lunedì 10 maggio 2010

COME PREGARE CON I SALMI?

Nel presentarci Dio, i salmi si servono di immagini che, sulle prime, ci possono risultare poco amabili. Si dice che Egli è Santo e Terribile (97), avvolto da nubi e da tenebre; dal suo trono scorre un fiume di fuoco: Dalle sue narici saliva fumo, dalla sua bocca un fuoco divorante; da lui sprizzavano carboni ardenti. Abbassò i cieli e discese, una nube oscura sotto i suoi piedi (18,9-10). Quale significato possono avere per noi oggi queste forme immaginifiche?


Osserviamo il contesto in cui si manifesta questo volto divino. Il salmo 97, da cui ho preso le mosse, appartiene ad una composizione che, scritta con ogni probabilità durante l’esilio, intende magnificare la regalità di Dio (95-100). Israele, rimasto privo di un re terreno, riscopre la sovranità del Signore. Esiliato a Babilonia, conosce i culti fastosi delle divinità babilonesi, ma capisce che queste divinità, tanto affascinanti, garanti del potere degli oppressori, non sono paragonabili al Signore, anzi in realtà sono delle nullità (cf. Baruc 6,3-4). Dopo tante esitazioni, impara finalmente ad affidarsi al Dio di Mosè. Quale messaggio possiamo ricavare dai salmi che compongono l’inna alla regalità di Dio?
Nonostante le apparenze, essa non presenta un tono cupo ma gioioso. Si apre e si chiude con due esortazioni alla lode e al ringraziamento. Il primo invito è rivolto ad Israele, il secondo a tutti i popoli. Israele viene invitato a radunarsi al tempio: Venite, cantiamo al Signore… Accostiamoci a lui per rendergli grazie, a lui acclamiamo con canti di gioia (95,1-2); i popoli, dando ancora più risalto alla gioia, sono convocati a loro volta: Acclamate il Signore, voi tutti della terra, servite il Signore nella gioia, presentatevi a lui con esultanza (100,1).
Anziché averne paura, è possibile gioire del Signore ed acclamarlo. Perché?
L’acclamazione più ardente compare al centro del salmo 98 ed è espressa con vivo fervore: Acclami il Signore tutta la terra, gridate, esultate, cantate inni! Cantate inni al Signore con la cetra, con la cetra e al suono di strumenti a corde; con le trombe e al suono del corno acclamate davanti al re, il Signore (4-6). In pratica, si vuole attivare un’intera orchestra. Il motivo di tanto ardore dipende da quanto è stato annunciato nella strofa precedente: Dio si è fatto conoscere, ha manifestato se stesso in eventi straordinari. Israele è stato il primo testimone di ciò che è accaduto, in quanto è stato il primo destinatario della fedeltà divina ma ora questi eventi sono resi noti anche altre nazioni, per cui sulla terra si diffonde la conoscenza di un Dio degno di ammirazione e d’amore.
I popoli pagani possono sperare di partecipare in qualche modo ai privilegi del popolo di Dio? Le genti possono unirsi alla lode d’Israele perché Dio è il Creatore del mondo intero e continua a esercitare il suo dominio in tutte le nazioni, anche in quelle che non sono consapevoli di tale grazia.
Nella sua mano sono gli abissi della terra, sono sue le vette dei monti. Suo è il mare, è lui che l’ha fatto; le sue mani hanno plasmato la terra. Entrate: prostrati, adoriamo, in ginocchio davanti al Signore che ci ha fatti (95,4-5).
Soffermaci su questo versetto: Abissi della terra, vette dei monti, vastità del mare: tutti gli estremi sono nelle sue mani. Dio raggiunge ogni realtà e la colma con il suo amore. Le divinità babilonesi non potevano vantare neppure qualcosa di paragonabile perché nessuna era considerata competente su qualsiasi spazio ma ognuna deteneva un potere limitato, sopra una regione particolare. Già qui risalta un’enorme differenza: Tutti gli dèi dei popoli sono un nulla, il Signore invece ha fatto i cieli (95,5).
È da questa nozione che il salmista trae una prima nota lieta: Dio non è soltanto il sovrano d’Israele ma di tutto il mondo, proprio perché ne è il Creatore. Come tale regna incontrastato sulle grandi potenze e sulle loro ridicole divinità: Tremi davanti a lui tutta la terra. Dite tra le genti: «Il Signore regna!». È stabile il mondo, non potrà vacillare! Egli giudica i popoli con rettitudine (95,9-10). Giudicare, significa, governare. Ora la convinzione che sia Dio a regnare riempie di gioia i credenti: Il Signore regna: esulti la terra, gioiscano le isole tutte (96,1) […] Una luce è spuntata per il giusto, una gioia per i retti di cuore. Gioite, giusti, nel Signore, della sua santità celebrate il ricordo (96,11). La gioia, come si vede, torna con insistenza.
I fedeli non si sentono più in balia di un destino cieco o di avvenimenti casuali. Questo vale anche per tutti i popoli. Se Dio regna sul mondo intero, tutti gli uomini possono vantaggiarsi della sua sovranità. Che sia Dio a regnare, ciò è bene per tutti: appare un senso, finalmente, sull’orizzonte del caos in cui tende a precipitare il mondo.
Abbiamo così ottenuto un primo guadagno: Dio è il Signore e il Salvatore universale. Quali altri tratti presenta questo Sovrano?

Santo e terribile

Il salmo 98 ne rivela altri ancora. Il salmista vuole renderci partecipi del suo sentimento d’ammirazione e del suo gioioso stupore. Grande è il Signore in Sion, eccelso sopra tutti i popoli. Lodino il tuo nome grande e terribile. Egli è santo! (99,2-3).
Emergono due qualificazioni importanti: santo e terribile.
Che significa santo? È difficile dirlo. Potrei usare la formula: Dio è Dio. In primo luogo è ben diverso da noi; è eterno mentre noi abbiamo una vita breve; è sapiente, fedele, misericordioso, giusto, mai compromesso con il male.
Terribile? Perché? Dobbiamo forse tremare di paura? Vediamo il significato di questa qualificazione. La spiega in modo chiaro il salmo 111: Mandò a liberare il suo popolo, stabilì la sua alleanza per sempre. Santo e terribile è il suo nome (111,9). Terribile significa che Dio opera con efficacia e compie azioni straordinarie in potenza ma anche in bontà. Un altro passo: Venite e vedete le opere di Dio, terribile nel suo agire sugli uomini. Egli cambiò il mare in terraferma; passarono a piedi il fiume: per questo in lui esultiamo di gioia (66,5-6; cf. Sal 145,4-7). La terribile potenza è associata alla bontà immensa. Il Signore è terribile proprio perché la sua bontà opera in modo efficace. Dio non è un pensatore che elabora progetti grandiosi destinati a restare tra i sogni. Nell’esercitare la sua solidarietà è in grado di opporsi ai potenti della terra che, a differenza di Dio, opprimono: toglie il respiro ai potenti (75,13). Il fatto che Egli sia terribile, suscita rispetto amoroso, non terrore paralizzante.

Il salmo 97 suggerisce altre qualità di Dio, tutte ritenute degne d’ammirazione:
Nubi e tenebre lo avvolgono, giustizia e diritto sostengono il suo trono. Un fuoco cammina davanti a lui e brucia tutt’intorno i suoi nemici. Le sue folgori rischiarano il mondo: vede e trema la terra. I monti fondono come cera davanti al Signore, davanti al Signore di tutta la terra (2-5).
Le immagini usate richiamano la rivelazione al Sinai. I popoli antichi vedevano il divino nelle manifestazioni temporalesche o nell’eruzioni vulcaniche. I grandi spettacoli naturali erano percepiti come rivelativi. Il fuoco che scende dal trono di Dio (una specie di lava vulcanica rovente) sostituisce in cielo una guardia armata che protegge in terra qualsiasi potente. Si dice poi che il calore di tanto fuoco può fondere le montagne, ossia è in grado di sciogliere tutte le difficoltà, anche quelle che a noi sembrano insuperabili, e ad opporsi ad ogni ostacolo.
È probabile, comunque, che un lettore moderno preferisca l’esperienza di Elia quando, in pellegrinaggio al Sinai, ascolta la voce del Signore in una brezza leggera (1 Re 19,12). Tuttavia quando leggiamo un passo biblico, dobbiamo mettere da parte le preferenze e accogliere il messaggio presente anche nei racconti meno attraenti. Ogni parola o immagine possiede una ricchezza che non è saggio trascurare.
Nubi e tenebre fanno capire che Dio è nascosto; non è disponibile come le cose che trattiamo con disinvoltura, perché è essenzialmente altro. È come dire santo.

Quali risonanze hanno avuto queste immagini nella tradizione cristiana? La tenebra non è solo assenza di luce ma la condizione in cui veniamo a trovarci nell'impatto con la forza eccessiva di una luce abbagliante: «Non perché Dio sia tenebra in se stesso, ma a causa dei nostri sensi deboli che di fronte a una luce così immensa si oscurano e rimangono offuscati, non essendone all'altezza. La luce tanto più è forte, tanto più acceca» (Giovanni della Croce). Tenebra e luce si equivalgono; impediscono ad una realtà troppo grande di rendersi disponibile a noi come un qualsiasi oggetto da manipolare.
Il fuoco ha richiamato la necessità della purificazione. Dio si protegge dal peccato. La sua santità luminosa e rovente è l’opposto del male. Per entrare in relazione con lui dobbiamo liberarci da ogni germe di malizia. «Come subito getti nel fuoco gli scarti e le immondizie che cadono a terra quando fai lavoro manuale, così getta in Dio tutti i turbamenti dei tuoi pensieri. Dato che Dio è un fuoco che divora, affida a lui da bruciare ciò che di superfluo c’è nel tuo cuore» (Pier Damiani). Nessuna violenza: «Dio non brucia i suoi nemici come nemici, ma come amici; egli riduce al nulla i peccati dei nemici per renderli, da nemici, amici» (Origene). Pregando con questo salmo, possiamo fare nostre tali intuizioni e chiedere la liberazione da male che corrode tutti.

Ritorniamo ora alla presentazione del volto di Dio. L’autore del salmo 97 aggiunge una caratteristica ancora più importante, la fedeltà, alla quale ho accennato: Cantate al Signore un canto nuovo… Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza, agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia. Egli si è ricordato del suo amore, della sua fedeltà alla casa d’Israele (2-3)
Ciò che distingue Dio da qualsiasi altra autorità, non consiste tanto nella forza del potere o nell’acutezza della strategia di governo. È diverso da tutti soprattutto perché è sempre fedele a se stesso, è amore che non viene meno; potere e sapienza sono a servizio del suo amore. Ora ogni esperienza rinnovata dell’amore di Dio, suscita un canto nuovo. È nuovo perché si viene a conoscere un ulteriore intervento divino.
Un cristiano, pregando con questi versetti, aggiunge altre motivazioni ancora più sublimi riguardo all’esperienza della fedeltà di Dio. È utile osservare che i salmi 96 e 98 ritornano di frequente nella liturgia nel ciclo di Natale-Epifania.
«Discese personalmente sulla terra lui che era solito delegare degli altri; personalmente il Signore ha manifestato la sua salvezza. Colui che era sopra i suoi inviati, si fece uno di loro tra di essi. Ma ascolta lui stesso: Sono venuto per servire e dare la mia vita. Questo nessuno degli altri lo ha fatto» (Bernardo). «Che cosa ha fatto Dio di nuovo per meritare un cantico nuovo? Volete sapere che cosa ha fatto di nuovo? Dio è morto come uomo, perché gli uomini avessero la vita; il Figlio di Dio fu crocifisso, per sollevarci fino al cielo. Pur essendo di natura divina, prese la natura di uomo, si rimpicciolì per ingrandire noi» (Origene). «Il cantico è nuovo perché il mondo non ha mai udito qualcosa di simile» (Cassiodoro).

Il salmo 99 descrive un altro tratto della bontà di Dio: ama dialogare con gli uomini; ama intrattenersi con loro e, pur non risparmiando interventi di durezza, secondo una buona pedagogia, esercita a lungo la sua pazienza:
Mosè e Aronne tra i suoi sacerdoti, Samuele tra quanti invocavano il suo nome: invocavano il Signore ed egli rispondeva. Parlava loro da una colonna di nubi: custodivano i suoi insegnamenti e il precetto che aveva loro dato Signore, nostro Dio, tu li esaudivi, eri per loro un Dio che perdona, pur castigando i loro peccati. (99,6-8)
Prima il salmista ci ha fatto riflettere sui tratti della maestà divina, ma poi ha completato il suo annuncio facendoci conoscere anche la sua bontà. Un Dio tanto grande è molto interessato alle sue creature. L’annuncio cristiano porta al culmine questo rilievo.
Passiamo, ora, ad una nota meno attraente: non tutti però sanno dialogare con il Signore. Il salmo 95 si conclude mettendo il risalto la fatica di credere. Se ascoltaste oggi la sua voce! «Non indurite il cuore come a Meriba… Per quarant’anni mi disgustò quella generazione e dissi: “Sono un popolo dal cuore traviato, non conoscono le mie vie”. Perciò ho giurato nella mia ira: “Non entreranno nel luogo del mio riposo”» (95,9-11).
Sarebbe interesse nostro accoglierlo ed é proprio per il nostro vantaggio che Egli chiede di essere ascoltato. La sua ira è la reazione addolorata di fronte alla nostra persistenza nel male mentre egli vorrebbe farci entrare nella sua pace. Questo Dio che dialoga con gli uomini non accarezza, perciò, i loro difetti né li approva nei loro peccati. Ama la sua rettitudine e la vuole vederla riprodotta anche in noi. È questa la condizione per attraversare il fuoco che lo circonda. Per questo rinnova di continuo l’invito pressante a ascoltarlo: «Quando dice oggi, a te si rivolge; per tutto il tempo della vita dimostra di battersi per la tua salvezza» (Pier Crisologo). Dio vuole che noi partecipiamo al suo riposo:
«Chi confida di poter riposare nell'abbondanza dei beni, si inganna a causa delle frequenti perturbazioni. A volte accade che proprio nel momento della fine si convince di aver collocato il fondamento della sua pace sulla sabbia. Quanti invece, pervasi dallo Spirito Santo, hanno preso sopra di loro il giogo dolcissimo dell'amore del Signore e hanno imparato dal suo esempio a essere miti e umili di cuore, anche al presente godono di una qualche anticipazione del riposo futuro» (Beda).

I salmi 96 e 98 terminano acclamando al Signore che viene a giudicare: Risuoni il mare e quanto racchiude, il mondo e i suoi abitanti. I fiumi battano le mani, esultino insieme le montagnedavanti al Signore che viene a giudicare la terra: giudicherà il mondo con giustizia e i popoli con rettitudine (98,7-9)
L’orchestra raccolta con vari strumenti artigianali, ora si completa con la voce che sale dalla natura. Ogni creatura emette un suono e partecipa alla melodia. Forse ci meravigliamo che l’annuncio del suo giudizio sia atteso con vivo desiderio e strappi un applauso scrosciante. È più probabile che il termine giudizio susciti in noi paura ed avversione. Nel mondo antico, il giudicare era una delle funzioni più rilevanti dell’atto di governare. Tutta la creazione, quindi, attende e spera che il Signore introduca il suo dominio nel mondo. Giudicare significa piuttosto regnare (anche se il regnare implica l’atto del giudicare). Lo conferma un versetto del salmo 67: «Esultino le genti perché giudichi i popoli con giustizia, governi le nazioni sulla terra» (5). Giudicare equivale a governare.
Per comprendere meglio che cosa significhi giudizio, dobbiamo prima capire che cosa s’intende per giudizi. Dio attua dei giudizi. Che cosa sono? Osserviamo questi passi: «Ricordate le meraviglie che ha compiuto, i suoi prodigi e i giudizi della sua bocca… È lui il Signore, nostro Dio: su tutta la terra i suoi giudizi» (104,5-7). «Signore, io so che i tuoi giudizi sono giusti e con ragione mi hai umiliato» (118,75). «Annuncia a Giacobbe la sua parola, i suoi decreti e i suoi giudizi a Israele. Così non ha fatto con nessun altra nazione, non ha fatto conoscere loro i suoi giudizi» (147,8-9). Con il termine giudizi s’intendono, andando in ordine, i suoi interventi di salvezza, le sue decisioni nella nostra vita e infine i suoi insegnamenti. Nulla di ciò dovrebbe farci rabbrividire.
Ci sono i giudizi di Dio ma ci sarà un giudizio che assicurerà la vittoria definitiva di Dio. Il giudizio, tanto atteso, non sarà diverso dai suoi giudizi ma conseguirà il pieno compimento di ciò che Egli aveva cominciato ad operare in essi. Se il credente non teme i giudizi di Dio, anzi se si sottomette ad essi con fiducia, tanto meno dovrà temere il giudizio. Un versetto parallelo del salmo 75 può farci comprendere il motivo di tanta gioia:
Dal cielo hai fatto udire la sentenza: sbigottita tace la terra, quando Dio si alza per giudicare, per salvare tutti i poveri della terra. Fate voti al Signore, vostro Dio, e adempiteli, quanti lo circondano portino doni al Terribile, a lui che toglie il respiro ai potenti, che è terribile per i re della terra (9-13).
Il Signore giudica per soccorrere gli umili e gli oppressi. Viene per realizzare in pienezza il suo regno e dare compimento al suo volere. Celebrare i giudizi di Dio ci aiuta ad accogliere le sue decisioni nella nostra vita. Acclamare al suo giudizio, significa celebrare la sua vittoria su tutto ciò che corrompe la sua creazione e rende drammatica la nostra storia.
L’immagine del Dio santo e terribile ma non ha nulla di cupo, nulla di terrificante. Smuove la gioia e strappa un applauso liberatorio. Anzi Gesù ci ha suggerito che non c’è nulla di meglio da invocare della venuta del regno di Dio, suo Padre.

