lunedì 8 ottobre 2012

IL SENSO SPIRITUALE DELL'ICONE (Trubeckoj)


Il quesito sul senso della vita forse non è mai stato posto tanto nettamente come ai giorni nostri, in cui il mondo ha squadernato tutto il male e l'insensatezza di cui è capace.
Quattro anni fa entrai a Berlino in un cinematografo dove si proiettavano scene di un acquario con immagini della vita del gambero predone di mare. Dinanzi agli occhi si succedevano le sequenze di esseri che si divoravano a vicenda: chiare illustrazioni di quella spieiata lotta generale per resistenza di cui è piena la natura vivente. E vincitore nella lotta con pesci, molluschi, salamandre risultava invariabilmente il gambero di mare, grazie alla perfezione tecnica dei suoi strumenti di distruzione: la poderosa mandibola con cui faceva a pezzi l'avversario e le sostanze tossiche con le quali lo avvelenava.
Questa è stata nei secoli la vita della natura, lo è tuttora e lo sarà nel futuro. Se un siffatto spettacolo ci turba, se alla vista delle scene nell'acquario descritto sorge in noi un senso di nausea morale, ciò dimostra che nell'uomo vi sono i germi di un altro, diverso mondo, di un altro plano dell'esistenza. Sì, perché lo stesso nostro turbamento di uomini non sarebbe concepibile se questo tipo di vita animale ci si presentasse come l'unico possibile nel mondo e se non sentissimo in noi stessi la vocazione a realizzarne un altro diverso.
A questa istintiva, cieca e caotica vita della natura che ci circonda si contrappone nell'uomo una diversa, superiore legge, che fa appello alla coscienza e alla libertà. Ma nonostante ciò la vocazione rimane per il momento soltanto tale; anzi, la coscienza e la libertà dell'uomo si abbassano dinanzi ai nostri occhi al grado di strumenti di quelle oscure, basse, animalesche inclinazioni, contro le quali esse sono chiamate a lottare. Di qui deriva l'orrendo spettacolo di cui siamo testimoni.
Il senso di nausea e di ripugnanza morale raggiunge in noi il limite massimo quando vediamo che, nonostante tale vocazione, la vita dell'umanità nel suo insieme ricorda in modo stupefacente ciò che si può osservare nel fondo di un acquario. In tempo di pace questa fatale rassomiglianza viene nascosta, mascherata dalla cultura; al contrario, nei giorni della lotta armata tra i popoli, essa si presenta con cinica evidenza; ed anzi non viene mascherata ma, per contro, sottolineata dalla cultura: giacché in tempo di guerra questa diventa un mezzo per un'esistenza crudele, predatrice, viene utilizzata essenzialmente per la funzione che ha la mandibola nella vita del gambero di mare. E i principi che reggono di fatto la vita dell'umanità assomigliano in modo straordinario alle leggi che regnano nel mondo animale. Le regole « guai ai vinti », « ha ragione chi ha la mascella più forte », che ai nostri giorni vengono proclamate idee conduttrici della vita dei popoli, non sono, né più né meno, altro che leggi biologiche elevate a principi. E in questa conversione delle leggi della natura in principi, in questa elevazione della necessità biologica a canone etico, si manifesta la distinzione essenziale fra il mondo animale e quello umano, distinzione che invero non torna a favore dell'uomo.

Nel mondo animale infatti la tecnica dei mezzi di sterminio si rivela come semplice assenza di vita spirituale: questi mezzi costituiscono un dono della natura all'animale, privo di coscienza e di libertà. Al contrario, nel mondo degli uomini, essi sono in tutto e per tutto un ritrovato dell'ingegno umano. Dinanzi ai nostri occhi popoli interi concentrano tutti gli sforzi principalmente sull'unico scopo di creare una mascella più potente per distruggere e divorare gli altri popoli. Nulla manifesta l'asservimento dello spirito umano a basse inclinazioni materiali tanto fortemente quanto la supremazia che quest'unico scopo ha nella vita dell'umanità; supremazia che ineluttabilmente assume carattere coercitivo. Quando sull'arena del mondo appare qualche popolo predone che consacra ogni energia alla tecnica dello sterminio, tutti gli altri popoli a scopo di autodifesa sono costretti a imitarlo, giacché restare indietro nell'armarsi significherebbe rischiare d'essere ingoiati dal popolo predone. Tutti debbono preoccuparsi di possedere una mascella non meno forte di quella dell'avversario; in maggiore o minor grado tutti debbono assumere un aspetto belluino. Proprio in questa decadenza dell'uomo si compendia quel basilare e capitale orrore della guerra, dinanzi al quale impallidiscono tutti gli altri. Persi-nò i numi di sangue che inondano l'universo appaiono un male minore a paragone di questa deformazione delle sembianze umane!
