venerdì 8 marzo 2019

Lettera ai Romani 6-8


6. L’esperienza della libertà


Paolo, dopo aver parlato dell’evento della giustificazione, affronta un nuovo argomento basilare: descrivere la nuova situazione in cui si trova il battezzato (capp. 6-8). È possibile porre al centro del suo messaggio l’esperienza della libertà.


1. Libertà dal peccato


La prima caratteristica della situazione nuova in cui si trova il credente giustificato, consiste nella volontà e nella reale capacità di eliminare il peccato dalla propria esistenza. «Che diremo dunque? Rimaniamo nel peccato perché abbondi la grazia? È assurdo!» (6,1-2).
Non tutti avevano compreso il messaggio del perdono gratuito concesso da Dio e attribuivano all'apostolo Paolo questa convinzione: se Dio viene incontro all'uomo peccatore e riversa la sua grazia proprio là dove domina il male, allora è più conveniente perseverare nel peccato e sprofondare ancora più in basso, perché in questo caso potremmo sperimentare ancora meglio la benevolenza di Dio. Il fraintendimento non avrebbe potuto essere più totale. In realtà il volere di Dio è quello di perdonare l'uomo perché questi rifiuti il male e cominci a comportarsi da persona retta. Dio è paziente con l'uomo ma rifiuta nettamente il suo peccato; vuole rimetterci in piedi e renderci giusti. Era questo il suo vero messaggio.
Ora il credente che ha creduto al Signore e si è fatto battezzare, non si trova nella medesima situazione precedente all'evento del perdono e della giustificazione. Gode di un grande vantaggio e di un grande aiuto. Quale? Cristo, la santità e la rettitudine in persona, si unisce al cristiano, diventa una cosa sola con lui e lo rende partecipe di ciò che Egli è. Lo rende partecipe della sua Pasqua.


O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati intimamente uniti a lui a somiglianza della sua morte, lo saremo anche a somiglianza della sua risurrezione. Lo sappiamo: l’uomo vecchio che è in noi è stato crocifisso con lui, affinché fosse reso inefficace questo corpo di peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato. Infatti chi è morto, è liberato dal peccato (Rm 6,3-7).

Cristo Risorto comunica al battezzato la sua stessa vita e questa nuova energia fa morire in lui il peccato. Sulla croce, ottenendo il perdono di Dio Padre ed espiando le nostre colpe, ha fatto morire il nostro peccato e così il nostro uomo vecchio è morto in quel momento insieme con lui. Ha ottenuto così per noi anche la libertà. Infatti chi è morto, è liberato dal peccato. Comincia in noi una vita nuova che si espanderà fino alla partecipazione alla condizione gloriosa di Cristo Risorto.
«Quello che per Cristo fu la croce e il sepolcro, è stato per noi il battesimo, anche se non in ordine alle stesse cose: Cristo infatti morì e fu sepolto nella carne, noi invece al peccato. Per questo non disse: “Siamo stati completamente uniti a lui nella morte”, ma “con una morte simile alla sua” (6,5). Si tratta di morte in ambedue i casi, ma diverso è il soggetto: quella di Cristo è morte della carne, la nostra invece è morte del peccato. Com'è vera quella, è vera anche questa. Ma pur essendo vera, occorre che noi da parte nostra vi cooperiamo» (Crisost., CLR, 10,4).
Vivere il battesimo significa continuare a proporci un impegno di conversione. «Non pensare che il rinnovamento della vita, che si dice avvenuto una sola volta, sia sufficiente; ma continuamente ogni giorno bisogna fare nuova, se si può dire, la stessa novità. Come infatti l'uomo vecchio continua ad invecchiare e di giorno in giorno si fa più senescente, così anche questo nuovo continua a rinnovarsi e non c'è mai un tempo in cui il suo rinnovamento non si accresca. Camminiamo in novità di vita, mostrandoci ogni giorno nuovi a colui che ci risuscitò con Cristo, e per così dire più belli, cercando in Cristo come in uno specchio la bellezza del nostro volto e, contemplandovi la gloria del Signore, trasformiamoci nella sua stessa immagine, poiché Cristo risorgendo dai morti dalle bassezze terrene è asceso alla gloria della maestà del Padre» (Orig., CLR/1, p. 284).

Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, sapendo che Cristo, risorto dai morti, non muore più; la morte non ha più potere su di lui. Infatti egli morì, e morì per il peccato una volta per tutte; ora invece vive, e vive per Dio. Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù (6,8-11).

