lunedì 24 maggio 2010

MAGNIFICAT BENEDICTUS

«L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva. D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata. Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente e Santo è il suo nome; di generazione in generazione la sua misericordia per quelli che lo temono. Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote. Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia, come aveva detto ai nostri padri, per Abramo e la sua discendenza, per sempre».





Lo sviluppo del Magnificat lo possiamo parafrasare in questo modo: rendiamo lode a Dio con grande gioia perché si è preso cura della nostra misera situazione e ci ha donato il Salvatore. Per mezzo di lui, Egli ha compiuto e continua a compiere grandi cose in noi. Dobbiamo riconoscere questo: il Signore si preoccupa davvero dei poveri e distrugge i progetti dei malvagi che li opprimono e s’oppongono al suo disegno di salvezza. Sempre ha agito in questo modo, operando a favore del suo popolo.
In sintesi, la lode di Maria e della Chiesa è un ringraziamento a Dio perché ci ha donato e continua a donarci il Signore Gesù. Questo è il primo aspetto più importante. Maria è voce che incarna la lode della prima comunità cristiana e della Chiesa di ogni epoca. Appare poi un tema anch’esso rilevante: la comunità che celebra il Signore attesta davanti a Dio di essere una povera. Maria e la comunità di cui è il portavoce vive il valore della povertà davanti a Dio. Essa può ricevere ogni giorno il Signore e i doni della sua salvezza perché vive la spiritualità del povertà.



a) La povertà come oggetto di benevolenza da parte di Dio.

Dio mostra una particolare cura per chi si trova in una situazione di povertà. E' il messaggio, ad esempio, del primo dei salmi pasquali, il 112.
Nella prima strofa è celebrato il nome di Dio (shem), che ricorre per tre volte. Si dice che il Nome del Signore mostra una caratteristica sorprendente: siede nel luogo più elevato ma si china a guardare, con preoccupazione sulla terra. Non è un Dio che se ne rimane soddisfatto in cielo ma vuole fare parità tra cielo e terra.«Chi è come il Signore, nostro Dio, che siede nell’alto e si china a guardare sui cieli e sulla terra?».
Il salmo, poi, esprime una nota ancora più sorprendente. Che cosa osserva il Signore? Gli antichi pensavano che Dio si interessasse soprattutto dei potenti. I re erano considerati sue immagini e rappresentanti. Invece il Dio di cui parla il salmo si preoccupa della categoria più misera tra gli uomini: «Solleva dalla polvere il debole, dall’immondizia rialza il povero» (Sal 112,5-7). Dio si prende cura di chi si trova nella situazione peggiore, la più svantaggiata. Non considera se il misero che siede sull’immondizia meriti o non meriti soccorso ma viene aiutato soltanto perché è tale; il sofferente viene soccorso a motivo della sua sofferenza.
Il salmo si completa affermando che Dio non soltanto libera il misero dall’immondizia ma addirittura che, in seguito, lo colloca tra i principi del popolo. Dall’umiliazione estrema, lo eleva alla condizione più elevata.
Il passaggio dall’umiliazione all’esaltazione, su cui si muove il salmo, prepara il rovesciamento che sarà vissuto da Cristo, secondo l’inno paolino della lettera ai Filippesi (cap. 2): Gesù, volontariamente, passa dapprima dalla gloria divina all’umiliazione estrema della croce. In seguito, proprio per aver affrontato quest’umiliazione (per questo), viene esaltato col ricevere la funzione più elevata (il Nome che è al di sopra di ogni altro nome), a gloria del Padre.
Gesù merita l’esaltazione perché si è umiliato volontariamente per servire il disegno di Dio a vantaggio degli uomini.
Tutti questi testi sono una rivisitazione dell’esperienza fondante del popolo d’Israele: il passaggio dall’umiliazione del lavoro forzato alla glorificazione, che consiste nell’essere stabilito come popolo di Dio, partner dell’Alleanza con Lui. Proprio nel momento dell’Esodo, Dio aveva fatto conoscere il suo Nome più vero:
«Dio parlò a Mosè e gli disse: «Io sono il Signore! Mi sono manifestato ad Abramo, a Isacco, a Giacobbe come Dio l’Onnipotente, ma non ho fatto conoscere loro il mio nome di Signore… Io stesso ho udito il lamento degli Israeliti, che gli Egiziani resero loro schiavi, e mi sono ricordato della mia alleanza. Pertanto di’ agli Israeliti: “Io sono il Signore! Vi sottrarrò ai lavori forzati degli Egiziani, vi libererò dalla loro schiavitù e vi riscatterò con braccio teso e con grandi castighi. Vi prenderò come mio popolo e diventerò il vostro Dio. Saprete che io sono il Signore, il vostro Dio, che vi sottrae ai lavori forzati degli Egiziani» (Es 6,2-7).
Israele non viene soccorso perché meritevole ma in base alla benevolenza gratuita di Dio: Se si prende cura del popolo, lo fa considerando la sua situazione disperata, non per la rettitudine morale che quello ha dimostrato: «Dio fa le cose nostre non a misura nostra, ma a misura della sua sconfinata misericordia. Non guardiamo allora a noi stessi, ma alla potenza paziente e piena di compassione del nostro Dio e Padre più che buono» (Callisto Patriarca).
A sua volta Gesù otterrà la salvezza per altri, usando nei loro confronti la stessa solidarietà compassionevole di Dio: «Gesù vide un uomo chiamato Matteo, che sedeva al banco delle imposte e gli disse: Seguimi. Lo vide non tanto con la vista del corpo quanto con lo sguardo della commiserazione interiore; con lo stesso con cui guardò anche Pietro che lo rinnegava, perché riconoscesse e piangesse il suo peccato. Con lo stesso sguardo, un tempo, aveva osservato il suo popolo per strapparlo dalla schiavitù d'Egitto, quando disse a Mosè: Ho osservato l'afflizione del mio popolo, ho udito i suoi gemiti e sono disceso a liberarlo. Vide Matteo ed ebbe compassione di lui perché era dedito soltanto agli affari di questa terra. Lo vide seduto al banco delle imposte con la mente avida di guadagni terreni (Mt 9,9)» (Beda).
Finora abbiamo visto come il povero sia privilegiato da Dio. Addirittura la situazione di trovarsi in peccato è vista da Dio come una condizione di povertà bisognosa di soccorso.
Dobbiamo ora fare un secondo passo.