Dio dorme o veglia su di noi?

Il salterio è un libro di preghiera dentro trova spazio ogni tipo d’esperienza di vita: gioia, lode, angoscia, ira, malattia, giudizio, oppressione, morte, risurrezione. Sembra talora provocare una domanda: Dio protegge il suo fedele o l’abbandona?
Troviamo, infatti, espressioni che sembrano contraddirsi: «Non lascerà vacillare il tuo piede, non si addormenterà il tuo custode. Non si addormenterà, non prenderà sonno il custode d’Israele» (121,4-5), oppure, al contrario: «Svegliati! Perché dormi, Signore? Destati, non respingerci per sempre! Perché nascondi il tuo volto, dimentichi la nostra miseria e oppressione?» (44,24-25). Il Signore veglia o s’addormenta?
Per rispondere a questo interrogativo attingiamo ad una composizione di salmi (15-24) che narra, in tutti gli aspetti, la vita del giusto che vive in comunione con Dio. La possiamo chiamare la raccolta del giusto. Seguiamola nel suo sviluppo, osservando dapprima le esperienze di veglia del Signore e poi quelle del suo sonno.
Il primo salmo che incontriamo, il quindici, espone in quale modo sia possibile abitare nella tenda del Signore (era stato il privilegio di Mosè) o salire sulla santa montagna del tempio (15,1), due metafore che significano il vivere in comunione con Dio. Ora il modo esclusivo per ottenerla è avere un cuore puro. Tuttavia purificare mani e cuore significa avere un rapporto corretto con il prossimo. L’uomo gradito a Dio, infatti, è colui che cammina senza colpa, pratica la giustizia e dice la verità che ha nel cuore, non sparge calunnie con la sua lingua, non fa danno al suo prossimo e non lancia insulti al suo vicino… non presta il suo denaro a usura e non accetta doni contro l’innocente (15,2-5).
In breve: chi s’avvicina al prossimo, s’avvicina anche a Dio. Lo stesso insegnamento verrà ripreso dal salmo conclusivo della raccolta (24): Chi potrà salire il monte del Signore? Chi potrà stare nel suo luogo santo? Chi ha mani innocenti e cuore puro (24,4). Una volta stabilito questo contatto con il Signore, tutto dovrebbe filare liscio. Lo conferma un altro passo salmodico: «Beato l’uomo che ha cura del debole… Il Signore veglierà su di lui, lo farà vivere beato sulla terra» (Sal 41,1-2).
Stabilito questo elemento basilare, il salmo successivo (16) e il suo parallelo (23), raccontano la gioia piena sperimentata nella comunione con Dio. Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: nelle tue mani è la mia vita. Per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi: la mia eredità è stupenda (16,5-6). Ancora: Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla. Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Rinfranca l’anima mia (23,1-3). Potremmo sintetizzare il messaggio dei due salmi con le parole di Irene di Lione: «A tutti coloro che custodiscono il suo amore, egli dona la comunione con lui. Ma la comunione con Dio è la vita, la luce e il godimento di quei beni che si trovano presso di lui».
Inoltrandoci in essa, troviamo un suggerimento che la spiritualità chiamerà in seguito affidamento a Dio: nelle tue mani è la mia vita (16,5). Un elemento indispensabile della vera comunione con il Signore è la capacità d’abbandono in lui. Non ci può essere fede in Dio senza la fiducia in Lui; quanto più la fiducia è illimitata, tanto più viva è anche la fede. Altrove questo sentimento caratterizza il credente come costante di tutta una vita: Sei tu, Signore, la mia speranza, la mia fiducia, Signore, fin dalla mia giovinezza (71,5).
Fiducia significa disponibilità a seguire le vie di Dio. Vie di Dio sono le vicende della nostra vita. Non basta, quindi, per coltivare una comunione profonda con Dio, cercare di seguire i comandamenti. Bisogna saper abbandonarci a Lui in tutte le vicissitudini della nostra vita. I santi riprendono lo stesso insegnamento: «Non volere che le tue cose vadano come sembra bene a te, ma piuttosto come piace a Dio. Sarai senza turbamento e riconoscente nella tua preghiera» (Evagrio). «Mentre ognuno cerca il proprio interesse (Fil 2,21), tu, o Dio, ti prefiggi soltanto la mia salvezza e il mio progresso, e tutto volgi in bene per me» (Imitazione di Cristo).
Proprio il discorso sulla fiducia in Dio, ci rimanda necessariamente all’esperienze di sofferenza o di difficoltà. La fiducia, perché abbia un certo spessore, deve essere confermata nelle situazioni dolorose in cui sarebbe più facile perderla: Anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male, perché tu sei con me (23,4).
Non è strano, allora che anche nella raccolta del giusto, sia testimoniata, oltre alle situazioni di godimento della comunione con Dio, l’esperienza dolorosa della prova. Questa affiora già nel salmo 17 ma si sviluppa soprattutto nel salmo 22. Le parole iniziali di quest’ultimo componimento ci riconducono a questo frangente: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Mio Dio, grido di giorno e non rispondi; di notte e non c’è tregua per me (22,3). Si sperimenta l’assenza del Signore. Che cosa significa? Dio non ascolta subito o altre volte sembra non ascoltare affatto. La situazione dolorosa non si risolve. Egli lascia che il giusto corra il rischio di abbandonarlo e si lascia screditare dai non credenti. Di nuovo, per poter approfondire questo argomento è opportuno che scorriamo altri passi del salterio.
L’affidamento rievoca l’ora della prova. È in questa che noi possiamo verificare la veridicità del nostro sentimento d’affidamento a Dio. Nel salmo 42 la sete segnala una cocente delusione. La cerva si reca a bere al torrente da cui attinge con regolarità ma scopre, a sorpresa, che esso è scomparso; l’acqua manca del tutto. Inutile smuovere il greto del fiume. La vicenda della cerva prefigura un evento interiore: dopo la consolazione, sopraggiunge l’aridità. Geremia testimonia d’aver vissuto entrambe le esperienze. In un primo tempo il profeta si era dissetato di Dio: «Quando le tue parole mi vennero incontro, le divorai con avidità; la tua parola fu la gioia e la letizia del mio cuore, perché io portavo il tuo nome, Signore, Dio degli eserciti»; ma in seguito lo percepì come assente dalla sua vita e gli apparve come un torrente infido: «Perché il mio dolore è senza fine e la mia piaga incurabile non vuol guarire? Tu sei diventato per me un torrente infido, dalle acque incostanti» (Ger 15, 18).
In alcuni salmi, ritroviamo altre attestazioni di amara sorpresa e delusione. In una situazione di sofferenza acuta, l’esaudimento è differito, in modo incomprensibile: Fino a quando, Signore, ti terrai nascosto: per sempre? Ricorda quanto è breve la mia vita: invano forse hai creato ogni uomo? Dov’è Signore il tuo amore di un tempo? (89,47-50). La prova, allora, può apparire molto dura: O Dio tu ci hai messi alla prova; ci hai purificati come si purifica l’argento. … hai stretto i nostri fianchi in una morsa (66,10). Spesso l’abbandono è sperimentato non da chi potrebbe considerarlo un giusto castigo, ma al contrario, da chi ha vissuto con grande fedeltà: Tutto questo ci è accaduto e non ti avevamo dimenticato, non avevamo rinnegato la tua alleanza (44,18).
I salmi, quindi, affrontano con realismo il problema del male, come fanno altri autori (Giobbe, Qohelet) e non tentano di dare spiegazioni accomodanti. Offrono almeno validi motivi di speranza?
Non bisogna dimenticare, tuttavia, che molti componimenti sono scritti proprio per ringraziare il Signore in seguito ad uno scampato pericolo. Nel libro dei salmi è normale la speranza e la verifica dell’esaudimento. Ora però m’interesso del casi in cui sembra prevalere l’attesa vana del soccorso divino.
In primo luogo il differimento dell’ascolto è inteso come atto pedagogico di Dio nei nostri confronti; un atto che ci risana nello sbandamento o nella presunzione (30,7).
In secondo luogo, l’amicizia con Dio và vissuta con gratuità. Dio non deve essere cercato come protettore nei momenti di difficoltà per essere subito abbandonato. Sono sempre con te: tu mi hai preso per la mano destra. Mi guiderai secondo i tuoi disegni e poi mi accoglierai nella gloria. Chi avrò per me nel cielo? Con te non desidero nulla sulla terra. Vengono meno la mia carne e il mio cuore; ma Dio è roccia del mio cuore, mia parte per sempre. Per me, il mio bene è stare vicino a Dio (73,21-28).
In queste circostanze, conservare uno spirito da figli è già principio di salvezza: «Anche se i santi, quando pregano, sembra che non siano ascoltati, è allora soprattutto che invece lo sono, dal momento che, se restano impavidi nei tormenti, si mostra il loro valore di atleti» (Didimo). Conservarsi nella fiducia mentre perdura il dolore è già un forte segno della presenza della grazia.
Un terzo aspetto. Vissute con Dio, le sofferenze non privano della possibilità di una pacificazione più profonda e il credente impara, per così dire, ad intonare un canto nella notte (44,9). S. Paolo, intriso dello spirito dei salmi, dirà ai suoi fedeli, attingendo dalla sua stessa esperienza: «Non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti. E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù» (Fil 4,6).
Ora, spesso i salmisti fanno presenti a Dio le loro richieste «con suppliche e ringraziamenti»: Affida al Signore il tuo peso ed egli ti sosterrà (56,23). Oppure: Confida in lui, o popolo, in ogni tempo; davanti a lui aprite il vostro cuore: nostro rifugio è Dio (62,9). Nel mentre perdura ancora l’afflizione, il credente autentico è certo che la sua sofferenza abbia un testimone e un soccorritore attento: I passi del mio vagare tu li hai contati, nel tuo otre raccogli le mie lacrime: non sono forse scritte nel tuo libro? (56,9). Mentre perdura lo stato di sofferenza, si può già sperimentare un aiuto solido da parte di Dio: «Anche di notte, quando siamo in una situazione triste, abbiamo il suo aiuto, e nei fatti sperimentiamo che ci aiuta. Se noi abbandoniamo la speranza, egli mostrerà anche di notte la sua misericordia» (Didimo).
I salmisti, talora, ci aprono qualche spiraglio all’interno della loro intimità e lasciano trasparire un passaggio da uno stato d’animo all’altro. Il salmo 42/43 attesta un movimento da un doloroso ripiegamento nostalgico su di sé (4-5), ad un secondo momento di attenuazione del dolore (-11) ed infine ad una vera attesa fiduciosa verso il futuro (3-4). A rendere possibile questo cambiamento è proprio il fatto stesso di prospettarsi di parlare con Dio: Dirò a Dio: “Mia roccia! Perché mi hai dimenticato? Perché triste me ne vado oppresso dal nemico”? La preghiera, insistente, sincera e fiduciosa, quando non libera dal dolore, dona libertà nel viverlo. Essa allora, ci cambia. Prima di ottenere ciò che chiediamo, il solo parlare con Dio diventa infusione di grazia: Se il Signore non fosse stato il mio aiuto, in breve avrei abitato nel regno del silenzio. Quando dicevo: “Il mio piede vacilla”, la tua fedeltà, Signore, mi ha sostenuto. Nel mio intimo, fra molte preoccupazioni, il tuo conforto mi ha allietato (94,17-19). Questo mutamento ricorda al cristiano la preghiera di Gesù nel Getsemani. Anche in lui si scorge un movimento dall’angoscia al coraggio; dal dolore che abbatte, alla capacità di vivere da figlio la sua sorte dolorosa (Mc 14,33.42).
Oltretutto, ogni virtù si acquisisce nella situazione che la contrasta. L’affidamento a Dio si apprende nel prolungare l’invocazione nei momenti in cui Egli sembra assente.
La fede consente di vivere un paradosso, che ora cerco d’illustrare. I salmi non documentano sempre che Dio abbia esaudito la preghiera dell’orante, nel senso di avergli concesso ciò che ha chiesto in modo esplicito, ma assicurano che Dio sempre ha teso il suo orecchio verso di lui:Eppure tu vedi l’affanno e il dolore, li guardi e li prendi nelle tue mani. A te si abbandona il misero, dell’orfano tu sei l’aiuto (9,35). Il buon esito da parte di Dio, però, non è sempre verificabile. I salmi, perciò, documentano senza reticente la sofferenza dei poveri. Il malvagio sta in agguato dietro le siepi, dai nascondigli uccide l’innocente (9,29). Hanno abbandonato i cadaveri dei tuoi servi in pasto agli uccelli del cielo, la carne dei tuoi fedeli agli animali selvaggi (79,2). Calpestano il tuo popolo, opprimono la tua eredità. Uccidono la vedova e il forestiero, massacrano gli orfani (94,6).
Tra questi poveri, noi cristiani scorgiamo prima di ogni altro la figura di Gesù. Ripensando alla sua vicenda, troveremo la migliore testimonianza per comprendere tali eventi. La figura di Gesù ci aiuta a capire ciò che nel salterio rimane ancora come un interrogativo insoluto. Nella raccolta del giusto è già delineata, come in un abbozzo, nel salmo 22.
Nella prima parte, il fedele, messo alla prova, si lamenta con Dio e descrive la forza distruttiva dell’angoscia. Le parti solide del suo corpo stanno per liquefarsi (Io sono come acqua versata, sono slogate tutte le mie ossa. Il mio cuore è come cera, si scioglie in mezzo alle mie viscere v.15) mentre la parti umide, inaridiscono (Arido come un coccio è il mio vigore, la mia lingua si è incollata al palato v.16). All’improvviso avviene l’esaudimento sperato: Lodate il Signore, voi suoi… fedeli, perché egli non ha disprezzato né disdegnato l’afflizione del povero (24-25). Il giusto si colloca tra i poveri e, stando tra loro, vede verificarsi qualcosa di straordinario: osservando come il povero sia stato soccorso, una moltitudine si converte e ritorna a Dio. Ricorderanno e torneranno al Signore tutti i confini della terra; davanti a te si prostreranno tutte le famiglie dei popoli. Perché del Signore è il regno: è lui che domina sui popoli! (28-29). L’esperienza di uno solo, diventa l’esperienza di una moltitudine: I poveri mangeranno e saranno saziati, loderanno il Signore quanti lo cercano (27). Il povero sofferente diventa una benedizione universale.
Tutto questo diventa vero nell’esperienza chiarificatrice di Gesù. Egli, nel corso della sua passione e perfino in croce ha rivolto al Padre una preghiera fiduciosa, insistente e pura. La lettera agli Ebrei ricorda proprio questo fatto: «Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte» (Eb 5, 7). A noi sembra che questa preghiera sia rimasta inascoltata. La lettera agli Ebrei, invece, a sorpresa, afferma che Gesù è stato esaudito: «Per il suo pieno abbandono a lui, Cristo venne esaudito. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb 5,8-9). È come se dal cuore di Gesù uscissero due invocazioni: con la prima chiede di essere liberato dal dolore; con la seconda chiede che la sua vicenda dolorosa divenga vantaggiosa per la venuta del regno, lasciando a Dio di stabilirne la ragione. Ora Gesù è stato esaudito a motivo del suo «pieno abbandono». Da Risorto è diventato la benedizione di Dio per tutti gli uomini, per tutti i poveri.
Agostino insegna che il tesoro del povero sta nel possedere la stessa carità del Cristo, il quale ai discepoli «offrì la sua cena, ed offrì la sua passione; e si è saziato colui che lo ha imitato. I poveri lo hanno imitato. Il Signore è la ricchezza dei poveri» (Agostino). In altre parole più semplici, Dio ascolta anche la preghiera del povero che, subendo oppressione, perisce sotto i colpi del malvagio. In modo per noi misterioso egli partecipa alla realizzazione del Regno. Lo sguardo di fede è ben diverso da una valutazione soltanto politica. Quando il Signore non adempie i contenuti espliciti delle nostre richieste, non respinge comunque la nostra supplica ma la esaudisce secondo un suo progetto a noi misterioso. La Pasqua di Gesù diventa il criterio per discernere il valore della nostra preghiera.

