lunedì 10 maggio 2010

LITURGIA DELLE ORE . INVITATORIO

«Il fatto che in tutta la terra nelle Chiese di Dio, per l’uscire mattutino del sole e nelle ore serali, si siano stabilite innologie e lodi, veramente delizie per Dio, non è un segno da poco della sua potenza. Sono delizie di Dio gli inni che dovunque vengono elevati nelle sue chiese, nelle ore mattutine e vespertine» (Eusebio di Cesarea).
VERSETTI INTRODUTTIVI
Signore apri le mie labbra!
«Apri le mie labbra!». L’invocazione è presa dal salmo 50. L’uomo per parlare correttamente con Dio ha bisogno di essere ispirato da Lui e deve, per così dire, apprendere la lingua divina. Il nostro parlare a Lui è in primo luogo un ascoltarlo. Nel salmo 26 leggiamo: «Il mio cuore ripete il tuo invito: “Cercate il mio volto”. Il tuo volto, Signore, io cerco» (Sal 26,8). Istruito da Dio, il cuore parla. Istruito dal cuore, il salmista si mette in movimento. In modo analogo un altro salmista dichiara: «Dio mi ha messo sulla bocca un canto nuovo» (39,4). Ciò che diciamo di valido a Dio, ce lo ispira Lui.
Quando parliamo a Lui con il cuore, con intensità, ripetiamo ciò che Egli ci ha già suggerito. Il cristiano prega per ispirazione. «Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili; e Colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio» (Rm 8,26-27).
«L’occhio guarda alle lettere di un libro e dalle lettere riceve i concetti. Così l’intelletto, una volta purificato, guarda a Dio e da lui riceve concetti divini. Al posto di un libro, ha lo Spirito; in luogo della penna, la mente e la lingua. È detto: la mia lingua è una penna (Sal 44). Immergendo la mente nella luce e producendo luce, traccia le parole in Spirito» (Gregorio il Sinaita).
O Dio, vieni a salvarmi
Ogni parte della liturgia delle ore inizia con l’invocazione : O Dio vieni a salvarmi... Come mai? Qual’è il suo significato?
La richiesta d’aiuto urgente, caratterizzata dall'avverbio presto (chusha omeherà), corre lungo l’intero salterio (cf. 21,20; 30,3; 37,23, 68,23; 78,8; 101,3; 142,7). Si tratta di una specie di S.O.S. lanciato verso il Signore che presuppone da una parte una presa di coscienza del pericolo rischioso in cui uno si trova e nel contempo la certezza di essere ascoltati da Dio. Con una certa confidenza ardita, il salmista (e poi la santa Chiesa) ritiene di poter sollecitare il Signore, facendogli notare che Egli non può permettersi di dilazionare il suo intervento soccorritore, pena la morte del suo fedele. [Del resto non si dice altrove che la morte dei suoi fedeli è preziosa per il Signore (Sal 115,6), ossia costa troppo caro al Signore vedere morire i suoi amici (cf. tr. ABU)]?
La supplica viene espressa in un grido perché chi si trova in estremo pericolo non è in grado di fare un discorso sviluppato. Chi sta camminando in una città e s’imbatte in un incendio, volendo allertare eventuali soccorritori, si limita a gridare: Aiuto! Fuoco! (cf. La Nube della non conoscenza), senza perdersi in appelli circostanziati. I Padri apprezzano le parole che sono come un grido dell’anima, ossia quelle che sgorgano dalla sincerità, essendo un tutt’uno tra la voce che le pronuncia e il sentimento del cuore dell’orante. «I giusti sono soliti gridare a Dio e invocarlo a gran voce, ma ciò non avviene con clamori esterni, quanto piuttosto per un’eminente potenza dell’anima, Anche quando tacciono, spesso gridano con lo spirito perché lo Spirito stesso intercede presso Dio con gemiti inesprimibili» (Eusebio di Cesarea).
Se vogliamo, però, capire bene il significato di quest’invocazione, dobbiamo meditarla tenendo conto del contesto in cui si trova, ossia la raccolta di salmi 68-71 e, soprattutto, renderci conto che si tratta del versetto secondo del salmo sessanta nove.
