giovedì 28 febbraio 2019

La morte di Cristo secondo S. Paolo



Ho detto che c'è una stretta connessione tra la risurrezione e la vita terrena di Gesù, culminante nella sua morte. Ora è opportuno soffermarsi più lungo sulla morte, un evento fondamentale, il vertice della sua vicenda umana: «Proclamare la risurrezione di Gesù non significa altro che annunciare la perenne validità e fecondità salvifica della sua autodonazione sulla croce. Certo sarebbe incompleto anche l’annuncio della Croce senza la Risurrezione. Ma il thesaurus ecclesiae, il capitale a cui attingere sta nella morte di Geù: è alla sua ricchezza che la risurrezione rende semplicemente possibile l’accesso» (R. Penna, Parola Fede…, cit., p. 122).



Obbedienza ed espiazione


 Il punto di partenza è dare valore all’obbedienza di Gesù. Da questo lato Egli è simile agli altri messaggeri di Dio.
I profeti, spesso incontrarono opposizione alla loro predicazione e molti di loro, pur di rimanere fedeli alla loro missione, affrontarono la persecuzione.
Per capire meglio, abbiamo conosciuto magistrati che ritenevano che fosse loro dovere lottare contro la mafia fino al punto da venire uccisi. Qualcuno di loro ha realizzato questo impegno gravoso pensando di eseguire una missione ricevuta.
Gesù rimase fedele alla sua missione anche se i suoi oppositori cercavano di farlo morire, e continuò ad obbedire a Dio Padre. Del resto, aveva accettato, volontariamente, di vivere come un uomo qualsiasi, senza onori, privilegi o protezioni speciali. Era stato toccato dalla sofferenza lungo l'intero corso della sua vita. Non soltanto nella fatica dei viaggi, nella fame o nella sete, ma soprattutto nell'opposizione, nel rifiuto, nel misconoscimento. Tutto questo giunge al culmine con la morte in croce.
Ora dobbiamo abbandonare il discorso sull’obbedienza per riflettere sul concetto di espiazione, più difficile.


La morte di Gesù in croce ha avuto il significato di un'espiazione?
Paolo usa questo termine in un passo delle lettera ai Romani: «È lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue» (Rm 3,25).
Limitiamoci all’essenziale. Paolo afferma: Gesù, donando a Dio tutto se stesso, tutta la sua vita (è questo il significato di sangue), ha ottenuto da Lui il perdono dei nostri peccati. Questa idea non l’ha suggerita Paolo, per primo, ma l’ha ripresa dall’insegnamento della Chiesa, prima di lui. Egli l’ha soltanto ripresa e avvalorata.
Ora dobbiamo chiederci: che significa espiazione? Questa concezione l’ha troviamo espressa nell’Antico Testamento.
In primo luogo si esercita tra le persone: chi ha provocato un danno ad un altro, chiede a lui il perdono e la riconciliazione ma, per ottenere tale risultato, deve essere disposto a risarcire il male provocato.
Lo stesso si applica anche nei rapporti tra l’uomo e Dio. Chi pecca, viene perdonato, se riconosce e ripara in qualche modo il male compiuto. L'Antico Testamento prevedeva varie forme di espiazione. Dio, per generosità, aveva stabilito che il compimento di alcuni gesti rituali servissero per ottenere il suo perdono (Lv 23,26; 2 Cr 29,24). L'uomo non era costretto ad una riparazione totale. Non avrebbe mai potuto risarcire in modo conveniente rispetto alla gravità o alla molteplicità delle sue colpe.
Prevalse, col tempo, la convinzione che il migliore atto di riparazione consistesse nel condurre una vita retta: «Cosa gradita al Signore è tenersi lontano dalla malvagità, sacrificio di espiazione è tenersi lontano dall’ingiustizia» (Sir 35,5). Chi aveva peccato, riparava al male compiuto cercando di vivere un'esistenza più conforme ai comandamenti. L'obbedienza era, quindi, l'espiazione più gradita a Dio.
In questa prospettiva della vita come atto di culto, il sacrificio migliore veniva offerto da chi dava la sua vita a vantaggio degli altri. Così avevano fatto coloro che, all'epoca della rivolta dei Maccabei, combattevano per Israele contro i pagani, in difesa della religione. La morte di chi aveva affrontato la battaglia per salvare gli altri (1 Mac 6,44) o il martirio a difesa della fede (2 Mac 7,37 ss.), venne considerato uno strumento di espiazione a vantaggio di tutto il popolo. Era possibile, quindi, non soltanto riparare i peccati personali ma anche a quelli altrui.
Precisato questo, ritorno al discorso sull’obbedienza che avevo interrotto. L’obbedienza di Gesù fino alla morte aveva avuto un valore d’espiazione, come lo aveva avuto la morte dei martiri. Ho detto che in questo caso, Paolo ribadisce una convinzione già tradizionale.
Ora, proprio per la sua perfetta obbedienza a Dio, Gesù è una totale novità. Diventa così il nuovo Adamo, rappresentante di tutta l'umanità: ciò che ha fatto Lui è come se l’avessimo compiuto tutti noi. Grazie alla sua obbedienza, tutti siamo stati costituiti giusti: «Come per la disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti» (Rm 5,19).
In Cristo, tutta l'umanità offre a Dio un sacrificio dell'obbedienza. Egli ci rappresenta tutti e attraverso il suo dono, tutti ripariamo i nostri peccati. Gesù ha agito a nostro vantaggio (e al posto di tutti noi?): «Noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti» (2 Cor 5,14).


