giovedì 28 febbraio 2019

De Adhaerendo Deo Accostarsi a Dio


La tradizione ha trasmesso una preziosa opera di teologia spirituale attribuita, con riserve, a S. Alberto Magno, dal titolo De Adhaerendo Deo [Testo critico: Albertus Magnus, Opera omnia, ed. Pierre Jammy (Lyon, 1651), vol. XXI (f. p. 1-11)]. Nuova traduzione in lingua italiana: Accostarsi a Dio, una guida pratica, a cura di Alessio Piana, Edizioni Appunti di viaggio, Roma 2017.
Il titolo deriva dalla Sacra Scrittura, soprattutto dai salmi. Traduce la radice ebraica dbq: attaccarsi, aderire. In senso religioso indica la dedizione dell’uomo a Dio: aderire, legarsi, affezionarsi, unirsi, restare fedeli. È un verbo tipico del Deuteronomio e della tradizione deuteronomista (Dt 10,20; 11,22 Gs 22,5 2 Re 18,6) (Cf. L. Alonso Schokel, Dizionario di Ebraico biblico, San Paolo, Milano 2013, 167-168). Cf. anche Sal 63,9: «A te si stringe l’anima mia»; Sal 73,28: «Per me, il mio bene è stare vicino a Dio» (in entrambi i passi, nella versione latina della Volgata, compare il verbo adhaerere).

Il titolo dell’opera si potrebbe tradurre in questo modo: Il dovere di aderire a Dio oppure La necessità di unirsi a Dio. Perché abbiamo questa necessità? L’autore vuole che troviamo la strada per raggiungere la nostra pacificazione. Si muove nell’ambito della convinzione espressa già da S. Agostino: «Signore, ci hai creati per te e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te». L’autore dell’opera è mistico, ossia una persona che ha conosciuto per esperienza ciò che insegna. La sua dottrina è il suo vissuto. Ha sperimentato che l’uomo può unirsi a Dio, trasformarsi in lui fino a diventare un unico spirito, godere della beatitudine «qui nella grazia e lassù nella gloria» (79).



Il cuore della vita di fede


L’autore si rivolge, quindi, a chi brama unirsi a Dio per suggerire in che modo realizzare tale aspirazione: «Il fine della perfezione cristiana è la carità che unisce a Dio» (31). Ecco la preposizione essenziale: solo la carità unisce a Dio. Essa «è la via di Dio agli uomini e degli uomini a Dio… Egli non può dimorare dove non c’è la carità. Chi ha la carità, possiede Dio, perché Dio è carità» (80).
Questa virtù si sviluppa in noi mediante la purezza del cuore: «Fra tutti gli esercizi spirituali, la purezza del cuore occupa il primo posto» (46).
La carità, più che un sentimento, è il modo di essere. La purezza del cuore corrisponde al distacco completo da tutto (46), ed equivale, quindi, a libertà. In altre parole, il cristiano riesce ad amare in modo autentico nella misura con cui vive nel distacco oppure nella libertà. L’Opera poggia su due piloni perché tratta un breve discorso sull’unione con Dio tramite il distacco (31).