DIGRESSIONE

Se l’amicizia con Dio è godimento di beni, partecipazione alla sua mensa, è opportuno compiere una digressione e soffermarsi su altri passi nei quali la comunione con Dio è esposta proprio nella la metafora del godimento del cibo. L’uomo desidera di Dio e incontrandolo si disseta: O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco, ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne, in terra deserta, arida, senz’acqua (63,2). Non c’è solo il dissetarsi ma lodare il Signore equivale a partecipare ad un banchetto di delizie:Così ti benedirò per tutta la mia vita: nel tuo nome alzerò le mie mani. Come saziato dai cibi migliori, con labbra gioiose ti loderà la mia bocca (63,5-6). In modo analogo si dice nel salmo 36: Quanto è prezioso il tuo amore, o Dio! Si rifugiano gli uomini all’ombra delle tue ali, si saziano dell’abbondanza della tua casa e li disseti al torrente delle tue delizie. È in te la sorgente della vita, alla tua luce vediamo la luce (8-10). Le ali sono quelle dei cherubini che sovrastano l’arca all’interno del Santo dei santi; quindi, rifugiarsi all’ombra delle ali di Dio è un modo per parlare della preghiera nel tempio. Il culto prevedeva, inoltre, che i fedeli potessero cibarsi delle carni dei sacrifici e partecipare a un vero banchetto, ma qui il salmista si sazia invece con la ricchezza della sua preghiera.
Al suo popolo Dio promette una dolcezza di cui è immagine il miele che stilla dai favi situati tra le rocce: «Se il mio popolo mi ascoltasse! Lo nutrirei con fiore di frumento, lo sazierei con miele di roccia!» (81,14.17). Nel suo rapporto con Dio il popolo non deve ragionare ma aprire la bocca: «Apri la tua bocca, la voglio riempire» (81,11).
In altri testi la sazietà del giusto viene contrapposta e preferita a quella del malvagio o alla semplice soddisfazione materiale. «Hai messo più gioia nel mio cuore di quanta ne diano ad altri grano e vino in abbondanza» (4,8). C’è chi si accontenta dei cibi e chi si sazia sperimentando la presenza di Dio: «Sazia pure dei tuoi beni il loro ventre, ma io nella giustizia contemplerò il tuo volto, al risveglio mi sazierò della tua immagine» (17,14-15).
Ad essere nutriti sono soprattutto i poveri: «I poveri mangeranno e saranno saziati» (22,7). «Nulla manca a coloro che lo temono. I leoni [ossia i vip] sono miseri e affamati, ma a chi cerca il Signore non manca di alcun bene» (34,11).
I santi hanno apprezzato questo linguaggio e si sono riconosciuti in esso:
«Il Signore Gesù è la sorgente di vita che ci invita a sé perché noi beviamo. Beve di lui chi lo ama. Beve di lui chi si disseta della parola di Dio. È vero che amandolo lo mangiamo e desiderandolo lo introduciamo in noi; dobbiamo desiderarlo sempre come degli affamati» (Colombano). Il torrente di delizie corrisponde alla stessa comunione con Cristo Gesù in cui troviamo il Padre: «Torrente di delizie è il Cristo» (Eusebio). «Signore Gesù, chi ti ama ti ottiene, e tanto più ti ottiene, quanto più ti ama. Questa è quella abbondanza della tua casa a cui si inebrieranno quelli che tu ami, quando lasceranno se stessi per passare in te» (Guglielmo di Saint-Thierry). Riguardo al rifugiarsi all’ombra delle ali del Signore, hanno apprezzato i doni ricevuti nel momento del culto. «La pace di Cristo, come del resto tutti i doni della grazia in genere, comincia a farsi sentire soprattutto durante la preghiera» (I. Brjancaninov). «Io, il Signore, parlo del dolce sapore della contemplazione che prediligo nei santi che sperano nella protezione delle mie ali: sono imbevuti della ricchezza della mia casa e sono dissetati dal torrente del mio piacere. Tale sapore voglio che sia condotto a sublime perfezione dopo la morte» (Beda).

Come possiamo pellegrinare al tempio?

Un certo numero di salmi parla del tempio di Gerusalemme, del pellegrinaggio intrapreso per raggiungerlo e dell’esperienza di grazia vissuta nel culto. Questi salmi non hanno mai presentato particolari difficoltà al cristiano circa il loro uso. Ci rinviano in modo spontaneo all’assemblea della Chiesa, alla sua preghiera, al nostro cammino interiore verso Dio. Per facilitare il loro uso, sarà sufficiente qualche annotazione.
I salmi 42 (41) e 84 parlano del culto nel tempio mentre rimane impedito l’accesso ad esso. Delineano così un pellegrinaggio vissuto nel desiderio più che nella realtà.
È evidente che l’autore del salmo 42, pur desiderando partecipare al culto che là si svolge, è ostacolato dal farlo. Il mancato accesso nell’area sacra corrisponde a ciò che potremmo chiamare un’esperienza di assenza di Dio. Egli ne soffre in modo acuto e si paragona alla cerva assetata che non trova più la fonte normale d’acqua a cui era solita abbeverarsi. Il salmista non ritrova più un contatto normale con il suo Dio, e la fine di questo periodo di smarrimento coinciderà con l’ingresso gioioso nel santuario. Per concludere il viaggio in una ritrovata comunione con Dio, il salmista ha bisogno di essere scortato dalla luce e dalla verità che provengono da Lui: Manda la tua luce e la tua verità: siano esse a guidarmi, mi conducano alla tua santa montagna, alla tua dimora. Verrò all’altare di Dio, a Dio, mia gioiosa esultanza (3-4).
Il sentimento del salmista si presta ad essere assunto in primo luogo dai mistici. Vediamo, ad esempio, come Caterina da Siena riviva in se stessa la sete della cerva: «Tu, Trinitá etterna, se’ uno mare profondo, che quanto piú c’entro tanto piú truovo, e quanto piú truovo piú cerco di te. Tu se’ insaziabile, ché, saziandosi l’anima ne l’abisso tuo, non si sazia, perché sempre rimane nella fame di te... Si come desidera il cervio la fonte de l’acqua viva, cosí desidera l’anima mia d’escire della carcere del corpo tenebroso e vedere te in veritá. Oh quanto tempo sarà nascosta la faccia tua agli occhi miei!»
Uno sviluppo simile lo troviamo esposto nel salmo 85. Nella prima parte del componimento, il salmista sembra trasferirsi con la mente nel tempio mentre, in realtà, si trova ancora molto lontano (1-5). In seguito immagina il santo viaggio nel suo procedere a tappe, un movimento che riesce a cambiare in una sorgente la vallata arida della depressione del Giordano (6-8). Immagina infine di poter comparire davanti a Dio, in Sion (8). Il suo camminare nel desiderio di Dio, tuttavia, è meglio realizzato nel vivere quotidianamente nell’integrità: «Il Signore concede grazia e gloria, non rifiuta il bene a chi cammina nell’integrità» (85,12).
Questi componimenti, come ho rilevato, sono cari soprattutto ai mistici poiché danno voce ad un forte desiderio di Dio: «Chi nutre questo sentimento non ama più la terra; ama Colui che fece il cielo e la terra. Lo amano ma non sono ancora con lui. Da qui il loro desiderio: il quale, se non viene subito soddisfatto, è perché si accresca, e si accresca per poter contenere quanto desidera. Non sarà infatti piccola cosa quella che Dio darà a chi nutre tali desideri, né scarso deve essere l'allenamento di chi vuole rendersi capace di accogliere un bene così grande. Dio non ci darà una cosa creata ma se stesso, creatore di tutte le cose. Allenati dunque per accogliere Dio!» (Agostino).
La riflessione più articolata sull’ascesa al tempio la troviamo nella raccolta dei salmi della comunità (25-34). Il percorso è strutturato in questo modo: dopo un salmo d’introduzione (25) che esprime nostalgia di Dio (A te innalzo l’anima mia, v. 1) e una pressante richiesta di redenzione (O Dio, libera Israele da tutte le sue angosce, v. 22), il salmista presenta tre situazioni normali di vita di fede: il desiderio di libertà dal peccato (26), la richiesta d’aiuto nel momento di una dura prova (27), la richiesta di liberazione da un pericolo mortale (28). In tutti i tre componimenti affiora il desiderio di trovarsi nel tempio per esprimere al meglio l’invocazione in quel luogo santo (25,8; 26,4-5; 27,2).
Tale aspirazione si compie nell’esperienza descritta nel salmo 29. La comunità radunata nel tempio può celebrare la gloria di Dio in un grido unanime (9). Si unisce alla corte celeste che loda il Signore stando al suo cospetto (2) e riceve la benedizione della pace mentre sta sopportando le bufere delle varie vicende storiche: Nel suo tempio tutti dicono: «Gloria!». […] Il Signore è seduto sull’oceano del cielo, il Signore siede re per sempre. Il Signore darà potenza al suo popolo, il Signore benedirà il suo popolo con la pace (29,1.10-11).
Com’è stato pregato questo salmo nella Chiesa? «Il Signore abita nel diluvio. Dapprima infatti il Signore dimora nel diluvio di questo secolo nei suoi santi, custoditi, come in un'arca, nella Chiesa. Poi si assiderà, regnando in loro in eterno» (Agostino). «Il Signore darà fortezza al suo popolo che combatte contro le tempeste e le bufere di questo mondo, dato che non ha loro promesso la tranquillità in questo mondo. Benedirà il suo popolo, offrendogli in se medesimo la pace, poiché, dice, vi do la mia pace, vi lascio la mia pace» (Agostino).
Dopo questa partecipazione al culto, il ritorno alla propria dimora acquista un tono diverso perché dalla supplica si passa al ringraziamento. La preghiera corale al tempio ha ottenuto i cambiamenti sperati, in vista dei quali tutto il popolo aveva innalzato la supplica. Il salmo 30 rende grazie per la liberazione dalla morte (in risposta alla richiesta formulata nel salmo 28); nel successivo, il 31, l’esperienza della prova si chiude con un canto di ringraziamento per l’uscita dalla situazione di sofferenza (un esito che il salmo corrispondente, il 27, poteva soltanto auspicare); col salmo 32, poi, il salmista ringrazia per il perdono dei peccati, ottenuto in modo gratuito (si è così realizzata la speranza di vivere in santità formulata nel salmo 26). Infine un salmo conclusivo, il 34 (corrispondente al 25) celebra il Signore che, volendo soccorrere i poveri, dona ad Israele laredenzione che era stata invocata (25).
La salita al tempio non è stata vana. Le preghiere sono state esaudite. Per noi il luogo in cui riceviamo in abbondanza i doni di Dio è il culto nella Chiesa, dove troviamo Cristo Risorto: «Chi sarà stato degno di ritornare ad essere con Cristo, gusterà e proverà il piacere del Signore, condotto ad un luogo che per l’abbondanza e varietà di cibi di tal genere è detto luogo di delizie. Lì viene detto a costui: Deliziati nel Signore» (Origene) «Spesso abbiamo detto che le cose sensibili sono così: ciascuna è solo ciò che è; la melagrana non è altro che melagrana, il pane, pane. Il nutrimento che nutre l’uomo interiore, invece, è denominato secondo diversi aspetti: è detto anche luce, fonte, pane, carne, vero cibo» (Didimo).
Esaminiamo un’altra raccolta di questo tipo. Tutti i canti per le salite (120-134) erano usati nel pellegrinaggio al luogo santo. Ora è possibile ed opportuno trasformali in un pellegrinaggio verso Dio stesso. È vero che Egli abita in noi, oppure che noi siamo in Lui con Cristo, ma è anche vero che possiamo intensificare o diluire la nostra comunione con lui. Egli è sempre con noi, ma noi, non sempre, siamo con lui. È Dio stesso a creare in noi i gradini per salire fino a Lui: «Che cosa conferisce il Signore con la sua grazia al pellegrino che egli prende e conduce? Vi produce dei gradini per ascendere. Dov'è che produce questi gradini? Nel cuore. Sicché, quanto più amerai tanto più salirai. Dice: Pose delle ascensioni nel cuore di lui, del salmista. Chi ve le pose? Il Signore che venne a prenderlo. Impotente com'è l'uomo per sua natura, bisogna che la tua grazia venga a sollevarlo. E cosa fa la tua grazia? Gli pone delle ascensioni nel cuore» (Agostino).
Due salmi (87 e 137) non hanno per argomento il tempio ma Gerusalemme; la città santa, tuttavia, è importante perché è la sede del tempio. Riporto il testo del salmo 86:
Sui monti santi egli l’ha fondata; il Signore ama le porte di Sion più di tutte le dimore di Giacobbe. Di te si dicono cose gloriose, città di Dio! Iscriverò Raab e Babilonia fra quelli che mi riconoscono; ecco Filistea, Tiro ed Etiopia: là costui è nato. Si dirà di Sion: «L’uno e l’altro in essa sono nati e lui, l’Altissimo, la mantiene salda». Il Signore registrerà nel libro dei popoli: «Là costui è nato». E danzando canteranno: «Sono in te tutte le mie sorgenti».
La città di Gerusalemme diverrà il centro a cui convergeranno i popoli, tra i quali anche nazioni un tempo pericolose nemiche (Babilonia, Filistea, Tiro), e si glorieranno d’essere cittadini di questa santa città.
Come può il cristiano pregare con questo salmo? Egli sa che Gesù Signore, il cittadino più ragguardevole di quella città santa, è il principio di una nuova umanità: «Per quale motivo si possa affermare che tutti costoro sono nati nella città di Dio? Nessuno potrà spiegarlo se non grazie alla nascita di quell’Uomo, [il Cristo risorto] che in essa è stato generato [nella sua risurrezione]. È solo per questa ragione che si profetizza tutta quella comune festa e danza» (Eusebio di Cesarea). Tutta l’umanità ha le sue sorgenti nella risurrezione del Signore. Nella sua Pasqua rivive e si unifica.
Il salmo 137 è più complesso. Rappresenta il canto di chi fu esule a Babilonia, e racconta la sventura, ormai trascorsa.
Lungo i fiumi di Babilonia, là sedevamo e piangevamo ricordandoci di Sion. Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre, perché là ci chiedevano parole di canto coloro che ci avevano deportato, allegre canzoni, i nostri oppressori: «Cantateci canti di Sion!». Come cantare i canti del Signore in terra straniera? Qual è il nostro esilio? Il cristiano terminerà il suo periodo d’esilio soltanto quando si troverà con il Signore, nella Gerusalemme celeste. Il salmo 136 è, in modo proprio, il canto dell’assemblea dei santi nel cielo. Là essi ricordano quando, trovandosi su questa terra, ancora soggetti al peccato, non potevano intonare il canto di chi è riscattato in pienezza.
Già su questa terra, però, abbiamo ricevuto la possibilità di dimorare in un lembo di terra celeste: «Noi in terra estranea adoriamo il Dio estraneo agli affari terreni. Qui comanda il principe di questo secolo e Dio è estraneo. Noi cerchiamo un luogo per cantare il canto del Signore su una terra estranea. Qual è dunque il luogo? Io l’ho trovato. È venuto Cristo su questa terra portando il corpo salvifico e in questo luogo, io posso qui adorare Dio» (Origene). La Chiesa, corpo del Cristo, è lo spazio in cui incontriamo Dio.
Dopo la reminiscenza dolorosa della prigionia, segue la rievocazione del giuramento dell’esule: Se mi dimentico di te, Gerusalemme, si dimentichi di me la mia destra; mi si attacchi la lingua al palato se lascio cadere il tuo ricordo, se non innalzo Gerusalemme al di sopra di ogni mia gioia.
Se la prima era più adatta come canto dei beati in cielo, la seconda strofa, invece, corrisponde appieno alla nostra situazione attuale. Siamo noi, ancora pellegrini nel mondo, a dover giurare: mi si attacchi la lingua al palato se lascio cadere il tuo ricordo. «Bisogna ricordarsi di Dio più spesso di quanto respiriamo, e, se è possibile dirlo, non bisogna fare altro che questo» (Gregorio di Nazianzo).
Il salmista ricorda poi i giorni tragici dell’assedio contro la città, il comportamento odioso dei nemici. Il canto termina con un’invettiva focosa contro Babilonia, vista ormai come il simbolo di tutto l’orrore della storia umana. È possibile, infine, pregando, usando l’invettiva finale? La questione và trattata a parte, in modo più diffuso. Per ora si può dire questo: se Babilonia rappresenta il principio del male, il suo condensato, noi possiamo reagire contro di essa. Germogli di malvagità rinverdiscono dentro di noi: «Non voglio che tu lasci prosperare i pensieri cattivi; nessuna Babilonia, nessun disordine possa progredire nel tuo cuore. Finché il nemico è piccolo, toglilo di mezzo; ancora in germe sopprimi la malizia. Ascolta le parole del salmista. Siccome è impossibile che non penetri nei sensi dell'uomo il fuoco della passione, si loda colui che subito stronca sul nascere, i cattivi pensieri e contro la roccia li schianta; la roccia poi non è altri che il Cristo» (Girolamo).

Un Messia piuttosto duro?

