voler cancellare la nostra malizia. È assai significativa l’immagine di Dio che calpesta le colpe. Egli vuole distruggere tutto ciò che ci rovina. Tuttavia, anche se frantumato, il peccato continua a persistere. Rimane come frammento. Allora, Dio raccoglie tutti i frammenti sparsi e li getta nella profondità del mare. Là vengono disciolti. Grazie alla misericordia di Dio il peccato diventa come materiale biodegradabile. Il questo versetto è esposta la conclusione ossia la totale sparizione (cancella) della colpa, ma ora dobbiamo osservare tutto il processo grazie al quale si può pervenire a quel risultato.

Il peccato sparisce quando Dio lo dimentica. Tuttavia, affinché avvenga questo, ossia affinché Dio voglia eliminare e dimenticare il peccato, noi dobbiamo invece ricordarlo, ricordarlo con dolore. Questo è l’argomento della seconda parte del salmo.

Sì, le mie iniquità io le riconosco, il mio peccato mi sta sempre dinanzi. Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto: così sei giusto nella tua sentenza, sei retto nel tuo giudizio. Ecco, nella colpa io sono nato, nel peccato mi ha concepito mia madre. Ma tu gradisci la sincerità nel mio intimo, nel segreto del cuore mi insegni la sapienza.

Nel testo si dice che è Dio stesso a risvegliare in noi il bisogno di verità, e lo chiama sapienza. Osserva Seneca: «Non c’è vizio per il quale non si cerchi una giustificazione» (Lettere a Lucilio, 116). Abbiamo bisogno di pentirci ma formuliamo argomenti di giustificazioni oppure argomenti contro lo stesso atto del pentimento. Ci sembra un ritorno al passato mentre, come vedremo, è un’anticipazione del futuro. Sembra un rinchiuderci nella colpa, mentre è l’unica possibilità che abbiamo di disincagliarci dal denso di colpa e riprendere camminare. La colpa, finché è negata, rende impossibile il sottrarci dalla sua ombra pesante.

Il salmista, a differenza di noi che vogliamo sempre attenuare, sembra quasi esagerare la gravità della sua situazione: sono stato formato nell’iniquità; le mie ossa sono frantumate.

Il primo momento è anche doloroso perché bisogna rinunciare ad ogni giustificazione. «Il mio peccato mi sta sempre dinanzi: «Un cuore sincero e contrito non ha dinanzi a sé che il proprio peccato e la miseria della sua coscienza. Non saprebbe pronunciare queste parole con profonda serietà chi trovasse ancora in se stesso qualche suggerimento o consolazione per cui non si sentirebbe del tutto miserabile, all’infuori della speranza nella misericordia di Dio» (cf. Lutero 110).

Questa non è una convinzione fredda della mente ma il convincimento di tutta la sua persona perché è accompagnato dal dolore: non è un sentire momentaneo ma permanente. «In questo differiscono i santi veri e i santi in apparenza: i santi veri riconoscono di avere delle debolezze, di non essere quello che dovrebbero e vorrebbero essere, e perciò condannano sé stessi e non si preoccupano degli altri. Gli altri invece non vedono le loro debolezze e pensano di essere finora quello che dovrebbero essere, sempre dimenticano se stessi e sono giudici delle iniquità altrui, capovolgendo questo Salmo nel modo seguente: Io riconosco le debolezze degl’altri e i loro peccati sono di continuo dinanzi agli occhi mio, perché portano sulle spalle il loro peccato e una trave negli occhi» (Lutero112).

Torniamo a riflettere sulla condanna di sé espressa dal salmista. Il pentimento non è in primo luogo un senso di disagio, sterile e paralizzante, su qualche azione del passato. È invece una nuova strutturazione di tutta la persona. Chi si pente non dice soltanto: «Che cosa ho fatto!» ma «Quale uomo sono io!». Una persona si pente quando è già diversa da quella di prima, che aveva operato male. È come se si osservasse da un punto di vista più elevato. Pentirsi presuppone l’essere saliti e il guardarsi da una prospettiva superiore. Nel pentimento già si delinea un nuovo inizio, un futuro. La persona che è diventato un altro non tende a liberarsi soltanto da una colpa ma tutte le colpe.

