mercoledì 16 marzo 2011

Esperienza mistica e impegno sociale


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1. Il problema del tempo

Non è facile definire che cosa sia il tempo. Tutti ne facciamo esperienza e ne abbiamo un'idea vaga ma poi diventa difficile stabilire con precisione in che cosa consista.

Noi esistiamo ma intanto mutiamo; esistiamo ed intanto qualcosa muore in noi. Non sperimentiamo solo la perdita: qualcosa acquistiamo ma poi questo acquisto avviene dentro una perdita ancora maggiore, quella del consumarsi dell'esistenza. Per questo parlo dell'esperienza del tempo come percezione di estraneità. Per continuare a vivere con una qualità sempre maggiore, dobbiamo lasciar morire qualcosa in noi e intanto verificare che qualcosa è morto al di là delle nostre intenzioni.

Nel frattempo, avvertiamo anche un'estraneità più profonda. Tutto precipita dietro di noi. Dal giorno di ieri (ma potremmo dire fino ad un secondo fa) andando a ritroso fino a quello della nostra nascita, tutto è già diventato nulla ed esiste soltanto per la risonanza che ha nel nostro ricordo. Noi non vogliamo considerarlo nulla e speriamo, come suggerisce san Gregorio di Nissa, che il passare del tempo sia l'occasione con cui intessiamo per noi la veste dell'immortalità, l'abito della risurrezione e della vita eterna. Il precipitare continuo delle cose, della nostra vita ci rende bisognosi di salvezza. La cosa più rilevante dell'esistenza è riuscire a salvaguardarci arricchendoci mentre tutto precipita fino al nostro estraniarci dalla vita stessa.

Seneca parla dell'attenzione alla fugacità del tempo:

«Comportati così, Lucilio mio, rivendica il tuo diritto su te stesso e il tempo che fino ad oggi ti veniva portato via o carpito o andava perduto raccoglilo e fanne tesoro. Convinciti che è proprio così, come ti scrivo: certi momenti ci vengono portati via, altri sottratti e altri ancora si perdono nel vento. Ma la cosa più vergognosa è perder tempo per negligenza. Pensaci bene: della nostra esistenza buona parte si dilegua nel fare il male, la maggior parte nel non far niente e tutta quanta nell'agire diversamente dal dovuto. Puoi indicarmi qualcuno che dia un giusto valore al suo tempo, e alla sua giornata, che capisca di morire ogni giorno? Ecco il nostro errore: vediamo la morte davanti a noi e invece gran parte di essa è già alle nostre spalle: appartiene alla morte la vita passata. Dunque, Lucilio caro, fai quel che mi scrivi: metti a frutto ogni minuto; sarai meno schiavo del futuro, se ti impadronirai del presente. Tra un rinvio e l'altro la vita se ne va. Niente ci appartiene, Lucilio, solo il tempo è nostro. La natura ci ha reso padroni di questo solo bene, fuggevole e labile: chiunque voglia può privarcene. Gli uomini sono tanto sciocchi che se ottengono beni insignificanti, di nessun valore e in ogni caso compensabili, accettano che vengano loro messi in conto e, invece, nessuno pensa di dover niente per il tempo che ha ricevuto, quando è proprio l'unica cosa che neppure una persona riconoscente può restituire» (Lettere I)

Per noi cristiani essere salvati, significa rivestire l'abito della risurrezione. Per un credente è ovvio pensare in questa maniera. Per chi non spera in queste modalità di recupero, salvarsi consiste soltanto nel vivere in pienezza l'attimo fuggente: «Carpe diem», mentre a questo vivere in pienezza si dà un significato contrastante (In che cosa consiste?). La domanda di salvezza totale continua ancora?

Ora in un atteggiamento che ha cominciato a farsi strada soprattutto a partire dall'ottocento non solo si pensa che non vi sia possibilità di salvezza, ossia che la realtà sia costituita nel suo fondo da immane tragedia (riscoperta del tragico), ma si protesta contro le filosofie o le religioni che prospettano attese messianiche raggiungibili nel tempo ma che lasciano sperare in una vita eterna, oltre il tempo.

Tipica è a questo proposito è la posizione di Salvatore Natoli. Stimatore del cristianesimo sul piano etico, si oppone al suo fondamento teologico. Ritenendo che il cosmo e la storia siano privi di fondamento (ossia non dipendano da alcun Creatore che ne stabilisca l'origine e il fine), egli non spera in una salvezza intesa come dispiegamento di una nuova creazione. Di conseguenza l'unica possibilità di intervento è l'elaborazione di un'etica del finito. Grazie ad essa l'uomo «deve essere ... capace di vivere al meglio la propria contingenza, [ossia] servirsi della scienza per realizzare al meglio la propria vita, non dimenticando la propria costitutiva mortalità. Ecco l’etica del finito. L’etica del finito è il governo della propria contingenza. Un tempo bastava essere conformi alla natura, oggi invece devo trovare io le soluzioni, io come singolo, io comunità su ciò che è meglio e che è meglio fare, valutare i rischi limitando la mia presunzione di onnipotenza». In pratica, poi, egli apprezza (e forse propone) alcune istanze della morale cristiana, senza però accoglierne il fondamento teologico. «Per me Cristo non è un Dio che si incarna, ma è un uomo che mostra agli uomini la via da percorrere per diventare dei. L’autosalvazione attraverso la dedizione».