Il distacco


Che cos’è? Come si attua? L’esercizio s’impone come indispensabile perché la tendenza dell’uomo è piuttosto quella di lasciarsi trascinare da desideri e da impulsi impetuosi. L’attaccamento provoca come conseguenza la perdita della libertà; anziché dominare i sentimenti e padroneggiare gli eventi, l’uomo si lascia travolgere da essi. «Si disperde e si divide in tante parti quanti sono i suoi desideri» (58). Le persone allora appaiono come travolte da un movimento vorticoso, coinvolte in una corsa senza meta, debilitate da una stanchezza senza riposo (58). Il risultato è la delusione. L’esperienza del disinganno è ben rilevata dalle parole amare di una protagonista di un romanzo di Francesco Biamonti: «La festa, tanto attesa, e che tardava a venire, era passata senza mai cominciare. Anche il dono di sognare era finito» (Le parole La notte, Einaudi, Torino 1998, 65).
Come sfuggire a questo turbinio? Dio ha donato agli uomini i suoi comandamenti proprio perché ottengano la libertà tramite il possesso di sé.
In primo luogo, il distacco si ottiene nell’imparare a vivere in perfetto accordo con la volontà divina. È necessario, allora, osservare i comandamenti ed evitare il peccato, un atto che contrasta con la carità.
È necessario, in seconda istanza, evitare tutto ciò che può smorzare il fervore dell’amore (anche se ciò a cui si accetta di rinunciare, è cosa lecita).
Compare infine un terzo elemento. L’obbedienza a Dio non si esaurisce nell’osservanza dei comandamenti ma richiede l’accettazione umile e pacifica di quanto accade: «Accetta con calma imparzialità qualunque cosa, quale ne sia l’origine, nel silenzio e nella tranquillità, come se ti venisse dalla mano paterna della divina provvidenza» (44; cf. 63).
La sottomissione al volere di Dio, come si scopre nelle evenienze, non è affatto né umiliante né distruttiva, ma al contrario permette di fortificare la persona. Consente anzi di raggiungere l’obiettivo più elevato: «Tale unione di spirito e amore, per la quale l’uomo si conforma in tutto alla volontà eterna e suprema, avviene affinché si diventi per grazia ciò che Dio è per natura» (48).
La pratica del distacco, quindi, supera il semplice valore etico; rappresenta senz’altro un ottimo comportamento ma, nella sua profondità, ottiene come risultato quello di deificare l’uomo, mediante la conformazione a Cristo: «Il cuore, nel tuo intimo, si trasformerà all’istante in Gesù Cristo» (46).
L’uomo (o più precisamente la sua anima) deve tornare ad essere somigliante a Dio come lo era quando era stato da Lui creato. Dio vuole imprimersi in lui come il sigillo nella cera.
Come avviene tale impressione? L’anima è dotata di tre potenze: ragione, volontà e memoria. Il sigillo del divino compare quando la ragione, illuminata, conosce Dio; quando la volontà è mossa soltanto dall’amore, e quando la memoria è assorta nella vita futura. In altri termini, si tratta di vivere raccolti in Dio. Chi viene a stabilirsi in questa condizione, possiede un anticipo della beatitudine e può pensare di aver ottenuto il massimo traguardo che poteva conseguire, la sua stessa perfezione (38-39).
Il contrario del distacco, come ho precisato, è l’essere trascinato dalle bramosie e dalle passioni. Non è necessario pensare a qualcosa di particolarmente grave perché a distoglierci dall’unione con Dio è sufficiente tenere un comportamento leggero e dissipato nel quotidiano: «Ecco perché il diavolo, con sollecitudine, cerca di impedire l’esercizio [del distacco], che considera principio e preludio di vita eterna e di cui è invidioso. Si sforza pertanto di distogliere sempre la mente da Dio, con tentazioni o passioni, con preoccupazioni mutili e affanni confusi, con turbamenti, conversazioni dissolute e irragionevoli curiosità; e ancora con libri futili, con incontri inopportuni, con chiacchiere e novità, con dure prove e avversità, ecc. Queste cose talvolta sono solo peccati lievi, e talora non lo sono affatto, e tuttavia sono sempre di grande impedimento alle azioni e alle opere sante. E perciò, seppure tali attività sembrassero utili o necessarie, piccole o grandi che siano, sono da rigettare come nocive e pericolose, allontanandole dai sensi» (42-43).
Al contrario, anziché disperdersi in pensieri e parole inutili o precipitare a compiere azioni inique, è necessario che l’anima, con tutte le sue potenze, sia raccolta in Dio al punto da formare con Lui un solo spirito (48).
Vediamo ora altri atteggiamenti che ci fanno conoscere bene la strada della libertà. È davvero libero, chi non si lascia più condizionare dal giudizio degli altri, al punto da non notare neppure se é deriso o, al contrario, apprezzato (52), chi non si lascia irretire da qualche amore sensuale verso una persona o qualche altra creatura (53). 



