martedì 6 dicembre 2011

Padre nostro. Nella prospettiva biblica e dei Padri

E' la preghiera stessa di Gesù, consegnata poi da lui ai suoi discepoli. La Chiesa antica ha apprezzato questa consegna ed ha avuto grande stima di tale preghiera. É «il compendio di tutto il vangelo», diceva Tertulliano. 
Ciò nonostante affiora subito un problema. Nel Vangelo, Gesù prega da solo e quando chiede ai discepoli di pregare con Lui, questi non si mostrano capaci di farlo. Sorge spontanea una domanda: è possibile da parte nostra entrare nel cuore di Gesù, entrare nella profondità della sua preghiera e condividerla? 
É possibile perché Gesù non è soltanto un Maestro ma anche un redentore. Potremo dire: noi possiamo pregare con Lui, perché preghiamo in Lui. Egli è come penetrato in noi, ci ha inseriti nel suo spazio, nella sua persona. Non soltanto ci istruisce sulla strada da percorrere, ma ci avvia su questa strada che è Lui stesso. 
«Solo Dio ha potuto insegnarci come voleva essere pregato. É lui che regola l’esperienza religiosa della preghiera e la anima con il suo spirito quando esce dalla sua bocca, le comunica il privilegio di salire in cielo e di toccare il cuore del Padre con le parole del Figlio» (Tertulliano, La preghiera, 9). 
Chiarito questo aspetto essenziale, cerchiamo adesso di percorrere alcuni passaggi per comprenderlo meglio. Torniamo a Gesù, alla sua preghiera ma anche alla sua opera di redenzione. 