La resurrezione non è un ritorno a questa vita ma un passaggio definitivo dalla condizione terrena a quella gloriosa: Il Risorto non può più morire. A nostra volta, possiamo rimanere in maniera definitiva in questa situazione di grazia che ci è stata donata. «Se siamo stati sepolti con Cristo, anche noi risorgeremo insieme con lui; e poiché lui ascende al cielo, noi ascenderemo insieme con lui; e poiché egli siede alla destra del Padre, si dirà che anche noi sediamo nelle regioni celesti insieme con lui (cfr. Ef 2,6)» (Orig., CLR/1, p. 284). «Fino a che siamo nella vita presente, posti nella carne, non possiamo essere puri in maniera limpida, fino a che non viene il giorno ottavo, cioè non giunge il tempo del secolo futuro» (Orig., Omelie sul Levitico, 8,4, Città Nuova, Roma 1985, p. 182).
«Dopo averci posto innanzi la risurrezione futura, esige da noi un'altra risurrezione, una nuova impostazione della vita presente che sia conseguenza di una conversione dei costumi. Quando infatti chi è dissoluto diventa casto, chi è avaro generoso, chi è violento mite, avviene una risurrezione che è un’anticipazione di quella futura. E di quale risurrezione si tratta? Morto il peccato, risorge la giustizia che prima era distrutta» (Crisost., CLR 10,4).


Conseguenze del battesimo


Il peccato dunque non regni più nel vostro corpo mortale, così da sottomettervi ai suoi desideri. Non offrite al peccato le vostre membra come strumenti di ingiustizia, ma offrite voi stessi a Dio come viventi, ritornati dai morti, e le vostre membra a Dio come strumenti di giustizia. Il peccato infatti non dominerà su di voi, perché non siete sotto la Legge, ma sotto la grazia (Rm 6,12-14).

Chi ha compreso il messaggio del Vangelo e lo ha accolto in verità, deve sentirsi impegnato a rifiutare il peccato. Il credente diventa un sacerdote che offre se stesso a Dio, spinto dalla riconoscenza. Il suo massimo impegno è quello di rimanere nella libertà e il dono ricevuto deve tramutarsi in compito di grande responsabilità. «Questo dunque è ciò che l'apostolo insegna nel passo presente: ciascuno ha in suo potere e dipende dalla sua volontà l'essere servo o del peccato o della giustizia. Verso qualunque partito infatti egli ha rivolto l'obbedienza e a qualunque partito egli ha voluto essere sottoposto, questo lo reclama come suo servo. E in tale passo, come ho detto, senza alcuna esitazione Paolo dimostra che in noi c'è la libertà dell'arbitrio. Sta in noi, infatti, offrire la nostra obbedienza o alla giustizia o al peccato. “Nessuno” però “può servire nello stesso tempo a due padroni”, al peccato e alla giustizia. Giacché o avrà in odio uno, appunto il peccato, e amerà l'altro, cioè la giustizia, o tollererà uno, ossia naturalmente il peccato, e disprezzerà l'altro» (Orig., CLR/1, p. 308).
Che dunque? Ci metteremo a peccare perché non siamo sotto la Legge, ma sotto la grazia? È assurdo! Non sapete che, se vi mettete a servizio di qualcuno come schiavi per obbedirgli, siete schiavi di colui al quale obbedite: sia del peccato che porta alla morte, sia dell’obbedienza che conduce alla giustizia? Rendiamo grazie a Dio, perché eravate schiavi del peccato, ma avete obbedito di cuore a quella forma di insegnamento alla quale siete stati affidati. Così, liberati dal peccato, siete stati resi schiavi della giustizia (6,15-18).

La vita cristiana non è più sotto la legge. Che significa? Non consiste più nel tentativo di osservare con le nostre forze una legge che ci appare estranea, troppo difficile da attuare, oppressiva, mentre continuiamo a verificare le nostre mancanze. Ora siamo alimentati e sostenuti dalla Grazia (cioè dallo Spirito Santo). Essa deve dominarci e noi dobbiamo accogliere il suo giogo soave.
«Avete obbedito di cuore a quella forma di insegnamento alla quale siete stati affidati» (v.18). A questo riguardo, precisa Origene: «Si può ricercare che cosa ci liberi dal peccato. Senza dubbio, la conoscenza della verità. Così infatti diceva Gesù ai Giudei che gli avevano creduto: “Se avete creduto alla mia parola, conoscerete la verità, e la verità vi libererà” (Gv 8,31). A liberare dal peccato, dunque, sono la verità e la conoscenza della verità» (Orig., CLR/1, p. 311). Vediamo ora le conseguenze della nostra decisione.

Parlo un linguaggio umano a causa della vostra debolezza. Come infatti avete messo le vostre membra a servizio dell’impurità e dell’iniquità, per l’iniquità, così ora mettete le vostre membra a servizio della giustizia, per la santificazione. Quando infatti eravate schiavi del peccato, eravate liberi nei riguardi della giustizia. Ma quale frutto raccoglievate allora da cose di cui ora vi vergognate? Il loro traguardo infatti è la morte. Ora invece, liberati dal peccato e fatti servi di Dio, raccogliete il frutto per la vostra santificazione e come traguardo avete la vita eterna. Perché il salario del peccato è la morte; ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù, nostro Signore (6,19-23).