Messia (mašiah) significa unto, cioè consacrato con olio. Ogni re veniva consacrato con il rito dell’unzione ed era quindi un mašiah, ma Israele attendeva un consacrato particolare, l’Inviato di Dio che avrebbe attuato il suo progetto definitivo. Il cristiano è certamente interessato a pregare con i salmi che chiedono l’espandersi del regno del Messia, da lui identificato in Gesù Signore. I salmi messianici compaiono con frequenza nel Nuovo Testamento e sono citati anche da Gesù stesso. Ora, però, proprio questi salmi sembrano piuttosto guerreschi: il re messia è spesso in battaglia, conquista il potere eliminando i concorrenti. È impossibile non rilevare la diversità con lo stile di Gesù, che rifiuta il titolo ed anche l’esercizio di una sovranità autoritaria. Come può, allora, il cristiano pregare con questi salmi?
Un primo incontro con il Re Messia avviene già nella raccolta introduttiva (composta dai salmi 1 e 2). Nel salmo due si parla di un sovrano, insediato da Dio, che deve contrastare una ribellione di principi vassalli: Perché le genti sono in tumulto e i popoli cospirano invano? Insorgono i re della terra e i principi congiurano insieme contro il Signore e il suo consacrato: «Spezziamo le loro catene, gettiamo via da noi il loro giogo!
Il complotto dei rivoltosi è amplificato al punto da acquisire un carattere universale, visto che ad insorgere sono i re della terra. Siamo di fronte ad uno scontro dalle conseguenze decisive. L’opposizione al re consacrato dal Signore stesso è anche una ribellione contro di Lui. Dio e il suo messia stanno dalla stessa parte e chi si oppone all’uno, si ribella anche all’altro.
Il libro degli Atti degli Apostoli ci aiuta a rileggere la vicenda dal punto di vista cristiano (At 4,23-31). La comunità di Gerusalemme prega con questo salmo dopo aver saputo che il Sinedrio aveva proibito agli apostoli di predicare il Vangelo. Secondo l’interpretazione della comunità, i signori ribelli annunciati dal salmo, in quel momento, sono ben rappresentati dal Sinedrio, da Erode e da Ponzio Pilato. La comunità prega perché Dio sostenga la battaglia del Vangelo e perché la sovranità di Gesù sia riconosciuta, a vantaggio di tutti. Gesù, pur non affrontando guerre cruenti, sostiene delle lotte impegnative e chi prega con queste parole si pone dalla sua parte e impara a condividere la sua lotta.
Il salmo continua presentando la reazione divina nei confronti della ribellione in corso (4-6): Ride colui che sta nei cieli, il Signore si fa beffe di loro. Egli parla nella sua ira, li spaventa con la sua collera: «Io stesso ho stabilito il mio sovrano sul Sion, mia santa montagna.
Dio ride e va in collera e poi riafferma la sua scelta. Il riso di Dio significa che Egli non è mai preso da angustia, come avviene per noi, né si preoccupa della contestazione che riceve perché nessuno può annullare il suo progetto. Al contrario la comunità cristiana non rideva mentre era minacciata. Siamo così invitati anche noi a partecipare al riso divino; ossia non dobbiamo farci sopraffare dalla preoccupazione. Ciò che Egli vuole si adempie e ciò che adempie è sempre il meglio per noi.
Dopo il riso, si parla dell’ira. Né il riso né l’ira sono manifestazioni simili o identiche a quelle degli uomini. Nel riso scorgiamo la sua sovrana beatitudine, principio di pacificazione anche per noi, e nell’ira la sua reazione a tutto ciò che è male e distruttivo per la sua creazione. L’ira non è il contrario dell’amore ma il modo con cui l’amore reagisce a ciò che l’ostacola nei suoi adempimenti. Nell’ira noi uomini facciano passare un elemento di rancore, in Dio non è un sentimento puro ma un agire conforme alla sua santità.
I versetti successivi (7-8) rappresentano il cuore del salmo. Il re contestato fa conoscere l’intenzione di Dio, senza arroganza ma con grande sicurezza: Voglio annunciare il decreto del Signore. Egli mi ha detto: «Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato. Chiedimi e ti darò in eredità le genti e in tuo dominio le terre più lontane».
Il re rievoca il momento del suo insediamento. Scegliendolo, Dio lo ha privilegiato ammettendolo ad una comunione particolare con Lui e accogliendolo come un figlio adottivo. Il re, però, gode di tale particolare protezione divina perché nella sua persona sintetizza tutto il popolo. La cura di Dio verso di Lui, è un atto di solidarietà verso tutto il popolo.
Il versetto ha aiutato la Chiesa primitiva a comprendere il ruolo di Gesù. Parlando agli ebrei di Antiochia, san Paolo cita questo salmo: «Noi vi annunciamo che la promessa fatta ai padri si è realizzata, perché Dio l’ha compiuta per noi, loro figli, risuscitando Gesù, come anche sta scritto nel salmo secondo: Mio figlio sei tu, io oggi ti ho generato. Vi sia dunque noto, fratelli, che per opera sua viene annunciato a voi il perdono dei peccati» (At 13,32.38). La resurrezione rappresenta l’atto con cui Gesù viene costituito in autorità e il suo potere ha lo scopo di liberare l’umanità dal peccato.
Pensando a questo, siamo sorpresi dal proseguo della promessa: Le [nazioni ribelli] le spezzerai con scettro di ferro, come vaso di argilla le frantumerai.
Invece del perdono, troviamo qui l’annuncio di una rivalsa violenta. Che cosa significa questo? Gli antichi scrivevano i nomi dei re nemici su vasi d’argilla che poi frantumavano per anticiparne la fine. Era un gesto rituale scaramantico e forse il salmista intende farvi allusione. Conoscendo quest’uso, la violenza del testo è appena attenuata.
Tuttavia la Chiesa lo applica in un modo più sottile e ritiene che la frantumazione non riguardi le persone ma i loro aspetti negativi: «Attraverso l’impegno della conversione, frantuma le bramosie terrene e la vita dell’uomo vecchio simile al fango» (Cassiodoro). «Quanto agli avversari che lungo i secoli si sollevano contro il suo gregge con persecuzioni, il Signore stesso li persegue con nascosta e invisibile potenza. Non li frantuma allo scopo di distruggerli, ma allo scopo di riplasmarli» (Eusebio di Cesarea).
Il salmo termina con l’esortazione rivolta a tutti i sovrani terreni ad accogliere la regalità che viene da Dio, per sfuggire alla sua azione d’opposizione al male: Ora siate saggi, o sovrani; lasciatevi correggere, o giudici della terra; servite il Signore con timore e rallegratevi con tremore. Beato chi in lui si rifugia.
Dio non regna per opprimerci con la sua autorità ma per renderci partecipi della sua gioia: rallegratevi con tremore. Così commenta Cassiodoro: «Il timore del Signore non provoca tristezza ma gioia; Colui che ci rende santi, ci fa anche beati» (Cassiodoro).
Conclusione: Cristo nella sua vita terrena ha sperimentato una grande opposizione giunta al culmine nella sua passione e morte. Anche ora il Vangelo trova molti ostacoli. Il cristiano che prega con questo salmo chiede l’espansione della regalità di Gesù risorto. Possiamo sentire riecheggiare due invocazioni del Padre nostro: Venga il tuo Regno, liberaci dal male.
«La provvidenza di Dio è con coloro che, per un qualunque motivo, sopportano patimenti per suo amore» (Isacco di Ninive). Chiediamo che il Signore non frantumi gli uomini ma i loro progetti e distrugga la nostra malvagità: «I piani dei persecutori riescono sempre al contrario. Se infatti siamo sue membra, come può offrire il suo corpo in balia dei peccatori? O come sopporterà che le sue membra siano contaminate dal male?» (Cirillo d'Alessandria).
Un uomo mite come Charles de Foucauld non era inorridito dalla forza di questo salmo ma così lo intendeva:
Tu sei Signore, Tu sei potente e felice; le offese degli uomini, le mie miserie non possono raggiungerTi, nulla turba il sorriso della felice e sempre tranquilla Trinità, e il pensiero della tua felicità che nulla può toglierTi, questo pensiero che ispirano i primi versetti di questo Salmo è una delle più grandi grazie che Tu ci faccia quaggiù: è dare alla nostra gioia un fondamento che niente può rapirle, è darci una consolazione sempre pronta in tutte le nostre pene e una pregustazione della felicità degli eletti. Gioia e fiducia...: «Colui che siede nei cieli se ne ride, il Signore si fa beffe di loro», e nello stesso tempo fiducia, fiducia nella potenza di Dio che ci ama, che ci protegge e di cui questo stesso verso esprime così bene la sovrana forza... Cosa possono contro di noi sia gli uomini, sia i demoni? Essi non faranno mai nient'altro che quel che Dio permetterà loro.
Diamo uno sguardo ora al salmo 110 che, per il suo contenuto, è molto vicino al precedente. È il salmo più citato nel Nuovo Testamento; considerato importante proprio per comprendere e stabilire il ruolo di Cristo: Oracolo del Signore al mio signore: «Siedi alla mia destra finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi». Lo scettro del tuo potere stende il Signore da Sion: domina in mezzo ai tuoi nemici!
È fatto conoscere il decreto (oracolo) di Dio nei confronti del re: questi è invitato a sedere alla destra di Dio e grazie a questo insediamento in autorità, potrà allargare il suo dominio sconfiggendo i nemici. L’immagine dei nemici che fungono da sgabello, è frequente in oriente e si ritrova nelle scene di vittoria scolpite nei templi. Noi siamo abituati a confessare che Gesù siede alla destra del Padre ma forse non sappiamo che tale espressione deriva da questo salmo che annuncia profeticamente, nella lettura cristiana, il momento della sua resurrezione e ascensione al cielo.
San Paolo si serve di questa strofa per istruirci su come avverrà il compimento della storia e su chi siano i nemici sui quali Cristo dovrà trionfare: Poi sarà la fine, quando [Cristo] consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni Principato. È necessario infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico sarà la morte (1 Cor 15,24-26). In altri termini, Gesù ha già ottenuto il dominio sul mondo da Dio ma il suo regno non si è ancora realizzato in modo completo e palese. Si sta compiendo, anche grazie alla nostra collaborazione. I nemici, poi, qui vengono spiritualizzati; non sono più combattenti in un esercito ma sono elementi della nostra umanità ancora più devastanti di qualsiasi avversario, come la morte che proviene dal peccato.
I Padri, nei loro commenti, mettono in evidenza l’evoluzione graduale del regno di Gesù Signore: «Certo non vedi il Cristo che siede alla destra del Padre; puoi vedere, però, in che modo siano posti i suoi nemici come sgabello dei suoi piedi. Questo sta avvenendo, questo si verifica: anche se in forma lenta e graduale, si verifica incessantemente», afferma Agostino. Origene precisa che il dominio di Gesù corrisponde al suo servizio a favore dell'umanità peccatrice; è il dominio di chi prende su di sé il peccato di coloro sui quali domina: «Solo Gesù nel suo amore per gli uomini poteva mangiare coi peccatori, offrire i suoi piedi alle lacrime della peccatrice e abbassarsi fino a morire per gli empi. Dio però, pur beneficando il mondo, distribuisce i suoi benefici secondo un piano e un ordine, non mettendo tutto d'un colpo i suoi nemici a sgabello dei suoi piedi. Se comprenderemo che cosa vuol dire essere sottoposti a Cristo, allora comprenderemo l'Agnello di Dio che prende su di sé il peccato del mondo».
La strofa successiva è piuttosto confusa nel testo ebraico, così che le traduzioni sono divergenti. La versione CEI segue l’antica traduzione dall’ebraico in greco (LXX): A te il principato nel giorno della tua potenza tra santi splendori; dal seno dell’aurora, come rugiada, io ti ho generato.
Anche così il versetto non è molto chiaro. I Padri hanno valorizzato la seconda parte: dal seno dell’aurora, io ti ho generato. La dichiarazione è attribuita a Dio Padre che ha generato il suo Verbo dall’eternità. Seguiamo il commento di s. Agostino: «È il Padre a dire al Figlio: Dal ventre, prima della stella del mattino, ti ho generato. Che cosa significa dal ventre? Significa: nel segreto, di nascosto, cioè da me stesso, dalla mia sostanza. E che cosa significa: Prima di lucifero [o stella del mattino]? Lucifero è qui usato a posto degli astri… se gli astri sono stati messi come segnali dei tempi, quel che è prima degli astri è anche prima dei tempi: dunque, se è prima dei tempi, è fin dall’eternità». In una parola semplice, Gesù regna sugli uomini a partire dalla sua ascensione alla destra di Dio Padre ma vanta un’origine eterna. È stato generato dal Padre dall’eternità.
Il versetto quattro enuncia che questo Re è anche sacerdote: Il Signore ha giurato e non si pente: «Tu sei sacerdote per sempre al modo di Melchisedek.
Nel periodo della monarchia israelitica, re e sacerdote era figure distinte. Solo in via eccezionale il re poteva offrire sacrifici. Nel periodo dei patriarchi, più precisamente ancora, nella vicenda di Abramo, compare un personaggio sconosciuto che esercita entrambe queste funzioni: Melchisedek. Il re, a cui fa riferimento il salmo, appare simile a Melchisedek e quindi esercita anche il sacerdozio. La lettera agli Ebrei prende le mosse da questo versetto per illustrare la grandezza unica del sacerdozio di Cristo (Eb 5,6.10; 6,20; 7,11.17). Gesù, che siede alla destra del Padre, intercede per noi, anzi è un’intercessione perenne.
Il salmo termina con un annuncio di vittoria del sovrano che costerà cara ai nemici. Darò una spiegazione più dettagliata quando parlerò in modo specifico del tema del nemico.
Le indicazioni offerte dal salmo sono state considerate preziose dalla Chiesa. Dio colloca alla sua destra un sovrano che inizia a governare in autorità. Questi è stato generato da Lui prima dei tempi ed esercita il sacerdozio. Era facile vedere in questo componimento una profezia di Gesù. Il salmo secondo e il centonove hanno in comune un tema che è centrale in entrambi: la proclamazione di un sovrano da parte di Dio stesso. Questo re è contestato e deve conquistare gradualmente il suo regno. La Chiesa, che vive nel tempo, prega perché il regno di Gesù cresca e la parola del Vangelo si diffonda e porti frutto. Del resto Gesù stesso aveva previsto che il regno si sarebbe dilatato con gradualità, come il lievito nella pasta e aveva detto che, pur essendo una forza esigua dal punto di vista mondano e contrastata, alla fine avrebbe raggiunto l’espansione prevista: «Disse ancora: «A che cosa posso paragonare il regno di Dio? È simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata» (Lc 13,20-21).
Con gli stessi sentimenti, possiamo pregare i salmi 20, 21 e 144. Il primo è un’invocazione per il re prima di una battaglia e il secondo ed anche il terzo sono un ringraziamento per la vittoria ottenuta.
Il salmo 20 evoca una situazione di pericolo. Sentiamo la trepidazione di tutto un popolo. La nazione è a rischio e una folla si raccoglie in preghiera supplicando per il re.
Ti risponda il Signore nel giorno dell’angoscia, ti protegga il nome del Dio di Giacobbe. Ti mandi l’aiuto dal suo santuario e dall’alto di Sion ti sostenga. Si ricordi di tutte le tue offerte e gradisca i tuoi olocausti. Ti conceda ciò che il tuo cuore desidera, adempia ogni tuo progetto. Esulteremo per la tua vittoria, nel nome del nostro Dio alzeremo i nostri vessilli: adempia il Signore tutte le tue richieste.
Un vantaggio indubbio di questi salmi è quello di creare un’unità profonda tra il popolo e il re. Per noi cristiani ciò richiama l’unità profonda tra la noi, Chiesa, e Gesù Signore. Siamo un solo Corpo con lui. Gesù è un simbolo in senso biblico (cf. Ez 12,11): quello che è Lui, lo siamo anche noi; ciò che Lui ha vissuto, lo riviviamo anche noi.
Se questo è vero la Chiesa non prega perché siano realizzati i suoi intenti ma quelli di Cristo. Il versetto in cui si implora ti conceda ciò che il tuo cuore desidera, adempia ogni tuo progetto, dal cristiano è compreso in questo modo: «Dio adempia ogni tuo proposito, o Signore Gesù, quello per il quale hai dato la tua vita per i tuoi amici, così che il grano seminato e morto rinascesse più rigoglioso» (Agostino). I nostri desideri devono essere conformi a quelli di Dio e del Signore Gesù: «Ti conceda ciò che il tuo cuore desidera: il tuo cuore, ossia secondo il modo di pensare che ricevi dal Signore Salvatore» (Cassiodoro).
Proseguiamo nella lettura del testo. Ad un certo punto, mentre l’assemblea sta pregando angosciata, una voce, quella di un profeta o di un sacerdote, parlando a nome di Dio, assicura che l’invocazione è stata accolta da Lui; da qui nasce una serena certezza: Ora so che il Signore dà vittoria al suo consacrato; gli risponde dal suo cielo santo con la forza vittoriosa della sua destra. A nostra volta, noi cristiani veniamo rassicurati da Gesù stesso: «Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo» (Gv 16,33).
Il salmo potrebbe terminare qui ma, invece, si completa con una formulazione di fede molto significativa: Chi fa affidamento sui carri, chi sui cavalli: noi invochiamo il nome del Signore, nostro Dio. Quelli si piegano e cadono, ma noi restiamo in piedi e siamo saldi.
Il salmista rivela il nucleo della fede autentica: saper sperare in Dio; attendere tutto da lui, escludendo ogni altro appoggio. Ci evita un’amara disillusione perché tutto ciò a cui diamo affidamento, preferendolo a Dio stesso, risulterà un aiuto inconsistente o controproducente. Afferma Zeno di Verona: «Com’è indifesa quella fede che invoca ad ogni istante la protezione dei re e dei ricchi! (O quam indefensa fides quae regum, divitum… desiderat per momenta patrocinia!».
Il salmo successivo, il 21, presuppone che una situazione di crisi si sia risolta in modo positivo; ora il re può godersi il trionfo con il suo popolo:
Signore, il re gioisce della tua potenza! Quanto esulta per la tua vittoria! Hai esaudito il desiderio del suo cuore. Gli vieni incontro con larghe benedizioni, gli poni sul capo una corona di oro puro. Vita ti ha chiesto, a lui l’hai concessa, lunghi giorni in eterno, per sempre. Grande è la sua gloria per la tua vittoria… lo inondi di gioia dinanzi al tuo volto. Perché il re confida nel Signore: per la fedeltà dell’Altissimo non sarà mai scosso.
Non si dice che sia stato il re a vincere e ma si parla, invece, della vittoria di Dio. Il popolo, poi, pensa in primo luogo alla gioia del re ma è chiaro che anch’esso da quella ricaverà un grande vantaggio. È facile per un cristiano pensare alla gioia della risurrezione del Signore Gesù a cui parteciperà tutta la Chiesa. Intanto l’evento della risurrezione riguarda in primo luogo lui. Cristo è primizia di coloro che sono morti perché in lui tutti riceveranno la vita. «Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo» (1 Cor 15,23).
Ho detto che solo nel futuro la Chiesa parteciperà alla risurrezione del Signore, ma, prima di godere in pienezza di questo evento, può ottenere vittorie significative sul piano del comportamento. «Un'azione pura e fatta interamente per Dio forma nel cuore puro un regno ove il Signore è padrone assoluto» (Giovanni della Croce). «Per ogni parola dura che l'uomo sopporta con sapienza, riceve sul suo capo una corona di spine per amore del Cristo e sarà detto beato. Anche lui sarà incoronato in un tempo che non conosce» (Isacco di Ninive).
Le imprecazioni contro i nemici del re che chiudono il salmo (questo genere di preghiere le esamineremo in un capitolo specifico) sono anch’esse un’implorazione a Dio. Il salmista non è un terrorista o un kamikaze. Non è lui ad annientare i nemici con un’iniziativa di violenza. In realtà, trovandosi nell’afflizione, rivive l’esperienza dei padri al momento del passaggio del mare, quando il popolo si vide ghermito dall’esercito di Faraone; in quella circostanza fu detto alla comunità impaurita: Non abbiate paura! Siate forti e vedrete la salvezza del Signore, il quale oggi agirà per voi. Il Signore combatterà per voi, e voi starete tranquilli (Es 14,13-14). Sarebbe stato, dunque, Dio stesso a combattere.
Osservando i suggerimenti della tradizione ecclesiale a cui abbiamo attinto, constatiamo come le imprese guerresche del Messia sia state spiritualizzate, già a partire dalle citazioni del Nuovo Testamento. Gesù non fa guerra ma lotta in modo strenuo.
Ci sarebbe da aggiungere che spesso in questi componimenti di lotta si parla anche dei momenti di prova durissima vissuti dal re protagonista (salmi 17 e 139-142). È opportuno rilevare inoltre come l’ultimo salmo di battaglia, il 143, termini intonando una lode che si espande in altri sette salmi (144-150). Come a dire, il compimento della lotta regale che comunica i beni messianici non può che suscitare un ringraziamento espresso nella forma settenario della pienezza. Un dono completo esige una lode piena.