Gesù prega per fare la volontà del Padre. È il proposito che nutre nel suo stesso venire al mondo. La lettera agli Ebrei attribuisce a Gesù i sentimenti espressi nel salmo 39: “Ecco io vengo per fare, o Dio la tua volontà” (Eb 10,7). Questo fare la volontà non si esercita soltanto in alcuni momenti particolari. Gesù vuole rendere tutta la sua vita una manifestazione autentica di Dio. Egli è irradiazione della sua gloria, è la sua impronta (Eb 1,3). La sua intenzione di compiere il volere di Dio è l'espressione del suo essere Figlio. Obbedendo a Dio e sottomettendosi a Lui, interamente, fa trasparire la grandezza di Dio nella sua persona e nella sua vita. Non distrugge se stesso ma si rende grande. 
Gesù, quindi, ha vissuto la sua intera esistenza come un atto di culto a Dio Padre, lo ha glorificato realizzando fedelmente la sua missione (Gv 17,4). 
Un'altra caratteristica della preghiera di Gesù compare nell'atteggiamento del pieno abbandono (Eb 5,7) a Dio. Non è un tratto diverso dal precedente ma una sua intensificazione. Se il fare la volontà di Dio Padre lo accompagna sempre, il pieno abbandono compare soprattutto nel vivere l'esperienza della sofferenza, quando l'obbedienza diventa più difficile. L'abbandono nasce dalla fiducia completa. Gesù è il credente dalla fiducia completa. Vivendo a perfezione questi sentimenti, Gesù ha rappresentato la perfetta corrispondenza a Dio. Nella pratica di vita da uomo, è diventato ciò che era da sempre: il Figlio unico, amato, nel quale Dio si compiace. 
Compiuta la sua missione, Egli può ritornare al Padre per condividere la sua gloria. 
Compare però ora una novità: Egli ci porta con sé nel Padre. In questo sta la redenzione. Ormai siamo con Cristo in Dio. Questo è un grande dono inaspettato; non è una cosa ovvia e neppure un diritto. Come ho detto, nella sua vita terrena Gesù pregava da solo e i discepoli non partecipavano alla sua orazione. Nessun uomo era in grado di condividerla. Gesù era vicino ai discepoli ma anche lontano da loro, non solo per quanto riguarda la preghiera. La dissonanza del modo di sentire emergeva clamoroso nei diverbi e nei rimproveri, nei silenzi imbarazzati. 
La lontananza di Gesù dai discepoli ripresentava, a livello della vita terrena di Gesù, quella già esistente tra Dio e il suo popolo. La lettera agli Ebrei la rievoca, richiamando le restrizioni presenti nelle normative del culto nel tempio. Il popolo doveva restare nella prima aula, mentre i sacerdoti potevano entrare fino alla seconda, e servire all'altare. Nel settore più interno, chiamato Santo dei santi, poteva entrare soltanto il sommo sacerdote e una volta sola in un anno. La vicinanza con Dio era possibile ma non facile. 
Dopo la morte di Gesù, tutto questo sistema ormai cambia. Egli, il sacerdote “santo, innocente, senza macchia” (Eb 7,26), entra nel santuario (9,12) e conduce anche noi. Non è più soltanto il Verbo ma anche il Primogenito tra molti fratelli (Rm 8,29). Non esistono più restrizioni. Ora la porta della casa del Padre è spalancata davanti a noi. È sbagliato esitare titubanti sulla soglia (Lc 14,21). Non ha più senso tracciare una linea di demarcazione che non sia possibile oltrepassare (Es 19,12). Lo spazio sacro e inaccessibile è abolito perché tutti siamo santi, ossia rivestiti di Cristo. “Ormai abbiamo piena libertà di entrare nel santuario... poiché abbiamo un sacerdote grande nella casa di Dio” (Eb 10, 19.21). 
Dal momento che siamo con Cristo in Dio, la preghiera di Gesù non è più esclusiva. Ora possiamo osare a dire con Lui: Padre nostro. Paolo evidenzia questa possibilità nuova affermando che ora possiamo chiamare Dio Abba. Questa parola in aramaico, che significa padre, era usato da Gesù nella sua preghiera (cfr. Mc 14, 36). Egli ricorreva alla lingua materna, nella preghiera spontanea, quando aveva il cuore colmo di sentimenti. Il fatto di poter dire abba, significa che possiamo avere parte al suo stato di Figlio nella concretezza dell'esistenza. 
Il nostro Redentore ha voluto che quella vita che aveva iniziato con le sue preghiere e col suo sacrificio, durante la sua esistenza terrena, non venisse interrotta per il volgersi dei secoli [ma continuasse] nel suo Corpo mistico che è la Chiesa” (8). Gesù prolunga la sua esistenza e la sua preghiera in noi. 
La Chiesa è formata da una moltitudine complessa e variegata di uomini di ogni popolo e cultura e vanta un decorso plurisecolare. Nello spazio e nel tempo, nei fedeli di ogni epoca emerge, in ogni caso, un comune sentire. «L'unità della Chiesa orante è opera dello Spirito Santo, che è lo stesso in Cristo, in tutta la Chiesa e nei singoli battezzati». L'unificazione avviene particolarmente nel sentimento della preghiera. Anzi «non vi può essere nessuna preghiera cristiana senza l'azione dello Spirito Santo, che unificando tutta la Chiesa, per mezzo del Figlio, la conduce al Padre». 
Nella misura in cui si riproduce in noi la vita di Gesù, si riproduce anche la sua glorificazione del Padre, nel culto dell'esistenza. 
Il culto cristiano, quindi, non ha la stessa origine del culto reso dagli uomini a Dio lungo i secoli. Non è in primo luogo l'omaggio della creatura al Creatore poiché si sente beneficata in continuità (At 14,16-17), anche se comprende questo aspetto. Meno ancora è la preghiera, appassionata ma incerta, di chi, avvolto nel buio del mistero del cosmo, cerca Dio “tastando qua e là come ciechi” (At 17,27). Non è neppure soltanto una continuazione del culto ebraico, sebbene abbia lì le sue radici. Certo Gesù è un uomo d'Israele, nato dalla stirpe di Davide e sotto la Legge. Tuttavia nell'alveo d'Israele, egli è una novità. Proviene direttamente da Dio; la sua umanità, che sarà lo strumento della sua adorazione (della sua obbedienza) è stata creata dallo Spirito come germoglio di novità. Ogni battezzato è introdotto nella sua novità che lo distingue dalle generazioni umane e dal tributo di lode d'Israele. Egli è il nuovo tempio nel quale risuona un cantico nuovo. Il suo cantico non è possibile né percepirlo né apprenderlo, né riprodurlo se non si è animati dal suo suo Spirito. 
Pregare il Pater presuppone questa unità con il Signore Gesù, una situazione privilegiata, un dono immeritato. 
Tertulliano ha sottolineato in modo appropriato la novità di Cristo, del sua Vangelo e della sua preghiera:
«Gesù Cristo ha stabilito per i nuovi discepoli del nuovo testamento una nuova forma di preghiera. Perché bisognava in qual che modo che il vino nuovo fosse versato in otri nuovi» (La preghiera 1). 