Da questa analisi appare con evidenza come la sollecitazione a fare presto, sia la preghiera tipica del povero. «Io sono povero e bisognoso: Dio affrettati verso di me» (69,6).
Quale vantaggio ottiene l’orante a presentarsi come un povero? A partire dall’esperienza dell’Esodo, si sa che il povero ottiene un’attenzione particolare da parte del Signore. Il grido di chi sta soffrendo, specie se si trova oppresso dalla malvagità altrui, giunge immediatamente all’orecchio di Dio: «La preghiera del povero attraversa le nubi né si quieta finché non sia arrivata; non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto e abbia reso soddisfazione ai giusti e ristabilito l’equità. Il Signore certo non tarderà né si mostrerà paziente verso di loro, finché non abbia spezzato le reni agli spietati... finché non abbia fatto giustizia al suo popolo e lo abbia allietato con la sua misericordia (Sir 35,21-25).
Il povero può essere il popolo di Dio, la Santa Chiesa. Dio non guarda ai meriti del misero, ma soltanto alla sua condizione di afflizione. Da questo punto di vista questa preghiera può essere pronunciata da chiunque, in qualsiasi circostanza.
Per poter considerarsi tali, occorrono almeno due caratteristiche: trovarsi in una situazione di sofferenza e aspettarsi l’aiuto da Dio.
Il contesto in cui è inserita la supplica vieni presto in mio aiuto presuppone che il pericolo non consista in un semplice incomodo o in un fastidio, ma in un rischio mortale: «Salvami, o Dio: l’acqua mi giunge alla gola. Affondo in un abisso di fango, non ho nessun sostegno; sono caduto in acque profonde e la corrente mi travolge» (68,2-3). Il salmista si paragona a chi, immerso nell’acqua, sente di non toccare il fondo mentre un’ondata in arrivo lo sta travolgendo.
L’ondata può essere costituita dal livore dei nemici (v. 5 e 15) ma anche dalla stessa situazione di peccato: «mi circondano mali senza numero, le mie colpe mi opprimono e non riesco più a vedere» (Sal 39,13). Il peccatore stesso, quindi, può far propria la spiritualità del povero. Siamo, infatti, gli oppressori di noi stessi a motivo della frequenza della nostra sottomissione al nostro ego: «L’uomo infatti è schiavo di ciò che lo domina» (2 Pt 2,19).
Inoltre si deve segnalare un ultimo tratto della figura del povero come appare in questo contesto. Egli può essere un uomo perseguitato per la sua fedeltà a Dio: «Per te [o Dio] io sopporto l’insulto e la vergogna mi copre la faccia; sono diventato un estraneo ai miei fratelli, uno straniero per i figli di mia madre. Perché mi divora lo zelo per la tua casa, gli insulti di chi ti insulta ricadono su di me» (68,8-10). A travolgere l’orante, sono le ondate dell’ostilità e dell’estraneità da parte dell’ambiente circostante, dovute alla sua fedeltà a Dio. Gli apostoli attribuiscono a Gesù la situazione descritta (Gv 2,17). Egli è divorato dallo zelo per il Padre. La fedeltà a Dio gli provoca una serie di ostilità fino a condurlo alla morte.
A questo punto, possediamo elementi sufficienti per tentare una rilettura cristiana dell’invocazione: vieni presto.
La liturgia, che è esercizio del sacerdozio di Cristo, inizia con una stessa invocazione. Lui grida in noi e noi supplichiamo in Lui, con Lui e per mezzo di Lui. La tradizione patristica ha amato scorgere nella figura del povero la persona di Gesù: «Questo povero è Cristo che si rivestì delle nostre povertà. Dice poi: “Non allontanare il tuo volto da me” per l'umiltà delle mie membra. Infatti, quando il Padre potrebbe allontanarsi dal Figlio? Perciò chiede di essere esaudito in qualsiasi giorno della sua tribolazione, poiché la pietà del Capo soffre insieme con ogni parte del corpo e la sofferenza di tutti, che cambia nei luoghi e nei tempi, non è mai senza colui che ha pietà di tutti» (Prospero d’Aquitania).