Unione con Dio


La purezza apre l’accesso all’unione con Dio. L’uomo ha la possibilità di diventare un solo spirito con Lui (79) e, vivendo in piena comunione con Lui nella gioia e nell’amore, trovare riposo nel godimento del Creatore (38), al punto che appare possibile nel tempo, proprio in questa vita travagliata, ottenere una caparra o una pregustazione della futura pienezza (57 e 79). L’unione presenta un carattere trinitario in quanto l’unità che è del Padre con il Figlio e del Figlio con il Padre passa anche in noi (84).
Perché l’uomo deve cercare Dio? Una risposta, breve ma completa ed efficace: «Cerca e ama l’unico bene perfetto, nel quale si trovano tutti i beni, e sarà sufficiente… Perciò Giovanni scrive: Questa è la vita eterna che conoscano te (Gv 17,3) e il Salmista: Mi sazierò della tua presenza (Sal 16,15)» (68).
Questa risposta è tuttavia la conclusione di un ragionamento più articolato. In un primo passo è opportuno riconoscere che tutte le cose «in ogni momento hanno bisogno di Dio per esistere, sopravvivere e agire» (65). Osservate nella loro intima essenza sono venute dal nulla, sono circondate dal nulla e ritornano al nulla. Ne consegue che «nessun godimento dell’amore… è più utile, perfetto e beato del sommo e vero bene che si trova in Dio, unico e vero bene» (66). Soltanto Dio è sufficiente a sé, riempie di sé ogni cosa ed «è più presente e più intimo alle cose di quanto esse lo siano a se stesse» (66).
In conclusione: Dio non è visibile ai sensi ma deve essere l’oggetto di tutti i nostri desideri. È inestimabile poiché la sua bontà e perfezione sono infinite (56-57).
Il mezzo più efficace in assoluto per poter raggiungere la perfetta comunione con Dio, come è stato richiamato al principio, è l’amore. Questa qualità offre lo slancio decisivo per superare ogni ostacolo che si frappone tra il nostro desiderio e il traguardo desiderato:  «L’amore non trova riposo che nel bene amato, ossia nel possesso pacifico e completo» (79). «Si dirige con veemenza verso di lui e non trova pace fino a quando non lo ha raggiunto» (80).
Dopo aver parlato del movimento innescato dal sentimento ardente, espone il risultato più completo conseguito dell’amore, che consiste «nell’unire e trasformare l’amante nell’amato e l’amato nell’amante, affinché l’uno diventi l’altro» (80). Come può accadere questo nel nostro rapporto con Dio? In che modo avviene tale trasformazione? Dobbiamo richiamare il ruolo delle potenze dell’anima e, in questo caso, delle facoltà cognitive e di quelle appetitive (o affettive). La facoltà conoscitiva è capace di condurre l’amato nell’amante a motivo «della dolcezza e del piacere con cui l’amato è rievocato nel pensiero dell’amante… come se entrasse dentro di lui» (80-81). La facoltà appetitiva unisce l’un l’altro in due maniere: a motivo della compiacenza e del sentimento d’affetto, pieno di gioia provato dall’amante nei confronti dell’amato ma poi soprattutto poiché induce l’amante a conformare i propri desideri a quelli dell’altro (81). In sintesi, «l’amore porta l’amante fuori di sé e lo conduce nell’amato, facendolo interiormente congiunto a lui» (81).
Il cammino è arduo. Chi cerca Dio deve affrontare molte difficoltà e superare gravi ostacoli (75). Bisogna riconoscere che siamo incapaci d’amore e d’ogni altro bene. Tale constatazione non induce all’avvilimento ma a confidare in Dio e quindi in ogni circostanza dobbiamo ricorrere alla preghiera «in quanto colpevoli, miseri, indigenti, mendicanti, infermi, deboli, sudditi, schiavi, figli» (83). Egli ci eleverà ogni giorno finché ogni comportamento, ogni volontà del cuore diventi una sola e continua preghiera (85).
Evitando la dissipazione, si elimina l’ostacolo vero che impedisce la profondità della preghiera (43). Già nel primo capitolo, A. ricorda che il momento particolare nel quale il credente può sperimentare il raggiungimento dell’unione con Dio è la preghiera personale, intima e silenziosa, perché particolarmente in questa pratica, l’orante «si dilata, s’immerge, si estende, s’infiamma, si dissolve» in se stesso (33), o meglio: «si inabissa, si unisce e resta saldamente congiunto a Dio» (42).