Contro i nemici dei poveri

Molti trovano difficoltà a pregare con i salmi perché contengono invocazioni animose contro i nemici. Come primo passo, in cerca di una soluzione, vorrei mostrare la relazione stretta che questi componimenti hanno con le suppliche dei poveri nell’oppressione e, in seguito, esaminare meglio il loro contenuto. Sarebbe opportuno distinguere tra le composizioni che contengono dei semplici appelli alla giustizia e quelle che chiedono l’eliminazione dei nemici. Altre ancora accompagnano questa richiesta con espressioni violente. Soltanto i due ultimi gruppi che ho ricordato appartengono propriamente ai salmi cosiddetti imprecatori ma è soprattutto l’ultimo a suscitare disagio per la preghiera.
I salmi contro i nemici appartengono alle invocazioni rivolte contro l’oppressore a favore del povero. Il Dio dei Padri si prende cura degli oppressi (Es 3,7). È un Dio che ama la giustizia ossia dei rapporti corretti e solidali fra gli uomini.
Questo modo di pensare si riscontra anche della spiritualità dei salmi. Vediamo un esempio sublime: il salmo 113. Dio merita una lode estesa nel tempo (da ora e per sempre v. 2), e nello spazio (dal sorgere del sole al tramonto v. 3). A lui deve essere riconosciuta una gloria incommensurabile. Detto questo, avviene una rivelazione inattesa. Questo Dio, che è esente dai turbamenti dell’esistenza, non rimane indifferente agli uomini. È un sovrano esemplare poiché, stando in trono, scruta ciò che avviene sulla terra. A differenza d’altre divinità non cerca la propria glorificazione, non si fa rappresentare dai potenti del mondo, né consolida la loro autorità. Che cosa fa allora? Solleva il misero dalla polvere e innalza il bisognoso dai luoghi sudici per collocarlo insieme ai nobili (vv. 7 e 8). Il Dio che si fa conoscere nella Sacra Scrittura è attento ai poveri e vuole nobilitare l’umiliato.
Dio ama i rapporti solidali fra gli uomini e, volendo rimanere fedele a se stesso, non considera in prima istanza il merito di chi deve ricevere soccorso. Israele in Egitto è liberato non perché meritevole d’aiuto ma soltanto perché si trova nella sofferenza. «Il Signore si è affacciato dall’alto del suo santuario [celeste], dal cielo ha guardato la terra, per ascoltare il sospiro del prigioniero, per liberare i condannati a morte» (Sal 102,20-21). Vediamo qualche esempio.
L’orante che si esprime nel salmo 37, è stato un peccatore serio (19) ma ora è vittima di trame pericolose (13). Consapevole com’è del suo passato da trasgressore, egli accetterebbe una punizione, se Dio volesse attuarla. A spingerlo a supplicare, è tuttavia l’ansia profonda causatagli dalla congiura ordita nei suoi confronti. Sa che ciò che lo può nobilitare davanti a Dio non è certo un passato d’integrità morale ma il semplice fatto di essere un uomo indifeso. Nell’invocare una contromisura nei confronti dei nemici, non insiste sulla loro malvagità ma sulla sua strutturale debolezza: Ecco io sto per cadere e ho sempre dinanzi la mia pena (v. 18). In fondo ciò che vale è questo: illustrare una condizione d’oppressione e di miseria tali da costringere quasi Dio ad intervenire.
Nel salmo 40, la lotta del povero ha una connotazione religiosa ancora più esplicita. Da una parte c’è il gruppo dei poveri, ossia quelli che cercano Dio (17), dalla parte opposta il gruppo dei malvagi e violenti. Anche in questo caso l’orante, non può contare sulla propria innocenza perché, pur avendo testimoniato la sua fede in Dio, è stato un peccatore (13). Allora pone in evidenza la sua grande miseria, dal momento che è circondato da mali senza numero (13) e si proclama unpovero e un bisognoso (18). Questo basta perché Dio intervenga a dissipare i piani malevoli dei suoi oppressori.
Parlare del povero costringe ad evocare la figura del nemico. Questi non è una persona con la quale abbiamo un cattivo rapporto e verso cui proviamo fastidio, come avviene con un vicino di casa o un collega di lavoro. Pensare così, sarebbe cadere in un enorme fraintendimento. Il nemico piuttosto è l’ingiusto oppressore.
Fino a quando i malvagi, Signore, fino a quando i malvagi trionferanno? Sparleranno, diranno insolenze, si vanteranno tutti i malfattori? Calpestano il tuo popolo, Signore, opprimono la tua eredità. Uccidono la vedova e il forestiero, massacrano gli orfani (94,3-6).
Chi è considerato nemico, trascura il comandamento di Dio e si adopera per attuare progetti contrari al suo volere. Al contrario il povero nutre sentimenti religiosi in quanto spera nel soccorso divino, spesso l’unico su cui può contare.
Chi sorgerà per me contro i malvagi? Chi si alzerà con me contro i malfattori? Se il Signore non fosse stato il mio aiuto, in breve avrei abitato nel regno del silenzio. Può essere tuo alleato un tribunale iniquo, che in nome della legge provoca oppressioni? Si avventano contro la vita del giusto e condannano il sangue innocente. Ma il Signore è il mio baluardo, roccia del mio rifugio è il mio Dio. Su di loro farà ricadere la loro malizia, li annienterà per la loro perfidia, li annienterà il Signore, nostro Dio (16-17. 20-23).
Ne consegue che chi invoca giustizia, invoca l’attuarsi del regno di Dio e del suo intento d’amore. Chiedere il soccorso per l’infelice, è compiere un atto religioso. Chi fa questo, si colloca dalla parte di Dio a cui preme sollevare il misero dal sudiciume.
Tenendo conto di questo contesto, posso introdurre un riferimento al tema dell’ira divina. Dio non sarebbe più riconosciuto come misericordioso se godesse del male o restasse indifferente. È misericordioso in quanto non sopporta per niente l’oppressione, anzi la odia (Sal 5,6), nel senso che l’avversa radicalmente. Nel salmo 7 incontriamo questo modo sorprendente d’essere misericordiosi: «Dio è giudice giusto, Dio si sdegna ogni giorno. Si prepara strumenti di morte, arroventa le sue frecce» (Sal 7,12.14). Chi prega con i salmi, tuttavia, non dovrebbe subito sperare di imbattersi in un Dio più presentabile e meno imbarazzante. È più opportuno imparare ad apprezzare e a far propria l’ira divina. Possiamo sfuggirvi in due modi: restando indifferenti al male altrui (è un rischio continuo) o diventare noi violenti qualora c’includiamo tra le vittime.
Nel primo libro dei salmi due sezioni raccolgono la preghiera del povero (3-14; 35-41). In questo ambito, la richiesta di protezione e di giustizia avviene in termini moderati, senza accenti di rancore. «Sorgi Signore nella tua ira, svegliati, mio Dio, emetti un giudizio» (7,7). «Sorgi, Signore non prevalga l’uomo: davanti a te siano giudicate le genti» (9,20). «Fino a quando, Signore, starai a guardare? Libera la mia vita dalla loro violenza» (35,17).
Anche il povero del salmo 38, a cui ho accennato, esprime una richiesta di giudizio piuttosto blanda ed evita di usare parole di violenza: I miei nemici sono vivi e forti, troppi mi odiano senza motivo: mi rendono male per bene, mi accusano perché cerco il bene. Non abbandonarmi, Signore, Dio mio, da me non stare lontano; vieni presto in mio aiuto, Signore, mia salvezza (38,13.20-23).
In modo analogo, la raccolta di salmi 73-83 costituisce un appello a Dio giudice perché intervenga a ristabilire la giustizia. L’orante è costituito dall’intero popolo che vive la catastrofe dell’invasione e la distruzione del tempio (74,7; 79,1-3). Israele è come una vigna devastata (80,15) e rischia di essere cancellato come popolo (83,5). Ora anche in questa serie, che presuppone eventi tanto drammatici, le richieste di giustizia sono prive d’accenti violenti (ad eccezione del salmo 83 che esaminerò a parte).
Tutte le invocazioni che chiedono giustizia, a mio parere, possono anzi devono essere usate dal cristiano. Vi può ritrovare la preghiera di Gesù che chiede la santificazione del nome di Dio, ossia la realizzazione del suo regno tra gli uomini con una concomitante liberazione dal male.
Finora abbiamo visto come la relazione tra l’orante e i nemici, si collochi all’interno della relazione tra il povero e il suo oppressore. Possiamo noi solidarizzare col povero fino a sperare nella rovina dell’oppressore? I salmi d’imprecazione non chiedono soltanto che abbia termine l’ingiustizia ma invocano anche la morte dei persecutori. È possibile per il cristiano formulare una preghiera del genere?
Vediamo due raccolte dove compare questo tipo di supplica. Caratterizzate dal sottotitolo maskil(salmi 52-55) o miktam (56-60), fanno emergere il dramma della convivenza ormai lacerata. Non compare il termine povero, ma chi prega è un povero tipico, un uomo perseguitato che confida in Dio. Di fatto il salmista, protagonista di questa raccolta, a) è perseguitato fino a rischio della vita; b) non può più sperare nella conversione dei violenti c) confida in Dio come unica possibilità d’uscita; d) invoca da Lui la fine della persecuzione.
Per lo più, l’invocazione si limita a richiedere la cessazione della persecuzione, ma in alcuni versetti è richiesta anche la morte prematura dei malvagi. L’orante ritiene possibile che Dio ponga fine alla violenza soltanto eliminando fisicamente gli operatori d’iniquità (52,7; 55,16.23; 58,10-11). Questo modo di pregare, lo sentiamo estraneo allo spirito di Gesù dal momento che egli, mentre era perseguitato, si è limitato a confidare in Dio Padre, supplicando a favore dei suoi nemici e non contro di loro. Che cosa possiamo fare di queste preghiere?
Innanzitutto devo porre una premessa. È errato pensare che nell’Antico Testamento la violenza sia raccomandata o accolta senza riserve. Al contrario, il perdono, la riconciliazione, la solidarietà nei confronti del nemico erano apprezzati e favoriti.
I salmisti che invocano la morte dei nemici, non sono persone violente che mirano ad un interesse privato. Di frequente il perseguitato è una persona che riceve una risposta negativa a manifestazioni d’amore sincero (35,13-14; 55,14-15). Questi fedeli chiedono la fine d’ogni malvagità non un esito soddisfacente al loro risentimento. Hanno a cuore la sorte della nazione oppressa o la sorte dei poveri e se ricorrono a invocazioni del genere, si sono resi conto che altre soluzioni non sono possibili. Vediamo adesso quale sia il significato di queste invocazioni.
1. Il salmista che invoca l’annientamento dei malvagi, è una persona che ha già rinunciato a farsi giustizia da sé e affida la sua causa a Dio. Non dobbiamo confondere questi fedeli con i kamikaze della guerra santa o con i terroristi. Non è un combattente che presume d’agire a nome di Dio, sostituendosi a lui. Gli autori dei salmi imprecatori non sono persone che praticano qualche forma di violenza. La vedono irrompere, ne sono travolti ma non si vendicano da soli. Lasciano fare a Dio. Sperano che Egli intervenga nell’immediato ma si affidano a lui anche per quanto riguarda il tempo d’attuazione.
2. Spesso l’annientamento del nemico non coincide con la sua eliminazione fisica ma con la distruzione della sua posizione di vantaggio che gli consente di prevaricare. A volte il salmista precisa la sua intenzione nello sviluppo del salmo. Osserviamo, ad esempio, il salmo 83. In questo componimento si chiede a Dio di mostrarsi come fuoco che incendia la macchia, e quest’ultima corrisponde ad un esercito invasore. Il salmista sembra dunque invocare la distruzione totale dei nemici. In realtà quando dalla metafora passa all’invocazione esplicita la richiesta si fa meno violenta e si traduce in una richiesta di conversione degli ingiusti: «Incalzali con la tua bufera e sgomentali con il tuo uragano. Copri di vergogna i loro volti perché cerchino il tuo nome, Signore» (16-17). Sembra come ricredersi: dopo aver invocato la distruzione, chiede la loro sconfitta e conversione.