Tutto questo pone con straordinaria forza il quesito, che fu sempre fondamentale per l'uomo, del senso della vita. La sua essenza è ognora la stessa e non può variare in dipendenza dalle condizioni temporali contingenti. Ma l'uomo lo pone con tanta maggiore determinatezza e ne prende coscienza con tanta maggiore chiarezza, quanto più palesemente si manifestano nella vita quelle forze malvage che mirano a stabilire nel mondo il caos sanguinario e il trionfo dell'insensatezza.
Nel corso di moltissimi secoli ha regnato su questa terra l'inferno, sotto forma di fatale necessità della morte e dèll'assassinio. Che fece nel mondo l'uomo, portatore della speranza di ogni creatura, testimone di una diversa superiore concezione di vita? Invece di lottare contro la potenza della morte, egli ha detto « amen ». Ed ecco, l'inferno regna nel mondo con l'approvazione e il consenso dell'uomo, cioè dell'unico essere destinato a battersi con esso: ed anzi viene armato con tutti i mezzi che appresta la tecnica umana. I popoli si mangiano vivi l'un l'altro: l'ideale che periodicamente trionfa nella storia è un popolo armato per lo sterminio universale. E ogni volta il suo trionfo è annunziato dal medesimo inno in onore del vincitore: « Chi è simile alla fiera! ».
Se in effetti tutta la vita della natura e tutta la storia dell'umanità segnano l'apoteosi del principio del male, dov'è la concezione dell'esistenza in grazia della quale noi viviamo e vale la pena di vivere? Io mi astengo da una risposta personale a tale domanda. Preferisco ricordare la soluzione enunciata dai nostri lontani antenati: non erano filosofi ma veggenti che esprimevano le proprie idee non con le parole ma nei colori, ciò nondimeno la loro pittura è una diretta risposta al nostro problema. Giacché al loro tempo esso si poneva non meno nettamente di oggi; l'orrore della guerra, che noi oggi percepiamo tanto acutamente, era per essi un male cronico. L'« immagine della fiera » ai loro tempi veniva richiamata alla memoria dalle innumerevoli orde che dilaniavano la Russia. Il regno della fiera anche allora si presentava ai popoli sempre sotto la forma dell'eterna tentazione: « Tutto questo ti darò se, prostrato, mi adorerai ».

Tutta l'antica arte religiosa russa crebbe nella lotta contro questa tentazione. In risposta a quest'ultima, gli iconografi dell'antica Russia con meravigliosa chiarezza e forza incarnarono nelle forme e nei colori ciò che riempiva il loro animo: la visione di una diversa verità vitale e di una diversa concezione del mondo. Cercando di esprimere a parole l'essenza della loro risposta, sono ben conscio che non ve n'è alcuna in grado di rendere adeguatamente la bellezza e la potenza di questo incomparabile linguaggio di simboli religiosi.


II
L'essenza di quella verità vitale, che dall'arte religiosa antico-russa viene contrapposta all'immagine della fiera, trova esauriente espressione non in questa o in quella raffigurazione pittorica, ma nell'antica chiesa russa nel suo insieme. La chiesa è concepita come il principio che deve dominare nel mondo. Lo stesso universo deve diventare il tempio della Divinità, dove entrano, insieme a tutta l'umanità, gli angeli e ogni creatura inferiore. E proprio in quest'idea del tempio contenente il mondo intero si sostanzia quella speranza religiosa in una futura pacificazione di ogni creatura, che si contrappone al fatto della guerra universale e dell'universale discordia sanguinaria. È opportuno quindi analizzare lo svilupparsi di questo tema nell'antica arte religiosa russa. Il tempio contenente il mondo intero costituisce qui non una realtà ma un'ideale, una speranza non ancora attuata di tutto il creato. Nel mondo nel quale viviamo, le creature inferiori e la maggior parte dell'umanità restano per ora fuori del tempio. E pertanto esso personifica una diversa realtà, quell'avvenire celeste che attira a sé, ma che nel tempo presente l'umanità ancora non ha raggiunto. Tale idea con incomparabile perfezione viene espressa dall'architettura dei nostri antichi templi, in particolare di quelli di Novgorod.