Osservazioni conclusive


La proposta dell’opera si muove all’interno della spiritualità renano-fiamminga ed è, sia pure in modo piuttosto limitato, influenzata dal neoplatonismo. In comune con questo movimento filosofico troviamo il tema dell’ascesa dell’uomo (della mente) a Dio, innescata dal desiderio di Lui (eros). Dio è concepito come Sommo Bene che attrae per la sua bellezza e sazia in modo pieno chi si unisce a Lui; anzi è l’unico che può soddisfare la ricerca di felicità presente, in misura prepotente, in ogni uomo.
Un vantaggio di questa prospettiva teologica sta nel richiamare l’essenziale della ricerca religiosa la quale, per essere autentica, deve proporsi la comunione con Dio, l’adesione a Lui, attraverso un rigoroso esercizio di purificazione. Soltanto l’impegno continuo di conversione e di purificazione rende possibile lo sviluppo del vero amore, la virtù decisiva per attuare l’adesione a Dio. Questo impegno deve essere assunto da ogni credente in modo personale e convinto.
A differenza del neoplatonismo, il Dio, oggetto della ricerca dell’amante, ha un carattere personale. È un Dio con il quale è possibile costruire un dialogo intimo ed aperto. Dio, a differenza dell’Uno, ama gli uomini ed è venuto a cercarli per elevarli a sé. La carità è in primo luogo la forza che ha indotto Dio a scendere per farci salire fino a Lui.
Inoltre la comunione con l’Assoluto è partecipazione alla comunione del Figlio con il Padre. Il credente può deificarsi (divenire per grazia ciò che Dio è per natura, per quanto possibile all’uomo) perché riceve il dono di rendersi conforme a Cristo.
Il De adhaerendo Deo potrebbe essere raggiunto dalle critiche che Soloveitchk rivolge alla mistica nel suo complesso. L’autore, infatti, si mostra interessato a cercare l’appagamento personale, senza nutrire alcuna preoccupazione per il resto della comunità. Che dire a tale proposito? Intanto attribuiamo anche a lui, lo stesso merito che assegniamo a tutta la mistica: i mistici testimoniano, tramite la loro stessa esperienza, che soltanto l’adesione a Dio edifica la persona e le comunica il vero appagamento.
L’autore, tuttavia, non espone quello che definiamo come ritorno agli uomini, testimoniato da molti altri mistici. Questo non significa che non abbia vissuto anche questa dimensione ma certamente non ne parla e ciò rimane una lacuna interna dell’Opera.
Un’altra lacuna è il silenzio circa la pratica sacramentale e liturgica. La ricerca di Dio si muove nell’ambito esclusivamente personale, in totale assenza di un cammino comunitario. In questo caso, pure, vale ciò che ho rilevato sopra, ossia l’autore può averla vissuta, senza poi svilupparla in modo esplicito. È probabile che egli, in sintonia con altri autori spirituali, abbia voluto evidenziare ciò che deve essere considerato come essenziale e imprescindibile in qualsiasi forma e istituzione religiosa, pena la sua falsificazione: «Che cosa conta lo stato, la santità della professione, l’abito della perfezione, la tonsura, una condotta di vita esteriore, senza lo spirito di umiltà e di verità in cui Cristo abita per mezzo della fede nata dalla carità?» (36).
Soltanto l’adesione sincera a Dio grazie al distacco, alla conquista della libertà da se stessi, alla perfetta purificazione di tutto ciò che impedisce la piena comunione con Lui è il vero traguardo di una vita di fede. Aver richiamato ciò, con forza, è il contributo migliore di questo scritto. 

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