Natoli non spiega perché l'uomo che si sente estraneo nell'universo dovrebbe mirare alla dedizione. Non potrebbe scegliere, invece, la via del piacere orgiastico (- mangiamo e beviamo perché domani moriremo -) oppure quella della sopraffazione in vista del proprio vantaggio (la forza sia la nostra legge). Egli, influenzato com'è da principi cristiani, opta per la dedizione. Non possiamo non compiacercene. Tuttavia, una volta che una proposta morale non sia più considerata corrispondente con la costituzione dell'essere, non ha più il potere di affermarsi ma possono essere sagge opzioni che cercano esclusivamente ciò che è creduto un bene dal punto di vista contingente e parziale. Una proposta etica ha senso perché attua un bene che vale in assoluto (perché almeno pensa di porsi in sintonia con il Bene in assoluto) ma se i nichilisti dovessero prospettare un bene assoluto, non potrebbero più affermare che la realtà ultima del mondo sia caotica.

In ogni caso resta fermo che senza l'intervento d'un giudizio finale divino e l'orizzonte di una nuova creazione, l'etica del finito assume la medesima importanza della casa «bianca, bianca», assalita da una furiosa tempesta, intravista dal Pascoli nella sua poesia sul lampo.

E cielo e terra si mostrò qual era: \ la terra ansante, livida, in sussulto; \ il cielo ingombro, tragico, disfatto: \ bianca bianca nel tacito tumulto \ una casa apparì sparì d'un tratto; \ come un occhio, che, largo, esterrefatto, \ s'aprì si chiuse, nella notte nera. (Myricae Il Lampo IX)

La storia si mostra qual'é, ossia ingombra [di cadaveri], tragica e disfatta. All'interno di questa tragica bufera qualcuno cerca, eroicamente, di costruire un riparo. Può darsi che protegga qualcuno, per un poco, ma per i più non v'è riscatto. L'etica all'interno di una storia tragica impallidisce; non si impone; s'apre e si chiude nella notte nera.

In realtà, non abbiamo nessuna prova decisiva per affermare che l'esistenza cosmica sia una realtà tragica, mentre abbiamo molti indizi per sperare che essa sia una realtà sensata e significativa.

Giustamente altri pensatori ed artisti come Montale si mostrano più cauti. Egli non vuole stampare una parola definitiva (Non chiederci la parola che squadri da ogni lato l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco lo dichiari e risplenda come un croco perduto in mezzo a un polveroso prato) ma è sempre in attesa di una parola e di un'esperienza che indichi una via d'uscita.

(Tu chiedi se così tutto vanisce in questa poca nebbia di memorie; se nell’ora che torpe o nel sospiro del frangente si compie ogni destino. Vorrei dirti che no, che ti s’appressa l’ora che passerai di là dal tempo; forse solo chi vuole s’infinita, e questo tu potrai, chissà, non io. Penso che per i più non sia salvezza, ma taluno sovverta ogni disegno, passi il varco, qual volle si ritrovi. Vorrei prima di cedere segnarti codesta via di fuga labile come nei sommossi campi del mare spuma o ruga. Ti dono anche l’avara mia speranza. A’ nuovi giorni, stanco, non so crescerla: l’offro in pegno al tuo fato, che ti scampi. Il cammino finisce a queste prode che rode la marea col moto alterno. Il tuo cuore vicino che non m’ode salpa già forse per l’eterno [da Casa sul mare]).

«Per il poeta la realtà è segnata da una insanabile frattura fra l'individuo e il mondo, che provoca un senso di frustrazione e di estraneità, un malessere esistenziale. Questa condizione umana è, secondo Montale, impossibile da sanare se non in momenti eccezionali, veri stati di grazia istantanei che Montale definisce miracoli, gli eventi prodigiosi in cui si rivela la verità delle cose, il senso nascosto dell'esistenza.[...]. (WIKI).

La speranza di Montale è «avara» ma egli ritiene onesto non chiudere il discorso. Non si può proclamare più di ciò che si può sapere. Come avviene in questi pensatori pessimisti, al pessimismo della ragione, oppongono l'impegno etico. Tuttavia in Montale questo sforzo non è paragonabile all'edificazione di una casa nel mezzo di una bufera, ma è un tentativo di dialogo con la voce imperiosa che chiama all'interno del mistero dell'esistenza:

[Come allora oggi in tua presenza impietro, mare,ma non più degno mi credo del solenne ammonimento del tuo respiro. Tu m'hai detto primo che il piccino fermento del mio cuore \ non era che un momento del tuo; che mi era in fondo la tua legge rischiosa: esser vasto e diverso e insieme fisso: e svuotarmi così d'ogni lordura come tu fai che sbatti sulle sponde tra sugheri alghe asterie le inutili macerie del tuo abisso].

L'impegno etico non è posto dalla persona in modo arbitrario (scegliendo tra prospettive contrastanti) ma è risposta ad una richiesta che viene da una voce misteriosa ma amica, libera dalle lordure della storia.

Abbiamo visto alcune testimonianze dal Novecento su come l'uomo si possa rapportare nei confronti del mistero dell'esistenza. Mi domando esiste una riflessine simile nella Sacra Scrittura? La fede dissolve in modo totale l'incertezza o meglio il male di vivere?

In realtà tra i libri biblici ne scorgiamo uno che sembra avvicinarsi alla sensibilità attuale. E' l'inconsueto libro del Qoèlet. Sorprende il credente per certe sue affermazioni. Sulle prime il testo non sembra scritto da un credente ebreo ma da un filosofo che crede nell'esistenza di Dio al di fuori però di una particolare fede religiosa.

Che cosa sostiene Qoélet: 1) la realtà, pur offrendo molti sostegni e doni assai graditi, è insoddisfacente nella sua interezza 2) l'uomo può accumulare molte conoscenze, ma non può risolvere il mistero di se stesso nel mondo 3) L'uomo, per quanti sforzi faccia non riesce a liberarsi dal peccato 4) Per quanto una persona sia accorta, non sfugge alle apparenti arbitrarietà del caso 5) Alla fine l'uomo non può sfuggire alla morte che appare come massima ingiustizia.