Che ne é allora degli altri uomini? Sono del tutto esclusi? Gesù si è preso cura della stirpe umana, diventato partecipe della carne e del sangue (Eb 2,14). Egli riporta a Dio l'umanità intera. Da un lato egli assume la supplica di ogni uomo, dall'altro lato, ogni uomo deve avvicinarsi alla sua preghiera che forma un'unità con quella del suo corpo, ossia della comunione visibile di tutti i battezzati. Tutta la terra è il campo di Dio, ma Gesù è il fiore di questo campo. Gli uomini pregano, seguendo ognuno la propria ispirazione, ma per apprendere il cantico nuovo, ossia il canto del cielo introdotto sulla terra, deve partecipare allo Spirito di Cristo che fiorisce dove c'è la Chiesa. 
La Chiesa che s'unisce alla preghiera di Gesù e recita il Pater, non si chiude nel suo privilegio ma condivide la solidarietà di Gesù verso tutti gli uomini. Non chiede però che essi raggiungano il loro scopo ed ottengano ciò che a loro preme. Invoca piuttosto che ottengano il dono che Dio ha predisposto per tutti, nel modo che Egli solo conosce. 
Se il cristiano che pronuncia questa preghiera, partecipa realmente allo Spirito del Figlio di Dio, non può non partecipare al suo sentimento di solidarietà verso tutti. Il dono che ha ricevuto non lo ritiene un tesoro geloso da conservare soltanto per lui.
Al contrario Egli chiede a Dio di comunicare ad altri il dono di cui gode. Il Pater, come vedremo, chiede proprio questo. Vediamo, ad esempio, il sentimento di Paolo: “Ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua. Vorrei infatti essere io stesso separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli... Il desiderio del mio cuore e la mia preghiera salgono a Dio per la loro salvezza” (Rm 9,1; 10,1). 



Le prime tre invocazioni

Gesù nel predisporsi a guarire un sordomuto (Mc 7,31-37), prima di pronunciare la parola risanante, guarda verso il cielo, ma nel fare questo, non dimentica il povero che gli è stato portato. Anzi dirige lo sguardo verso il Padre proprio per affidargli il sordomuto. 
Qualcosa di simile avviene per noi, ora. Nella prima parte del Pater, Gesù alza gli occhi al Padre. In primo luogo si rivolge a Dio, considera la tua grandezza e il progetto del suo Regno. Tuttavia, nel fare questo, non ci dimentica ma invoca per noi. 
 Il Pater ci porta a pensare prima di tutto a Dio e alla realizzazione del suo volere. Che cos'é questo suo volere? Si tratta del “disegno d'amore della sua volontà” (Ef 1,5). Ripetendo la preghiera di Gesù, anche noi tentiamo, prima di ogni altra cosa, di sollevare gli occhi a Dio. Alziamo lo sguardo a cielo, come faceva Gesù, e pensiamo a Dio Padre. 
Nel formulare altre preghiere possiamo partire da noi, “versare o aprire davanti a Dio” il nostro cuore” (Sal 61,9). Ad esempio Anna presenta a Dio “l'eccesso del suo dolore” (1 Sm 1,16). Ma ora preghiamo servendoci delle parole e dei sentimenti di Gesù. 
Quale sarà il desiderio, ossia “l'eccesso”, del cuore di Cristo? Egli stesso ce lo rivela: “Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera” (Gv 4,34). Gesù desidera ciò che sta a cuore al Padre. Spontaneamente cerca ciò che è di Dio. Presso Dio, però, si trova sempre ciò che è meglio per gli uomini. Non siamo mai così vicini a noi stessi come quando ci abbandoniamo per collocarci vicino a Dio. 
Inoltre Gesù non intercede per questo o per quello. Egli ha compassione della folla, ossia della moltitudine dell'umanità. Nel momento in cui esprime il suo desiderio davanti a Dio, gli presenta tutta l'umanità, divenuta terra deserta, arida, senz'acqua. Egli non chiede che vengano riattivati i corsi e i torrenti inariditi di questa terra, ossia che si facciano dei miglioramenti, ma chiede la pioggia che viene dal cielo, il dono straordinario preparato per la pienezza del tempo. “Quando il Signore elargirà il suo bene, la nostra terra darà il suo frutto” (Sal 84,13). 
Gesù chiede per noi che il Padre realizzi il progetto di salvezza pensato per noi. Le prime tre invocazioni esprimono questo desiderio in tre modalità diverse. 
«Tutto quello che auguriamo a noi stessi, lo riferiamo a Lui» (Tertulliano, La preghiera, 5)