Il rischio più grave della Chiesa sta nel perdere la fedeltà a Dio, disorientata dall’assalto del male o dall’ostilità dei malvagi e deve unificarsi con Cristo che è, nella sua stessa persona, il vero culto offerto a Dio.
Da questo stato di necessità più generale, la Chiesa è toccata da altre necessità. Si trova in una situazione di povertà. Non dovrebbe dar fastidio il considerarci poveri. Abbiamo visto, invece, come sia un vantaggio dal punto di vista di Dio. Secondo il mistico russo Brjancaninov (erede della tradizione dei Padri) il sentimento di povertà, anziché un fattore deprimente, è un dono della stessa preghiera: «Attraverso la preghiera incessante il fedele raggiunge l’autentica povertà spirituale: imparando ad invocare incessantemente l’aiuto di Dio, egli perde gradualmente la fiducia [presuntuosa] in se stesso» (39).
La Chiesa ed ognuno di noi, in essa, si trova sempre in uno stato di lotta. La fedeltà a Dio ci può costare. L’invocazione vieni presto nasce dall’esperienza della nostra impotenza: «Se cadi, rialzati; se cadi di nuovo, di nuovo rialzati, fino a che tu abbia imparato a camminare senza inciampare. Il calice dell’impotenza ha una sua utilità: fino a un certo momento la divina provvidenza permette che esso sia presentato al cristiano per purificarlo dall’orgoglio...» (Brjancaninov 82-83).
Un ultimo aspetto. Come mai il versetto introduttivo del salmo 69 è confluito nella liturgia come preghiera iniziale di ogni ufficio?
I monaci antichi pensavano che la recita dei salmi costituisse un vero avvio all’esperienza mistica. Oltre a recitarlo per intero, con frequenza, ne estrapolavano dei versetti per ripeterli a titolo di meditazione (la meditazione, allora, corrispondeva alla semplice ripetizione orale di un testo biblico). Giovanni Cassiano (un monaco del sec. IV) ci ha tramandato che proprio l’invocazione al soccorso immediato del salmo 69 era la meditazione preferita da molti monaci del suo ambiente. Essi la ripetevano di continuo come meditazione (oggi diremmo giaculatoria). Ritengo probabile che quest’uso sia influenzato la formula iniziale della liturgia.
Collocata in questo contesto il versetto riceve, oltre a quelli a cui ho accennato, anche un altro significato: la Chiesa chiede l’aiuto di Dio per saper pregare. La lotta della Chiesa s’intensifica nella preghiera. Come Gesù, nella preghiera, la Chiesa lotta (Lc 22,44). Combatte contro la mancanza di fede e contro il logoramento dell’abitudine. Chiedere che Dio venga in nostro soccorso, significa chiedere che il nostro grido si unifichi al gemito dello Spirito in noi (Rm 8,15. 26) e alle suppliche di Gesù, accompagnate da forti grida e lacrime, effuse nel Getsemani (Eb 5,7) ma ripresentate al Padre nel nostro oggi.Concludo presentando la stessa esortazione di Cassiano:
«Vi suggeriremo questa formula di vera pietà, allo scopo di raggiungere un continuo ricordo di Dio: O Dio, vieni in mio aiuto; Signore, vieni presto ad aiutarmi. Questo breve versetto, non senza motivo, è stato scelto da tutto il complesso della Scrittura. Essa riflette tutti i sentimenti, di cui può essere capace la natura umana, e si adatta con sufficiente proprietà e convenienza ad ogni stato e a tutte le tentazioni… Questo versetto, ripeto, risulta necessario e utile per chiunque di noi venga a trovarsi in qualsiasi occorrenza. La meditazione di questo versetto si svolga senza tregua nella tua anima… Questa riflessione del cuore ti conserverà illeso da ogni incursione diabolica, e, in più, purificandoti da tutti i vizi, ti condurrà alle visioni invisibili e celesti, e ti promuoverà a un ardore di orazione ineffabile e riservata a pochi».

INVITATORIO

Commento il salmo d’invitatorio più significativo, il 94, che inizia con una convocazione al tempio: «Venite, cantiamo al Signore, acclamiamo la roccia della nostra salvezza. Accostiamoci a lui per rendergli grazie (betodà), a lui acclamiamo con canti di gioia» (1-2).