b) Il povero, collaboratore di Dio (umiltà)

Dio sceglie il povero come oggetto del suo intervento salvifico ma anche come collaboratore nella storia di salvezza. Questo secondo aspetto è più importante del primo e ci avvicina di più al compito svolto da Gesù e da sua Madre, Maria; ci avvicina di più al compito della Chiesa.
Vediamo ancora una volta il retroterra vetero testamentario.
Nel salmo 32 leggiamo che Dio, dopo aver mostrato la potenza della sua parola e del suo volere nella creazione, la mostra nuovamente creando ordine nel caos che accompagna la storia degli uomini. Egli crea sempre nell’oggi; di continuo dirige la storia degli uomini, annullando i progetti di malvagità elabotati dai potenti: «Il Signore annulla i disegni delle nazioni, rende vani i progetti dei popoli. Ma il disegno del Signore sussiste per sempre, i progetti del suo cuore per tutte le generazioni. Beata la nazione che ha il Signore come Dio, il popolo che egli ha scelto come sua eredità» (32,10-12).
Di chi si serve il Signore per compiere nella storia esperienze di nuova creazione? Gli uomini tendono a confidare nei potenti, nei ricchi, ni sapienti. Proprio tutte queste categorie sono scartate da Dio: «Il re non si salva per un grande esercito né un prode scampa per il suo grande vigore. Un’illusione è il cavallo per la vittoria, e neppure un grande esercito può dare salvezza» (32,16-17)
Chi può essere allora il collaboratore di Dio? La risposta viene enunciata nel versetto 18, il cuore del salmo: «Ecco, l’occhio del Signore è su chi lo teme, su chi spera nel suo amore» (32,18).
I ricchi, i potenti e i sapienti sperano in se stessi e nella potenza dei loro strumenti, ma Dio si serve soltanto di chi spera nel suo amore. In questo salmo non si parla in modo esplicito del povero ma, dal momento che il fedele collaboratore è il contrario dei potenti (e prepotenti), ciò significa che egli non è né un ricco, né un uomo autorevole né è membro di qualche altra categoria nella quale gli uomini sogliono confidare. Questa caratteristica ci rinvia di nuovo al Magnificat. Anche Maria attesta che Dio rovescia i potenti dai loro troni e che allontana i ricchi.
Maria è umile, perchè confida in tutto e per tutto nell’amore di Dio. La Chiesa diventa potente quando confida in Dio, mentre viene vinta quando s’appoggia ai potenti.
Afferma Zeno di Verona (IV sec.): «Com’è indifesa quella fede che invoca ad ogni istante la protezione dei re e dei ricchi! (O quam indefensa fides quae regum, divitum… desiderat per momenta patrocinia!» [II, III, 4 (10)].