Sia santificato il tuo Nome

La prima invocazione parla della santificazione del Nome. L'espressione è incomprensibile al di fuori del linguaggio biblico. Santificare è in relazione con l’essere santo. Nella Sacra Scrittura viene detto che Dio è santo (Is 6,3; Sal 98,5). Per comprendere questa espressione dovremmo dire: Dio è Dio. La santità esprime l'essenza divina. Parlando in questa maniera la Bibbia vuole affermare la diversità abissale che esiste tra il Creatore e l'uomo. “I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie” (Is 55,8). 
Un segno tipico di questa diversità sta nella fedeltà inesauribile di Dio verso l'uomo, contrapposta, invece, all'infedeltà dell'uomo. Dio è santo perché rimane sempre fedele: non può rinunciare ad essere buono (Os 11,9). Per questo la speranza d'Israele viene posta nel nome di Dio. Si spera che Egli agisca per amore del suo Nome, non in considerazione dei nostri meriti. 
In base a queste motivazioni, Ezechiele annuncia che Dio santificherà il suo Nome (Ez 36,23). Nel contesto storico del profeta, ciò significa che risolleverà la condizione miserevole dei membri del suo popolo: li perdonerà in modo gratuito, donerà loro un cuore nuovo (ossia capace di accogliere Dio e la sua parola), infonderà in loro il suo stesso spirito. In parole semplici, Dio mostra la sua santità nell'operare un rinnovamento totale del suo popolo. Il Pater si collega in modo diretto alla promessa di Dio espressa in questo passo di Ezechiele.
Gesù nel pregare il Padre riprende questa speranza e la rende attuale. Il desiderio del suo cuore è che Dio riveli la sua fedeltà o santità nella massima misura; chiede il rinnovamento completo e definitivo del popolo e si adopera perché ciò avvenga. Ora Dio dovrà agire in modo così manifesto, da indurre gli uomini a riconoscere la grandezza di questo suo operare. 
È impossibile, quindi, separare la considerazione dell'agire di Dio dagli effetti che essa esercita sul suo popolo, perché da questa sua nuova intrapresa, si svilupperà la rettitudine (o meglio la misericordia) nel mondo degli uomini. 
Il senso ultimo dell'intenzione di Gesù la possiamo cogliere richiamando altre frasi del Vangelo: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48). La perfezione corrisponde all'imitazione di Dio “che fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e piovere sui giusti e sugli ingiusti” (Mt 5,45). 
Oppure possiamo pensare al riflesso che questo nuovo agire ha sugli uomini: “Risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5,16). Il dono ricevuto (l'essere luce) richiama una responsabilità: risplendere per attrarre altri a Dio. 


Venga il tuo regno

La seconda invocazione non si discosta dalla prima: che Dio manifesti la sua santità o dilati nel mondo la sua sovranità, è la stessa cosa. Nel concetto del regno, però, abbiamo un arricchimento nella comprensione del progetto divino. Siamo rimandati alla vita di Gesù e al suo impegno nel mondo. 

Gesù, infatti, si mette a disposizione del Padre nell'espandere il suo regno, fino al punto da lasciar spazio nella sua persona allo stesso agire di Dio. Questo è il suo interesse principale. 
Anche in questo caso, si riprende l'attesa d'Israele. Il riferimento più immediato va alla profezia di Daniele sulla venuta del Regno di Dio. Là si annuncia che Dio, dopo che l'umanità avrà conosciuto il dominio crudele e distruttivo di altri sovrani terreni, rappresentati nella forma di animali mostruosi, affiderà la diffusione del suo regno ad una figura celeste, quella del Figlio dell'uomo (cap 7). 
Come la santità di Dio, al tempo dell’esilio, era emersa in contrasto con la situazione d'impurità del popolo, così l'imporsi della sovranità di Dio, si staglia in contrapposizione ad una situazione caotica. La storia umana ha conosciuto e conosce l'esperienza della tenebra, definita da Paolo come assenza di misericordia (Rm 1,31).  
La chiusura a Dio, opera il dissolvimento dell'umano (Os 4,1-2). Là dove la sovranità di Dio non ha più presa ed emerge il potere della forza, gli uomini vengono ridotti a cosa e stritolati. 
Gesù annuncia che Dio intende introdurre il suo regno nel sommovimento caotico della storia umana. Perciò inserisce nella storia degli uomini un lievito potente, un seme dalle potenzialità straordinarie. Gesù stesso è lievito e seme, luce che non può rimanere nascosta, potenza benefica che sconvolge e mette in fuga la potenza aggressiva del male. Incarnando l'autorità del Figlio dell'uomo, Egli libera dal peccato, reintegra nella comunione degli uomini gli esclusi, debella la malattia, apre alla condivisione dei beni. Il suo vivere e il suo parlare già di per se stesso si contrappone al normale esercizio della sovranità dei dominatori terreni. Non può essere ignorato come presenza insignificante. O lo si accoglie o lo si deve eliminare. 