Di recente, in un luminoso giorno invernale, mi capitò di visitare i dintorni di Novgorod. Da ogni parte non vedevo che l'illimitata pianura nevosa, la più chiara di tutte le possibili rappresentazioni della squallida miseria di quaggiù.
Ma su quella pianura, come remote immagini di una ricchezza ultraterrena, brillavano di vivida luce sullo sfondo azzurro-cupo del cielo le cupole dorate dei templi dalle bianche mura. Non ho mai visto una più lampante illustrazione dell'idea religiosa personificata dalla forma russa della cupola a bulbo. Il suo significato appare chiaro da un confronto.
La cupola bizantina sopra il tempio raffigura la volta celeste che copre la terra. Per contro, la guglia gotica rappresenta l'incontenibile slancio verso l'alto, che solleva dalla terra al cielo immense mòli di pietra. E, infine, la nostra patria « cupola a bulbo » incarna in sé l'idea di un profondo ardore di preghiera verso i cieli, per il cui tramite il nostro mondo terreno diventa partecipe della ricchezza dell'al di là. Questo coronamento del tempio russo è come una lingua di fuoco sormontata dalla croce e appuntantesi verso di essa. Se si getta lo sguardo sul campanile moscovita detto « Ivan il Grande », si ha l'impressione di avere dinanzi un gigantesco cero, ardente nel cielo di Mosca; mentre le cattedrali del Cremlino e le chiese a molte cupole sono come degli enormi candelieri con tanti ceri. E non soltanto le cupole dorate esprimono quest'idea di orante ascesa. Quando guardi da lontano, sotto buona luce, un antico monastero russo o una città con la moltitudine dei templi che la sovrastano, pare che brillino tutti di fuochi multicolori. E questi fuochi scintillanti lontano fra immense distese nevose ti richiamano come una remota visione ultraterrena della città di Dio.
Tutti i tentativi fatti per spiegare la forma a bulbo delle cupole delle nostre chiese con scopi utilitari (per esempio, con la necessità di aguzzare la sommità del tempio affinchè non vi si depositasse la neve ne vi si fermasse l'umidità) non spiegano ciò che in essa v'è di più importante, cioè il significato estetico-religioso della cupola a bulbo della nostra architettura sacra. Giacché esistono molti altri mezzi per raggiungere lo stesso risultato pratico, per esempio la cuspide nello stile gotico. Perché dunque, di tutti questi mezzi possibili, nel-l'architettura religiosa antico-russa venne scelto proprio quello della cupola a bulbo? La cosa si spiega senza dubbio col fatto eh'essa produceva una certa impressione estetica, corrispondente a un determinato orientamento religioso dell'animo. L'essenza di questo stato emotivo, di carattere estetico-religioso, è resa ottimamente dall'espressione popolare: « Ardono come bracieri », detta delle cupole delle chiese. Spiegare poi la cupola a bulbo con « l'influsso orientale», a parte la verosimiglianza, evidentemente non esclude quanto detto sopra, giacché questo stesso motivo estetico religioso può aver influito anche sull'architettura orientale.
In relazione a quanto qui detto sulle cupole a forma di bulbo dei templi russi, è necessario far notare che nell'architettura sia interna che esterna delle antiche chiese russe cedeste cupole esprimono aspetti differenti di un'identica idea religiosa; e in questa fusione dei diversi momenti della vita religiosa sta un tratto molto interessante della nostra architettura sacra. Nell'interno dell'antico tempio russo le cupole a bulbo conservano il tradizionale significato di qualsiasi cupola, raffigurano cioè l'immobile volta celeste; ma come si armonizza l'aspetto di fiamma moventesi verso l'alto, che le medesime hanno all'esterno?