Qoelet non pensa che il mondo sia dominato dal caso o dall'assurdo ma che l'agire di Dio talora sia incomprensibile. Suggerisce comunque delle soluzioni parziali (e in questo modo s'avvicina all'etica del finito): coltivare le gioie dell'esistenza anche se non offrono la pienezza allontanandosi dagli eccessi; coltivare il sapere e la sapienza (anche se non si giunge all'assoluto sapere) perché il sapere vale più dell'ignoranza; cercare di vivere nella massima integrità (anche se non si può ottenere l'innocenza) [oltretutto per garantirsi dal giudizio divino]. Non offre alcuna indicazione sulle sorti della vita e sulla morte. A questi eventi l'uomo deve soltanto sottomettersi alle decisioni incomprensibili di Dio. Dio appare un Signore piuttosto che un Padre. Egli non è interessato alle prospettive messianiche (non crede a novità significative) e neppure aspetta una vita eterna. La sua riflessione è racchiusa in un certo pessimismo: soltanto la prospettiva messianica e l'annuncio della risurrezione potrebbe dilatare gli orizzonti e accendere la speranza.

2. Il tempo verso il riscatto: il Messianismo

Il Dio della Bibbia ma non è tanto un Signore del cosmo ma un Dio della storia. Non è un Sovrano che crea e conserva la struttura fondamentale del cosmo, ma un Dio che cammina con gli uomini, agisce a loro favore. Il tempo deve essere redento. Tutta l’attenzione di Israele si rivolge, allora al futuro: ai tempi escatologici o al tempi messianici.

Vediamo in breve come l’ebraismo ha pensato la figura e l’opera del Messia. Per esporre la dottrina ebraica su questo argomento, mi servo delle parole stesse dei maestri d’Israele. Vi riassumo, rispettando le parole stesse dell’autore, la sintesi sul Talmud proposta dal rabbino Abraham Cohen (A. Cohen, Ebraismo, Il Talmud, Mondadori Milano 2007)

«Mentre gli altri popoli dell'antichità ponevano la loro età dell'oro nella notte del più remoto passato, gli Ebrei la relegarono nel futuro. A più riprese i profeti di Israel alludono agli « ultimi giorni » avvenire come al periodo in cui la grandezza nazionale raggiungerà l'apogeo. Tale speranza mise radici sempre più profonde nell'animo del popolo e, non soltanto si intensificò, ma, in processo di tempo, si arricchì di meravigliose visioni che il suo compimento avrebbe realizzato nel mondo. Il glorioso avvenire gravita intorno alla persona di un Mashiach « unto », destinato da Dio ad inaugurare questa nuova epoca meravigliosa.

Cento e cento volte il Talmud si richiama al Messia e alla sua missione, ma, come vedremo, molte erano le opinioni circa l'identità del futuro Redentore.

L'opinione che prevalse è quella che faceva del Messia un discendente di David, per cui nella letteratura rabbinica il Messia è detto comunemente « il figlio di David ».

La speranza dell'avvento del Messia divenne sempre più fervida nei tempi più tristi della vita nazionale. Quando l'oppressione del conquistatore divenne intollerabile, gli Ebrei si volsero istintivamente alle profezie messianiche contenute nelle Scritture.

Per confortare il popolo nella sua miseria, ed incoraggiarlo ad affrontare con animo forte le più gravi avversità, i Dottori predicarono la dottrina del «dolore del Messia», secondo la quale il suo avvento sarebbe preceduto da gravi sofferenze, al modo stesso che il figlio nasce a prezzo dei dolori materni. E al modo stesso che l'alba è preceduta da una sempre più profonda oscurità, pensavano i Dottori che prima del suo avvento il mondo avrebbe mostrato i segni della più bassa demoralizzazione e le condizioni di vita sarebbero divenute quasi insopportabili.

II figlio di David apparirà solo in una generazione perfettamente innocente o perfettamente colpevole.

Nel Talmud si trovano altri calcoli per determinare l'epoca dell'avvento del Messia, la maggior parte dei quali la fissano per la fine del quinto secolo. La maggior parte dei Dottori riprovarono i tentativi di fissare l'epoca della fine, vale a dire dell’avvento del Messia, in quanto per essi venivano a crearsi delle speranze che in ultima analisi si dimostravano destituite di fondamento.

In opposizione alla dottrina secondo cui Dio avrebbe fissato una data precisa per l'avvento dell'era messianica, un'altra se ne sviluppò che la faceva dipendere dalla condotta del popolo.

L'immaginazione non conobbe limiti nel tentativo di raffigurare il mondo quale apparirà sotto la mano trasformatrice del Messia. La natura diverrà meravigliosamente feconda.

Si insiste naturalmente sulla pace durevole, sulla felicità e sulla gioia che regneranno ai tempi del Messia.

Si credeva fermamente che il Messia opererebbe la riunione delle tribù di Israel. La riunione delle tribù sarà preceduta da un altro evento miracoloso, la restaurazione della Città Santa. La ricostruzione del Tempio fa parte della riedificazione di Gerusalemme.

Sembra, però, che vi sia stata una reazione a questi sogni fantastici. Molti Dottori pensavano che l'era messianica dovesse essere soltanto un periodo di transizione fra questo mondo e il Mondo Avvenire, e non erano concordi nel determinarne la durata.

Come vedete, dai dati biblici non si ricava una dottrina sicura e condivisa. Israele sottolinea l’unanimità nelle osservanze ma lascia molta libertà sulle opinioni teologiche.