Un tempo dovevamo arrossire di noi stessi e delle nostre azioni. Chi, pentito del suo passato, si è lasciato battezzare, ha cominciato a superare se stesso. Non dice soltanto: quante cose sbagliate ho fatto! Ma piuttosto: come ero povero e meschino! Non bisogna tornare indietro per essere corrosi dal nostro male.
Noi veniamo molestati di frequente dai pensieri che provengono dai nostri cattivi desideri, come gli egiziani erano stati molestati da un’invasione di rane. Soltanto Mosé poté liberarli, come ora soltanto Gesù Crocifisso ci preserva dall’impeto del desiderio scomposto: «Mosè con il gesto delle mani distese, fece scomparire le rane anche dalle case degli Egiziani. Ci è possibile osservare anche oggigiorno questo fatto. Chi tiene fissi gli occhi sopra di lui [il Cristo], viene liberato dall’odiosa compagnia di pensieri luridi e impuri, così che la passione finisce per morire e imputridire. Il ricordo del passato causa un disgusto insopportabile in quelli che, con la mortificazione dei moti disordinati dell’anima, si sono liberati dal male. L’Apostolo, quando accenna a coloro che hanno abbandonato le vie del male per seguire la strada della virtù, dice appunto che essi sentono vergogna del loro passato: “Quale frutto avevate allora nelle cose di cui ora vi vergognate?”» (Rm 6,21) (Gregorio di Nissa, Vita di Mosé, II, 78, cf. tr. Simonetti p. 103)».
Mentre il salario del peccato è la morte, il dono ultimo di Dio è la vita eterna; la grazia attuale ci conduce ad essa: «Vi parla dei beni già concessi a voi da Dio e di quelli che sono oggetto di speranza; ricordando i primi, li rassicura sul fatto che riceveranno anche gli altri: mediante la santificazione, riceverete la vita. Perché non pensiate che dovete soltanto sperare, senza mai vedere, vi ricorda i beni che avete già ricevuto: la libertà dalle opere cattive al cui ricordo ancora arrossite, l’adesione alla giustizia, la santificazione, la gioia della santificazione e il possesso della vita, non di quella passeggera ma di quella eterna. Non parla di ricompensa per le nostre opere buone, ma di grazia. In questo si vede la qualità del dono, non soltanto Dio li ha liberati senza alcun loro merito, ma donerà loro dei beni considerevoli per opera del Figlio suo» (Crisost., CLR 12,2).



2. Libertà dalla legge


La prima liberazione riguarda il peccato, mentre la seconda è in relazione con la Legge: «Siamo stati liberati dalla Legge per servire secondo lo Spirito» (Rm 7,6). Libertà dalla Legge! È un’espressione forte, estrema, per parlare, in realtà, della nostra incapacità a vivere in conformità alla Legge, a comportarci secondo l’insegnamento datoci da Dio. Soltanto Lui, con la sua grazia, ci può rendere capaci di pensare e vivere in sintonia con Lui e la grazia sta ad indicare la forza dello Spirito Santo.

Quando infatti eravamo nella debolezza della carne, le passioni peccaminose, stimolate dalla Legge, si scatenavano nelle nostre membra al fine di portare frutti per la morte. Ora invece, morti a ciò che ci teneva prigionieri, siamo stati liberati dalla Legge per servire secondo lo Spirito. Che diremo dunque? Che la Legge è peccato? No, certamente! Però io non ho conosciuto il peccato se non mediante la Legge. Infatti non avrei conosciuto la concupiscenza, se la Legge non avesse detto: Non desiderare. Ma, presa l’occasione, il peccato scatenò in me, mediante il comandamento, ogni sorta di desideri. Il comandamento, che doveva servire per la vita, è divenuto per me motivo di morte. Il peccato infatti, presa l’occasione, mediante il comandamento mi ha sedotto e per mezzo di esso mi ha dato la morte. Così la Legge è santa, e santo, giusto e buono è il comandamento. Ciò che è bene allora è diventato morte per me? No davvero! Ma il peccato, per rivelarsi peccato, mi ha dato la morte servendosi di ciò che è bene, perché il peccato risultasse oltre misura peccaminoso per mezzo del comandamento (7,5-13).

Dio aveva concesso un dono grandissimo – la sua rivelazione e il suo insegnamento – a uomini che si sono mostrati incapaci di apprezzarlo e ad accoglierlo. I comandi di Dio, più che farci riflettere e stimolarci alla fiducia in Lui, hanno stimolato il fascino del proibito e l’istinto di ribellione. «Il comandamento, che doveva servire per la vita, è divenuto per me motivo di morte» (Rm 7,11). L’elenco dei comandamenti, anziché essere una serie di proponimenti incisivi o di conquiste morali, diventa un elenco delle trasgressioni e dei fallimenti che manifestano, con maggior evidenza, l’inconsistenza morale dell’uomo. Più ci proponiamo ideali elevati, più ci dimostriamo, in realtà, deboli e incoerenti. «Facendomi conoscere il peccato la legge mi rende responsabile. Tutto questo è verissimo ed è già stato detto, ma non tutto è negativo. Costringere il peccato a mostrarsi per quello che è, col suo volto peccaminoso, non è negativo. Come non è del tutto negativo che la legge mostri la sua impotenza, facendomi conoscere il bene senza darmi la forza di compierlo. Conoscere senza potere è una situazione certamente drammatica, forse più drammatica della semplice non conoscenza. Ma è proprio così che l'uomo prende consapevolezza di essere prigioniero del peccato e dell'insufficienza della legge. Una consapevolezza, questa, assolutamente necessaria per aprirsi alla grazia. Dunque, almeno sotto questi aspetti, la legge svolge un ruolo che può dirsi positivo» (Maggioni.., p. 94).
Nel seguito del discorso, l’apostolo cerca di essere ancora più preciso nella descrizione della pesantezza della nostra situazione, non per indurci al disprezzo di noi stessi o allo sconforto ma alla fiducia in Dio, finché ci lasciamo aiutare da Lui.