È facile convincersi che nel nostro caso ci troviamo di fronte a una contraddizione soltanto apparente. L'architettura interna della chiesa esprime l'ideale del tempio contenente il mondo intero, nel quale dimora lo stesso Signore Iddio e oltre il cui limite non esiste nulla; è naturale perciò che la cupola debba esprimere il sommo ed estremo termine dell'universo, quella sfera celeste che lo corona dove regna lo stesso Iddio Sabaoth. Altra cosa è l'esterno: là, al di sopra del tempio, v'è un'altra vòlta celeste, quella vera, che ricorda come l'Altissimo non sia stato ancora raggiunto dal tempio terreno; come per raggiungerlo sia necessario un nuovo slancio verso l'alto, una nuova fiamma, ed ecco perché dall'esterno quella stessa cupola assume la forma mobile di fiamma appuntatesi verso il cielo.
Superfluo dimostrare che fra l'esterno e l'interno esiste piena corrispondenza; giacché proprio tramite quello visibile dall'esterno il cielo discende sulla ; introdotto nel tempio e ne diventa questo ardore visibile dall’esterno il cielo discende sulla terra, viene introdotto nel tempio e diventa quel coronamento dove ogni cosa terrena viene coperta dalla ddl'Altissimo, benedicente dalla volta azzurro-idei delo. E questa mano, che ha vinto la discordia . che di continuo guida verso l'unità ecumenica, i pugno i destini degli uomini.
Tale idea ha trovato una meravigliosa espressione figurata nell'antico tempio novgorodiano di S. Sofia (sec. i rcrerari tentativi dei pittori di raffigurare la maldestra benedicente del Salvatore nella grande cupola aie non ebbero successo. Ad onta dei loro sforzi, nnsdva sempre una mano stretta a pugno. Secondo la tradizione, i lavori vennero infine fermati da una voce dal delo che proibì di correggere l'immagine dipinta e annunziò che nella mano del Salvatore era stretta la stessa città di Novgorod la Grande: quando la la marea si fosse dischiusa, la città sarebbe perita. 
Una notevole variante dello stesso tema si può ammirare nella cattedrale dell'Ascensione a Vladimir. Là, in un antico affresco dipinto dal celebre Rublev sono raffigurati « i beati nella mano del Signore»: un gruppo di santi aureolati, stretti in una mano possente al sommo della volta celeste; e moltitudini di ben tendenti verso quella mano da tutte le direzioni, chiamati dalle trombe degli angeli suonanti.
Così è affermata nel tempio quell'interiore unità ecumenica che deve vincere la caotica discordia e l'ostilità del mondo e dell'umanità. L'unione ecumenica di tutte le creature, come futuro mondo universale comprendente gli angeli, gli uomini e ogni spirito terrestre: ecco l’idea fondamentale del tempio nella nostra antica arte religiosa, predominante sia nell'antica architettura che nella pittura. Con salda coscienza e straordinaria profondità essa fu esposta da San Sergio di Radonez. Secondo l'espressione del di lui biografo, il venerabile Sergio, dopo aver fondato la sua comunità monastica, « pose il tempio della Trinità quale specchio per coloro ch'egli aveva raccolto a vita in comune, affinchè nella contemplazione della Santa Trinità fosse vinto il terrore dinanzi alle esecrabili divisioni del mondo ». In ciò S. Sergio era ispirato dalla preghiera di Cristo e dei Suoi discepoli: « Affinchè siano una cosa sola, come noi siamo uno ». Il suo ideale era la trasfigurazione dell'universo a immagine e somiglianza della S. Trinità, cioè l'intima unione di tutti gli esseri in Dio. Al medesimo ideale s'ispirò tutta l'antica spiritualità russa; e di esso visse la nostra arte iconografica. Il superamento delle odiose discordie del mondo, la trasfigurazione dell'universo nel tempio in cui ogni creatura è unita come sono unite in una sola Essenza Divina le tre persone della S. Trinità sono il tema fondamentale al quale nell'antica pittura religiosa russa tutto è subordinato. Per comprendere l'originale linguaggio delle raffigurazioni simboliche di questa è necessario dire alcune parole sull'ostacolo capitale che sino ad oggi ne ha reso difficile la comprensione per noi. Non c'è il minimo dubbio che Parte iconografica esprimesse quanto di più profondo esisteva nell'antica cultura russa. Inoltre noi possediamo in essa uno dei massimi tesori mondiali d'arte religiosa. E, nondimeno, fino a pochi anni fa l'icona riusciva del tutto incomprensibile all'uomo russo di cultura. Egli passava indifferente accanto a essa, non degnandola neppure di fuggevole attenzione e ciò semplicemente perché non faceva distinzione fra le icone e la fuliggine che ab antiquo le ricopriva. Soltanto negli ultimissimi anni ci furono aperti gli occhi sulla straordinaria bellezza e vivacità dei colori celati sotto quel nerofumo. Soltanto adesso, grazie ai mirabili progressi della moderna tecnica del restauro, abbiamo potuto ammirare questi colori dei secoli andati, e il mito della « tenebrosa icona » si è definitivamente dissolto. I volti dei santi nei nostri antichi templi s'erano inscuriti unicamente perché ci erano divenuti estranei; su di loro s'era accumulata la fuliggine, parte a causa della nostra distrazione e indifferenza nel conservare questi cimeli, parte per la nostra ignoranza sul modo di preservare quei monumenti del passato.
