domenica 23 maggio 2010

PADRE NOSTRO

La prima cosa che dovrebbe sorprenderci quando recitiamo il Padre nostro è proprio il modo con cui comincia. Iniziamo col dire semplicemente: Padre. La versione di Luca riporta solo questo appellativo (Lc 11,2). Se ci trovassimo di fronte a qualsiasi autorità di questo mondo, non cominceremmo mai il discorso con una confidenza del genere. Dio, invece, lo chiamiamo subito Padre, senza altri preamboli. Incontriamo qui lo stile di Gesù. Egli si rivolgeva a Dio chiamandolo, in aramaico, Abba! Questo ha sorpreso i discepoli. L’ebraismo, come del resto tutte le altre religioni, non usava certo questa confidenza. Noi stessi nella liturgia adoperiamo delle formule più solenni: O Dio, onnipotente ed eterno...

È opportuno che noi preghiamo usando lo stile di Gesù? Non siamo troppo presuntuosi a parlare in questo modo? Non era Lui un caso unico? In realtà non sarebbe normale che parlassimo con Dio in questo modo.

Ora dobbiamo tener presenti due prospettive: da una parte l’essere figli di Dio e poter invocarlo come Padre è un privilegio immeritato, dall’altra non dobbiamo rifiutare il dono offertoci gratuitamente da Dio e chiuderci nel nostro imbarazzo, per quanto motivato. Osare di chiamarlo Padre (audemus dicere...) non è affatto imprudenza o sfacciataggine perché è Dio stesso che vuole così. Ha mandato in terra il Figlio Gesù perché gli uomini potessero considerarlo Padre ed essere realmente suoi figli. «Per mezzo di lui [Cristo] infatti possiamo presentarci... al Padre in un solo Spirito. Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, avendo come pietra d’angolo lo stesso Cristo Gesù. In lui tutta la costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore; in lui anche voi venite edificati insieme per diventare abitazione di Dio per mezzo dello Spirito» (Ef 2,18-22).

Non solo non dobbiamo esitare di parlare con Dio, ma noi stessi siamo diventati la sua abitazione. Dio ama la nostra confidenza, anche il nostro semplice balbettare. Lo Spirito Santo in noi ci fa superare l’imbarazzo, la paura, la diffidenza e ci insegna a sentirci figli. A volte pensiamo di essere importuni, degli scocciatori ma Dio vuole che noi ci accostiamo a Lui. «Non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: “Abbà! Padre!”» (Rm 8,15). In altre parole non siamo figli di Dio nel senso che siamo stati creati da lui o che siamo amati da lui. Lo siamo perché siamo divenuti partecipi di Cristo (Eb 3,1.14), come fossimo una sola pianta con Lui.

Continuiamo ad osservare la costruzione del Pater. Abbiamo detto che è senza atrio e adesso vediamo che ha due vani. Nel primo diciamo per tre volte tuo o tua, ma nel secondo per tre volte nostro, nostri. Come primo momento, facciamo caso a ciò che Dio ci vuole dare (il suo dono), poi, in un secondo tempo, diamo rilievo alle nostre necessità. Questi due vani, tuttavia, sono un unico edificio. Quando Dio chiede la nostra attenzione ai suoi interessi, pensa sempre a noi, non a se stesso. Siamo noi piuttosto che dovremo dare più importanza al dono che Egli ci vuole fare, piuttosto che alle nostre richieste. Ricordate la donna samaritana. Dice a Gesù: dammi quest’acqua in modo che io non debba più fare questa fatica di venire attingere. Gesù le risponde: se tu conoscessi Chi sono io e che cosa potrei donarti, mi avresti fatto un’altra richiesta (cf Gv 4). Non è opportuno dare spazio alle nostre aspettative prima di aver dato importanza al suo progetto su di noi.

La terza cosa. Osserviamo il modo particolare di parlare di Gesù: sia santificato, venga il tuo regno! Se una signora dicesse alla collaboratrice domestica: siano spazzate le stanze; si faccia il bucato, avvenga la spesa, questo modo di parlare sarebbe piuttosto strano. Come mai questo linguaggio? Chi è che deve operare? Dio o noi?

