venerdì 22 febbraio 2019

A Donato. A Diogneto


Testimonianze

In questa parte osserviamo in quali modalità sia comparsa l’azione dello Spirito Santo nella vita del credente e quali risultati abbia prodotto la carità, infusa dallo Spirito. Più che esporre i doveri del cristiano, voglio mostrare ciò che egli può diventare, che cosa può accadere in lui. Si tratta di ascoltare il canto nuovo che i redenti hanno appreso, rendendo candide e luminose le loro vesti nel sangue dell’Agnello.
Comincio con l’esporre due testimonianze che provengono dal cristianesimo più antico.

A Donato

Nella tradizione cristiana primitiva, evangelizzare significava, in primo luogo, mostrare, nella concretezza, la novità assoluta del Vangelo. Gli evangelizzatori erano in primo luogo dei testimoni che offrivano allo sguardo dei loro interlocutori lo stile della vita cristiana, percepita come un’esistenza paradossale, ossia tale da suscitare stupore: «Vivendo in città greche e barbare, adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale» (A Diogneto, 63).
Chi li incontrava, si trovavano di fronte ad una novità irritante ed affascinante. Irritante perché il modo sentire comune a cui era abituati era sconvolto; affascinante perché, nello stesso tempo, percepivano un valore indiscutibile in ciò che veniva proposto:

«I pagani nell’ascoltare dalla vostra bocca le parole del Signore le ammirano perché belle e grandi. Quando da noi ascoltano che Dio dice: Non c’è merito per voi se amate quelli che amano, ma c’è merito se amate i nemici e quelli che vi odiano, ammirano il massimo della bontà» (Seconda lettera ai Corinti, I Padri Apostolici 224).