Nella Bibbia troviamo altri casi in cui è riproposta questa forma di fiducia. Spesso gli eletti di Dio, mostrano di avere la stessa mentalità degli uomini mondani, ossia pensano che la loro pochezza sia un ostacolo insormontabile per poter fungere da inviati di Dio. Mosè ha paura della sua balbuzie (ho nasconde la viltà dietro la balbuzie); Isaia pensa di essere troppo peccatore; Geremia, invece, troppo giovane. In realtà Dio li assicura che nessun limite oggettivo può essere di per sé un impedimento. L’unico vero ostacolo sta nella mancanza di fede.
La logica paradossale della ricchezza della povertà che si abbandona al Signore la troviamo nel racconto della guerra di Gedeone. Questo giudice, quando viene chiamato, si meraviglia di essere stato scelto proprio perché è il più piccolo della sua famiglia e quest’ultima è la più insignificante tra quelle della tribù di Beniamino (Gd 6,7). Come potrà una persona così ordinaria poter governare un esercito o una nazione? Quando egli accetta l’incarico ricevuto e riesce a raccogliere un gruppo d’armati, assai inferiore al numero dell’esercito opposto, viene obbligato da Dio e rinviare la maggior parte dei suoi soldati perché sarebbero troppi (Gd 7). Deve essere evidente che il Signore non salva per la potenza di un esercito ma soltanto per la sua potenza che si dispiega nella povertà ma anche nella fede di Gedeone e del suo piccolo esercito. Egli deve rischiare e combattere mettendo in campo la sua pochezza ma contando sull’aiuto del Signore. In questo sta la povertà dello spirito.

Più tardi san Paolo dovrà apprendere la stessa logica. Preoccupato a causa delle difficoltà e degli ostacoli continui che incontrava nell’evangelizzazione, egli ripetutamente chiede al Signore di essere liberato dalla spina confitta nella sua carne, ossia dal tormento dovuto alla sua povertà umana. Vuole essere libero da tutti gli intralci. Il Signore, però, non lo ascolta. Gli assicura che continuerà ad amarlo e ad assisterlo nelle difficoltà insuperabili per un uomo. Paolo si lascia convincere e capisce che la forza di Dio si dispiega con maggiore evidenza proprio nell’esperienza della povertà (2 Cor 12,7-10). Alla fine finisce di vantarsi proprio della sua miseria. Solo quando è debole, diventa forte della potenza del Risorto. Soltanto nelle difficoltà può maturare e portare a compimento in sé il tragitto della Pasqua del Signore.

In conclusione: cantando il Magnificat la Chiesa impara ad essere povera davanti a Dio; lo ringrazia per essere soccorsa ogni giorno dalla presenza del Risorto e si dispone a collaborare con Lui che dispiega la sua energia nella povertà fiduciosa della Chiesa.

«Grazia, grazia sia a te, Padre eterno, che tu non hai spregiata me, factura tua, né voltata la faccia tua da me. Tu, luce, non hai raguardato alla mia tenebre; tu, vita, non hai raguardato a me, che sono morte; né tu, medico, alle gravi mie infermità; tu, purità etterna, a me, che sono piena di loto di molte miserie. Per tutti quanti questi ed altri infiniti mali e difetti che sonno in me, la tua sapienzia, la tua bontá, la tua clemenzia e il tuo infinito bene non m’ha spregiata. Ho cognosciuta la veritá nella tua clemenzia, ho trovato la caritá tua e dileczione del proximo. Chi t’ha costretto? Non le mie virtú, ma solo la caritá tua. Dammi che la memoria sia capace a ritenere i benefizi tuoi, la volontà arda nel fuoco della tua carità… Questo medesimo t’adimando cordialmente per ogni creatura che ha in sé ragione, e in comune e in particulare e per lo corpo mistico della sancta Chiesa. Io confesso, e non lo niego, che tu m’amasti prima che io fusse, e che tu m’ami ineffabilemente come pazzo della tua creatura» (Caterina da Siena, Dialogo, Cap. 167).