Il messianismo cristiano

Molte delle speculazioni ebraiche sul Messia sono state accolte nel cristianesimo ed altre respinte. Il punto di partenza per i discepoli di Gesù è stato naturalmente Gesù stesso nella sua vita, morte e risurrezione. La resurrezione di Gesù è stato il punto di svolta determinante. La risurrezione era compresa come un insediamento messianico. Naturalmente Gesù fu subito considerato qualcosa di molto di più del Messia prospettato dal giudaismo è anche molto diverso. Per questo nei Vangeli Gesù esita a proclamarsi o a farsi proclamare come Messia. Egli era molto di più o molto diverso.

Vorrei ora soffermarmi su un passo particolare, particolarmente significativo

La promessa del regno viene annunciata dal profeta Daniele (cap. 7). Nel corso della notte, quando a regnare sono le tenebre (simbolo del male), il profeta vede quattro bestie terrificanti; le vede emergere da un mare fortemente agitato da venti impetuosi (Dan 7,2-3). Questi esseri mostruosi provengono dal caos evocato dalla tempesta notturna (cf. Gen 1,2), e sono simbolo dei regni terreni che opprimono e massacrano gli uomini. Il profeta continua a guardare, ossia sperare, ed ecco aprirsi un’altra visione questa volta rasserenante: dal cielo, da Dio, viene una figura umana integra, denominata Figlio dell’uomo (7, 13-14). Egli appare come l’uomo ritornato ad immagine di Dio e rappresenta una persona singola ma anche un intero popolo (7, 18. 27). Il profeta vede che Dio consegna al Figlio dell’uomo il dominio del mondo. Gesù, in seguito, s’attribuirà questa figura, modificando però la prospettiva e rifiutando un dominio terreno.

2. Durante la vita di Gesù. Gesù attesta di essere il Figlio dell’uomo (Mt 27, 64). Inutile pensare ad un dominio mondano (Gesù si attribuisce questa figura mentre mentre viene processato dai poteri terreni, bestiali; cf. Gv 19, 1-2). Il regno di Dio non si realizza dopo gli altri, dopo averli soppiantati, ma cresce in mezzo ad essi, come buon grano tra la zizzania (Mt 13, 24-30). Non si impone con la forza o con il dominio del denaro (Gv 18,36). È costituito piuttosto da tutti coloro che vogliono fare la volontà di Dio e si pongono dalla parte della verità (Gv 18,37).

3. Dopo la Pasqua. In modo paradossale, Dio inaugura il suo regno con la morte di Gesù (Lc 22,18). Questi si abbassa fino all’ultimo posto, per amore, e per questo, viene esaltato da Dio (Fil 2,9). La croce diventa la garanzia del dominio di Gesù, come una riserva aurea garantisce il valore di una valuta corrente. Se non fosse concretizzata dal servizio umile della croce, la gloria della risurrezione non sarebbe altro che carta straccia, dominazione mondana. Ora coloro che accolgono il suo regno, diventano anch’essi un regno (Ap 1,6) e partecipano alla gloria del Risorto (Ap 3,21) ma dovranno anche loro morire a se stessi manifestando la forza dell’amore (Ap 5,9-10; 12, 11).

3. Il cristiano nel tempo e nell'eternità

Qoélet, guardando la storia con un certo pessimismo, aveva detto che nel mondo non sussiste niente di nuovo. Questa considerazione viene smentita con la manifestazione al mondo di Gesù. Attraverso di Lui, Dio vuole intervenire nel mondo per porre rimedio ai guasti della storia: «Se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede. Noi, poi, risultiamo falsi testimoni di Dio, perché contro Dio abbiamo testimoniato che egli ha risuscitato il Cristo» (2 Cor 15,14s). Con queste parole san Paolo pone drasticamente in risalto quale importanza abbia per il messaggio cristiano nel suo insieme la fede nella risurrezione di Gesù Cristo: ne è il fondamento. La fede cristiana sta o cade con la verità della testimonianza secondo cui Cristo è risorto dai morti. Se si toglie questo, si può, certo, raccogliere dalla tradizione cristiana ancora una serie di idee degne di nota su Dio e sull'uomo, sull'essere dell'uomo e sul suo dover essere - una sorta di concezione religiosa del mondo -, ma la fede cristiana è morta. Gesù in tal caso è una personalità religiosa fallita; una personalità che nonostante il suo fallimento rimane grande e può imporsi alla nostra riflessione, ma rimane in una dimensione puramente umana e la sua autorità è valida nella misura in cui il suo messaggio ci convince. Solo se Gesù è risorto, è avvenuto qualcosa di veramente nuovo che cambia il mondo e la situazione dell'uomo. Allora Egli, Gesù, diventa il criterio del quale ci possiamo fidare. Poiché allora Dio si è manifestato» (Ratzinger Gesù di Nazaret /2 269-270)

Gesù introduce il regno di Dio nel mondo. In qualche modo è Lui stesso il Regno di Dio: nei suoi pensieri ed aspirazioni, nelle sue opere ed azioni. Sopratutto la sua risurrezione introduce nel mondo la novità assoluta della nuova creazione. La risurrezione è il mondo futuro ma questo modo futuro è già iniziato in Gesù. «Egli è il vero Dio e la vita eterna» (Gv 5, 19).

Il regno di Dio, allora, è formato da Gesù e da quelli che costituiscono un'unità con Lui. Si può parlare di vite e tralci o di un unico corpo. Il cristiano non è soltanto alla sequela di Cristo, ma è uno che vive in Cristo o che accoglie Cristo dentro di sé. Chi vive in Cristo, è già nella nuova creazione oppure nella vita eterna.