D'altra parte Gesù che attua segni concreti della presenza del Regno, non intende ridurre tutto l'ambito di espansione di questa novità ai soli segni che Egli produce, ma rinvia ad una fase successiva nel quale il suo compito verrà ripreso dai discepoli (da Lui nei suoi discepoli) fino al suo ritorno glorioso. 
A partire dalla sua risurrezione, Gesù viene generato come Signore, in piena autorità, ed allora il Regno proseguirà e raggiungerà la sua pienezza in una partecipazione alla vita nuova ed eterna che Egli già possiede. L'umanità è chiamata a questa comunione con Lui e solo quando ciò avverrà, la sovranità di Dio sarà completa in tutti. 
Dio regna veramente quando noi tutti regneremo insieme con Lui. 
L'invocazione della venuta del Regno, almeno quando si pensa alla sua ultima fase di attuazione, sottintende il desiderio della consumazione della storia e del mondo: 
«Se l'avvento del regno di Dio, è conforme alla sua volontà ed esige la nostra attesa, come mai alcuni chiedono una dilazione per il mondo, dal momento che il regno di Dio, di cui domandiamo la venuta, tende a mettere fine a questo mondo?» (Tertulliano, La preghiera, 5). 
Senza giungere al questo desiderio estremo, l'invocazione del regno  presuppone la ricerca di vivere in modo conforme ad esso.
«Venga il tuo Regno. Sono parole di un figlio che mostra ottime intenzioni, vale a dire non intende attaccarsi alle realtà visibili, né considerare qualcosa di grande quelle presenti, ma desidera anelare al Padre e aspira ai beni futuri. Questo nasce da una buona coscienza e da un'anima libera da cose terrene. Anche Paolo desiderava questo ogni giorno; per questo diceva: Anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo aspettando l'adozione a figli, la redenzione del nostro corpo (Rm 8,23). Chi e infiammato da tale desiderio non può inorgoglirsi per le cose buone di questa vita, ne disperarsi per quelle tristi, ma e libero da ambedue gli eccessi come se già vivesse nei cieli» (G. Crisostomo, Commento al Vangelo di Matteo, 19,4).
«Quelli che sono chiamati al regno celeste e che aspettano di essere chiamati in cielo con Cristo, debbono nutrire pensieri degni di questo regno e debbono agire conformemente al modo di vita celeste» (Teodoro di Mopsuestia, Omelia 11 sul Pater).  





Sia fatta la tua volontà

La terza invocazione non ha bisogno di un chiarimento particolare. Ciò che Dio vuole è che il suo Nome sia santificato e il suo regno si diffonda. Lo ripeto, la volontà di Dio non è altro che la santificazione del suo Nome tramite il dilatarsi della sua sovranità regale. 
Pensando al volere di Dio su di noi, possiamo, però, precisare meglio fin dove il progetto d'amore di Dio ci voglia condurre. La lettera agli Efesini ci fa sapere che il farsi del regno di Dio per noi, comporta che noi, dopo aver ricevuto il sigillo dello Spirito, diventiamo figli adottivi di Dio, santi e immacolati (Ef 1,4-5). 
Quando Dio manifesta nel mondo la sua grandezza e la forza della sua santità, allora fa conoscere agli uomini il comportamento più adeguato a questo suo rivelarsi. Solo così può stabilire la sua sovranità in noi. 
Dal punto di vista pratico, il vivere da figli deriva da una migliore conoscenza di Dio e della sua volontà. Comprendere ciò che ci chiede, appare anche questo come un dono che proviene da Lui e che noi, inizialmente, possiamo soltanto invocare: “Non cessiamo di pregare per voi e di chiedere che abbiate piena conoscenza della sua volontà, con ogni sapienza e intelligenza spirituale, perché possiate comportarvi in maniera degna del Signore, per piacergli in tutto, portando frutto in ogni opera buona e crescendo nella conoscenza di Dio” (Col 1,9-10). 
Finora abbiamo pregato che la realtà di Dio diventi nostra. Come si vive in cielo, così si viva in terra. Il progetto che Dio ha pensato in cielo, si realizzi ora anche in terra. Nel Pater le due dimensioni, cielo e terra, tendono ad unificarsi. 
Del resto, chi prega il Pater con Cristo e in Cristo, si trova con lui presso il Padre. Il pregare nello Spirito, con Cristo e in Cristo, è già essere in parte nella vita eterna. Già chiedere la venuta del Regno non era un modo di desiderare di poter sedere con Lui presso il Padre, di ottenere in tutto la partecipazione alla gloria della sua risurrezione?
«Il Signore ha ordinato di desiderare i beni futuri e di anelare a compiere il viaggio verso le realtà celesti, ma finché ciò non avviene, ha ordinato che già di qui mostriamo il medesimo modo di vivere del cielo. Dice che si devono desiderare i cieli e i beni che sono là, ma anche prima di giungervi, ci ha ordinato di fare della terra un cielo... è possibile, anche vivendo qui, fare tutto come se già fossimo lassù» (Giovanni Crisostomo, Omelie sul Vangelo di Matteo 19,4).  