Benedictus


«Benedetto il Signore, Dio d’Israele, perché ha visitato e redento il suo popolo, e ha suscitato per noi un Salvatore potente nella casa di Davide, suo servo, come aveva detto per bocca dei suoi santi profeti d’un tempo:salvezza dai nostri nemici, e dalle mani di quanti ci odiano. Così egli ha concesso misericordia ai nostri padri e si è ricordato della sua santa alleanza, del giuramento fatto ad Abramo, nostro padre, di concederci, liberati dalle mani dei nemici, di servirlo senza timore, in santità e giustizia al suo cospetto, per tutti i nostri giorni.
E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade, per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati.
Grazie alla tenerezza e misericordia del nostro Dio, ci visiterà un sole che sorge dall’alto, per risplendere su quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte, e dirigere i nostri passi sulla via della pace».


Dio «ha visitato e redento il suo popolo, e ha suscitato per noi un Salvatore potente» (Lc 1,68). Il cantico di Zaccaria ha come argomento principale il ringraziamento per la venuta di Gesù nel mondo e per la redenzione attuata da lui (remissione dei peccati e dono della pace). Con questo canto la Chiesa, ogni giorno, ringrazia il Signore perché ogni giorno riceve da Dio Padre Cristo Signore, come dono massimo all’umanità. Egli è il vero sole che viene a rischiararci ogni giorno per introdurci sulla strada del bene e della pace. Dal momento che questo è il senso più importante, vorrei soffermarmi su di esso per svolgere la meditazione.
Ogni azione di Dio rivela chi è Dio. Ora lo conosciamo in un modo, ora in un altro. Con questo non significa che una nuova comprensione elimini la precedente, avendola considerata quasi un errore, ma piuttosto che quanto già conosciamo era ancora molto poco in confronto a quanto veniamo a sapere in una nuova rivelazione. Manifestandosi a Mosè come il Signore (YHWH), Dio si manifesta come Colui che prende a cuore la sorte del misero. Questa forse non era una novità assoluta, ma è certamente una nuova illuminazione. Si viene a conoscere qualcosa di nuovo anche quando siamo in grado di accorgerci di ciò che, pur conosendolo, avevamo trascurato.
Il Cantico di Zaccaria afferma che, donandoci Cristo, Dio rivela le sue “viscere di bontà”. Compare il termine splangkna che è l’equivalente in ebraico di rahamin, il seno materno. Tutto questo, piuttosto che voler esprimere la femminilità divina, vuole evidenziare in modo radicale la sua misericordia. Viscere nell’antico oriente corrisponde al cuore per la nostra cultura.
[La grande misericordia (rahamin) richiama un aspetto materno di Dio; vediamo alcuni passi biblici: «Come ti posso abbandonare Efraim? Si sconvolge dentro di me il mio intimo»(Os 11, 7-9). «è un figlio prezioso per me Efraim, o un bimbo delizioso, ché ogni volta che parlo contro di lui lo ricordo sempre più teneramente? Per questo si commuovono le mie viscere per lui, ho per lui grande compassione» (Ger 31, 20). «Dov’è il tuo zelo e la tua potenza? Il fremito delle tue viscere e della tua misericordia» (Is 63, 15)].
Ora Dio appare come amore. Lo si sapeva già ma adesso il modo con cui Dio manifesta il suo modo d’amare ha una modalità totalmente nuova. Giovanni tenta di scuoterci e di fare attenzione a questo ultimo volto di Dio scrivendo: «Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia. Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (16-18).
Gesù è una nuova grazia sull’altra che è l’Antica Alleanza. Una grazia incomparabilmente più grande della prima. La Bibbia dice che Mosè o Isaia avevano visto Dio. Giovanni afferma, quasi in contrasto, che a vedere veramente Dio è stato soltanto Gesù. Lui solo lo ha conosciuto in tutta la sua profondità e ce l’ha rivelato. «Quale misericordia è più grande di quella divina per la quale il Creatore è diventato creatura, il Signore un servo, il Liberatore viene venduto, Colui che innalza è umiliato, Chi da la vita, è ucciso?» (Cassiodoro)