Il concetto d'espiazione rimane, comunque, disagevole. Che cos'ha di tanto inquietante? Il verbo greco usato da Paolo (hilaskomai) può significare anche placare l’ira. Gli antichi offrivano sacrifici per placare le divinità adirate, talora incollerite a tal segno da pretendere, per vendetta, che venisse sacrificata loro una vittima.
Ritenere che Paolo abbia pensato qualcosa del genere sarebbe un totale fraintendimento, un vero rovesciamento del suo messaggio. L'apostolo, infatti, dichiara che è stato Dio a prendere l'iniziativa della riconciliazione e del perdono. Di per sé, nel caso d'un conflitto tra due persone, è sempre l'offensore a dover muoversi per primo per ottenere la riconciliazione. Sarà lui a cercare le modalità per placare l'offeso. Nel caso di Gesù, è vero il contrario. Dio, l'offeso, anziché prendere provvedimenti punitivi o vendicativi, si pone alla ricerca degli uomini che l'odiavano in mondo ingiusto. Si mostra un padre che, per amore del figlio che lo ha bistrattato, vuole ugualmente ristabilire una comunione a vantaggio del figlio.
Chiarito tale equivoco, possiamo affrontare il messaggio paradossale espresso da Paolo in un passo famoso: «… Dio, ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio» (2 Cor 5, 18-21).