Tale ignoranza dei colori dell'antica arte iconografica da parte nostra è andata sino ad oggi di pari passo con la più assoluta incomprensione dello spirito che la animava. La sua tendenza predominante veniva grettamente caratterizzata con l’indefinita espressione di » ascetismo » e, in quanto « ascetica », la si respingeva come un vecchiume che aveva fatto il suo tempo. Inoltre, rimaneva incomprensibile quanto v'è di più importante ed essenziale nell'icona russa: l'incomparabile gioia ch'essa annuncia al mondo. Ora che l'icona si è rivelata una delle più splendide creazioni della pittura di tutti i tempi, spesso sentiamo parlare della sua meravigliosa gioiosità; d'altra parte, non essendo possibile ripudiare il lato ascetico che vi è immanente, noi ci troviamo in presenza di uno dei più interessanti enigmi per la critica d'arte. Come accordare l'ascetismo con i colori straordinariamente vivi? In che consiste il segreto di questa combinazione di sublime dolore e di altissima gioia? Comprendere questo segreto significa aure rispondere al quesito fondamentale di questo nostro saggio: qual è la concezione della vita compresa e incarnata nell'antica arte iconografica russa. Senza alcun dubbio ci troviamo di fronte a due aspetti, strettamente collegati fra loro, di una sola e identica idea religiosa; perché non c'è Pasqua senza Settimana Santa e non si può arrivare alla gioia dell'universale Resurrezione se non attraverso la croce vivificante del Signore. Per questo nelle nostre icone i motivi lieti e quelli dolorosi, ascetici, sono egualmente indispensabili.
Il protopope Avvakum
Quando nel xvn secolo, insieme alle altre innovazioni religiose, la pittura realistica che seguiva i modelli occidentali invase le chiese russe, il noto arciprete Avvakum, campione dell'antica devozione, in un ammirevole messaggio contrappose a quei modelli proprio lo spirito ascetico dell'antica arte iconografica: « Dio ha permesso che nella terra russa si moltiplicassero le icone di stile sconveniente. Gli isografi dipingono così, le autorità li favoriscono e tutti avanzano verso l'abisso della perdizione, legati l'uno all'altro. Dipingono l'im-magine del Salvatore Emanuele con il volto gonfio, le labbra rosse, i capelli ricciuti, le mani e i muscoli grossi; parimenti le gambe mostrano robuste anche. L'insieme risulta quello di un tedesco, solo gli manca la sciabola al fianco. Ma l'ha tramato Nilkon, il nemico, di dipingere dal reale... I vecchi buoni isografi non dipingevano così le immagini dei santi: rappresentavano il viso, le mani e tutti i sensi affilati, i corpi macerati nei digiuni e nelle fatiche e in ogni sorta di afflizioni. Ma oggi voi avete mutato le loro immagini e li dipingete tali quali siete voi stessi ».
Queste parole dell'arciprete Avvakum danno la definizione classica ed esatta di una delle più importanti tenderle dell'antica iconografia russa; per quanto si debba sempre ricordare che questo suo aspetto dolorosamente ascetico ha soltanto un significato subalterno e introduttorio. Il lato più importante, naturalmente, è la gioia della vittoria definitiva del Dio-uomo sull'uo-mo belva, l'introduzione nel tempio di tutta l'umanità e di ogni creatura. Ma a questa gioia l'uomo deve predisporsi con il sacrificio ; non può entrare a far parte del tempio del Signore così com'è, giacché per un cuore incirconciso e per una carne ingrassata e soddisfatta di sé non c'è posto in questo tempio. Ecco perché non si deve dipingere le icone prendendo a modello persone reali.