Adesso cerchiamo di vedere in che cosa consiste questa rivelazione di Dio portata da Gesù? Perché è stato lui a farci conoscere il cuore di Dio, le sue viscere di misericordia?
Forse l’interprete più chiaro della novità del Vangelo è stato san Paolo. Scrivendo ai Romani, dopo lunga maturazione della sua riflessione sulla fede cristiana, spiega perché, avendo visto l’amore di Dio in Gesù, possiamo dire di aver visto per la prima volta nella storia che cosa significhi amore. Di solito gli uomini con questo termine esprimono l’attrazione verso ciò che considerano bello, affascinante ed appagante. Si può apprezzare una persona, una musica, un’opera d’arte, un panorama. Gli uomini cercano la bellezza perché sentono che vengono nutriti da essa. Una mamma dice al suo bambino: ti mangio. I baci sono un modo per mangiare l’altra persona, facendole capire che la consideriamo un valore di cui non possiamo fare a meno. Credo che fare una copia di una buona musica sia come tentare di mangiarla, di renderla in nostro possesso. Lo stesso significato ha fotografare. Gli uomini non possono amare ciò che è deturpato e considerano repellente
Paolo insegna che Dio ha amato gli uomini mentre questi erano per lui deturpati, quando erano ostili a lui:
«Quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi... Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita» (Rm 5,6-10).
Il passo riportato non dice soltanto che Dio ha amato gli uomini malvagi ma che a loro favore ha sacrificato il suo stesso Figlio. Ad Abramo Dio aveva impedito di immolare il figlio Isacco. Non voleva che il patriarca si costringesse ad un dono troppo gravoso. Tuttavia Lui ha compiuto ciò che aveva proibito ad Abramo. IlPreconio sottolinea così la novità per noi quasi incomprensibile: per salvare il servo, Dio ha impegnato il Figlio.
Questa per Paolo è il volto nuovo di Dio, ormai insuperabile. Con questo dono, Egli ha raggiunto la fine, l’estrema possibilità. Solo ora vediamo le viscere di misericordia del nostro Dio, le profondità ancora nascoste.
Tuttavia il Cantico di Zaccaria ringrazia per l’attualità di questo dono. Vale a dire: Dio non ha cambiato idea, non ha un altro sentimento. L’amore che ha mostrato per noi accettando la croce è ancora attuale e permanente. I testi biblici cercano di farcelo comprendere. L’Apocalisse presentando Gesù Risorto dice a suo riguardo: «a Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue». Si può tradurre: a Colui che ora ci sta amando (tò agaponti emas). L’allusionesuccessiva alla liberazione dal peccato è un rinvio ad un fatto del passato, ossia alla crocifissione. Tuttavia l’amore mostrato sulla croce è ancora attuale. San Paolo insegna: se Dio ci ha donato il Figlio e non ha cessato di avere questo stile di misericordia, ora ci dona in Lui tutto ciò di cui abbiamo bisogno. «Che diremo dunque di queste cose? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?» (Rm 8,31-32).
Ora nel Benedictus ringraziamo il Padre perché ogni giorno ci dona il Figlio e tutto ciò di cui abbiamo bisogno per vivere la sua sequela.
I santi hanno visto nel Signore crocifisso la lora fonte vera di autentica speranza: «Quando considero un Dio prendere anima e corpo per poter patire e soddisfare per noi e renderci così oggetti cari al suo Padre ed… eredi di Lui stesso, non mi spaventano più i miei enormi peccati. Non mi atterisce più il Nemico che fugge via adendo quel Nome sacro. Non temo più di divenire inerte nell’operare il bene perché ogni ogni forza e buona volontà ci deriva per noi dai quei meriti. … La miseria nostra esposta [con verità] alla ricchezza del nostro Dio, potrà forse restare ancora tale? Ricorri a quel ciborio dove risiede la midolla dell’amore divino… Tu diventi, per il sangue di Cristo, amabile all’eterno Padre e oggetto del suo amore tenerissimo» (Elisabetta Vendramini E258).