Un rabbino traduce: andiamo con lodi di ringraziamento. Il motivo più importante della convocazione appare il rendimento di grazie e quest’atto è compiuto nel canto gioioso (cf. Sal 117, 18-19).
Il verbo hodà, tradotto di solito con ringraziare, non esprime mai il ringraziamento tra uomini ma per oggetto soltanto il Signore ed è connesso al riconoscere, al confessare. La lode è seguita spesso dal ricordo di fatti circostanziati (anamnesi) e dalla supplica affinché Dio continui ad operare per amore, completando ciò che ha cominciato a fare (2 Sm 7,25).
Segue una prima motivazione della convocazione: «Perché grande Dio è il Signore, grande re sopra tutti gli dèi. Nella sua mano sono gli abissi della terra, sono sue le vette dei monti. Suo è il mare, è lui che l’ha fatto; le sue mani hanno plasmato la terra» (3-5).
Nell’antichità si doveva precisare a quale dio si innalzava la lode. Il salmista attesta subito che egli intende esaltare il Signore (YHWH), un Dio che è tale da non poter essere messo a paragone con altre divinità. Egli contiene tutto ed ogni creatura è in Lui. Noi siamo in Lui. Abissi della terra, vette dei mondi, vastità marina: sono evocate le dimensioni del cosmo in basso, in alto e lungo la linea d’orizzonte (cf Sal 35,6-7). Le vaste dimensioni cosmiche evocano quelle senza misura dell’amore di Dio. Siamo come circondati dalla sua benevolenza senza poter mai sfuggire ad essa: «Se salgo in cielo, là tu sei; se scendo negli inferi, eccoti. Se prendo le ali dell’aurora per abitare all’estremità del mare, anche là mi guida la tua mano e mi afferra la tua destra» (Sal 139, 8-10). A sua volta il cristiano è dentro le dimensioni dell’amore di Cristo e, inserito in questo spazio, può aprirsi a ricevere tutta la pienezza di Dio (Ef 3,17-19).
Dopo aver evocato queste caratteristiche divine che possono interessare tutti gli uomini, appare un secondo invito di convocazione non più alle porte del tempio ma al suo interno: «Entrate: prostràti, adoriamo, in ginocchio davanti al Signore che ci ha fatti. È lui il nostro Dio e noi il popolo del suo pascolo, il gregge che egli conduce» (6-7).
Anche in questo caso, per la seconda volta, l’invito ad avvicinarsi a Dio viene convalidato da una motivazione: Egli ha operato una seconda creazione quando ha costituito il suo popolo.
Tutti questi argomenti possono essere ripresi nell’esperienza cristiana. Pier Crisologo così commentava ai suoi fedeli il primo versetto del salmo: «Chi è molto accaldato, è ben lieto di imbattersi in una fontana fresca; così noi, oppressi dal peso delle tribolazioni, siamo invitati a ritrovare noi stessi in Dio». La conversione è il vero antidoto contro la tristezza. Quanto più la nostra gioia sarà sempre e soltanto Dio, tanto più saremo davvero capaci di godere di Lui e della vita stessa.
La lode di ringraziamento deve sostanziare tutta la vita cristiana: «State sempre lieti, pregare senza posa, in ogni cosa rendete grazie» (1 Ts 5,16).
Il ringraziamento massimo è l’Eucaristia, la quale ci offre la possibilità di ringraziare Dio Padre insieme con Cristo risorto. Questi ringrazia il Padre non soltanto per essere stato generato da lui ma anche per il fatto di essere stato un dono per noi [un dono che gli è costato caro]. A nostra volta ringraziamo Dio per aver ricevuto la vita naturale ma anche la vita nuova nello Spirito. Abbiamo così la possibilità di essere un dono, di vivere nella carità; di poter restituire ciò che abbiamo ricevuto nel darci a nostra volta per gli altri. La supplica stessa, poi, dovrebbe scaturire dalla lode. Infatti la domanda più opportuna che possiamo fare a Dio è quella di portare a compimento ciò che ha cominciato a fare per noi, in Cristo.