***


Nella prima parte abbiamo immaginato di fare come il sordomuto che aspetta in silenzio la guarigione da Gesù mentre Egli alza gli occhi a cielo e ci presenta al Padre suo. 
Nella seconda parte del Pater, possiamo immaginare di ripetere il gesto del salmista: a te, Signore, innalzo l'anima mia. Tenendo fisso lo sguardo su Dio, gli presentiamo anche noi stessi.  Ora ci uniamo a Gesù che affida al Padre la sua vita, la sua persona, tutto se stesso.  «Alle tue mani affido il mio spirito... Io confido in te, Signore, dico: Tu sei il mio Dio, i miei giorni sono nelle tue mani» (Sal 30, 6. 15-16). 
All'inizio ho detto che un modo per cogliere un aspetto essenziale della relazione di Gesù con il Padre è quello di richiamare il suo sentimento di pieno abbandono. Nel pregare Egli affida al Padre se stesso e la sua vita in totale disponibilità. Chi partecipa alla sua preghiera, farà suo il suo sentimento filiale anche per quanto riguarda tale espressione. 
Quale relazione tra queste invocazioni con quelle formulate nella prima parte? Dalla considerazione di un progetto dalla vastità immensa, volgiamo il pensiero a  fatti feriali dell'esistenza. Ci sembra quasi di cambiare discorso ed atteggiamento. Questo tuttavia non è strano. Nella Sacra Scrittura, la grandezza di Dio si esplica come cura amorevole verso ogni creatura: “Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature... Gli occhi di tutti sono rivolti a te in attesa e tu provvedi loro il cibo a suo tempo” (Sal 145,15). Questa tenerezza divina non può venir meno nel regno portato da Gesù. Anzi, incontrare il Regno come si manifesta nei segni offerti da Gesù, significa incontrare la premura di Dio verso ogni persona nella concretezza della sua vita. Perciò è normale che il cristiano segua il suggerimento di Paolo. “Non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti. E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù” (Fil 4,6-7). 


Dacci oggi il nostro pane

Con la quarta invocazione affidiamo al Signore la nostra esistenza quotidiana di uomini bisognosi di essere nutriti e sostenuti. Suggerendo tale invocazione, Gesù non si basa soltanto sulla provvidenza come appare nella creazione ma soprattutto sulla sua esperienza della fedeltà amorevole del Padre. A partire dall'ora in cui ha lasciato il clan familiare e si è incamminato per darsi alla sua predicazione, proprio sapendo che Egli non possiede neppure una pietra su cui posare il capo (cf Lc 10,58), si affida a Dio per il suo sostentamento. Egli è certo che a chi cerca il Regno, il compenso di ciò che costituisce per tutti il faticoso assillo di ogni giorno, viene dato in modo gratuito, in aggiunta alla gravosa opera sostenuta per il regno (cfr. 6,33). 
Lo troviamo, allora, ospite della famiglia di Pietro, degli amici di Betania, di Levi, di Zaccheo. 
Il consueto pieno affidamento di Gesù al Padre lo esime di per se stesso dalla premura di accumulare. “Non accumulate tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove i ladri scassina e rubano” (Mt 6,19). Quando invia i discepoli, non solo disarmati, ma anche senza pane e senza bisaccia (cfr. Mc 6,8), non li obbliga ad un comportamento avventato ma li avvia a ripetere ciò che Lui ha già sperimentato. Il pane necessario, mediante la generosità di altri uomini, gli è stato elargito da Dio ogni giorno e ogni accumulo sarebbe stata non soltanto fatica che aggrava l'affanno quotidiano ma mancanza di fiducia. 
I discepoli, nei loro spostamenti, rivivono a loro modo il cammino pedagogico già affrontato dai loro padri nell'uscita dall'Egitto. Anche in quella circostanza, Mosè li aveva obbligati a non raccoglier la manna più della misura di ogni giorno (cfr. Es 16,19). Ogni mattino dovevano raccogliere la misura sufficiente per un giorno. La manna è un cibo di ogni giorno. Il pane chiesto da Gesù è un cibo di ogni giorno. Egli non propone tanto l'arte d'accontentarsi del puro necessario come sapienza di vita, ma piuttosto l'aver premura per il regno e di fidarsi di Dio. 
Del resto i profeti antichi, per fedeltà al messaggio da proclamare, si erano esposti ad ogni rischio, e Dio aveva provveduto loro con fedeltà. Elia fuggiasco, privo di appoggi, viene soccorso da una donna, vedova e per giunta pagana (cfr. 1 Re 17,9). Del resto, come attesta il salmista: “L'occhio del Signore veglia su chi lo teme, su chi spera nella sua grazia, ...per nutrirlo in tempo di fame” (Sal 33, 18-19). 
Paolo nella sua evangelizzazione si espone anch'egli al rischio, deve esercitarsi a qualsiasi evenienza, ad aver fame e ad essere sazio (Fil 4,12). I filippesi fecero nei suoi confronti ciò che la vedova aveva compiuto in favore di Elia. A sua volta Paolo, organizzando una colletta per i poveri di Gerusalemme, diventa uno strumento della vicinanza di Dio a vantaggio di quest'ultimi. 
Chiedere il pane a Dio significa cercare di procurarlo a se stessi e a agli altri tenendo conto dello stile richiesto da Lui. Ciò esclude la cupidigia che comporta il lavoro continuo e stressante in vista dell'accumulo, il ripudio d'ogni sistema che si svolge usando inganno e violenza, la disponibilità ad elargire ai poveri. “Non potete servire a Dio e a mammona” (Mt 6,24). “Non sono forse i ricchi che vi tiranneggiano e vi trascinano davanti ai tribunali?” (Gc 2,6). “Dio ama chi dona con gioia” (2 Cor 9,7). 