Sappiamo infatti che la Legge è spirituale, mentre io sono carnale, venduto come schiavo del peccato. Non riesco a capire ciò che faccio: infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto. Ora, se faccio quello che non voglio, riconosco che la Legge è buona; quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene: in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Dunque io trovo in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti nel mio intimo acconsento alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che combatte contro la legge della mia ragione e mi rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra. Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore! Io dunque, con la mia ragione, servo la legge di Dio, con la mia carne invece la legge del peccato (Rm 7,14-25).

L’uomo vive nel contrasto: «Non faccio ciò che voglio, ma ciò che non voglio» (7,15). La constatazione deve spronarci ad aprirci all’aiuto di Dio che si è messo e si mette completamente a nostra disposizione. Quando Paolo parla di corpo di morte non si riferisce alla nostra fisicità corporea ma alla nostra persona umana concreta, la quale, ricadendo negli stessi errori, provoca la morte a se stessa. All’interno di questa visione funerea, risplende, però, una luce di speranza: «Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!» (7,25).
«Non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio». Origene pensa che questo rilievo non valga soltanto per l’uomo ancora dominato dal peccato ma, almeno in parte, anche per chi ha cominciato a convertirsi e vuole vivere come discepolo del Signore. «[Il principiante] si sforza un po' di resistere ai vizi, sotto lo stimolo, ovviamente, della legge naturale, ma viene vinto da essi e sopraffatto senza volerlo: come spesso capita, per esempio, quando uno si propone di sopportare con pazienza chi lo aizza, ma alla fine è vinto dall'ira e, pur non volendo, diviene vittima di tale situazione: si adira dunque, anche quando non vuole adirarsi. Chi non è ancora spirituale viene dunque sopraffatto, in queste singole circostanze, anche contro la propria volontà» (Orig., CLR/1, p. 339).
«L'apostolo, non voleva che qualcuno si vergognasse di ciò che sentiva accadere dentro di sé. Non voleva che qualcuno di noi perdesse ogni speranza nel rendersi conto che, pur convertitosi al Signore e trasformata ormai la volontà, tuttavia tali moti si agitano ancora nel suo interno. Nessuno si vergogni della natura del corpo né perda la speranza nei confronti della conversione né ignori la moltitudine dei propri mali dai quali è liberato per la grazia di Cristo» (Orig., CLR/1, p. 344).



3. Libertà nello Spirito


Ci troviamo ancora all’interno del discorso nel quale si cerca di stabilire in che modo si attui nel credente la giustificazione per grazia ottenuta dalla morte del Sigore. Abbiamo ascoltanto l’annuncio che ci vuole rendere consapevoli di due forme di libertà, quella dal peccato e quella dalla legge. In questa parte, l’Apostolo parla invece di libertà al positivo come la capacità di vivere nel bene, da figli di Dio. Il protagonista ora è lo Spirito Santo, che riproduce in noi la somiglianza con Cristo.

Comincia l’esposizione del messaggio, evidenziando come il cristiano ora, ossia dopo la vicenda di Gesù, non si trova più nel rischio di essere condannato.

Ora, dunque, non c’è nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù.
La legge può condannare un peccato, soltanto condannando insieme anche il peccatore; per condannare un atto criminoso, deve punire l'autore del crimine. È impossibile condannare un furto, senza colpire il ladro. Cristo è venuto nel mondo per condannare il peccato ma salvando l'uomo peccatore. In che modo ha potuto fare questo? Espiando sulla croce il peccato dell'umanità e mettendoci in grado di vivere da uomini giusti, obbedienti ai comandamenti di Dio.
L’obbedienza ora è possibile perché abbiamo ricevuto lo Spirito Santo: «La legge dello Spirito, che dà vita in Cristo Gesù, ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte» (2,2). La legge dello Spirito è lo Spirito Santo in noi che ci libera dal peccato e così ci impedisce di condurre un’esistenza tipica di un “morto vivente”.
Nel passato Dio aveva donato la sua Legge agli uomini per renderli santi ma questo dono non realizzò il suo scopo. Noi restammo deboli e incapaci. L’unico uomo giusto è stato Gesù che ha vissuto in una carne “simile a quella del peccato” senza, però, cadere nella colpa. Ha vissuto da uomo integro, vivendo un’esistenza umana completa perché colmata dall’amore.