La lode, nel secondo invito, è accompagnata dalla prostrazione (venichrà’a). Osserva Cassiodoro: «Ci prostriamo davanti al Signore quando siamo come sopraffatti dalla riconoscenza, dall’amore o dal pentimento; quando, con l’animo infiammato dalla compunzione, ci abbassiamo con una preghiera umile. Se invochiamo con cuore puro Dio che ci ha creati, Egli ci rifarà nuovi». Fratel Carlo De Foucauld, commentando questo salmo, ha precisato bene il senso cristiano dell’adorazione: «Il fondamento dell’adorazione è perdersi, inabissarsi in ciò che si ama e considerare tutto il resto come nulla. Senza la castità e la povertà, l’adorazione resterebbe imperfetta».
Tutti questi spunti appaiono nelle esortazioni che si scambiano tra loro persone dello Spirito: «Ringrazia Dio e lodalo; accetta la tribolazione, le tentazioni, gli affanni del tuo cuore, le tenebre, le battaglie delle passioni. Offrirai tutto questo a Dio con lodi e con vera contrizione dei tuoi peccati. Convertirai così ogni male in bene e ogni bene in meglio, per la gloria del Signore e la tua salvezza. Assicuralo spesso che tu non vuoi che ciò che Egli vuole, che ti conosci misera, ma che, a Lui appoggiata, sei certa di bere il calice che ti porgerà. Cerca Dio solo e i suoi interessi, dando morte a te stessa. Apprezza i doni che ti fa, benché ti sembri duri al tuo istinto naturale, e vedrai a suo tempo i tesori che ti donano» (Elisabetta Vendramini E582).
La seconda parte del salmo è molto diversa dalla precedente. «Se ascoltaste oggi la sua voce! Non indurite il cuore come a Merìba, come nel giorno di Massa nel deserto, dove mi tentarono i vostri padri: mi misero alla prova pur avendo visto le mie opere. Per quarant’anni mi disgustò quella generazione e dissi: “Sono un popolo dal cuore traviato, non conoscono le mie vie”» (8-10). Dapprima una voce profetica precisa in che cosa consista l’essenza del culto. Poi interviene il Signore stesso ad ammonire.
Un movimento analogo lo troviamo nel salmo 80. Assistiamo alla convocazione festosa dell’assemblea in una circostanza festiva. Una volta avvenuta l’adunanza, una voce profetica precisa, in tono d’ammonimento, in che cosa consista il culto e che cosa Dio s’attenda dal suo popolo.
Il tema ha un grande rilievo nella Sacra Scrittura e in modo particolare nei libri profetici.
Soffermiamoci allora, dapprima, sull’invito: «Se ascoltaste oggi la sua voce!».
Nella nuova traduzione CEI il versetto è stato reso come un invito e non come un comando (Ascoltate!), con una maggiore fedeltà al testo ebraico (haiòm im-bekolò tishmà’u). Esso ci riconduce al momento della stipula dell’Alleanza, al Sinai. Ma questo oggi, è un dato permanente. Sempre ogni giorno siamo convocati dal Signore ed Egli ci propone la sua alleanza.
Il Signore si propone come alleato d’Israele dopo che ha fatto sperimentare ad esso di essere un Dio solidale, liberatore dalla schiavitù e un Dio che accompagna il popolo nel suo pellegrinare. Il Patto, imperniato sul Decalogo e il Codice d’alleanza, ha la scopo di garantire nel tempo l’esperienza di libertà e fraternità, propria del processo di liberazione pasquale. Alla proposta di Dio il popolo risponde in modo corale ed entusiastico: «Quanto il Signore ha detto noi lo faremo» (Es 19,8); «Tutto il popolo rispose ad una sola voce dicendo: “Tutti i comandamenti che il Signore ha dato, noi li eseguiremo”» (Es 24,3). Questo clima verrà evocata da Maria, alle nozze di Cana, ripresentando la vocazione del popolo di Dio: «Qualsiasi cosa [Gesù] vi dica, fatela!» (Gv 2,5). La massa dei pellegrini nel deserto diventa veramente popolo di Dio, in permanenza, nel momento in cui aderisce al patto e si unifica nel volere di Dio, nel fare proprio il suo progetto.