Lo stesso fatto avviene nello sviluppo del salmo 109, un salmo considerato tra i più duri. Il salmista è ancora un povero che vuole sottrarsi ai persecutori: «Io sono povero e misero, dentro di me il mio cuore è ferito… A piena voce ringrazierò il Signore perché si è messo alla destra del misero» (vv. 22 e 30). Inoltre questo orante è tutt’altro che un violento: «Mi rendono male per bene e odio in cambio del mio amore» (109,5). La sua invocazione riserva alla fine una sorpresa. Dopo aver chiesto una serie d’interventi punitivi micidiali fino ad auspicare e presagire la morte dell’avversario, il salmista si attende che il malvagio, così seriamente punito, si converta: Sappiano che qui c’è la tua mano (v. 27). L’orante, dall’invocazione della distruzione del nemico, passa alla richiesta della sua conversione. Forse è stato lo stesso parlare con Dio a trasformare il suo sentimento? Le imprecazioni iniziali, allora, non potevano essere intese secondo il loro senso materiale ed immediato. Un uomo che ha lasciato sulla terra vedova ed orfani non sarebbe più in grado di ricredersi. Siamo nell’iperbolico e l’uomo orientale ama parlare in modo enfatico.
Tutte le osservazioni che ho fatto, attenuano il problema ma ancora non lo dissolvono. Rimane da risolvere una questione più delicata. Parlando della spiritualità del povero, ho richiamato l’evento della liberazione dalla schiavitù d’Egitto. Questa fatto diventa un paradigma a cui rimane sempre necessario riferirsi. Il testo biblico mette in risalto la solidarietà del Signore nei confronti dei miseri ma anche la pazienza esercitata nei confronti dei loro oppressori. Il racconto delle dieci piaghe d’Egitto mette in risaldo più dell’ira divina, la sua paziente pedagogia. Dio punisce di malavoglia, costretto da necessità (Ez 18,32; Lm 3,33). Prima di intervenire attende, pazienta, diluisce la punizione in interventi parziali, con intenzione pedagogica (Sap 12).
L’esodo tuttavia evidenzia che Dio talora non possa salvare il povero senza far perire l’oppressore. Parlando alla maniera umana, potremmo spiegarci in questo modo: da una parte Dio vuole essere misericordioso verso tutti e per questo attende sempre la conversione del malvagio ma dall’altra vuole salvaguardare l’oppresso e deve intervenire con urgenza. La soluzione più opportuna avviene quando il malvagio si ricrede e rinuncia al suo agire distruttivo. Se però la conversione è impossibile, Dio può decidere di annientarlo. Negli eventi del mar Rosso, Faraone appare come un uomo del tutto irremovibile, un nemico della giustizia e un avversario dei poveri.
I salmi imprecatori presuppongono una situazione simile e si appellano a Dio. Ricordiamo che i salmisti non intendono porsi come giustizieri, ma affrettare l’adempimento del giudizio che viene da Dio e soltanto da lui. È fondamentale che non sia l’uomo a decidere; non solo perché la nostra pazienza è limitata (anche quando la reputiamo eroica), non solo perché spesso siamo parziali, ma soprattutto perché non possiamo sapere se esiste ancora spazio per la conversione o tutto, invece, sia perduto in modo irrimediabile.
Chi [ti] domanderà [Signore]: «Che cosa hai fatto?», o chi si opporrà a una tua sentenza? Chi ti citerà in giudizio per aver fatto perire popoli che tu avevi creato? Chi si costituirà contro di te come difensore di uomini ingiusti? Non c’è Dio fuori di te, che abbia cura di tutte le cose, perché tu debba difenderti dall’accusa di giudice ingiusto. La tua forza infatti è il principio della giustizia, e il fatto che sei padrone di tutti, ti rende indulgente con tutti. Padrone della forza, tu giudichi con mitezza e ci governi con molta indulgenza» (Sap 12,12-23).
In conclusione, quando il salmista chiede l’annientamento dei malvagi, chiede la fine dell’ingiustizia oppressiva, lasciando a Dio ogni giudizio per tutto il resto. In fondo è questo pensiero che deve costituire il senso vero della nostra richiesta. Invocare l’azione di un Dio così attivo, non rende violenti ma al contrario rappacifica. Rende violenti piuttosto l’impressione che il malvagio avrà sempre spazio e poteri illimitati.
All’interno di quest’orizzonte interpretativo, collocherei alcuni versetti che sembrano contraddire il rifiuto normale della Sacra Scrittura nei confronti dell’odio. Vediamo i versetti conclusivi del salmo 140:
Se tu, o Dio, uccidessi i malvagi! Quanto odio, Signore, quelli che ti odiano! Quanto detesto quelli che si oppongono a te! Li odio con odio implacabile li considero miei nemici! (vv. 19.21-22).
In questo contesto i nemici del salmista non sono avversari né concorrenti personali. L’orante non sta difendendo interessi privati ma partecipa piuttosto all’avversione di Dio nei confronti di qualsiasi male. L’orante non prende iniziative contro qualcuno perché la collera dell’uomo non compie ciò che è giusto davanti a Dio (cf Gc 1,20) ma chiede al Signore di fare ciò che corrisponde al suo stesso volere. Il cristiano che pronuncia queste preghiere non le rivolge contro alcuno tra i suoi conoscenti, ma si lascia plasmare dalla santità di Dio che è in opposizione al male e supplica che Egli attui il suo Regno e che sia lui, eventualmente, a prendere posizione contro chi, refrattario ad ogni possibilità di conversione, distrugge la creazione.
Lo stesso vale per la maledizione contro Babilonia posta a conclusione del salmo 136. Credo sia il versetto più duro e difficile del salterio. «Figlia di Babilonia devastatrice, beato chi ti renderà quanto ci hai fatto: beato chi afferrerà i tuoi piccoli e li sfracellerà contro la pietra» (8-9). Il salmista ritiene che la giustizia esiga questa sentenza d’annientamento che si adegua alla legge del taglione. (Anche oggi spesso si invoca giustizia ma, accompagnando tale richiesta con l’astio, si desidera vendetta). Quando questo versetto è comparso nei libri di preghiera, Babilonia più che una città concreta era un simbolo del male (come Amalek). Non è strano chiedere che il male venga sfracellato e che la sua progenie subisca la stessa sorte. Perché personificare, tuttavia, il male in una città concreta? Perché il male trascende questa e quella manifestazione storica, ma non sta in una regione sospesa, estranea alla nostra terra. Esso riappare nel mondo nelle forme concretissime delle organizzazioni criminali e non di rado quest’ultime sono legate all’organizzazione statale. Nonostante le puntualizzazioni fatte, credo che rimanga comunque difficile pronunciare questi versetti per l’orrore suscitato le immagini usate. Per questo sono state espunte dalla liturgia.
Il salmista che invoca l’azione divina, dopo aver rinunciato a farsi giustizia da sé, di frequente afferma di godere costatando la rovina di chi lo ha tormentato. Rispetto al perdono completo di chi è riuscito a spegnere ogni germe di risentimento, il grido felice dell’oppresso davanti alla rovina dei nemici ci sembra incongruo. L’uomo spirituale è in grado di fare meglio. Il salmo però non è la preghiera del credente perfetto ma anche la preghiera di chi, pur avviandosi nella strada di Dio, deve ancora camminare a lungo per essere come Dio. Di fatto chi sta uscendo da un incubo fatto di terrore e umiliazione, gode e respira a pieni polmoni, né si preoccupa di controllare i termini della sua gioia. Noi possiamo tollerare che egli s’esprima con un entusiasmo improprio mentre speriamo che il perdono si faccia sempre più profondo in lui.
Da questo punto di vista il salterio ci fa conoscere meglio noi stessi. Ho già rilevato come le composizioni di carattere imprecatorio ci rivelino Dio come persona davvero interessata a risollevare l’uomo infelice ma esse sono anche specchio dell’uomo. Riflettono i nostri sentimenti quali sono e ci aiutano a discernerli. La soddisfazione per l’annientamento del nemico sarebbe del tutto riprovevole se accompagnasse un atto di vendetta da noi eseguito e se questo fosse manifestazione di violenza arbitraria o interessata, ma essa accompagna invece un intervento di Dio che, libero da ogni passionalità, esegue ciò che è meglio per salvaguardare la sua creatura. Rimane pur tuttavia un grido di gioia stonato, comprensibile ma stonato.
Quando Gesù ha pregato con i salmi ha fatto sua la richiesta di giustizia così presente in essi? Non c’è dubbio che la sua preghiera, quella con cui chiede la santificazione del Nome di Dio e la venuta del suo regno, includa il ristabilimento di un rapporto di solidarietà nel popolo di Dio. Gesù riprende la protesta per l’assenza di rapporti fraterni già sollevata dai profeti. Come loro pensa che Dio voglia realizzare il suo volere sulla terra ristabilendo le condizioni ideali originarie e invoca affinché questo volere del Padre si adempia.
Più ancora ha vissuto l’esperienza tipica del povero e del perseguitato. «Insultato, non rispondeva con insulti, maltrattato, non minacciava vendetta, ma si affidava a colui che giudica con giustizia» (1 Pt 2,23). La lettera di Pietro attesta l’innocenza e la mitezza di Gesù. Ci sono come due orizzonti nella preghiera di Gesù. Nell’immediato, Egli ha vissuto un perdono totale. Nella sua invocazione mancano gli accenti di risentimento propri di chi si sta apprendendo il perdono, come accade per alcuni salmisti, anzi intercede per i suoi aguzzini. La sua richiesta di giustizia si è tradotta in seguito nel risarcimento della vittima, attestata dalla sua glorificazione. Ciò nonostante, nella preghiera di Gesù è presente anche un appello alla giustizia. Si affida a Colui che giudica con giustizia e non semplicemente a Colui che lascia correre tutto. Il suo sangue grida più forte di quello di Abele (Eb 12,24) e al suo grido si associa quello dei martiri che, coi salmisti, gridano:Fino a quando non farai giustizia? (Ap 6,10) Esiste una richiesta di giustizia che è puntuale e insistente senza per questo essere violenta.
Gesù non ha pregato per la rovina degli uomini che erano in opposizione al regno di Dio. Ciò nonostante Egli minaccia seriamente i cosiddetti operatori d’iniquità (Mt 7,23). Non invoca la loro condanna ma lascia intendere che questa può essere decisa dal Padre. Nel compiersi del suo Regno una moltitudine potrebbe essere esclusa, nonostante tutto il suo totale impegno in senso contrario. Il Vangelo inoltre presuppone che Dio, anche al presente, conduca a termine giudizi parziali ma effettivi (Lc 13,35; 19,43; 23,31; 2 Pt 2,3; Eb 12,7-11; ). Il Padre di Gesù rimane il Dio che, nel tempo da lui stabilito, può salvare e mandare in rovina (Gc 4,12). Gli uomini più a rischio di condanna sono quanti condannano e uccidono il giusto incapace di opporre resistenza (Gc 5,6).
Mediante l’opera di Gesù, Dio pone in atto l’impegno più grande possibile per salvare tutti, ma il suo giudizio non è abolito. Nessuna salvezza sarebbe piena se la creazione fosse sempre minacciata da chi vuole distruggerla e se i poveri restassero sempre delle vittime. Rimane tuttavia aperta la speranza che più non esistano gli empi non perché nel frattempo sono stati tutti eliminati ma perché tutti nel frattempo si sono convertiti.
In conclusione, quando il cristiano prega con i salmi d’imprecazione, chiede con Gesù la venuta del regno. Come lui, si appella a Dio che giudica con giustizia, lasciando a lui ogni decisione, nel tempo e nel compimento della storia. Sa che i giudizi parziali, che avvengono nel frattempo, possono essere decisi non per anticipare ma per preservare da una condanna definitiva.
Non m’illudo di aver dato una risposta adeguata al problema della violenza nella Bibbia. Spero che le proposte suggerite possano dare un contributo affinché si possa pregare con tutti i salmi e con tutti i versetti dei salmi, senza eccessivo imbarazzo.