Infatti ciò che era impossibile alla Legge, resa impotente a causa della carne, Dio lo ha reso possibile: mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e a motivo del peccato, egli ha condannato il peccato nella carne, perché la giustizia della Legge fosse compiuta in noi, che camminiamo non secondo la carne ma secondo lo Spirito (8,1-4).

La santità di Gesù si è formata in situazioni umane molto concrete, anche drammatiche. L’esempio più chiaro lo troviamo nella sua disponibilità all’obbedienza nel corso della sua passione; lo testimonia l’episodio della preghiera al Getsemani, quando Gesù dice: Padre, se è possibile, passi da me questo calice (Mt 26,39). In quel momento «Egli usa la voce della nostra natura e si adegua alla fragilità e alla trepidazione umana affinché, nelle tribolazioni da sopportare, la pazienza si rafforzi e il timore si allontani. Poi passò a un altro stato d'animo. Disse: Se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà (Mt 26,42)» (Leone Magno, Discorsi, 45, 4-5). L’esitazione diventa totale disponibilità ed ora egli ci rende partecipi della sua vittoria: «Queste parole del capo sono la salvezza di tutto il corpo; queste parole sono state d'insegnamento per tutti i credenti, hanno infiammato tutti i confessori, hanno coronato tutti i martiri. Chi infatti potrebbe vincere l'odio del mondo, le tempeste delle tentazioni, la paura dei persecutori se Cristo in tutti e a favore di tutti non dicesse al Padre: Sia fatta la tua volontà» (ivi). Cristo che è presente in noi, vince in noi. In lui riacquistiamo la nostra dignità. «Chi non sa che solo Cristo ha riportato la vittoria contro il maligno, lui il cui corpo si erge quale unico trofeo contro il peccato? Con il suo corpo ha patito e vinto [e con il suo corpo eucaristico] soccorre i fedeli che stanno ancora lottando. La carne non aveva nulla in comune con la vita spirituale ed anzi l’odiava e combatteva assai ma proprio per questo fu pensata una carne [santa] contro la carne [corrotta]. Nessuno, in assoluto, poteva vivere la vita spirituale, finché non era formata la carne santa del Cristo» (Nicola Cabasilas, La vita in Cristo… p. 217).


La guida dello Spirito Santo


Ci vengono presentate, allora, due situazioni possibili; sono due visioni teologiche e non descrizioni di situazioni concrete: vivere secondo la carne o vivere secondo lo Spirito. Vivere secondo la carne significa restare schiavi dell'egoismo e di conseguenza camminare verso la morte; mentre vivere secondo lo spirito è cominciare a camminare nell'amore, ottenendo abbondanza di vita e di pace, in comunione profonda con Dio.

«Quelli infatti che vivono secondo la carne, tendono verso ciò che è carnale; quelli invece che vivono secondo lo Spirito, tendono verso ciò che è spirituale. Ora, la carne tende alla morte, mentre lo Spirito tende alla vita e alla pace. Ciò a cui tende la carne è contrario a Dio, perché non si sottomette alla legge di Dio, e neanche lo potrebbe. Quelli che si fanno dominare dalla carne non possono piacere a Dio. Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. Ora, se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto per il peccato, ma lo Spirito è vita per la giustizia» (8,7-9).