Secondo il profeta Geremia, l’essenza del culto d’Israele sta nella disponibilità fattiva all’obbedienza a Dio: «Dice il Signore degli eserciti, Dio d’Israele: Aggiungete pure i vostri olocausti ai vostri sacrifici e mangiatene la carne! Io però non parlai né diedi ordini sull’olocausto e sul sacrificio ai vostri padri, quando li feci uscire dalla terra d’Egitto, ma ordinai loro: “Ascoltate la mia voce, e io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo; camminate sempre sulla strada che vi prescriverò, perché siate felici”» (7,21-23).
L’uso dei sacrifici e delle altre azioni cultuali sono venuti in un secondo tempo ma la cosa più rilevante sta nell’obbedienza. Il salmo invitatorio riprende questo modo di pensare: «Se ascoltaste oggi la sua voce!». L’autore del salmo 80 aggiunge: «li nutrirei con fiore di frumento e li sazierei con miele dalla roccia!» (17)
Per dare una visione più completo della riflessione cristiana su questo tema è necessario far vedere come la lettera agli Ebrei attualizzi un versetto del salmo 39. Un salmista, avendo compreso che l’essenza del culto sta nell’obbedienza a Dio, entra nel tempio ma, anziché offrire olocausti o sacrifici com’era abitudine, afferma di volere offrire a Dio se stesso. Anziché entrare nel tempio portando animali da sacrificare, porta un rotolo nel quale ha dichiarato per iscritto la sua intenzione di coltivare l’obbedienza a Dio (8). La legge del Dio non è più scritta soltanto nelle tavole di pietra o nei rotoli di papiro ma è penetrata in lui, è diventata un suo desiderio, un suo progetto, corrisponde al suo modo di sentire.
Il versetto, che corrisponde alla sensibilità dei profeti, è stato preso dalla lettera agli Ebrei per esprimere anche l’orientamento di vita di Gesù nel suo ingresso nel mondo. Gesù non ha dato importanza ai sacrifici del tempio ma il suo culto a Dio è consistito nel compiere in continuazione la volontà del Padre. La lettera agli Ebrei afferma che è stata questa intenzione profonda di Gesù a procurarci salvezza:
«Dopo aver detto: Tu non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato, cose che vengono offerte secondo la Legge, soggiunge: Ecco, io vengo a fare la tua volontà. Così egli abolisce il primosacrificio per costituire quello nuovo. Mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre»(10,8-10).
Il salmo, infine, fa intervenire in Dio in tono severo, quasi minaccioso: «Non indurite il cuore come a Merìba, come nel giorno di Massa nel deserto, dove mi tentarono i vostri padri: mi misero alla prova pur avendo visto le mie opere. Per quarant’anni mi disgustò quella generazione e dissi: “Sono un popolo dal cuore traviato, non conoscono le mie vie”» (8-10).
La festa iniziale sembra quasi guastarsi. In realtà anche la minaccia scaturisce dall’amore di Dio; viene richiamata proprio per essere evitata. La festa non dovrà essere interrotta dalla frattura della disobbedienza, come invece accadde al Sinai.
La lettera agli Ebrei riprende la stessa ammonizione rivolgendola alla Chiesa: «Che non si trovi in nessuno di voi un cuore perverso e senza fede che si allontani dal Dio vivente. Dovremmo avere il timore che, mentre rimane ancora in vigore la promessa di entrare nel suo riposo, qualcuno di voi ne sia giudicato escluso» (Eb 3,12 e 4,1). Al contrario, «i fedeli, pervasi dallo Spirito Santo, miti e umili di cuore, che hanno preso sopra di loro il giogo dolcissimo dell'amore del Signore, anche al presente godono di una qualche anticipazione del riposo futuro» (Beda).
In conclusione, il salmo invitatorio esorta ad avvicinarci a Dio con gioia e nella lode, riconoscendolo come nostro Creatore nella vita naturale e nella vita di grazia. Esorta a porlo al centro della nostra esistenza che dovrà, essere, in unità con Gesù, una vita di adorazione. Questa consisterà soprattutto in una disponibilità all'obbedienza, mossa dalla piena di fiducia perché si realizzi anche in noi il processo di liberazione pasquale.

Per il commento al Magnificat e al Benedictus vedi il post apposito

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