Come avveniva l’annuncio? Il messaggio passava di bocca in bocca, tramite l’entusiasmo di chi aveva creduto e sperimentato la vita cristiana. Lo attesta questa testimonianza: Cipriano, convertito da poco, narra la sua vicenda all’amico Donato, rimasto ancora pagano ma aperto verso il cristianesimo.  Non gli espone i dettagli di cronaca della sua conversione ma il contenuto essenziale suo cammino interiore. Vuole che l’amico possa ritrovarsi nella descrizione della sua vicenda. Venuto a sapere che era possibile intraprendere una nuova esistenza, si chiedeva tra sé se era realmente possibile un cambiamento radicale, una autentica novità di vita: «Ritenevo estremamente difficile e duro per le mie abitudini d’un tempo ciò che la misericordia divina mi prometteva per condurmi alla salvezza» (Donato, 81). La proposta del Vangelo affascinava il giovane ma gli sembra troppo arduo il passo e impossibile conseguire l’obiettivo desiderato.
Descrive gli allettamenti che distolgono da una vita sobria, dai quali in parte si era lasciato trascinare e nei quali anche il suo interlocutore si era lasciato coinvolgere: pranzi succulenti, abiti preziosi, l’ansia di conquistare una posizione di prestigio, il bisogno di divertimenti: «... il vizio del bere, stimola; la collera, infiamma; l’avidità, tormenta; la crudeltà, stimola; l’ambizione affascina; la passione travolge» (Donato, 83). Per un certo periodo, dubitò di poter trovare la libertà. Pensò che i mali compiuti, costituissero la sua identità immutabile.
Fu per lui una sorpresa la potenza della grazia, sperimentata in seguito al battesimo. Cipriano rivela all’amico l’evento accaduto, non delle semplici teorie o vaghe speranze. L’infamia venne spazzata via; una nuova luce, proveniente dall’alto, si riversò nell’animo ormai purificato. I dubbi si chiarirono, diventò possibile compiere ciò che prima gli sembrava impossibile: «Cominciava ad appartenere a Dio, ciò che ormai era animato dallo Spirito» (Donato, 85).
 Il mutamento vissuto presuppone che Cipriano fosse animato da una convinzione di fede solida e da una generosa corrispondenza alla grazia, ma egli dirige la sua attenzione sull’agire di Dio; non evangelizza se stesso ma vuole essere testimone della misericordia ricevuta: «Appartiene a Dio, dico, a Dio, tutto ciò che possiamo fare. Grazie a Lui viviamo, grazie a Lui siamo forti, grazie a Lui abbiamo accolto quell’energia che qui nel mondo ci permette di riconoscere in anticipo gli indizi della vita futura» (Donato, 85-86).
Dopo aver narrato in sintesi la sua vicenda, cerca di portare l’amico a riflettere sulla situazione morale in cui versava la società. Sapendo che Donato, anche se ancora pagano, non era una persona corrotta e degenerata, comincia a puntare l’indice contro le consuetudini sociali più riprovevoli, che avevano già suscitato il disgusto d’entrambi. Nè la religione pagana né la cultura greco-romana erano riuscite a liberare la società da azioni turpi e violente, anzi le avevano confermate. Il confronto tra cristianesimo e paganesimo non avviene a livello della riflessione filosofica, dove anche quest’ultimo aveva raggiunto delle aspirazioni molto nobili, ma a livello del comportamento delle masse abbandonate al loro degrado. Cipriano affianca l’amico nella riprovazione dei giochi gladiatorii. L’abilità retorica accentua il disgusto morale: «Si prepara il gioco dei gladiatori perché il sangue diletti la folle brama di occhi crudeli... Si uccide l’uomo per il piacere dell’uomo e diventa arte il saper uccidere: non solo si compie ma si insegna il delitto» (Donato, 93). L’interesse di questa denuncia non sta soltanto nella riprovazione di una consuetudine disumana, ma nel fatto che la persona convertita al Vangelo, non si rinchiude nell’ambito del privato, non si limita a godere della propria liberazione personale ma si prende a cuore l’intera società. Non si isterilisce nella semplice condanna ma diventa fermento di rinnovamento facendo leva sul desiderio di bene presente in ogni uomo, anche in quello più degradato.
Passa in rassegna tanti altri comportamenti riprovevoli ai quali posso soltanto accennare: la rappresentazione teatrale di fatti crudeli od osceni. Spesso le divinità diventano incentivo all’immoralità: Venere sfrontata, Marte adultero, Giove pederasta. «Imitano gli dei che adorano; per quegli infelici anche le regole della loro religione diventano incitamento al delitto» (Donato, 97). Denuncia la corruzione nei tribunali; la virulenza con cui si abbatte l’avversario ma anche la crudeltà del giudice, l’amoralità dell’avvocato, l’uso della tortura (Donato, 99-101).
Cerca di rendere consapevole l’amico dell’incoerenza morale manifestata dagli stessi pagani: da una parte compiono il male e si giustificano, dall’altra accusano gli altri di fare le medesime malvagità, già compiute anche da loro. «Alla luce del sole sono accusatori; in privato, colpevoli.... condannano fuori ciò che compiono dentro, concedono volentieri ciò di cui accusano gli altri, purché sia concesso pure a loro» (Donato, 99). Uno strumento efficace di evangelizzazione era quello di risvegliare l’amore del bene e il disgusto del male. Soltanto l’adesione alla novità di Cristo diventava, per esperienza, una forza liberatrice. Il cristianesimo valeva perché era una medicina efficace, l’unico ritrovato sicuro per garantire un comportamento veramente umano. Il fatto che molti, pur avendo creduto in Cristo, almeno in apparenza, fossero caduti di nuovo nel male dal quale sembravano liberati definitivamente, non era in grado di smentire la testimonianza biografica di Cipriano: chi crede davvero in Cristo e corrisponde al suo dono di grazia, può sperimentare una liberazione totale e definitiva. A volte ciò avveniva in mondo repentino, altre volte richiedeva tempo e la necessità di affrontare una dura lotta, ma il risultato era sicuro.
Cipriano non si limita ad attestare a Donato la possibilità di uscire dal male ma anche quella di godere di un’esistenza piena. Lo avverte che ora sta godendo di una tranquillità placida e sicura, e gli ricorda che il tesoro più sublime dimora all’interno della coscienza. Possiamo godere dei doni della generosità di Dio perché il suo dono è gratuito e facile da ottenere: «Come il sole spontaneamente riscalda, la sorgente sgorga, la pioggia bagna, così si effonde lo spirito celeste» (Donato, 113)
L’ultimo tratto dello scritto è un invito a sperimentare personalmente ciò che Cipriano ha già conosciuto. Non deve dipendere dalle esortazioni dell’amico ma può diventare a sua volta un testimone: «Mantieni la preghiera o la lettura continua (dei libri biblici). Ora sii tu a parlare con Dio, ora sia Dio a parlare con te. Egli ti istruisca, Egli ti educhi. Nessuno renderà povero colui che Egli ha reso ricco» (Donato, 117).