Dal suo doloroso presente, il salmista comincia a volgersi allora verso il futuro. Ho detto egli sembrava esagerare nel giudicarsi; parlando della sua opera non la chiamava soltanto peccato ma iniquità. Sembra allora che noi possiamo saper invocare con verità, con convinzione la misericordia soltanto mentre sperimentiamo la nostra totale impotenza e il nostro fallimento. Il salmista che dichiara queste cose, non spera più in se stesso. Egli pensa: «Quale uomo sono io!». S’accorge tuttavia che proprio nella profondità della sua mancanza di speranza, appare una luce inaspettata che può indicare la via d’uscita.

Aspergimi con rami d’issopo e sarò puro; lavami e sarò più bianco della neve. Fammi sentire gioia e letizia: esulteranno le ossa che hai spezzato. Distogli lo sguardo dai miei peccati, cancella tutte le mie colpe.

Il salmista si sente amareggiato e impotente ma crede che Dio possa riservagli ancora un futuro radioso: sarò puro, sarò più bianco della neve, sarò nell’esultanza e nella gioia. «Se io non credo in un Amore più grande dell’amore che porto per me stesso, non sono religioso» (Mazzolari 213). Nell’aprirsi al futuro che gli viene da Dio, il salmista prova il vero sentimento di fede: posso sempre far conto dell’amore di Uno che mi ama più di quanto io ami me stesso. «Padre non sono degno ma mi prendo lo stesso il tuo abbraccio, la tua veste nuova, il tuo anello, i tuoi calzari. Sono l’eterno mendicante del tuo amore: l’eterno dispregiatore del tuo amore. Sono la tua agonia, sono la tua gioia… sono tuo figlio» (Mazzolari 97).

Dio ha donato a noi suo Figlio affinché impariamo a non avere alcuna esitazione ad abbandonarci a Lui. Ora il cristiano possiede ancora un altro motivo più grande di fiducia e di speranza.

Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo. Non scacciarmi dalla tua presenza e non privarmi del tuo santo spirito. Rendimi la gioia della tua salvezza, sostienimi con uno spirito generoso.

Che cosa riserva in particolare il futuro di Dio? Egli vuole che il credente sappia essere saldo nel bene e generoso. Nell’esprimere il pentimento, noi ci siamo riconosciuti come persone che hanno vissuto in modo incostante e gretto. Ci siamo visti virtualmente diversi da come siamo. Abbiamo visto dall’alto e lasciato sotto di noi un uomo che non siamo più, perché non vogliamo più identificarsi con esso. Dobbiamo allora essere rifatti, nascere di nuovo. D’ora in avanti vogliamo diventare ciò che ci siamo bene intravisti ma che ancora non siamo.

Nel creare l’uomo, Dio aveva infuso in Lui il suo soffio. Vivere, tuttavia, è nello stesso tempo un prodigio e una delusione. Un prodigio perché potevamo essere un nulla; una delusione perché la vita si muove nel peccato e nel dolore. Occorre un nuovo soffio più potente. Come non ci si può creare, non ci si può creare di nuovo. Solo il Creatore può espandere la nostra esistenza. Il salmista chiede il nuovo soffio di Dio che sia tale da renderci saldi e generosi.

A questo punto il cristiano, pensa a Gesù. È lui l’uomo dello Spirito. Gesù è nello stesso tempo l’uomo di carne e l’uomo dello Spirito. Lo Spirito di Dio, saldo e generoso, lo abbiamo visto in modo concreto nel suo stile di vita. Chiedere l’infusione dello soffio di Dio, equivale a chiedere che diventi anche nostro l’essere profondo di Gesù.

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