Il cristiano è ormai in grado di vivere secondo lo Spirito. Lo Spirito di Dio viene denominato anche Spirito di Cristo. Il cristiano «che è abitato dallo Spirito di Dio, ha lo Spirito di Cristo, si trova cioè nella situazione stessa del Figlio incarnato, il cui respiro era lo Spirito stesso di Dio» (Attinger… p. 159).
Ricevere lo Spirito è la stessa cosa che avere Cristo dentro di noi, come nostro maestro, guida, e come nostra vita. Con queste affermazioni Paolo non vuole descrivere i cristiani quali sono concretamente, nel loro quotidiano, ma porre le motivazioni per sollecitare il nostro impegno etico. Ci avverte di una possibilità reale che abbiamo ma che dobbiamo anche conquistare.
Lo Spirito Santo ci fa avanzare fino a renderci capaci di oltrepassare i nostri limiti nei quali ci siamo chiusi, a valicare le frontiere che sono costituite dalle ribellioni che la carne solleva naturalmente contro lo spirito. Il credente «deve andare oltre queste frontiere, superando le difficoltà e abbattendo con la forza e la determinazione dello spirito tutti gli appetiti sensuali e le affezioni naturali. Finché questi persisteranno in lui, lo spirito sarà talmente soggiogato da non poter andare avanti verso la vera vita e la gioia dello Spirito. Tutto questo ci fa ben comprendere Paolo quando afferma: Se con l’aiuto dello Spirito voi fate morire le opere della carne, vivrete (Rm 8,13). Questo dunque è l’atteggiamento che l’uomo fedele ritiene opportuno adottare lungo il cammino di ricerca del suo Amato» (Giovanni della Croce, Cantico… p. 544). «Si può provare anche così che uno abbia in sé lo spirito di Cristo. Cristo è sapienza: se uno è sapiente secondo Cristo e ha il gusto delle cose di Cristo, costui ha in sé, per mezzo della sapienza, lo spirito di Cristo. Cristo è giustizia: se uno ha in sé la giustizia di Cristo, per mezzo della giustizia ha in sé lo spirito di Cristo. Cristo è pace: se uno ha in sé la pace di Cristo, per mezzo dello spirito di pace ha in sé lo spirito di Cristo. Così anche chi ha in sé ogni singola realtà che Cristo viene detto essere, di costui occorre credere che abbia in sé lo spirito di Cristo e speri che il suo corpo mortale sarà vivificato a motivo dello spirito di Cristo che abita in lui» (Orig., CLR/1, pp. 357-358).
L’apostolo ci chiede di diventare anche nello stile di vita, quindi in concreto, ciò che siamo diventati in anticipo, per puro dono di Dio; ci chiede di restare all'altezza della nostra dignità. In che modo, mediante lo Spirito, possiamo far morire le opere del corpo (cioè della nostra persona concreta, condizionata dall’egoismo)? Origene ci offre queste esemplificazioni: «Uno mortifica le azioni della carne nel seguente modo: la carità è frutto dello Spirito, l’odio è azione della carne: l’odio dunque viene mortificato e si estingue per mezzo della carità. Ugualmente la gioia è frutto dello spirito Santo, mentre la tristezza di questo mondo, la quale provoca la morte, è azione della carne: questa pertanto si estingue se vi è in noi la gioia dello Spirito Santo. La pace è frutto dello spirito, la divisione e la discordia sono azioni della carne: è però certo che la discordia può essere mortificata per mezzo della pace. Così anche la pazienza dello spirito estingue l'impazienza della carne, la bontà rende vana la malizia, la mansuetudine spegne la ferocia, e chi, grazie allo Spirito, con questo procedimento avrà mortificato le azioni della carne, vivrà» (Orig., CLR/1, p. 359).
E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi (8,11).
Lo Spirito al presente ci aiuta a vivere secondo Cristo e nel futuro ci renderà partecipi della sua risurrezione. La risurrezione, in Gesù e in noi, è sempre un’azione propria dello Spirito di Dio e della sua potenza. «La vita in Cristo prende inizio e si sviluppa nell'esistenza presente, ma sarà perfetta soltanto in quella futura, quando giungeremo a quel giorno: l’esistenza presente non può stabilire perfettamente la vita in Cristo nell’uomo; ma nemmeno lo può quella futura, se non incomincia qui» (Nicola Cabasilas, La vita in Cristo…, p. 63).


Figli di Dio ed eredi


Ora noi, gli uomini perdonati, giustificati, partecipi dello spirito Santo, siamo diventati figli adottivi di Dio. Non significa essere figli di secondo rango, ma figli reali, diventati tali per puro dono. Adozione significa che siamo figli per grazia, e non di diritto.
Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!». Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria (8,12-17).
Essere figli non corrisponde soltanto ad essere creature, ad essere stati creati e quindi amati da Dio, ma partecipare alla vita di Cristo Gesù, l'Unico Figlio amato da Dio, che si rivolge a lui chiamandolo “Abbà”. Per diventare figli sono allora necessarie la fede che ci rende possibile condividere lo stile di Gesù e la partecipazione allo Spirito Santo. Inoltre siamo eredi di Dio e coeredi di Cristo perché parteciperemo alla gloria stessa di Dio, in unione con il Cristo risorto. Parteciperemo alla gloria sua, come ora già partecipiamo alla sua sofferenza (“se davvero” non indica una condizione ma una semplice constatazione: “come anche ora già”).
In un primo tempo cominciano a rapportarci con Dio come servi che obbediscono per paura della punizione; poi ci poniamo in relazione con Lui come dei mercenari, desiderosi di ottenere compensi e protezione, e soltanto a maturazione acquisita, agiamo da figli, in spirito d’amore gratuito. «È vero che alcuni si salvano per paura: sono quelli che decidono di staccarsi dal male perché si sentono minacciati dal supplizio della Geenna. Altri ancora divengono virtuosi perché sperano di ottenere il premio riservato alle persone rette; questi, si impegnano non per amore del bene ma per l'attesa della ricompensa. Chi, invece, si propone di giungere presto alla perfezione, prima di tutto allontana la paura (lasciarsi prendere da essa è da schiavi: non ci consente di avvicinarci al Signore amichevolmente né ci libera dall'angoscia della punizione) ma poi si disinteressa anche della ricompensa poiché non sarebbe capace di stimare il dono più del Donatore» (Gregorio di Nissa, Commento al Cantico dei Cantici… p. 32).
L'uomo, divenuto vero figlio di Dio con una completa conversione, «è condotto in tutto dallo Spirito di Dio in questi termini: “Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio” (Rm 8,14). Così, dunque, come ho detto, l'intelletto di quest’uomo è intelletto di Dio; la sua volontà è volontà di Dio; la sua memoria è memoria eterna di Dio; le sue delizie, delizie di Dio. La sostanza di quest'anima non è sostanza di Dio, perché non può trasformarsi sostanzialmente in lui. Tuttavia, siccome è unita a Dio e assorbita in lui, è Dio per partecipazione. In questo modo l’uomo è morta a tutto ciò che era in sé, che per lui era morte, e vive quindi della vita di Dio in sé» (Giovanni della Croce, Fiamma d’amor viva B 2,34, in Opere… p. 804).
Siamo diventati per grazia eredi di Dio, coeredi di Cristo. «Uno diventa erede di Dio quando merita di ricevere le cose che sono di Dio, cioè la gloria della incorruttibilità e della immortalità, i tesori nascosti della sapienza e della scienza, e diventa coerede di Cristo quando egli trasformerà il corpo della nostra umiliazione rendendolo conforme al corpo della sua gloria, e anche quando avrà meritato di conseguire ciò che il Salvatore stesso dice: “Padre, io voglio che dove sono io, vi siano anche questi con me”» (Orig., CLR/1, p. 365).