Il peccato è proprio così pesante?

A molti fa difficoltà lo stesso termine peccato. È soltanto il retaggio di una cultura colpevolista? Perdura, intanto, nella società un atteggiamento ambiguo. Ad esempio, dello stesso scandalo, ci si può vergognare o vantare. Diventa grave quando si può rinfacciare all’avversario, ma è valutato come inezia se il colpevole fa parte della nostra cerchia o è stato commesso da noi. Allora non viene più chiamato peccato ma trasgressione e questa viene vista con simpatia, come segno d’intelligenza e di libertà.
L’autore del salmo 38, invece, avverte la propria situazione di peccato come drammatica.
Per il tuo sdegno, nella mia carne non c’è nulla di sano, nulla è intatto nelle mie ossa per il mio peccato. Le mie colpe hanno superato il mio capo, sono un carico per me troppo pesante. Sono tutti infiammati i miei fianchi, nella mia carne non c’è più nulla di sano. Sfinito e avvilito all’estremo, ruggisco per il fremito del mio cuore (4-9).
Colpito da grave malattia, sente il suo dolore come una punizione da parte di Dio che penetra nella sua carne. In questo modo il peccato è avvertito come una forza corrosiva che intacca la struttura stessa dell’uomo. Più che da qualsiasi altra malattia, la persona umana è guastata dal male che la pervade. Gesù, pur disapprovando l’opinione che ogni malattia debba essere per forza conseguenza di una colpa (Gv 9,1-3), condivide con il salmista la convinzione che il peccato sia il corrosivo più insidioso che possa aggredire l’uomo. Trovandosi davanti al paralitico, prima di sollevarlo dal suo letto, gli dice, con sorpresa di tutti: «Figlio, ti siano perdonati i tuoi peccati» (Mc 2,5).
L’uomo non pensa così e non giudica così la sua situazione. Il peccatore, cioè qualsiasi uomo, cerca in primo luogo di giustificarsi, anche se, poi, la rimozione operata appesantisce maggiormente il suo stato interiore. Lo attesta un salmista che avrebbe preferito evitare di dichiararsi colpevole: Tacevo e si logoravano le mie ossa, mentre ruggivo tutto il giorno. Giorno e notte pesava su di me la tua mano, come nell’arsura estiva si inaridiva il mio vigore (31,3-4). Agostino confessa quanto era imbarazzante per lui ammettere la propria colpevolezza: «Se tentavo di distogliere lo sguardo da me stesso, c'eri Tu, Signore che mi mettevi nuovamente di fronte a me stesso e ti ficcavi nei miei occhi, affinché scoprissi e odiassi la mia malvagità. La conoscevo, ma la coprivo, la trattenevo e me ne scordavo» (Agostino).
Il peccato contraddice in profondità l’uomo; dissolve ciò a cui egli aspira. Ciò nonostante si fraintende o solleva una coltre spessa per nascondersi a se stesso. Di fronte a questo atteggiamento, così spontaneo, è segno di grande sapienza riconoscere il proprio errore. Anche la capacità di discernimento sapiente e il coraggio dell’ammissione sono un dono di Dio: Sì, le mie iniquità io le riconosco, il mio peccato mi sta sempre dinanzi… Ma tu gradisci la sincerità nel mio intimo, nel segreto del cuore mi insegni la sapienza (51,5.8). Il riconoscimento del proprio peccato è il risultato di un lungo lavorio della grazia che ci ha infuso un sentimento di sapienza.
Come mai la condizione dell’uomo peccatore è giudicata in modo così drammatico?
Certo, osservando la situazione generale della società, non è difficile rilevare quanto la corruzione devasti i rapporti umani. Un primo passo per rilevare la negatività del male sta proprio nel rilevare la disgregazione sociale a cui porta l’egoismo. Lo si comprende là dove viene descritto ciò che si intende evitare:
Colui che cammina senza colpa, pratica la giustizia e dice la verità che ha nel cuore, non sparge calunnie con la sua lingua, non fa danno al suo prossimo e non lancia insulti al suo vicino. Anche se ha giurato a proprio danno, mantiene la parola; non presta il suo denaro a usura e non accetta doni contro l’innocente (15,2-5).
Compaiono calunnia, insulto, prestito a usura, corruzione in tribunale con il pervertimento della giustizia. Il peccato logora la convivenza. Un altro esempio: nella descrizione del mondo insidioso della corte, si smaschera il carrierista che ricorre ad ogni mezzo pur di raggiungere il suo scopo: Chi calunnia in segreto il suo prossimo io lo ridurrò al silenzio; chi ha occhio altero e cuore superbo non lo potrò sopportare. Non abiterà dentro la mia casa chi agisce con inganno, chi dice menzogne non starà alla mia presenza (101,5.7). Nei Salmi è aborrita soprattutto l’oppressione dei poveri: Per l’oppressione dei miseri e il gemito dei poveri, ecco, mi alzerò – dice il Signore –; metterò in salvo chi è disprezzato (13,6).
Il peccato, dunque, distrugge la convivenza e rende impossibile una vita umana piena.
I salmisti, poi, evidenziano il potere dominante che esso esercita sull’uomo. I singoli peccati sono giudicati con indulgenza da noi stessi (e con più severità dagli altri) ma il peggio non sta nel fatto in sé, quanto nell’incapacità di vivere nella libertà. L’uomo ha perduto la sua libertà. Evita questa o quella colpa ma non esce dalla sua condizione di peccatore. È come sottomesso ad un signore interiore che lo domina e lo sfrutta. Dai dominatori esterni ci si libera con più facilità che da quelli interiori. Da qui un senso di pesantezza; da qui un accumulo di fatti negativi che porta ad una profonda nostalgia dell’innocenza, perduta in modo irrimediabile.
La signoria del peccato, di cui ho parlato, viene attestata soprattutto dal salmo 36, ove esso entra in scena impartendo degli ordini in stile oracolare fino a stabilire il proprio dominio nel cuore dell’uomo: «Oracolo del peccato nel cuore del malvagio: non c’è paura di Dio davanti ai suoi occhi; perché egli s’illude con se stesso, davanti ai suoi occhi, nel non trovare la sua colpa e odiarla. Le sue parole sono cattiveria e inganno, rifiuta di capire, di compiere il bene» (2-4).
Una terza ragione che c’illumina circa la drammaticità del peccato dipende dal fatto che con esso abbiamo concretato di fatto un sentimento di sfiducia nei confronti di Dio. Il peccato è, dunque, un atto di natura religiosa. Al di fuori della relazione con Dio, esso si pone al massimo come errore (psicologico) o trasgressione (legalistica), oppure come crimine insuperabile. Nessuna di queste definizioni vale per il credente. Per lui è decisivo aver tradito una relazione. Ora questa convinzione drammatizza il fatto del peccato ma contemporaneamente l’alleggerisce perché può essere superato dal perdono e dalla conversione. Il salmo 78 illustra bene il carattere del peccato come mancanza di fiducia:
Fece sgorgare ruscelli dalla rupe e scorrere l’acqua a fiumi. Eppure continuarono a peccare contro di lui, a ribellarsi all’Altissimo in luoghi aridi. Nel loro cuore tentarono Dio, chiedendo cibo per la loro gola. Parlarono contro Dio, dicendo: «Sarà capace Dio di preparare una tavola nel deserto?». Certo! Egli percosse la rupe e ne scaturì acqua e strariparono torrenti. «Saprà dare anche pane o procurare carne al suo popolo?»… non ebbero fede in Dio e non confidarono nella sua salvezza…
Quante volte si ribellarono a lui nel deserto, lo rattristarono in quei luoghi solitari! Ritornarono a tentare Dio, a esasperare il Santo d’Israele. Non si ricordarono più della sua mano, del giorno in cui li aveva riscattati dall’oppressione. (77,16-22. 40-42).
Per tutte le ragioni che ho richiamato, alla fine il cumulo dei peccati commessi è avvertito come un peso schiacciante: «Le mie colpe mi opprimono e non riesco più a vedere: sono più dei capelli del mio capo, il mio cuore viene meno. Degnati, Signore, di liberarmi; Signore, vieni presto in mio aiuto» (40,13-14).
L’orrore del peccato non è avvertito dall’uomo normale assuefatto al grigiore, mentre lo considera un’ossessione del credente tale da renderlo una figura patetica. In realtà la sensazione del male non è un male ma un bene. «Chi non ha mai visto la luce, non ha mai potuto riconoscere le tenebre» (Isacco della Stella). Solo chi ha fatto esperienza della luce capisce quanto sia penoso l’essere immersi nella tenebra. Avvertire il peccato con orrore significa, comunque, trovarsi già avvolti nel cono di luce.
Come liberarsi da un peso tanto opprimente? La soluzione non può venire dall’uomo. Non solo perché anche la persona credente che cerca Dio con sincerità e s’inoltra in un percorso di conversione, non riesce del tutto ad evitare il male, ma per un’altra ovvia ragione: se il peccato è un atto di rottura in una relazione d’amore, perché questa possa essere ristabilita, è necessario ottenere il perdono della persona che abbiamo offeso. La consapevolezza della gravità e dell’inevitabilità del peccato, induce i salmisti a due considerazioni.
In primo luogo si fa strada la rinuncia a cercare una giustificazione che si basi sui propri meriti. È possibile riconciliarsi con Dio soltanto perché Egli non vuole attenersi ad un criterio di rigorosa giustizia ma ci previene con la sua disponibilità al perdono. La nostra amicizia col Signore non si basa sulla nostra fedeltà ma sulla sua. Possiamo sempre contare su di lui, anche quando verifichiamo il nostro tradimento, per l’ennesima volta. Signore, ascolta la mia preghiera! Per la tua fedeltà, porgi l’orecchio alle mie suppliche e per la tua giustizia rispondimi. Non entrare in giudizio con il tuo servo: davanti a te nessun vivente è giusto (143,1-2). «Chi sarà giustificato per le opere della Legge? Nessun vivente davanti a te è giusto. Ma grazie alla fede in lui, il mio Dio, spero di essere salvato per dono della sua indicibile misericordia» (Simeone il Nuovo Teologo).
Dio tenta la riconciliazione con noi infondendoci un vero sentimento di pentimento. Chi continua ad amare il male, non può fare conto sulla remissività di Dio. Sono la confessione dei peccati e l’ammissione della propria responsabilità a rendere possibile il perdono, già desiderato dal Signore: Ti ho fatto conoscere il mio peccato, non ho coperto la mia colpa. Ho detto: Confesserò al Signore le mie iniquità e tu hai tolto la mia colpa e il mio peccato (32,5).
Riecheggiando le espressioni di penitenza apprese dai salmi, un mistico orientale prega così: «Io mi condanno da me stesso, come tu vedi, Signore. Non ho bisogno di nessun giudice. Dove l'accusato vede e confessa se stesso come uno che ogni giorno, ogni ora pecca, risparmia il processo, o Signore amante dell'uomo! Cerco misericordia, o generosa fonte di misericordia. Tu per me ti sei compiaciuto di divenire uomo e non hai agito con noi, nella tua vittoriosa bontà, conforme alle nostre iniquità, per l'eccesso della tua tenerezza nei nostri confronti, ma anzi, vinto dall'amore che ti è naturale, hai allontanato da noi le nostre iniquità quanto dista l'oriente dall'occidente. Concedimi il sigillo del tuo Spirito, affinché facendo ciò che ti è gradito, di nuovo scorrano senza ostacolo nel mio cuore i torrenti spirituali della tua sapienza» (Callisto patriarca).
Il pentimento e la confessione non bastano. Sono sufficienti per realizzare la riconciliazione con Dio ma la comunione stabile con lui richiede la nostra fedeltà. Questa è possibile se Dio ci crea di nuovo. Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo. Non scacciarmi dalla tua presenza e non privarmi del tuo santo spirito. Rendimi la gioia della tua salvezza, sostienimi con uno spirito generoso (51,12-14).
Un salmista prova a descrivere lo splendore di una vita innocente, vissuta sempre nel Signore:
«La tua bontà è davanti ai miei occhi, nella tua verità ho camminato. Lavo nell’innocenza le mie mani e giro attorno al tuo altare, o Signore, per far risuonare voci di lode e narrare tutte le tue meraviglie. Signore, amo la casa dove tu dimori e il luogo dove abita la tua gloria» (26,2-8).
In realtà l’inizio d’una nuova creazione del nostro cuore, desiderata dai salmisti, è annunciato nel Nuovo Testamento. A renderla possibile sono state la venuta di Gesù in terra, la sua morte e resurrezione, l’invio del suo Spirito Santo. Quest’opera definitiva del Signore non può essere descritta ma soltanto preannunciata dai Salmi.
Nell’esperienza dei santi vediamo, invece, verificarsi ciò che in queste antiche preghiere era stato auspicato e promesso: «Se indossiamo la splendida veste dello Spirito, rimaniamo in Dio ed Egli in noi, chiamati dèi e figli di Dio per adozione, contrassegnati dalla luce della conoscenza di Dio» (Simeone, Nuovo Teologo). Il rinnovamento che conclude un lungo cammino di conversione, siglato dal dono delle lacrime, è stato avvertito come una vera rinascita: «Quando sarai giunto alla regione delle lacrime, comprendi che l’anima ha posto i piedi sulla via del mondo nuovo. Ora incomincia a respirare l'aria meravigliosa di là, ora incomincia a versare lacrime. Quando il tempo della nascita è giunto, l’anima percepisce qualcosa di quel mondo, come un tenue profumo […] Entrerai allora nella pace che supera ogni intelligenza… Allora percepirai quella trasfigurazione che l'intera natura riceverà in futuro nel rinnovamento di tutte le cose» (Isacco di Ninive).

Come uscire oggi dall’Egitto?

I salmi dell’Hallel egiziano, composti dopo il ritorno dall’esilio, erano cantati durante la cena pasquale dell’Agnello. Hallel significa lode; egiziano perché l’oggetto della lode sta nell’esodo dall’Egitto. Il primo salmo (113) richiama già l’essenza dell’annuncio pasquale: Dio, eccelso nei cieli, si prende cura del povero, anzi del più infelice tra i miseri e lo onora al massimo grado. È quanto ha sperimentato Israele passando dalla schiavitù alla liberta e dalla nullità alla dignità di popolo di Dio.
L’Esodo è celebrato poi, in modo esplicito, nel salmo 114-115: Quando Israele uscì dall’Egitto, la casa di Giacobbe da un popolo barbaro, Giuda divenne il suo santuario, Israele il suo dominio (1-2). Già dal primo versetto si pensa già alla conclusione del viaggio e agli anni di storia successiva: il popolo diventa un santuario del Signore, con un’allusione al tempio che sarebbe stato edificato nel futuro. Vale a dire: tutta la storia d’Israele è come illuminata dalla Pasqua. Ciò che accadde in essa, è la manifestazione di quell’evento primordiale. Oppure, al contrario: la forza di quell’avvenimento è così ricca di potenzialità che queste si possono scorgere soltanto nell’andare del tempo.
Intanto mentre il popolo avanza verso la terra promessa, avvengono fatti prodigiosi che attestano come esso sia accompagnato dalla presenza di Dio: il mare vide e si ritrasse, il Giordano tornò indietro. Il racconto dei fatti viene accompagnato da note di colore: Le montagne saltellarono come arieti (3-4). Israele, però, non deve vantarsi ma riconoscere l’azione provvidente di Dio:Non a noi, Signore, ma al tuo Nome da gloria (114,1).
L’evento dell’esodo non è rimasto un caso isolato ma in ogni epoca il fedele ha vissuto altre esperienze di liberazione. Lo confessa l’autore del salmo 115: Mi stringevano funi di morte, ero preso nei lacci degli inferi, ero preso da tristezza e angoscia. Allora ho invocato il nome del Signore: «Ti prego, liberami, Signore» (3-4). Ancora: Ti prego, Signore, perché sono tuo servo; io sono tuo servo, figlio della tua schiava: tu hai spezzato le mie catene (7). Vale a dire: anch’io sono tra quelli a cui ha spezzato le catene della schiavitù. Un’ulteriore testimonianza: Non morirò, ma resterò in vita e annuncerò le opere del Signore. Il Signore mi ha castigato duramente, ma non mi ha consegnato alla morte (118,17-18). In questi casi per morte s’intende un pericolo estremo o una condizione molto dolorosa, a livello personale o collettivo. Insomma tutti possono riconoscere nella loro esistenza esperienze di soccorso e di liberazione.
La Pasqua è l’evento che attesta l’attenzione amorevole di Dio verso l’infelice. Nel salmo 113 si diceva che Dio solleva il misero dall’immondizia; nel salmo 118 compare un'altra immagine senza che ci sia cambiamento nel messaggio: la pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra d’angolo (22). Lo stesso viene ripetuto in modo sintetico da un altro autore: il Signore protegge i piccoli: ero misero ed egli mi ha salvato (115,6). L’esperienza dell’Esodo, quindi, fonda la spiritualità del povero.
Ognuno di noi può sperimentare anche il riposo, ossia qualcosa che equivale all’ingresso nella terra promessa: Ritorna anima mia al tuo riposo perché il Signore ti ha beneficato (115,7). In che cosa consiste il riposo per il cristiano? «L'anima che è stata sottratta alla morte dell'infedeltà ha il suo riposo anche in questa vita. Già vive per Dio ed è morta al mondo, riposa nella tranquillità dell’umiltà e della mansuetudine, per le cose ottenute già possiede tutto ciò che attende con sicura speranza» (Prospero di Aquitania).
I salmi della pasqua, poi, escono in forti accenti di lode, com’è naturale che sia.
Grida di giubilo e di vittoria nelle tende dei giusti: la destra del Signore ha fatto prodezze, la destra del Signore si è innalzata, la destra del Signore ha fatto prodezze. Non morirò, ma resterò in vita e annuncerò le opere del Signore. Apritemi le porte della giustizia: vi entrerò per ringraziare il Signore. Ti rendo grazie, perché mi hai risposto, perché sei stato la mia salvezza (118,15-21).
Anzi, nel salmo 117 non solo Israele ma tutte le nazioni sono invitate a partecipare alla lode per la tenacia dell’amore di Dio (2), come se il messaggio che si diffonde dall’evento pasquale dovesse interessare tutta l’umanità.
Nel salmo 116, invece, la lode accompagna l’innalzamento di una coppa. Durante la cena un commensale solleva un calice come brindasse al Signore: Che cosa renderò al Signore per tutti i benefici che mi ha fatto? Alzerò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore (3-4).
Questo gesto al cristiano ricorda l’origine del calice del Signore. «Se per cose materiali gli uomini fanno scambi e ringraziamenti, che cosa possiamo rendere a Cristo che si è fatto crocifiggere per noi? Mai arriveremo a render grazie degnamente; tuttavia, secondo la nostra capacità, ringraziamolo sia con la bocca che con il cuore. Egli è tanto amante degli uomini da metterci nel numero di quelli che, come la vedova, offrono due spiccioli» (Agostino). «Chi ti ha porto il calice della salvezza? Chi te l’ha dato, se non il Cristo che diceva ai discepoli: Potete bere al calice da cui sto per bere? Chi ti ha concesso la forza di imitare i suoi patimenti, se non Colui che antecedentemente ha sofferto per te?» (Agostino).
I salmi pasquali sono seguiti da un altro, piuttosto esteso, che celebra la legge del Signore: il 119. Il dono della Legge è il più rilevante tra quelli dell’esodo. Tramite la legislazione, il Signore voleva perpetuare la libertà donata, promuovendo la stabilizzazione di rapporti fraterni, liberi da prevaricazione e oppressione.
Come pregare con questo salmo? La nostra Legge non è né un libro né un decreto ma la persona di Gesù. I dettami della Legge ricordano al cristiano i desideri e le azioni di Gesù, che adempie in sé la volontà di Dio. Vivere la gioia dell’osservanza significa godere della comunione con Dio Padre, grazie a Gesù, in unità con lui.
La Chiesa ha visto nella Legge una prefigurazione di Gesù, la Parola fatta carne, la manifestazione perfetta del Padre: «Egli stesso è la Legge del Signore, perché è venuto ad adempiere la Legge, non ad abrogarla; è Legge immacolata poiché non ha commesso peccato, né è stato trovato inganno nella sua bocca, e non schiaccia le anime sotto il giogo della servitù, ma le converte in libertà all’imitazione di se stesso. Fedele è la testimonianza del Signore, perché nessuno ha conosciuto il Padre se non il Figlio, e colui al quale il Figlio ha voluto rivelarlo» (Agostino).
C’è ancora un altro aspetto da rilevare: di fronte alla legge non siamo più soli. Dio ci ha comunicato il suo Spirito Santo. Questi rende possibile la nostra osservanza e, a sua volta, l’obbedienza ci rende più capaci d’assimilare lo Spirito: «Il fondamento stesso dei comandamenti è ordinato ad attirare e attrarre lo Spirito. Non c’è nessuna differenza tra il dire: accogliere una parola, o il dire: attrarre lo Spirito, perché lo Spirito con la parola è un’unica realtà. Perciò anche il Salvatore dice dei discorsi che faceva: le parole che vi ho detto, sono spirito e vita» (Eusebio).
Il salmo 119, di tipo alfabetico, ritorna su alcune tematiche, come le seguenti:
La beatitudine della comunione con Dio e la gioia dell’osservanza: «Beato chi è fedele ai suoi insegnamenti» (vv. 2. ). «Mi ricorderò degli insegnamenti che mi hai impartito nella vita: grazie ad essi, passando dalla terra al cielo, io abito con gli angeli. Infatti, se uno, grazie agli aiuti della medicina, dopo qualche grave malattia recupera solida salute, a quel punto, ritrovandosi sano e valido, non dimentica le cure mediche. Allo stesso modo, questo santo, vivificato da Dio grazie ai decreti avuti da lui, dichiara che non li dimenticherà in eterno, e ne indica la ragione: perché cioè con essi Dio gli ha dato vita» (Eusebio).
Richiesta di apprendere la sapienza: «Aprimi gli occhi perché io veda le meraviglie della tua Legge» (v. 18) «Il profeta vuole scrutare la legge di Dio, sapendo che non è chiara e facile da capire. Dammi dunque intelligenza, perché la scruti con appropriata indagine e attenzione, in modo da ricavare da essa l’indicazione di ciò che devo fare e la comprensione di ciò che devo pensare: così infatti potrò custodirla con tutto il cuore» (Eusebio).
Il proposito di fedeltà: Sono pronto e non voglio tardare a custodire i tuoi decreti» (v. 60) «Non c’è nessuno tra noi, che di tanto in tanto non avverta il dono della grazia dello Spirito, nessuno che non abbia talvolta in sé la parola di Dio, quando è sobrio, tranquillo, casto, benevolo, misericordioso. Ma se si insinuano le agitazioni degli affetti disordinati, allora la parola di Dio non resta più in noi. Vuole sempre entrare, ma siamo noi ad impedirle di entrare. Con questi vizi le chiudiamo l’accesso. Ma se l’anima comincerà ad aprirsi purificandosi da ogni mancanza, subito la Parola vi entrerà» (Ilario di Poitiers).
La fedeltà del giusto nell’incomprensione: «I superbi mi insultano aspramente ma non devio dalla tua Legge» (v. 51). «Quanto più uno è giusto, quanto più aderisce a Dio, e quindi in lui abbonda la pace di Dio, tanto più si moltiplica contro di lui, come contro un atleta più valente la violenza dei superbi, siano essi potenze avverse o uomini. Ma quando ciò avviene, egli non tralascia in nessun modo di scrutare con tutto il cuore i comandamenti di Dio per poi metterli in pratica» (Eusebio).

Un mondo nuovo è davvero possibile?