Il peso della maledizione


Sperando d’aver chiarito il significato dell’obbedienza di Gesù, avvalorata come dono d’espiazione, guardiamo ora un altro aspetto nel tentativo di comprendere il significato della sua morte.
Noi associamo la croce, in primo luogo, ad un intenso dolore fisico ma per gli uomini del suo tempo era connessa all'infamia. Il suo supplizio suggeriva che l'autorità romana l'avesse catturato e condannato come un criminale. Per gli ebrei, inoltre, quel tipo di condanna veniva letta come una totale sconfessione della missione di Gesù da parte di Dio, come se avesse voluto dare la prova che quel sedicente profeta era in realtà un falso profeta. Chi pendeva da un albero (o da un palo), infatti, era considerato una maledizione. «Se un uomo avrà commesso un delitto degno di morte e tu l’avrai messo a morte e appeso a un albero, il suo cadavere non dovrà rimanere tutta la notte sull’albero, ma lo seppellirai lo stesso giorno, perché l’appeso è una maledizione di Dio e tu non contaminerai il paese che il Signore, tuo Dio, ti dà in eredità (Dt 21, 22-23)».
Certamente Paolo aveva applicato a Gesù questa dichiarazione della Legge e, a suo parere, il testo biblico testimoniava senz’ombra di dubbio che Gesù era un falso Messia e che era stato sconfessato da Dio.
Dopo l'apparizione di Gesù Risorto, Paolo comprese che quella presunta infamia, era in realtà la massima glorificazione. Gesù, nell'incontrare il peggio di quanto può accadere nella vita e nell’immergersi in esso, sperimentò la tenebra più densa, ma proprio lì portò la luce dell'amore, continuando la sua dedizione a Dio e ai fratelli. Non poteva agire in modo più sublime. Sarebbe stato facile fare il profeta o il Messia nell’essere attorniato da folle acclamanti, nel ricevere onore dalle autorità religiose e politiche. Gli altri fondatori religiosi avevano conosciuto il successo ed erano stati riconosciuti da discepoli. Soltanto Gesù morì abbandonato e misconosciuto, in solitudine, mentre la sua missione era apparsa del tutto fallimentare. Dette prova, così facendo, di un amore impensabile, sconosciuto nella storia degli uomini.
Paolo, anziché provare vergogna nell'annunciare un Messia crocifisso, comprese che proprio quell'evento era un massimo punto di forza: «Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso» (1 Cor 2,2).
Era l'attestato sommo dell'amore di Dio per gli uomini: per richiamarli a sé e ad una vita veramente umana, era stato disposto a sacrificare il suo stesso Figlio, l'amato, ad esporlo alla loro reazione. A sua volta, Gesù, pur di insegnarci la verità e farci camminare in essa, in obbedienza al disegno del Padre, aveva accettato di affrontare anche l'orrore.
Quanto Dio aveva compiuto per tutti, lo avrebbe fatto per ognuno di loro. Paolo sentiva d'essere stato amato personalmente da Cristo: «Mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). La nuova religione stava tutta in questo grande punto di forza: qualcuno mi ama in modo straordinario, molto di più di quanto ognuno possa amare se stesso.
La morte del Messia
Paolo era stato molto colpito dalla crocifissione di Gesù e la esponeva in modo molto vivo fino a quasi da farla rivivere ai suoi ascoltatori (Gal 3,1). Questo era una sua particolarità perché in generagli evangelizzatori parlavano della morte di Gesù senza scendere nei particolari; si limitavano a illustrarne il significato salvifico per non trovarsi in grave imbarazzo.
Pensava: se Gesù era Messia, non avrebbe dovuto morire. Gli ebrei ritenevano che se il Messia doveva essere il capo di un popolo di santi, avrebbe dovuto anche essere esente da peccato (Is 60,1: «il tuo popolo, tutti saranno giusti»). Se era senza peccato, non avrebbe neanche dovuto morire perché la morte era considerata una penalità imposta per il peccato. Rimaneva un’unica soluzione: Gesù aveva scelto di morire: «Diede se stesso per i nostri peccati» (Gal 1,4); era «il Figlio di Dio che diede se stesso per me» (Gal 2,20). Per quale motivo? Desiderava che la sua morte fosse a vantaggio dell’umanità, per un atto d’amore.
«Paolo rimase talmente sopraffatto da questa intuizione, che non riusciva a pensare alla morte di Cristo senza volere che anche gli altri apprezzassero la straordinaria profondità e forza dell’amore che essa rivelava… Di qui il suo correttivo all'insegnamento tradizionale. Nelle sue lettere egli cita due inni liturgici. Uno dei due dice: «Si umiliò facendosi obbediente fino alla morte», e Paolo aggiunge: «e alla morte in croce» (Filippesi 2,8). L'altro inno parla di Dio che riconcilia a sé tutti gli esseri per mezzo di Cristo, e Paolo interpreta precisando: «facendo la pace mediante il sangue della sua croce» (Colossesi 1,20)… Per Paolo era di grande importanza che la gente da lui convertita conoscesse quello che Gesù aveva detto e fatto, e così egli lo trasmetteva loro nella sua predicazione orale (2 Corinzi 11,4). Ma in ultima analisi non era questo a rendere unico Gesù… Per Paolo, il fatto che Gesù avesse avuto la possibilità di scegliere se morire o meno lo distingueva da tutti gli altri, per i quali la morte era inevitabile. Per questo la morte di Gesù divenne la chiave che schiudeva il senso della sua vita. Essa rivelò a Paolo che quello che rende una persona autenticamente umana è l’amore che sacrifica se stesso, così come mostrato da Cristo. Ed egli voleva che i suoi lettori prendessero a cuore soprattutto questo» (J. Murphy O’Connor, Paolo…, p. 56).

da Vincenzo Bonato 
INTRODUZIONE AL PENSIERO DI PAOLO
Ancora Milano 2018, pp. 31- 43

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