Prima comincia Dio e poi collaboriamo anche noi. Se prima Dio non comincia a creare il suo regno, noi non potremmo fare un bel niente. La realtà di Dio non possiamo tirarla giù dal cielo con le corde. Tuttavia dobbiamo mettere il nostro consenso e la nostra collaborazione. Dio non lo getta giù dal cielo il suo regno a nostro dispetto, come fosse una meteorite. Ciò che chiediamo nella preghiera, lo dobbiamo volere anche noi. Ciò che chiediamo al Signore, dobbiamo cominciare a farlo anche noi. Vediamo ora le singole invocazioni.

Sia santificato il tuo Nome

Che significa? L’espressione deriva dal profeta Ezechiele (36,23).

Annunciando che Dio avrebbe santificato il suo Nome, il profeta assicurava che Dio, ad un certo punto della storia, avrebbe voluto manifestare la sua santità, ossia la sua grandezza. Tuttavia non possiamo restare così nel generico. Ezechiele pensava ad un dono particolare: quando Dio avrebbe santificato il suo Nome, il popolo avrebbe ricevuto il perdono, avrebbe potuto usufruire di un cuore nuovo, avrebbe ricevuto lo Spirito di Dio per comprendere, amare ed apprezzare i comandamenti del Signore. In altre parole Dio rivela la sua potenza e la sua forza quando siamo noi a migliorare e a cambiare in meglio. Finché gli uomini sono malvagi, essi non possono mostrare lo splendore della presenza di Dio in loro. Potremmo dire: in loro Dio fa una brutta figura. Quando la vita degli uomini migliora, anche Dio si rivela meglio per quello che è. Diceva s. Ireneo di Lione: come la bravura di un medico si vede nel malato, così la bravura di Dio si vede negli uomini risanati.

Questo modo di parlare è simile ad altre invocazioni che troviamo in altri profeti o nei salmi: Svegliati, svegliati, braccio del Signore! Alzati, Signore, con tutta la tua forza! Innalzati, o Dio, sopra il cielo e su tutta la terra si manifesti la tua gloria. In altre parole, spesso gli scrittori sacri avevano chiesto a Dio di non abbandonare gli uomini a se stessi e di farsi valere, di far sentire la potenza del suo amore. Gesù chiede al Padre di non rimanere inerte ma di agire con grande forza. Egli si mette a sua disposizione, affinché il Padre agisca per mezzo di Lui. Anche noi dobbiamo fare altrettanto. Chiedere a Dio di essere attivo nella forza del suo amore e fare quanto ci è possibile per collaborare con Lui. Il campo di azione è vasto, a livello personale e sociale.

Venga il tuo regno

L’invocazione successiva - venga il tuo regno - non fa altro che precisare il significato della prima. Dio si risveglia e manifesta la santità, ossia la grandezza del suo Nome, introducendo nel mondo il suo regno. Questa è l’invocazione più importante. Ricorda lo scopo stesso della missione di Gesù. Egli voleva che il Padre regnasse davvero tra gli uomini e in loro. Le sue parabole spiegano in che modo Dio realizzerà il suo intento e come dobbiamo comportarci in relazione a questo avvenimento. Gesù non pensa neppure che la sua morte impedirà questo realizzarsi del regno. Di fatto, a partire dalla sua risurrezione, il regno si è come concentrato della sua persona: da una parte è Lui, il Cristo, a regnare in nome di Dio e d’altra l’esito finale di tutto questo movimento, non sarà altro che una partecipazione di tutti gli uomini alla gloria del Cristo Risorto. Ormai il significato dell’invocazione di Gesù presenta tante sfaccettature quante sono gli sviluppi concreti di questo annuncio.

1. Prima di Gesù. La promessa del regno viene annunciata dal profeta Daniele (cap. 7). Nel corso della notte, quando a regnare sono le tenebre (simbolo del male), il profeta vede quattro bestie terrificanti; le vede emergere da un mare fortemente agitato da venti impetuosi (Dan 7,2-3). Questi esseri mostruosi provengono dal caos evocato dalla tempesta notturna (cf. Gen 1,2), e sono simbolo dei regni terreni che opprimono e massacrano gli uomini. Il profeta continua a guardare, ossia sperare, ed ecco aprirsi un’altra visione questa volta rasserenante: dal cielo, da Dio, viene una figura umana integra, denominata Figlio dell’uomo (7, 13-14). Egli appare come l’uomo ritornato ad immagine di Dio e rappresenta una persona singola ma anche un intero popolo (7, 18. 27). Il profeta vede che Dio consegna al Figlio dell’uomo il dominio del mondo. Gesù, in seguito, s’attribuirà questa figura, modificando però la prospettiva e rifiutando un dominio terreno.