«L'espressione vita eterna non significa come pensa forse immediatamente il lettore moderno - la vita che viene dopo la morte, mentre la vita attuale è appunto passeggera e non una vita eterna. « Vita eterna » significa la vita stessa, la vita vera, che può essere vissuta anche nel tempo e che poi non viene più contestata dalla morte fisica. È ciò che interessa: abbracciare già fin d'ora « la vita », la vita vera, che non può più essere distrutta da niente e da nessuno. Questo significato di «vita eterna» appare in modo molto chiaro nel capitolo sulla risurrezione di Lazzaro: « Chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno» (Gv ll,25s). «Io vivo e voi vivrete», dice Gesù ai suoi discepoli durante l'ultima cena (Gv 14,19), mostrando con ciò ancora una volta che per il discepolo di Gesù è caratterizzante che egli « vive » - che egli quindi, al di là del semplice esistere, ha trovato ed abbracciato la vera vita, della quale tutti sono in ricerca. In base a tali testi, i primi cristiani si sono chiamati semplicemente « i viventi » (hoi zontes). Essi avevano trovato ciò che tutti cercano: la vita stessa, la vita piena e perciò indistruttibile» (Ratzinger 97-98).

La citazione esige un chiarimento. In genere nel NT con vita eterna si indica l'esistenza presso Dio nel mondo futuro: «Maestro buono, che cosa devo fare di buono per avere la vita eterna» (Mt 19,15); «... [Chi avrà lasciato tutto] riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna» (Mt 19,29); «La vita eterna nel tempo che verrà» (Mc 10,30). Nel Vangelo di Giovanni, invece, l'espressione vita eterna ha il significato segnalato da Ratzinger: vita piena attuale che però avrà compimento nel futuro.

[Gv 3,35: Chi crede nel Figlio ha la vita eterna; Gv 5,24: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita Gv 3, 14-15: chi crede in Lui, abbia vita eterna; Gv 6,46: chi crede ha la vita eterna; Gv 6,53 chi mangia la mia carne... ha la vita eterna. 1 Gv 5,10: Dio ci ha donato la vita eterna e questa è nel suo Figlio. L'attualità della vita eterna non esclude poi il suo compimento nel futuro: cf: Gv 6,39: chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno. Gv 4,14 l'acqua che zampilla per la vita eterna; Gv 10, 27 Io do loro la vita eterna e non andranno perdute. Infine la vita eterna possiede un aspetto relazionale: Gv 17,2: questa è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio e colui che hai mandato. ]

Nell'epistolario paolino troviamo formule che indicano l'attualità della nostra risurrezione. Già da ora siamo risuscitati con Cristo. Questo significa che, essendo questo evento il nostro ultimo destino, già da ora possediamo ciò che riceveremo. Questo modo di interpretare è corretto ma riduttivo. Paolo pensa che già da ora siamo nuove creature.

Ci si può chiedere se non si crei nella spiritualità cristiana una certa tensione tra il già e il non ancora. Oppure si può chiedere se la nostra vita in Cristo, nella realtà celeste e l'interesse primario per essa non venga a contrastare con il nostro impegno sulla terra.

Osserviamo la reazione di Paolo. Come pone in relazione il desiderio di vivere con Cristo con il suo gravoso impegno missionario? Ce ne rendiamo conto leggendo lo stralcio di una lettera inviata alla comunità cristiana di Filippi. In quel periodo egli era nella condizione di carcerato e nello scritto lascia intendere di essere in attesa di comparire in tribunale per l'udienza definitiva, nel corso della quale egli correva seriamente il rischio di subire una condanna alla pena capitale. È chiaro che egli si trova in faccia alla morte. Qual'è la reazione dell'apostolo di fronte a tale prospettiva?

«Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno. Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa debba scegliere. Sono messo alle strette infatti tra queste due cose: da una parte il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; d’altra parte, è più necessario per voi che io rimanga nella carne. Per conto mio, sono convinto che resterò e continuerò a essere d’aiuto a voi tutti, per il progresso e la gioia della vostra fede».

Per un normale lettore risulta sorprendente che egli avverta la morte come una prospettiva vantaggiosa, dal momento che, morendo, egli ha la possibilità di raggiungere Cristo. Ragionando in questo modo, l'apostolo rivela chiaramente quanto egli fosse identificato col Cristo. Come egli stesso dichiara apertamente, la sua vita ormai è Cristo. Tutto il mondo passa in seconda linea rispetto al grande vantaggio ritrovare la persona che è oggetto del suo amore. Un filosofo platonico avrebbe potuto comprendere bene questa urgenza di incontrare quel Bene, ora identificato nella persona del Cristo, che da solo costituisce la pienezza di ogni desiderio.

Nello stesso contesto, tuttavia, Paolo si rende immediatamente disponibile a rinunciare a questo suo bene, se ciò risultasse vantaggioso per i Filippesi. Paolo dichiara di essere tiranneggiato da due esigenze contrarie ed ugualmente legittime: egli desidera incontrare Cristo nella beatitudine della vita eterna e contemporaneamente, con un desiderio di pari intensità, è ben disposto a rinunciare al suo vantaggio personale per essere utile ad altri.

Ora, pur mostrando una certa esitazione, lascia intendere di essere disposto a proseguire la sua faticosa attività apostolica, come se venisse trascinato da una sua costrizione interiore. Prima ancora che siano le circostanze stesse a dire l'ultima parola, egli nel suo cuore ha già deciso in conformità alle esigenze della carità. Il cristiano Paolo, anche quando propende per la sua salvezza personale, alla fine si lascia determinare dalle esigenze della carità. Così la disponibilità a fare la volontà di Dio, qualunque essa sia, diventa il segno dell'autentica conoscenza di Lui.

La relazione tra desiderio di Dio e disponibilità di donazione agli uomini, nel modo in cui viene vissuta da Paolo, può essere espressa in questo modo: chi possiede realmente l'agape a tal punto da relativizzare il fatto stesso della morte (che diventa un atto di distacco supremo), è capace anche di rinunciare al suo vantaggio personale e al godimento di Dio per donarsi al prossimo. Paradossalmente soltanto chi è capace del totale distacco, si mostra capace di una piena immersione nel mondo.