Nell’ultima strofa si fa menzione del sole che, sorgendo dall’alto, c’illumina liberandoci dal peccato. L’attenzione all’apparizione di una Stella appartiene all’attesa messianica.
La simbologia del sole presenta svariati motivi nella Bibbia: pensiamo alla lode degli astri e, soprattutto del sole, presente nel salmo 18. Esso viene presentato come un prode gioioso e forte che, girando nella volta celeste, illumina e riscalda ogni realtà: «Sorge da un estremo del cielo e la sua orbita raggiunge l’altro estremo: nulla si sottrae al suo calore».
In alcuni passi del Nuovo Testamento Gesù viene presentato come un astro splendente: «Il volto di [Cristo Risorto] era come il sole quando splende in tutta la sua forza» (Ap 1,16). «Il volto [di Gesù] brillò come il sole e le sue vesti divennero come la luce» (Mt 17,2).
Sulla scorta della Scrittura, i Padri hanno completato la riflessione biblica cercando di applicarla nei dettagli: «Cristo Signore esce dalla sua stanza nuziale, cioè dal grembo verginale, come sposo della sua Chiesa. Riconciliando il mondo con Dio, si unì a sé la Chiesa mediante l’amore. è un prode perché, vincendo la natura umana, sconfisse ogni vizio con il suo autore» (Cassidoro). «Il mondo è un esempio dell'azione divina, perché, mentre si vede l'opera, se ne scopre l'autore. Se cerchi lo splendore di Dio, il Figlio è l'immagine del Dio invisibile» (Ambrogio). «Cristo brillò in tutto il suo fulgore divino e trasmise ai discepoli la luce celeste delle sue parole. Col calore, allude allo Spirito Santo che inviò ai discepoli dopo la sua Ascensione» (Cassiodoro).
Nella seconda parte del salmo 18, l’autore biblico, poi, celebra la solarità della vita del credente obbediente a Dio. La fedeltà alla Parola di Dio rende gioiosi, forti, uomini dallo sguardo puro e dal cuore rinfrancato. Anche la Chiesa ha riflettuto su questa realtà. Gli astri celebrano la gloria di Dio semplicemente con la loro presenza luminosa e silenziosa. Parlano di Dio senza gridare e senza imporsi. S. Paolo afferma che questa modalità di testimonianza splendente e mite potrebbe essere un compito di tutti i fedeli: «Fate tutto senza mormorare e senza esitare, per essere irreprensibili e puri, figli di Dio innocenti in mezzo a una generazione malvagia e perversa. In mezzo a loro voi risplendete come astri nel mondo, tenendo salda la parola di vita» (Fil 2,14-16).
Un autore spirituale bizantino riprende questi suggerimenti e vede l’esistenza del giusto come l’annuncio di una vita che, a modo degli astri, annunciano giorno dopo giorno la luminostà della vita nuova nello Spirito: «Lo Spirito è luce, vita e pace. Chi è illuminato dallo Spirito, vivendo in pace, compie una vita tranquilla. Conosce i misteri del regno, penetra nelle profondità di Dio e, giorno dopo giorno, proferisce parole di vita da un cuore tranquillo, buone per gli uomini» (Niceta).
Ogni giono siamo illuminati dal Signore Gesù, riscaldati da lui; riprendiamo, grazie a lui, una vita luminosa e pacificata, buona per altri uomini.
Vediamo altri elementi del Cantico: Gesù proviene dalla casa di Davide (Is 11,1-9; Atti 13, 23-39).
Era stato promesso da tanti profeti (1 Pt 1,10-12), a partire da Abramo stesso (Gal 3,16; Gv 8,55).
Dio, dopo averci liberati dai nemici (tutto ciò che si oppone alla realizzazione del progetto di Dio) ci rende capaci di servirlo in santità e giustizia (Rm 6, 17-19). In Gesù abbiamo la remissione dei peccati e possiamo ottenere la pace (Rm 5,1-2).

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