Rimetti a noi i nostri debiti

Anche questa invocazione nasce a partire dell'esperienza del regno di Dio come è stato proclamato e iniziato da Gesù. Gesù ha incarnato una prassi di misericordia verso i lontani da Dio. Pranza con i peccatori (Mc 2,15) e li perdona in modo gratuito, prima che essi esprimano un sentimento di pentimento (Mc 2,5). Agisce così non per svalutare la necessità della conversione, ma per dare rilievo al fatto che tutto, anche il sentimento di conversione, ha origine dall'amore gratuito di Dio. La proclamazione del Regno nasce dalla volontà di Dio Padre di soccorrere l'uomo i cui atti di giustizia sono diventati come pani immondi, ma non presuppone la buona volontà degli uomini, almeno come punto di partenza. 
Questo annuncio di misericordia, sorprendente fino a suscitare l'irritazione dei giusti, lascia scorgere dietro di sé un panorama negativo. La misericordia di Dio salva dal rischio che Egli debba condannare il mondo a motivo della sua iniquità. La premura di Gesù presuppone che non siamo malati e malati gravemente. L'arte pedagogica (o l'intervento di grazia) messa in atto da Gesù è sorprendente perché Egli spinge il peccatore a riconoscere la gravità della sua malattia. Se i peccatori da Lui incontrati riescono a compiere questo passo, al quale qualsiasi uomo è sempre riluttante a fare, è perchè hanno conosciuto in Gesù una grande energia risanante, una potenza d'amore. La via di Gesù non è quella di chi ha premura in primo luogo di salvaguardare la morale, ma piuttosto la persona. Gesù non punta il dito, non minaccia e non rimprovera le singole persone da lui incontrate. Ciò non toglie, che queste, dopo averlo incontrato e dopo che si sono sentite persuase di essere accolte, non siano disposte a compiere l'altro passo che è quello di riconoscersi lontane da Dio. Nell'impegno che intraprendono per produrre frutti degni di conversione, dimostrano di sapere di dover colmare un abisso. Tuttavia non vivono questo con angoscia ma con esultanza. Sono scampate dalla morte della condanna, hanno trovato un medico efficace, hanno riconosciuto il loro male. Ciò che compiono in vista della loro conversione, non lo fanno per convincere il Signore ad amarle, ma per completare la cura in vista del loro totale risanamento. Solo grazie alla luminosità di Gesù, possiamo scorgere la nostra tenebra ma il Signore ce la rivela solo dopo che ci ha resi certi d'averci accolto. 
Il Vangelo appare così la via della misericordia più abissale, la via della più cruda verità di se stessi, la via della liberazione della condanna meritata, la via del risanamento più radicale ed efficace. Con la gioia della liberazione, affiora anche il sentimento di prudenza per il futuro: fare attenzione a non annullare il dono ricevuto; a non rifare, ciò che era stato demolito. 