Paolo, rinunciando al suo vantaggio, non distrugge tuttavia la sua persona: mentre si dona interamente agli altri per il Cristo, si ritrova interamente in Lui. Ecco un altro paradosso: rinunciando a tutto, ritrova interamente se stesso per il fatto stesso di amare.

Il sentire di Paolo, nella sua duplice aspetto (desiderio di Dio e amore degli uomini) è stato condiviso anche da altri mistici o il suo è rimasto un caso isolato? Una breve indagine è sufficiente per rendersi conto che esso è stato largamente condiviso. Più ancora i mistici hanno amato questi passi della lettera paolina sentendosi come interpretati da essi, così che questo testo può essere preso come una sintesi della mistica cristiana e quasi un modello per discernere la sua autenticità.

L’imitazione di Paolo nella mistica cristiana

Guglielmo di saint Thierry

Iniziamo l'indagine da Guglielmo di saint Thierry. Egli insegna che la comunione con Dio è l'unica vera sorgente di felicità per l'uomo ma la ricerca di felicità nella comunione con Dio non distrae affatto il cristiano dal suo impegno a favore della terra. A creare gioia è il fatto di amare; più precisamente ancora, di essere, per quanto possibile all'uomo, ciò che Dio è: amore disinteressato, fedeltà a tutta prova, accondiscendenza misericordiosa.

La contemplazione (o visione di Dio), avvertita come una forma anticipata della condizione futura, consiste nel vivere questa somiglianza di carità nella maniera più perfetta possibile. Il contemplativo, condotto da un sentimento d'amore totale, riesce ad intuire, a leggere sul volto di Dio i pensieri e i desideri che lo riguardano. Questo non significa che egli deve sviluppare delle considerazioni astratte ma discernere la propria missione. Contemplativo è, allora, colui che comprende con chiarezza il volere di Dio su di sé e che poi vi si conforma in totale fedeltà. «La trova dolce rivolgere sempre verso quel volto e, come su un libro di vita, leggervi le leggi della vita per sé, e comprenderle, illuminando la fede, consolidandola speranza e risvegliando la carità» .

Ciò che è possibile scrutare di Dio è la visione della sua volontà per noi, a favore del mondo e chi è divenuto perfetto nell'amore, osserva tutta la realtà creata con lo sguardo di accondiscendenza proprio di Dio. Aderendo a Dio senza riserve sotto ogni riguardo, la contemplazione «considera tutta la creazione che si trova al di sotto di Dio non diversamente da come Dio , disponendo e ordinando ogni cosa nella luce e nella virtù della sapienza».

Il fatto di gustare Dio fa sgorgare nell'amante il desiderio di partecipare all'amore che lo riempie di gioia stupita. L'anima sapiente, gustando solamente Dio, «spoglia l'uomo dell'uomo», ossia, mentre ammira l'amore di Dio, lo assimila e, di conseguenza, elimina da sé ogni traccia di meschinità che si oppone ad esso.

Se questo è il sentire di Guglielmo, non stupisce che egli, a sua volta, condivida e faccia sua la scelta già compiuta dall'apostolo Paolo. Questi, pur aspirando alla gioia della comunione con Dio, sceglieva di rimanere nella carne e di condividere le angustie delle sue comunità. «Anche se la vita di Paolo si svolgeva tutta nei cieli, egli non si negava ogni volta che era necessario stare accanto agli uomini sulla terra», osserva Guglielmo.

Il mistico cristiano, quando si estranea dal mondo e contempla Dio, avverte dentro di sé la necessità della carità che lo costringe a ritornare dai fratelli: «La carità nei confronti di Dio lo portava verso l'alto, mentre la carità per il prossimo lo spingeva verso il basso, come se fosse appeso per il collo». La crudezza dell'immagine contribuisce a far comprendere l'intensità con cui l'amico di Dio, mentre gode della comunione con lui, avverte anche il bisogno di donarsi agli altri. Nella dottrina di Guglielmo, quindi, il sentimento di eros non contraddice affatto l'agape. Entrambi i sentimenti vengono infusi da Dio e il primo favorisce l'insorgere del secondo.

Riccardo di san Vittore

Esponendo ciò che avviene nel cristiano quando è pervaso da un amore perfetto, Riccardo parla di quattro gradi della carità violenta. Vediamo che cosa egli attesta per quanto riguarda il quarto grado, quello proprio della maturità.

Il dinamismo della crescita nell'amore viene illustrato attraverso la metafora della sete. Agli inizi del cammino il principiante ha sete di Dio e desidera andare verso di lui. In pratica si tratta di quello che ho individuato come il fenomeno tipico di eros. Nella maturità spirituale invece, ha sete secondo Dio. Che significa ciò? Questo atteggiamento interiore implica la rinuncia totale al proprio vantaggio e la disponibilità a porsi al servizio di Dio per collaborare al suo disegno. «Ha sete secondo Dio l'anima quando di sua volontà, non solo nei desideri carnali, ma anche in quelli spirituali, non lascia nulla alla sua libertà ma affida tutto a Dio, non pensando più a “quali sono i suoi vantaggi ma a quelli di Gesù Cristo».

Il grado massimo della comunione con Dio non si ha nel godimento di Lui, ma nel ricevere una forza creativa tale da poterlo imitare, divenire utili al prossimo ed effondere la vita ricevuta da lui. A questo livello, infatti, l'uomo ha sete secondo Dio.