2. Durante la vita di Gesù. Gesù attesta di essere il Figlio dell’uomo (Mt 27, 64). Inutile pensare ad un dominio mondano (Gesù si attribuisce questa figura mentre mentre viene processato dai poteri terreni, bestiali; cf. Gv 19, 1-2). Il regno di Dio non si realizza dopo gli altri, dopo averli soppiantati, ma cresce in mezzo ad essi, come buon grano tra la zizzania (Mt 13, 24-30). Non si impone con la forza o con il dominio del denaro (Gv 18,36). È costituito piuttosto da tutti coloro che vogliono fare la volontà di Dio e si pongono dalla parte della verità (Gv 18,37).

3. Dopo la Pasqua. In modo paradossale, Dio inaugura il suo regno con la morte di Gesù (Lc 22,18). Questi si abbassa fino all’ultimo posto, per amore, e per questo, viene esaltato da Dio (Fil 2,9). La croce diventa la garanzia del dominio di Gesù, come una riserva aurea garantisce il valore di una valuta corrente. Se non fosse concretizzata dal servizio umile della croce, la gloria della risurrezione non sarebbe altro che carta straccia, dominazione mondana. Ora coloro che accolgono il suo regno, diventano anch’essi un regno (Ap 1,6) e partecipano alla gloria del Risorto (Ap 3,21) ma dovranno anche loro morire a se stessi manifestando la forza dell’amore (Ap 5,9-10; 12, 11).

L’invocazione del Regno comprende vari aspetti. Per rispettarli tutti dovremmo svolgerla in tante altre preghiere.

Sia fatta la tua volontà

L’invocazione seguente - sia fatta la tua volontà - appare soltanto nel testo di Matteo. Di fatto non aggiunge nulla alle altre due ma le chiarifica. Ciò che Dio vuole è santificare il suo Nome introducendo nel mondo il suo Regno.

Quale altra prospettiva chiarisce quest’invocazione? Il volere divino si realizza quando diveniamo figli di Dio, santi e immacolati: «In Cristo ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà» (Ef 1,4-5). Oppure: «Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità» (1 Tm 2,4)

Matteo aggiunge, poi, come in cielo così in terra. Il cielo corrisponde alla parola di Dio, la terra alla nostra accoglienza. Il cielo è rappresentato dalla pioggia e dalla neve, la terra dal campo fecondato da esse; i frutti che maturano in terra hanno, dunque, un’origine celeste: «Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata» (Is 55,10-11).

«Dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano»

Già nell’Antico Testamento Dio è presentato come Colui che si prende cura della sua creazione e della sussistenza del suo popolo. Un caso tipico era costituito dall’esperienza della manna nel cammino verso la patria. Dio aveva nutrito il suo popolo con un cibo sconosciuto, inaspettato. Gli ebrei potevano goderne ma senza tentare di accumularlo. Bisognava raccogliere ogni giorno il quantitativo che bastava, senza dubitare del soccorso che Dio avrebbe prestato nel giorno successivo. «Ecco che cosa comanda il Signore: “Raccoglietene quanto ciascuno può mangiarne”». Così fecero gli Israeliti. Ne raccolsero chi molto, chi poco. Si misurò con l’omer: colui che ne aveva preso di più, non ne aveva di troppo; colui che ne aveva preso di meno, non ne mancava. Avevano raccolto secondo quanto ciascuno poteva mangiarne. Mosè disse loro: «Nessuno ne faccia avanzare fino al mattino». Essi non obbedirono a Mosè e alcuni ne conservarono fino al mattino; ma vi si generarono vermi e imputridì» (Es 16,16-19).

La prima invocazione della seconda parte del Pater ci rinvia alla vita di Gesù in terra. Egli aveva abbandonato il lavoro di carpentiere e si era messo a predicare di villaggio in villaggio, senza alcuna garanzia economica, senza sapere dove avrebbe potuto alloggiare. «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (Lc 9,58). Chi lo seguiva, affrontava i medesimi rischi. Chi era mandato in missione da lui, doveva abbandonarsi all’assistenza di Dio, affidandosi alla sua provvidenza. Potevano contare, gradualmente, su una rete di discepoli rimasti nei loro villaggi, come Maria, Marta e Lazzaro, godendo della loro ospitalità. Chi abbandona tutto per il regno, si affida a Dio provvidente.