L'icona non è un ritratto ma un prototipo della futura umanità trasfigurata. E poiché noi ancora non vediamo fra la gente peccatrice d'oggi, ma solo possiamo intravedere, siffatta umanità, l'icona può unicamente costituirne la raffigurazione simbolica. Che cosa significa in questa raffigurazione la corporeità sottilizzata? È la negazione netta del « biologismo » che erige la sazietà della carne a massimo e assoluto comandamento. Giacché proprio tale comandamento giustifica non soltanto le relazioni rozzamente utilitaristiche e crudeli dell'uo-mo con le creature inferiori, ma anche il diritto di qualsiasi popolo all'eccidio nei confronti di altri popoli che ostacolano la sua brama di sazietà. I volti macilenti dei santi nelle icone contrappongono a tale sanguinoso regno della carne sazia e soddisfatta non soltanto i « sensi affinati » ma soprattutto una nuova norma nei rapporti esistenziali. È questo il regno di cui la carne e il sangue non possono entrare in possesso.
L'astinenza dal cibo, e in particolare dalle carni, raggiunge un duplice scopo: in primo luogo questa sottomissione dei sensi è condizione indispensabile per la spiritualizzazione del volto umano; in secondo luogo prepara in tal modo il nesso futuro dell'uomo con l'uomo e dell'uomo con le creature inferiori. Nelle antiche icone russe viene espressa meravigliosamente sia l'una che l'altra idea. Noi per ora concentreremo la nostra attenzione sulla prima.
A un osservatore superficiale questi volti ascetici possono apparire privi di vita, definitivamente disseccati. In effetti, proprio il divieto di raffigurare « labbra rosse » e « guance paffute » fa sì che in essi con incomparabile forza traspaia un'espressione spirituale, e ciò nonostante l'eccezionale severità delle tradizionali forme convenzionali che limitavano la libertà dell'iconografo. Sembra infatti che i canoni di questa pittura prevedano e consacrino le linee essenziali, non gli accessori: la posizione del torso del santo, e il mutuo rapporto delle sue braccia raccolte in croce, e l'unione delle sue dita benedicenti. Il movimento, poi, è ridotto al minimo ed  è escluso tutto ciò che potrebbe rendere il Salvatore e i santi « tali e quali siamo noi ». Persino dove era ammesso, il movimento era racchiuso in una certa cornice immobile che quasi lo imbrigliava. Ma anche dove mancava del tutto, il pittore era libero nel dipingere lo sguardo del santo, l'espressione dei suoi occhi, cioè proprio quello che costituisce il maggiore centro di vita spirituale del volto umano. Proprio qui si manifesta in tutta la sua meravigliosa forza quella sublime creazione dell'arte religiosa che fa discendere il fuoco dal cie-lo e ne illumina dall'interno le sembianze umane, per quanto immobili esse possano apparire. Io non conosco, per fare un esempio, un'espressione di santa afflizione per tutte le creature sotto la vòlta celeste, per i loro peccati e sofferenze, più forte di quella che si può ammirare nell'immagine, ricamata in seta, del gran martire Nikita, conservata nel Museo archivistico di Vladimir sulla Kljazma. Secondo la tradizione, l'immagine venne ricamata da Anastasia, moglie di Ivan il Terribile, della schiatta dei Romanov. Altri incomparabili esempi di afflizione nei volti si ritrovano nella collezione di I.S. Ostrouchov a Mosca: come l'immagine del « Vecchio Simeone » e la « Deposizione nel sepolcro », dove la raffigurazione del dolore della Madonna si può paragonare, per la forza, addirittura con le opere di Giotto e, in genere, con i più alti esempi dell'arte fiorentina. Ma oltre a ciò nell'antica iconografia russa noi incontriamo, riprodotti in maniera inimitabile, altri stati d'animo, quali l'ardente speranza o la pace in Dio.