Nel paragrafo successivo, Riccardo presenta lo stesso fatto con altri argomenti. L'uomo dapprima ritorna a se stesso (primo grado) per salire, poi, fino a Dio (secondo grado) ed immergersi nella gioia (terzo grado). In seguito, però, non vuole rimanere sempre nel godimento della comunione ma preferisce uscire da sé di nuovo. Questa volta (quarto grado), «esce a causa del prossimo», spinta dalla solidarietà (ex compassione).

Nel seguito dell'opera, Riccardo cerca di penetrare all'interno dell'evento già annunciato. Egli non solo mostra come l'agape rappresenti il momento culminante della maturazione cristiana ma spiega anche per quale motivo si passi dall'eros alla agape.

La spiegazione viene proposta attraverso un'immagine molto efficace. L'uomo viene paragonato ad un pezzo di ferro che deve perdere la durezza ed essere reso malleabile nelle mani di Dio. Il ferro ha bisogno di percorrere diverse fasi di trasformazione e di lavorazione: riscaldarsi, arroventarsi, liquefarsi. Ora, tutte le esperienze spirituali gratificanti, quali la scoperta dello splendore di Dio, la seduzione, la comunione con lui vissuta come un fidanzamento oppure la comunione estatica simboleggiata dall'unione nuziale, sono tutte modalità con Dio cerca di riscaldare e arroventare il cuore dell'uomo che, al principio appare rigido come un pezzo di ferro. Alla fine, però, esso si liquefa per assumere la forma, ossia la missione, assegnatagli da Dio. Questo avviene quando si raggiunge il terzo passaggio o grado dell'amore: «Come i fonditori, dopo aver liquefatto i metalli e preparato gli stampi, modellano come vogliono qualsiasi figura [...], così l'anima in questo stato si adatta facilmente a qualsiasi cenno della volontà divina, anzi, per un desiderio spontaneo, si dispone ad ogni sua decisione e piega ogni sua volontà all'approvazione di Dio».

Solo dopo aver vissuto questa liquefazione interiore, l'uomo diventa capace di assomigliare a Dio. Ogni grado mistico non è fine a se stesso ma prepara il trasferimento della stessa carità di Dio nel cuore dell'uomo. Il più alto livello di perfezione consiste sempre nel saper amare come Lui. Il santo è colui che si presenta come un altro Cristo; capace di condividere i suoi sentimenti, è disposto a vivere ciò che viene richiesto dall'amore.

Hanno raggiunto il culmine dell'amore e già si trovano al quarto grado della carità coloro che sono in grado di offrire la loro vita per gli amici e di portare a compimento quelle parole dell'Apostolo: «Siate gli imitatori di Dio come figli amatissimi e vivete nell'amore come anche Cristo vi ha amato e ha sacrificato se stesso per voi a Dio, quale oblazione e sacrificio di soave profumo».

A questo punto Riccardo fa riferimento anch'egli al dissidio vissuto da s. Paolo - stare con Cristo o rimanere nella carne per amore degli uomini? -; condivide interamente la scelta già compiuta dall'apostolo e ripensa con ammirazione a Mosé che rifiuta di essere accolto da Dio da solo mentre il popolo viene destinato alla rovina (Es. 32, 32)50.

In conclusione, i vantaggi cercati e goduti dall'eros spirituale sono necessari per accedere alla pienezza dell'agape. Ripensiamo all'immagine della liquefazione: ciò che conduce la persona umana allo scioglimento in Dio nella gioia piena dell'unione è anche la condizione che permette all'amante divino di scorrere facilmente verso il basso (facile ad inferiora currendo), nella piena disponibilità alla solidarietà più impegnativa.

Teresa d'Avila

La compresenza del godimento supremo in Dio e della piena disponibilità al servizio per i fratelli compare anche in Teresa d'Avila. Questa mistica ha descritto il cammino spirituale come un percorso all'interno di un castello; passando attraverso sei stanze (o mansioni), si giunge fino a quella più interiore, la settima, dove si vive il matrimonio spirituale.

Che cosa avviene quando l'anima raggiunge tale condizione di sposa? In primo luogo, Teresa ritiene che Dio voglia manifestarle in anticipo qualcosa della beatitudine celeste e, di conseguenze, le consente di vivere un legame d'unione così intenso da diventare una cosa sola con lui.

Leggendo questo resoconto, è facile avere l'impressione di trovarsi di fronte ad una chiara manifestazione di eros. Teresa vive una pienezza così gratificante ed assorbente da indurla a disinteressarsi del fratello e renderla indisponibile ad accettare la fatica quotidiana del vivere. Eppure non è così. Infatti, sebbene si serva di molteplici immagini nell'intento di far conoscere la qualità di questo evento di comunione, lo considera in primo luogo come l'atto culminante della partecipazione alla morte e risurrezione del Signore: “Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno” (1, 21). «Altrettanto, mi pare, può ora dire l'anima, perché è qui dove la farfallina muore, e con estrema gioia, essendo ormai Cristo la sua vita».

Infatti, quando, dopo aver illustrato, si pone a mostrare gli effetti che derivano dallo stato di gioia profonda del matrimonio spirituale, emerge una solidarietà vivissima col prossimo e una disponibilità piena ad affrontare le contrarietà relative alla sua missione.

Il primo «effetto» è un oblio di sé, tale da farle sembrare che realmente «l'anima non esista più, perché è così trasformata che non si riconosce, né pensa al cielo che l'attende, né alla vita, né all'onore, essendo tutta intesa a procurare la gloria di Dio».

Come già abbiamo scorto in altri mistici, il primo effetto della piena comunione con Dio è la totale dimenticanza di sé e la piena disponibilità a consegnarsi a Dio per realizzare quanto Egli vuole fare. La persona non esiste più per se stessa. Infatti, precisa Teresa, pur costatando la propria impotenza, l'anima sposa non tralascerebbe mai di fare per nessuna cosa al mondo tutto ciò che può fare, se risulta essere un servizio a Dio.