L’attesa della creazione

Ritengo infatti che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi. L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio. La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Nella speranza infatti siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se è visto, non è più oggetto di speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe sperarlo? Ma, se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza (8,18-25).
Riguardo alla creazione del mondo, il giudaismo aveva pensato molteplici forme di mediazione, attraverso le quali Dio avrebbe creato il mondo (Sapienza, Logos, Torah); tutte erano soltanto nelle personificazioni di attributi divini o di altro. Invece, nell’insegnamento di Paolo, l'unico mediatore è il Signore Gesù Cristo, una persona reale, e quindi nell'opera della creazione interviene un altro fattore che non è identico né con Dio né con le personificazioni giudaiche (cfr. 1 Cor 8,6b). Inoltre Cristo viene proclamato come colui che unifica e rende coeso l'universo intero (Col 1,16 a17b); può fare questo in base alla sua dignità divina, della quale è in possesso prima della sua missione sulla terra.
Ora, in questo passo, l'apostolo non parla soltanto del destino dei nostri corpi mortali, ma della creazione intera, all'interno della quale avviene anche la redenzione del nostro corpo personale. L'interesse dell’Apostolo si allarga così a tutto il cosmo nel quale siano inseriti ed afferma che la creazione è associata al destino dell'uomo. Egli annuncia una liberazione dalla corruzione. Lo fa in base alla fede nella risurrezione di Cristo, come appare dal contesto (vv.11 e 29). La redenzione del creato coinvolge tutte le creature, compreso l’uomo e, in modo particolare, il cristiano.
La novità di vita si fa avvertire già nell’esistenza presente del cristiano. La fede cristiana, assieme a quella ebraica, attende un compimento escatologico ma già da ora il cristiano sa che Cristo conferisce la vita nuova al battezzato. La vera svolta epocale consiste nell'essere trovati in lui (Fil 3,9) perché soltanto chi è in Cristo, può essere davvero nuova creatura (2 Cor 5,17) (cfr. R. Penna, Parola Fede… pp. 200. 254-259).