Dio santifica il suo Nome e attua il suo regno quando la sua misericordia si espande sulla terra. 
«Anche se abbiamo scelto di fare il bene e lo facciamo con piacere, ci capita spesso di peccare contro Dio e contro gli uomini. Dio ha trovato un buon rimedio a questi due mali: se rimetteremo a coloro che ci hanno offeso, possiamo essere certi che in questo modo anche noi otterremo da Dio la remissione delle nostre colpe» (Teodoro di Mopsuestia, Omelia 11 sul Pater). 
L’invocazione sulla remissione del debito non riguarda soltanto il condono del peccato in relazione a Dio ma mira a realizzare la comunione tra gli uomini. Il regno si manifesta con chiarezza, là dove compare un’esperienza vera di fraternità. L’uomo nuovo, a cui fa riferimento Paolo, non corrisponde ad un singolo divenuto una persona santa ma ad una collettività. L’uomo nuovo è una comunità che supera le barriere create dagli uomini. Tra le barriere c’è l’insorgere del risentimento, del rancore. 
Chi perdona non è un uomo costretto ad eseguire una norma forse troppo severa ma un fedele che riceve una nuova possibilità di vita. Dio offre agli uomini la possibilità di non restare prigionieri del passato. Chi chiede o chi offre perdono entra nel futuro di grazia aperto dalla presenza del regno. Saper perdonare non significa, saper praticare in modo egregio una norma difficile, ma essere diventati altri: uomini alimentati dalla carità stessa di Dio. Saper donare il perdono presuppone un lungo cammino: all’inizio è sufficiente saper rinunciare alla ritorsione; al termine l’uomo può godere del bene di cui gode il suo avversario. 
Il primo passo sta nel rinunciare alla ritorsione: in questo caso non si tratta di pretendere di nutrire buoni sentimenti verso l'offensore, del resto impossibili, ma di agire in modo contrario al sentimento di vendetta che insorge in noi: «Se possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti. Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare all’ira divina. Sta scritto infatti: Spetta a me fare giustizia, io darò a ciascuno il suo, dice il Signore. Al contrario, se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere: facendo questo, infatti, accumulerai carboni ardenti sopra il suo capo. Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene» ( Rm 12, 18-21). 
«Perché odi il peccatore, o uomo? Forse perché non è giusto come te? Ma tu come puoi essere giusto, se non hai amore? Se invece tu hai amore, come mai non piangi su di lui, ma anzi lo perseguiti?» (Isacco di Ninive, Prima collezione 50). 


Quando si è raggiunta la perfezione della carità, allora nasce in noi l'amore vero per i nemici: 

«Se viene perseguitata sperimenta nel suo interno una vivissima gioia, e permane in una pace molto più profonda che non negli stati precedenti. Non solo non prova il minimo risentimento per quelli che le fanno o le vogliono fare del male, ma li circonda di maggiori
attenzioni; e se li vede in qualche travaglio, ne rimane teneramente afflitta, sino ad essere disposta a far di tutto per sollevarli. Li raccomanda istantaneamente al Signore, e rinuncerebbe volentieri ad alcune delle sue grazie affinché Dio le concedesse a loro, ed essi non l’offendessero più» (Teresa d'Avila, Castello interiore, VII, 3,5)



Non c’indurre in tentazione

Il testo precedente alla nuova traduzione aveva scosso le coscienze: non indurci in tentazione! Come può Dio indurre l’uomo al male? La Scrittura dice che Dio non vuole spingere nessuno al male. «Nessuno, quando è tentato, dica: «Sono tentato da Dio»; perché Dio non può essere tentato al male ed egli non tenta nessuno. Ciascuno piuttosto è tentato dalle proprie passioni» (Gc 1,13-14).
Tuttavia, Dio può sottoporre alla prova gli uomini non per farli precipitare nel male ma per renderli persone sempre più mature: «Figlio, se ti presenti per servire il Signore, preparati alla tentazione. Abbi un cuore retto e sii costante, non ti smarrire nel tempo della prova. Stai unito a lui senza separartene, perché tu sia esaltato nei tuoi ultimi giorni. Accetta quanto ti capita e sii paziente nelle vicende dolorose, perché l’oro si prova con il fuoco e gli uomini ben accetti nel crogiuolo del dolore»(Sir 2,1-5).
La stessa tentazione diabolica può fungere da prova permessa da Dio. È quanto ha vissuto Gesù. Matteo adopera un linguaggio piuttosto drastico: «Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo» (Mt 4,1).
L’espressione della nuova traduzione chiarisce ogni possibile equivoco. «Non abbandonarci alla tentazione». A sua volta Paolo rassicura: «Nessuna tentazione, superiore alle forze umane, vi ha sorpresi; Dio infatti è degno di fede e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze ma, insieme con la tentazione, vi darà anche il modo di uscirne per poterla sostenere» (1 Cor 10,13). Importante è non illudersi di non dover attraversare la prova e soprattutto non illudersi di essere tanto solidi da superarla da soli (cf Lc 22,31: «Simone, Simone, ecco: Satana vi ha cercati per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno… »).

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