In connessione stretta a questi due atteggiamenti, annullamento di sé e disponibilità a tutto, troviamo due effetti che richiamano ancora più da vicino la figura di Gesù crocefisso: la disponibilità, anzi il desiderio di soffrire, se questo risultasse necessario, e il perdono dei nemici. È evidente, allora, che dal matrimonio spirituale scaturisce un sentimento squisito di agape. La massima gratificazione d'amore non solo accompagna ma rafforza al massimo uno spirito di disinteresse.

Infine Teresa, senza citare l'esperienza di s. Paolo e senza neppure pensare ad essa, mostra di riviverla pienamente: il desiderio impellente di vedere Dio viene vinto dal desiderio di essere utile agli uomini rinunciando totalmente al suo vantaggio personale: «Ciò che più di tutto mi sorprende è questo. Voi avete visto i travagli e le afflizioni causati a queste anime dal desiderio di morire per andare a godere di nostro Signore. Adesso, invece, è così grande l'ansia che hanno di servirlo, di lodarlo e, se possono, di giovare a qualche anima, che non solo non si augurano di morire, ma desiderano di vivere lunghi anni, anche in mezzo a enormi travagli, nel tentativo di far sì che il Signore venga glorificato a causa del loro sacrificio, sia pure solo di poco [....]. La loro beatitudine consiste nel tentare di aiutare in qualche modo il nostro Dio crocifisso».

Osserva F.R. Wilhélm: “L'unione mistica con Cristo non si definisce unicamente con le delizie che l'accompagnano, ma anche con la comunione alle sofferenze del Redentore”.

Tutte queste testimonianze, fra le altre che si potrebbero riportare (ad es. s. Bernardo, Giovanni di Ruusbroek, Francesco di Sales), attestano che il godimento dell'amore spirituale non solo non costringe alla fuga mundi, ma appare come il primo movimento spirituale da cui, dopo lunga maturazione, scaturirà in seguito anche lo stesso impegno d'amore per i fratelli.

Dal punto di vista soggettivo, ci dobbiamo chiedere di nuovo in che modo avviene il movimento dal desiderio di soddisfacimento alla disponibilità piena al dono di sé, fino ad accettare la sofferenza che una missione può comportare? In altre parole che cosa accade nel cuore del mistico?

Francesco di Sales contribuisce a chiarire come avviene questo processo di scioglimento nella carità. A suo giudizio, il compiacimento o la compiacenza ha un ruolo fondamentale nella passione d'amore. La nativa propensione per il bene, si trasforma subito in viva attrazione per esso (compiacimento) non appena sia stato trovato e l'attrazione perdura come tensione vigorosa nei tentativi per raggiungerlo. Tale movimento, sempre più ardito, si placa soltanto nell'unione col bene cercato.

Ora è proprio la compiacenza a spiegare il passaggio dall'amore di interesse a quello disinteressato. L'amante, spinto dal desiderio di continuare a provare piacere nella relazione instaurata o dalla riconoscenza per il bene ricevuto, desidera essere di gradimento alla persona con cui è in relazione. A questo scopo, cercherà di fare suo il mondo dell'amato ed assimilare tutto ciò che egli è. «Non è possibile che ci piaccia qualcuno senza che, da parte nostra, desideriamo piacergli». Allo stesso risultato si perviene a motivo dell'ammirazione che si ha per la persona amata: attraverso l'imitazione si cercherà di assimilare le qualità di ciò che ha suscitato il nostro stupore.

Che cosa avviene quando l'oggetto del nostro amore è Dio stesso? Nella relazione con Lui, così come negli altri amori, il punto di partenza sta nel sentimento di compiacenza. Dio è il bene massimo; è la bellezza suprema che può suscitare fascino ed ammirazione sopra ogni altra cosa. I beni che si ricevono da Lui rafforzano il sentimento di riconoscenza e, quindi, la disponibilità a mettersi a sua disposizione, mentre lo stupore per la sua grandezza, manifestata in Gesù, fa insorgere il desiderio di imitazione.

In sintesi: «Chiunque si compiace veramente in Dio, desidera fedelmente piacere a Dio e, per piacergli, conformarsi a lui». Il trapasso dall'amore di compiacenza (o eros) a quello di benevolenza (o agape) avviene in base a questo principio: «Il vero amore non è mai ingrato, cerca di piacere a coloro che gli piacciono...»; «non è possibile che ci piaccia qualcuno senza che, da parte nostra, desideriamo piacergli». Nella compiacenza sono compresenti un elemento di gratifica e uno di superamento di sé; in essa permane la tensione tra il cercare piacere e il desiderio di piacere. Nel caso in cui la compiacenza venga riposta in Dio, la possibilità di auto trascendimento diventa inevitabile: «...la compiacenza ci trasforma in Dio che amiamo, e quanto sarà la sua dimensione, tanto più perfetta sarà la trasformazione». Nel nostro linguaggio, possiamo parafrasare in questo modo: quanto maggiore è l'appagamento ottenuto da eros, altrettanto si dilaterà la forza di agape. Qui possiamo scorgere il motivo cruciale per il quale una netta opposizione tra di essi sia fuorviante. Piuttosto che contrapporre tra loro queste due forme di amore, è utile rimarcare la differenza tra l'amore di Dio e quello degli uomini: Dio vive sempre un amore di totale gratuità. Egli, come Creatore ed Amico, prende l'iniziativa dell'amare e previene ogni risposta. L'uomo, al contrario, impara ad amare e risponde nella gratuità solo dopo aver fatto l'esperienza dell'essere stato amato.

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