Preghiera e conformazione a Cristo

Nella vita troviamo anche molte difficoltà ma Dio viene in nostro aiuto e sperimentiamo la sua assistenza soprattutto nella preghiera. La nostra invocazione, soprattutto quando prorompe dal cuore mentre siamo in grande difficoltà, può non essere buona. Come fa un qualsiasi padre responsabile, Dio ci deve interpretare, operare un discernimento del nostro linguaggio e delle nostre intenzioni. Deve poi elevare la nostra preghiera in modo che essa diventi davvero un’espressione della nostra dignità di figli. Il grido del nostro cuore non viene respinto ma salvato e nobilitato dallo Spirito santo.
Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio. Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinato, li ha anche chiamati; quelli che ha chiamato, li ha anche giustificati; quelli che ha giustificato, li ha anche glorificati (8,26-30).
«In Dio si trova un sentimento di compassione per le nostre lotte e lo Spirito stesso aiuta la nostra debolezza. Noi non sappiamo che cosa sia opportuno domandare a Dio. Talvolta, spinti dalla debolezza, desideriamo ciò che è contrario alla salvezza. Come uno che è malato non chiede al medico ciò che è confacente alla guarigione, ma piuttosto ciò che gli ha suggerito il desiderio provocato dalla sua malattia, così anche noi a volte chiediamo a Dio ciò che non ci giova. Io stesso, Paolo, che vi dico queste cose, quando mi fu dato dal Signore un angelo di Satana che mi percuotesse, per tre volte chiesi al Signore che lo allontanasse da me. Proprio perché non sapevo chiedere secondo ciò che conveniva, il Signore non mi prestò ascolto, ma mi disse: “Ti basta la mia grazia, infatti la potenza si compie nella debolezza” (2 Cor 12,7-9). Così dunque non sappiamo cosa chiedere secondo ciò che conviene, ma lo Spirito stesso intercede per noi con gemiti inesprimibili. Quando lo Spirito ci avrà visti affaticarci nella lotta, allora ci porge la mano e aiuta la nostra debolezza. Fa come un maestro che ha bisogno di abbassarsi ai primi rudimenti dell’allievo e di dire lui per primo i nomi delle lettere così che il discepolo li apprenda ripetendoli. Egli stesso, come maestro, pronuncia per primo quella preghiera che il nostro spirito prosegue» (Orig., CLR/1, p. 380-382).
Tutto ciò che ci accade concorre al bene. Questo significa che non sempre è di per sé un bene. In questa situazione, l’azione di Dio consiste proprio nel farci uscire dalle sofferenze, o nel trasformarle in una via di maturazione e di salvezza (cfr. Attinger… p. 175).
Ci ha predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli. Compare il concetto di predestinazione che può essere frainteso facilmente. Non significa che Dio decide di salvare alcuni e condannare altri, ma piuttosto che Egli sceglie e colma di grazia alcuni, perché essi arricchiscano tutti e si pongano al loro servizio. I cristiani ricevono un dono particolare a vantaggio di tutta l’umanità. Gesù è stato stabilito da Dio, fin dall’inizio, ad essere il primogenito di molti fratelli: «Prima di ogni creatura Egli è nato e sul modello di Lui, Dio si è degnato di adottarsi gli uomini come figli. Egli è anche il primogenito nella rigenerazione dello Spirito, è anche il primogenito che, vinta la morte, ascende al cielo. Primogenito fra tutti è detto fratello nostro, perché si è degnato di nascere come uomo; è però il Signore» (Ambr., CLR p. 202). «Se noi siamo diventati fratelli del Signore, la conseguenza da trarre è che dobbiamo mostrare nel carattere della nostra vita la nostra parentela con Lui» (Gregorio di Nissa, La perfezione cristiana…, p. 105)

L’amore vittorioso di Dio

Dio viene definito in base a una sua totale affezione e dedizione all’uomo: Se Dio è per noi…. Per noi non risparmia il Figlio e, quindi, in qualche modo ci ha preferiti a Lui. L’impegno a sacrificare se stesso, il Figlio non l’ha subito ma lo ha scelto volontariamente (cfr. Attinger… p. 180).
Che diremo dunque di queste cose? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui? Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi! Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo considerati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore (8,26-39).
«Per avvincerci con uno stupore più grande, ha aggiunto un’espressione che testimonia un mistero straordinario affermando: Dio non ha risparmiato il suo proprio Figlio. Non solo per i grandi, ma anche per i più piccoli e per tutti quelli che sono nella Chiesa, il Padre consegnò il proprio Figlio. Perciò non deve essere assolutamente disprezzato nessuno, neppure il più piccolo che si trova nella Chiesa. Dio ci ha resi preziosi» (Orig., CLR/1, p. 394).
Nessuno ci può accusare. L’unico che potrebbe farlo a ragione, cioè Dio, ha rinunciato a farlo, volendo giustificarci gratuitamente. Egli ci vede in unità con il Figlio, il quale è un’intercessione vivente a nostro favore. «L'apostolo dice che Dio non ci accusa perché ci giustifica. Dice che Cristo non ci può condannare perché ci ama con un amore tale che morì per noi e difende sempre le nostre cause presso il Padre. E la sua petizione non può essere disprezzata perché è alla destra di Dio, cioè nella gloria poiché è Dio; cosi, sicuri di Dio Padre e di Cristo suo Figlio che dovrà giudicare, ci rallegriamo della fede in loro. Per questo il Signore dice all'apostolo Pietro: “Ecco che Satana ha richiesto di vagliarvi come il grano, ma io ho pregato per te, affinché non venga meno la tua fede” (Lc 22,31-32). In questo modo il Salvatore intercede per noi, conoscendo la potenza e profonda malizia del nostro avversario» (Ambr., CLR p. 204).
L’apostolo presenta sette motivazioni che potrebbero impedire a Dio di raggiungerci con il suo amore (la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada), mentre in realtà possiamo affrontarle, risultandone vincitori. Esse non rappresentano semplici ipotesi ma situazioni reali incontrate da Paolo stesso. Grazie alla sua esperienza, sa che noi siamo sempre nelle mani di Colui che ci ama in modo fedele e radicale. Uniti a Lui, possiamo o uscirne o superarle.
Compare, poi, un secondo elenco di avversari, dieci in totale, che di nuovo potrebbero impedirci di trovare salvezza (morte, vita, angeli, principati…), ma, nella lotta contro costoro, riusciamo nettamente vincitori. L’amore di Dio per noi non è un sentimento generico ma acquista concretezza estrema nella persona di Gesù. 

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