Una raccolta di salmi è dedicata alla speranza del rinnovamento dell’esistenza umana (101-106). Il messaggio di questi componimenti esprime bene lo stato d’animo di cui erano pervasi alcuni membri più sensibili del popolo verso la fine dell’esilio, nel momento in cui in patria si apriva la prospettiva della ricostruzione.
Il salmo 101 espone i proponimenti di un sovrano ideale nell’intraprendere il suo servizio regale:Agirò con saggezza nella via dell’innocenza: quando a me verrai? Camminerò con cuore innocente dentro la mia casa (2). Nell’epoca del ritorno dall’esilio, tuttavia, il re non esisteva più. I propositi del sovrano rappresentano allora l’intenzione più autentica di chi intende riedificare la nazione.
Ogni vero rinnovamento, soprattutto quello ecclesiale, inizia dall’interno dell’uomo, perché è da lì che prende vita ciò che lo contamina oppure ciò che lo santifica (Mc 7,20). «Tra Dio e l'uomo sono i peccati a creare la separazione. Togli di mezzo il peccato, e ti sei reso Dio vicino. Come potrebbe Dio dimenticarsi di noi, egli che nel Vangelo dice che anche i cappelli del nostro capo sono contati davanti a Lui?» (Massimo di Torino). L'opera a cui dobbiamo attendere è l'autenticità della nostra conversione: «Dio desidera da te piuttosto il più piccolo grado di purezza di coscienza che tutte le opere che tu potrai compiere. Dio preferisce in te il minimo grado d’obbedienza e di sottomissione a tutti quei servizi che tu pensi di rendergli» (Giovanni della Croce).
L’orante, nell’esporre il suo ideale di purezza, mostra una certa impazienza: Detesto chi compie delitti: non mi starà vicino (3). […] Ridurrò al silenzio ogni mattina tutti i malvagi del paese, per estirpare dalla città del Signore quanti operano il male (8).
È giusto che un lettore cristiano, ascoltando questi proponimenti, si preoccupi di riformulare il testo e si proponga di opporsi al peccato degli uomini senza annientare i peccatori. «Gli uomini devono essere amati in modo che siano odiate le azioni cattive, perché altro è amare ciò di cui essi sono stati fatti, altro è odiare ciò che essi fanno» (Prospero d'Aquitania). Tuttavia è anche opportuno che egli assuma il desiderio di purezza di cui è pervaso il salmista, e riduca al silenzio tutto ciò che lo distoglie da Dio: «Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo» (Mc 7,20).
In questa raccolta siamo messi di fronte all’evento del restauro della città di Gerusalemme, in seguito al ritorno dall’esilio. Il salmo 102 ci riporta in quel frangente: Ti alzerai e avrai compassione di Sion: è tempo di averne pietà, l’ora è venuta! Poiché ai tuoi servi sono care le sue pietre e li muove a pietà la sua polvere (14-15). Il cattivo stato in cui versano le mura della città sono un segno della situazione dolorosa di tutto un popolo. Il sottotitolo del salmo riporta: preghiera di un povero. Il salmista che prega in questo salmo si definisce tale e innalza una supplica in nome di tutti i suoi concittadini.
Svaniscono in fumo i miei giorni e come brace ardono le mie ossa. Falciato come erba, inaridisce il mio cuore; dimentico di mangiare il mio pane. A forza di gridare il mio lamento mi si attacca la pelle alle ossa. Sono come la civetta del deserto, sono come il gufo delle rovine. Resto a vegliare: sono come un passero solitario sopra il tetto (4-8).
Per noi cristiani, «questo povero è Cristo che si rivestì delle nostre povertà. Dice poi: “Non allontanare il tuo volto da me” per l'umiltà delle mie membra. Quando il Padre potrebbe allontanarsi dal Figlio? Perciò chiede di essere esaudito in qualsiasi giorno della sua tribolazione, poiché la pietà del Capo soffre insieme con ogni parte del corpo e la sofferenza di tutti, che cambia nei luoghi e nei tempi, non è mai senza colui che ha pietà di tutti» (Prospero d'Aquitania).
Le rovine di Gerusalemme rappresentano quelle dell’umanità. «Se ti degnassi di accostarti a questo mio sepolcro, o Gesù, e mi lavassi con il tuo pianto! I miei occhi si sono inariditi, le mie lacrime non bastano a lavare le mie colpe. Se piangerai per me, sarò salvo» (Ambrogio).
La ricostruzione è operata da Dio e riguarda il rinnovamento della nostra esistenza: «Ogni timorato di Dio è città e casa di Dio. È messo spesso alla prova, quando il piacere e l'ambizione lo spingono alla meschinità, così che sembra che l'anima arda e resti priva di mura. Ma poiché Dio ha compassione, edifica di nuovo per rendere la persona tempio santo, dimora di Dio nello Spirito» (Cirillo d'Alessandria).
Il salmo successivo (103) ricorda quale sia il vero fondamento dell’opera di ricostruzione. Non possiamo appoggiarla in noi stessi ma nella fedeltà paziente di Dio: Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità, salva dalla fossa la tua vita, ti circonda di bontà e misericordia, sazia di beni la tua vecchiaia, si rinnova come aquila la tua giovinezza.
Come interpreta il cristiano questa preghiera? «Deve essere rinnovata in noi la giovinezza di una sola Aquila, e questa unica e sola Aquila io la chiamerei Cristo Signore, la cui giovinezza fu rinnovata quando risorse dai morti» (Massimo di Torio).
Il salmo rassicura gli esiliati che si sentivano oppressi dalla colpa e li esorta a confidare in Dio:
Il Signore non è in lite per sempre, non rimane adirato in eterno. Non ci tratta secondo i nostri peccati e non ci ripaga secondo le nostre colpe. Perché quanto il cielo è alto sulla terra, così la sua misericordia è potente su quelli che lo temono; quanto dista l’oriente dall’occidente, così egli allontana da noi le nostre colpe (3-11).
Chi intende intraprendere un rinnovamento in sé, nella Chiesa e nella società, deve confidare soprattutto nella fedeltà di Dio che ci dona Gesù come vero inizio. «Quando la tirannide del peccato dominava su tutto il mondo, quando bisognava comminare la massima pena, allora dimostrò a noi il sommo beneficio, facendo morire il suo Unigenito a vantaggio dei nemici» (Giovanni Crisostomo).
Seguono due salmi che spiegano il carattere del rinnovamento promesso: esso sarà una nuova creazione (104) e un nuovo esodo pasquale (105).
Quanto alla creazione il salmista ricorda che essa verrebbe meno, se Dio la trascurasse ma che potrebbe riprende una vita paradisiaca, se la vivificasse. Lo stesso vale per qualsiasi azione di rinnovamento che intraprendiamo:
Nascondi il tuo volto: li assale il terrore; togli loro il respiro: muoiono, e ritornano nella loro polvere. Mandi il tuo spirito, sono creati, e rinnovi la faccia della terra. Sia per sempre la gloria del Signore; gioisca il Signore delle sue opere. […] Scompaiano i peccatori dalla terra e i malvagi non esistano più (103,29-35).
Quanto all’Esodo, il salmo ne descrive l’epopea con accenti di magnificenza:
Distese una nube per proteggerli e un fuoco per illuminarli di notte. Alla loro richiesta fece venire le quaglie e li saziò con il pane del cielo. Spaccò una rupe e ne sgorgarono acque: scorrevano come fiumi nel deserto. Ha fatto uscire il suo popolo con esultanza, i suoi eletti con canti di gioia(104,39-43).
La Chiesa lo considera un fatto attuale anche per noi: «Il vero Israele ora sei tu che contempli Dio col cuore. Ti sei appena liberato da quell'Egitto che sono le tenebre del mondo; hai attraversato le acque salvifiche che hanno sommerso il nemico; attingi l'acqua che zampilla per la vita eterna; nutri l'uomo interiore col pane celeste e ascolti nel Vangelo la voce divina del tuono. Dopo aver abitato nel deserto, entrerai nella terra promessa di Gesù» (Eucherio di Lione).
L’ultimo salmo della raccolta di rinnovamento (106), che prevede il raduno del popolo dall’esilio (Salvaci, Signore Dio nostro, radunaci dalle genti, perché ringraziamo il tuo nome santo: lodarti sarà la nostra gloria, v. 47), insiste anch’esso sulla fedeltà di Dio. Nonostante le continue ribellioni del popolo, a motivo della mancanza di fede, il Signore non l’abbandona.
Molte volte li aveva liberati, eppure si ostinarono nei loro progetti e furono abbattuti per le loro colpe; ma egli vide la loro angustia, quando udì il loro grido. Si ricordò della sua alleanza con loro e si mosse a compassione, per il suo grande amore. Li affidò alla misericordia di quelli che li avevano deportati (43-46).
La fedeltà di Dio, quindi, è il vero fondamento d’ogni speranza.
Vediamo ora come la rigenerazione dell’uomo sia proposta in altre composizioni. Nella raccolta 69-72, il desiderio di una vita rinnovata è posto in relazione con l’attesa del Messia. La novità di vita, personale e collettiva, sarà possibile soltanto quando il Messia-Re verrà a stabilire il suo regno. Il salmo culminante di questa raccolta è il 72 che celebra il regno di questo sovrano atteso, fonte di benedizione universale: Il suo nome duri in eterno, davanti al sole germogli il suo nome. In lui siano benedette tutte le stirpi della terra e tutte le genti lo dicano beato (17).
Le composizioni che precedono questo salmo regale, messianico, testimoniano la situazione dolorosa dell’umanità ed esprimono il bisogno impellente di soccorso. Ritorna la supplica che invoca un aiuto non più dilazionabile, mettendo fretta a Dio: O Dio, vieni a salvarmi, Signore, vieni presto in mio aiuto (70,2). Oppure: io sono povero e bisognoso: Dio, affrettati verso di me. Tu sei mio aiuto e mio liberatore: Signore, non tardare (70,6). Ancora: Non nascondere il volto al tuo servo; sono nell’angoscia: presto, rispondimi! (69,18).
Chi può fare premura a Dio? Soltanto il povero. Questa figura ritorna sempre.
Per esprimere la situazione disastrosa dell’uomo e il bisogno urgente di salvezza compaiono due immagini: l’uomo in procinto di annegare che s’accorge di non poter più appoggiarsi sul fondale mentre avverte il rapido approssimarsi di un’onda possente che lo travolgerà (69); l’anziano che, divenuto oggetto di macchinazioni malevoli, non è più in grado di difendersi (71).
L’uomo in procinto d’annegare così prega: Salvami, o Dio: l’acqua mi giunge alla gola. Affondo in un abisso di fango, non ho nessun sostegno; sono caduto in acque profonde e la corrente mi travolge. Sono sfinito dal gridare, la mia gola è riarsa; i miei occhi si consumano nell’attesa del mio Dio (69,2-4).
L’anziano insidiato del salmo 71, rappresenta tutto il popolo del Signore. Anticipando il vecchio Simeone del Vangelo, egli ha vissuto con serietà la spiritualità del popolo di Dio tanto da poterla incarnare: Sei tu, mio Signore, la mia speranza, la mia fiducia, Signore, fin dalla mia giovinezza. Su di te mi appoggiai fin dal grembo materno, dal seno di mia madre sei tu il mio sostegno: a te la mia lode senza fine (5-6)
Come tutto Israele, la vita felice di quest’uomo aveva suscitato stupore (7) ma ora invece è caduto in balia della sventura. Benché perseguitato, continua a sperare e ad invocare con la preghiera tipica del povero: non abbandonarmi quando declinano le mie forze… vieni presto in mio aiuto. Osservando il passato, riconosce di aver vissuto molte prove e di essere stato soccorso da Dio più volte. Questa esperienza lo rende capace di sperare anche per il futuro (20).
I due esempi attestano come sia necessario che il Signore si avvicini e ci redima, con urgenza.
La risposta a tutte queste invocazioni dell’uomo in estremo pericolo, come ho detto, è presentata nel salmo 72, là dove splende la promessa dell’epoca messianica: Egli libererà il misero che invoca e il povero che non trova aiuto. Abbia pietà del debole e del misero e salvi la vita dei miseri. Li riscatti dalla violenza e dal sopruso, sia prezioso ai suoi occhi il loro sangue (12-14).
La raccolta che abbiamo esaminato in precedenza (101-106) sperava in un tempo futuro in un modo più generico mentre quella presente offre un motivo di speranza più sicuro: la venuta del Re-Messia.
L’intero libro del salterio si chiude a sua volta in una prospettiva di speranza messianica (138-145). Nel cuore di questa raccolta troviamo la preghiera di un re che deve affrontare una lotta impegnativa e rischiosa, espressa in quattro salmi (140-143). Egli teme di mostrarsi infedele verso Dio e di perdere l’abbandono fiducioso in lui, mentre giunge a sperimentare il fondo dell’angoscia. Questi inni di dolore sono preceduti e seguiti da altri due che infondono prima la speranza (139. 144) e poi il canto di ringraziamento (138.145).
Una vera prospettiva di fiducia rasserenante, dopo i salmi della lotta e dell’angoscia, si apre col salmo 144, proteso alla visione dei beni messianici. È questo il salmo più significativo di tutta questa composizione.
Lo possiamo suddividere in due parti, la prima è un’implorazione e la seconda un ringraziamento anticipato in spirito di speranza. Il protagonista del salmo è il re Davide stesso e questo c’induce ad attribuire al salmo un senso messianico perché egli è il prototipo del Messia atteso
Il salmo inizia con una benedizione:Benedetto il Signore, mia roccia, che addestra le mie mani alla guerra, le mie dita alla battaglia) e subito dopo con una considerazione di stupore: Signore, che cos’è l’uomo perché tu l’abbia a cuore? Il figlio dell’uomo, perché te ne dia pensiero? L’uomo è come un soffio, i suoi giorni come ombra che passa (144,3-4).
Il re vuole coinvolgersi nella guerra imminente ma, persuaso della propria pochezza (è come un soffio, i suoi giorni come ombra che passa), conta piuttosto sull’aiuto decisivo di Dio (5-6). Questo re preferisce collocarsi tra i poveri che, in quanto tali, sono privilegiati da lui (3). Nell’invocazione di Davide non appare alcun accento d’arroganza tipica del condottiero. Egli non è un conquistatore ma piuttosto deve difendersi dalla violenza altrui; non è un eroe ma un povero in balia di un’orda di violenti, la cui venuta è immaginata come l’approssimarsi di un’inondazione devastante: Stendi dall’alto la tua mano, scampami e liberami dalle grandi acque, dalla mano degli stranieri.
Come possiamo pregare con queste parole? Colgo due suggerimenti dalla tradizione della Chiesa. Cristo è stato addestrato dal Padre a donare se stesso: «Le mani stese sul legno della croce, levate in alto, contro il diavolo, per la salvezza del genere umano, sono di certo quelle di cui qui si parla, mani addestrate alla guerra. Le dita pronte alla battaglia sono quelle delle palme trafitte dai chiodi, che egli permise venissero trapassate» per trionfare sul male (Cromazio). Dio insegna anche al cristiano come combattere contro il maligno, rendendosi partecipe della vittoria di Cristo stesso. Inoltre c’è un'altra battaglia che ciascuno ha da sostenere con se stesso. «La carne ha brame contrarie a quelle dello spirito e lo spirito brame contrarie a quelle della carne, per cui non fate le cose che vorreste. Questa è una guerra grave e, per essere interiore, è più molesta» (Agostino).
Dopo la richiesta d’aiuto nella lotta, nella seconda parte, Davide anticipa il ringraziamento e prova ad immaginare i benefici che tutto il popolo otterrà dalla sua vittoria (13-15):
i nostri granai siano pieni, traboccanti di frutti d’ogni specie. Siano a migliaia le nostre greggi, a miriadi nelle nostre campagne; siano carichi i nostri buoi. Nessuna breccia, nessuna fuga, nessun gemito nelle nostre piazze. Beato il popolo che possiede questi beni: beato il popolo che ha il Signore come Dio.
Sentiamo in queste espressioni augurali un’eco dell’attesa dei beni del tempo messianico: «Io esulterò di Gerusalemme, godrò del mio popolo. Non si udranno più in essa, voci di pianto, grida d’angoscia» (Is 65, 19). Per noi, discepoli di Gesù, i beni messianici corrispondono ai doni della sua grazia: «In Cristo siete stati arricchiti di tutti i doni, nessun dono di grazia più vi manca» (1 Cor 1, 5, 7; cf 2 Pt 1,3-4). Possiamo considerare il 144 come l’ultimo salmo tematico di tutto il salterio e un preannunzio dell’opera di Cristo. Dopo che il salmista ha confermato la speranza del godimento dei futuri beni messianici, non rimane che il ringraziamento.
Il canto di rendimento di grazie è intonato dal salmo successivo, il 144, e si completa in un settenario di lode con altri sei salmi alleluiatici (146-150). Sono chiamati così perché iniziano tutti con l’acclamazione alleluia (allelu-jah: lodate Dio).
L’attesa della nuova creazione si appoggia sull’opera del Messia e si conclude in una lode solenne e gioiosa. Il rinnovamento non è opera nostra ma opera di Dio con Cristo e in Cristo; noi abbiamo il privilegio di partecipare a questa azione santa, prima di tutto con la nostra preghiera.


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