Nei viaggi missionari, gli apostoli si sono fatti ospitare e anche mantenere dalle comunità evangelizzate, seguendo un detto risalente a Gesù. Soltanto Paolo lavorava con le sue mani, come scelta personale (1 Cor 9, 13-18). Lo faceva all’inizio del lavoro apostolico in un determinato luogo poi, anch’egli preferiva darsi interamente all’evangelizzazione, contando sull’aiuto dei cristiani già convertiti (Fil 4, 14-20).

L’apostolo non considera il soccorso della Provvidenza come un atto che preservi dalla prova o dall’esperienza dell’indigenza (Fil 4,11-12) e, quindi, non può essere invocata a servizio di un’esistenza comoda o a sostegno di scelte amministrative estemporanee. La provvidenza non garantisce una stile di vita alieno dalla sobrietà. Egli invita i cristiani a solidarizzare con lui e soprattutto tra di loro (Fil 4, 14; 2 Cor 9, 6-7) perché Dio agisce come provvidente tramite persone rese da lui generose. Assicura che Dio si prende cura di chi si è già fatto carico delle esigenze del prossimo, rischiando sul piano economico (Fil 4,19; 2 Cor 9,10), perché lo scopo dell’elemosina è il ristabilimento dell’uguaglianza nella Chiesa (2 Cor 8,13).

«Perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore».

Gesù era venuto per annunciare lil volere di Dio: riconciliarsi con gli uomini. Di solito è l’offensore che deve preoccuparsi di riconciliarsi con l’offeso. Dio agisce al contrario. Proprio lui che è stato offeso prende l’iniziativa della riconciliazione e assicura della sua piena disponibilità alla rappacificazione con gli uomini. «Dio riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2 Cor 5,19-20). Il perdono che gli uomini si rendono tra loro è la conseguenza di questa nuova relazione che hanno stabilito con Dio. Da Dio impariamo, dunque, come agire nei riguardi dei nostri simili.

L’argomento può essere allargato oltre il perdono. Il Vangelo promuove lo spirito di gratuità, insito nel perdono, in ogni circostanza: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti» (Lc 14,12-14).

«Non abbandonarci alla tentazione»

Il testo precedente alla nuova traduzione aveva scosso le coscienze: non indurci in tentazione! Come può Dio indurre l’uomo al male? La Scrittura dice che Dio non vuole spingere nessuno al male. «Nessuno, quando è tentato, dica: «Sono tentato da Dio»; perché Dio non può essere tentato al male ed egli non tenta nessuno. Ciascuno piuttosto è tentato dalle proprie passioni» (Gc 1,13-14).

Tuttavia, Dio può sottoporre alla prova gli uomini non per farli precipitare nel male ma per renderli persone sempre più mature: «Figlio, se ti presenti per servire il Signore, preparati alla tentazione. Abbi un cuore retto e sii costante, non ti smarrire nel tempo della prova. Stai unito a lui senza separartene, perché tu sia esaltato nei tuoi ultimi giorni. Accetta quanto ti capita e sii paziente nelle vicende dolorose, perché l’oro si prova con il fuoco e gli uomini ben accetti nel crogiuolo del dolore» (Sir 2,1-5).

La stessa tentazione diabolica può fungere da prova permessa da Dio. È quanto ha vissuto Gesù. Matteo adopera un linguaggio piuttosto drastico: «Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo» (Mt 4,1).

L’espressione della nuova traduzione chiarisce ogni possibile equivoco. «Non abbandonarci alla tentazione». A sua volta Paolo rassicura: «Nessuna tentazione, superiore alle forze umane, vi ha sorpresi; Dio infatti è degno di fede e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze ma, insieme con la tentazione, vi darà anche il modo di uscirne per poterla sostenere» (1 Cor 10,13). Importante è non illudersi di non dover attraversare la prova e soprattutto non illudersi di essere tanto solidi da superarla da soli (cf Lc 22,31: «Simone, Simone, ecco: Satana vi ha cercati per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno… »).

Immagine a fianco: Angelo, icona di Luciano Mistrorigo (cf. residenza camaldolese.blogspot.com)

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