A Diogneto

Una seconda testimonianza di rilievo di come avveniva l’evangelizzazione, la troviamo nella lettera a Diogneto. Non conosciamo né l’autore, né il destinatario e neppure la datazione precisa dell’opera. Sappiamo soltanto che è uno scritto appartenente all’epoca cristiana più antica.
Secondo l’autore dello scritto, il cristianesimo non è una scoperta degli uomini e non appare come una dottrina filosofica elaborata da qualche pensatore. È una realtà che presenta dei caratteri paradossali, aspetti contrastanti (anche se non opposti) che danno origine ad una tensione inesausta e benefica. Ad esempio, il cristianesimo appartiene appieno a questo mondo ma è estraneo ad esso. I cristiani, vivendo in questo modo con le medesime necessità degli altri, hanno un’origine divina, tendono uno stile di vita divina, hanno una destinazione divina. «Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni terra straniera è patria loro, e ogni patria è terra straniera» (Diogneto, 63). Seguono poi alcune esemplificazioni di carattere pratico. L’autore riferisce circa le nome di vita abbracciate dal cristiano: «Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati. Mettono in comune la mensa, ma non il letto. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne» (Diogneto, 63).
Fin qui il comportamento del cristiano può essere definito paradossale (o degno di stupore) in quanto rende possibile attuare un’integrità di vita, un’onestà autentica, che era obiettivo comune a tutti. Il tenore paradossale del cristianesimo, tuttavia, appare con maggior vigore la dove fa trasparire la luminosità propria del messaggio evangelico, la dove sia realmente attuato: «Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. Amano tutti e da tutti vengono perseguitati. Non sono conosciuti e vengono condannati... Sono ingiuriati e benedicono...» (Diogneto, 65).
L’autore prosegue usando la celebre immagine del cristianesimo come anima del mondo (Diogneto, 65-67). L’autore attinge ad una  antropologia di carattere dualistico, in quanto la relazione tra anima e corpo è intesa anche in termini di ostilità reciproca.
Al di là di questi aspetti più problematici, ciò che appare utile anche per noi, nel tempo presente, è l’invito ad assumere una responsabilità nei confronti del mondo: i cristiani, partecipando alla vita comune, devono perfino sostenere il mondo; anzi hanno un compito a favore degli uomini al quale non devono sottrarsi: «Dio li ha messi in un posto tale che ad essi non è lecito abbandonare» (Diogneto, 67). Questa convinzione, soprattutto se rapportata con le difficoltà che essi dovevano affrontare in quel tempo, è del tutto impressionante: «Non vedi che, gettati alle fiere perché rinneghino il Signore, non si lasciano vincere? Non vedi: quanto più sono puniti, tanto più crescono? Questo non è opera dell’uomo, ma è potenza di Dio, prova della sua presenza» (Diogneto, 69-71). Avendo una responsabilità nei confronti degli uomini, i cristiani non devono mai lasciarsi vincere, abbandonare la loro opera, vinti dallo scoraggiamento. In che cosa consiste la responsabilità del cristiano verso la società? Non si limita soltanto a fornire cittadini onesti o ad avvalorare i beni morali, ma a conservare la figura di Cristo, la sua memoria e la sua presenza. Il dono dei cristiani agli uomini è donare il Signore Gesù, evitando di rinnegarlo. Si proponevano questa missione, quanti, piuttosto che rinnegarlo, preferivano affrontare una morte crudele.
Infatti chi è Gesù? Perché è così prezioso? Egli costituisce il massimo dono di Dio agli uomini, «la verità, la parola santa e incomprensibile», apparsa tra gli uomini ma infusa anche nei loro cuori (Diogneto, 67).
Il regno di Dio si differenzia nettamente da quelli umani poiché Egli non viene per imporre una tirannide, non vuole incutere paura e ottenere degli adoratori forzati. Dio mandò il Figlio «come chi salva, per persuadere, non per fare violenza. A Dio non si addice la violenza. Là mandò per chiamare non per perseguitare» (Diogneto, 69).
Comincia, poi, ad addentrarsi nell’esposizione della fede cristiana. A questo punto emerge una preoccupazione che dovrebbe rimanere fondamentale per chi s’accinge ad intraprendere un’opera di evangelizzazione in qualsiasi epoca. Essa consiste nel far conoscere agli uomini la forza della bontà di Dio e la singolarità del suo amore. Bisogna prendere mosse da questo punto capitale, enuclearlo con precisione, evidenziarlo; solo in seguito si dovrà esporre tutti gli elementi della dottrina cristiana, di per sé piuttosto elaborati, mostrandoli come siano parti essenziali d’un disegno fondamentale, riassumibile nel termine amore di Dio per noi.
«Dopo che la nostra ingiustizia giunse al colmo e fu dimostrato che come risultato spettava il castigo e la morte, venne il tempo che Dio aveva stabilito per manifestare la sua bontà e la sua potenza. Non ci odiò, non ci respinse, non si vendicò» (Diogneto, 73-75). Solo ora l’autore presenta il motivo per il quale i cristiani devono assumersi la responsabilità nei confronti degli altri uomini, quand’anche risultassero malvagi. Essi imitano l’agire di Dio il quale, vedendoci sprofondati nel male, non soltanto ci sopportò ma si addossò i nostri peccati. Egli non si propose solamente di usare pazienza, ma volle modificare realmente la triste situazione degli uomini. Decise allora di mandare il proprio Figlio per farsi carico dei nostri mali e comunicarci i suoi beni divini. Significativo che venga attribuita a Dio la disponibilità ad addossarsi i nostri peccati, un sentimento che, genere, viene assegnato soltanto a Gesù.
Il risultato di tutto questo impegno sarebbe quello di renderci persuasi del suo amore: «Ha voluto che ci fidiamo della sua bontà e lo consideriamo nostro sostentatore, padre, maestro, consigliere, medico, mente, luce, onore, gloria, forza, vita, senza preoccuparsi del vestito e del cibo» (Diogneto, 75).
Dopo avergli fatto conoscere questo progetto, promette a Diogneto un futuro radioso: «Conosciutolo hai idea di quale gioia sarai colmato?» (Diogneto, 77). Egli si assumerà il compito di diventare imitatore della sua bontà. 

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