Per vari anni io ero rimasto sotto la forte impressione ispiratami dal famoso affresco di Vasnecov, « La gioia dei giusti nel Signore », che si trova nella cattedrale di S. Vladimir a Kiev. (Com'è noto, gli studi preparatori di quest'affresco sono alla Galleria Tretjakov di Mosca.) Debbo riconoscere che questa impressione si affievolì alquanto quando vidi lo stesso tema trattato dall'affresco di Rublèv, nella cattedrale dell'Ascensione a Vladimir sulla Kljazma. La superiorità di quest'antico affresco, rispetto all'opera di Vasnecov, è molto tipica dell'antica arte iconografica. In Vasnecov l'ascesa dei giusti verso il paradiso ha un carattere eccessivamente naturale di movimento fisico. I giusti si protendono verso l'alto non soltanto con il pensiero ma con tutto il corpo: il che, insieme all'espressione morbosamente isterica di certi volti, comunica all'intera composizione un carattere troppo realistico per un luogo sacro, che ne attenua l'impressione. Tutt'altra cosa vediamo nell'antico affresco di Rublev nella cattedrale dell'Ascensione a Vladimir. In esso la forza della speranza, straordinariamente concentrata, viene resa esclusivamente con il movimento degli occhi che guardano fissi, in avanti. Le braccia in croce dei giusti sono del tutto immobili, così come le gambe e i torsi. La loro ascesa al paradiso viene espressa esclusivamente dagli occhi, nei quali non si legge un entusiasmo isterico ma un profondo intimo ardore e la tranquilla certezza di raggiungere la meta; ma proprio con tale apparente immobilità fisica vengono resi lo sforzo eccezionale e la potenza di un'ascesa spirituale che si compirà immancabilmente. Quanto più immobile è il corpo, tanto più forte e chiaro viene qui percepito il moto dello spirito, giacché il mondo corporeo diventa il suo trasparente involucro. Proprio nel fatto che la vita spirituale è resa soltanto dagli occhi di un viso del tutto immobile si esprime simbolicamente la forza straordinaria e il predominio dello spirito sul corpo. L'impressione che se ne ricava è come se tutta la vita corporea si fosse arrestata nell'attesa di una sublime rivelazione, alla quale essa porge l'orecchio. Ne si può ascoltarla in altro modo: bisogna che prima risuoni l'appello «e taccia ogni carne ». E soltanto quando questo appello giunge al nostro udito, il volto umano si anima: gli occhi si aprono. Non soltanto si sono aperti su un altro mondo, ma lo aprono ad altri ancora: proprio questa unione di perfetta immobilità del corpo e di spirituale significanza degli occhi, che si ritrova spesso ripetuta nelle massime creazioni della nostra arte iconografica, produce un'impressione straordinaria.
Tuttavia sarebbe erroneo pensare che nelle antiche icone l'immobilità costituisca la caratteristica di tutto l’umano; nella nostra iconografia è propria non delle sembianze umane in generale ma soltanto di determinati stati d'animo. L'uomo è immobile quando ribocca di contenuto sovrumano, divino, quando in un modo o nell’altro viene introdotto nell'immobile pace della vita divina. Per contro, l'uomo privo della grazia o prima di riceverla, l'uomo che ancora « non ha trovato pace » in Dio, o semplicemente che non ha raggiunto la meta del suo cammino mortale, spesso rappresentato nelle icone, ha molta mobilità. Tipiche a questo riguardo sono specialmente molte antiche icone della « Trasfigurazione del Signore » della scuola di Novgorod. Immobili sono il Salvatore, Mosè ed Elia; invece gli apostoli proni, presi da un impulso schiettamente umano di terrore cagionato dal tuono celeste, colpiscono per l'arditezza degli atteggiamenti. In molte icone li vediamo letteralmente con la testa in giù. 
Nella meravigliosa icona la Visione di S. Giovanni Climaco », che si conserva a Pietrogrado nel Museo Alessandro III, vediamo un movimento espresso in modo anche più brusco: la precipitosa caduta a capofitto dei peccatori dalla scala che porta al paradiso. Nelle icone l'immobilità caratterizza soltanto le raffigurazioni dove non solo la carne ma la stessa natura umana è ridotta al silenzio, dove essa vive ormai non di vita propria ma di vita sovrumana. S'intende che questo stato d'animo esprime non la cessazione della vita, ma invece la sua massima tensione e intensità. Solo a una coscienza areligiosa o superficiale l'antica icona russa può apparire priva di vita. Una certa freddezza e astrattezza si possono se mai ritrovare nelle antiche icone greche. Ma proprio a questo riguardo l'arte iconografica russa è tutto l'opposto di quella greca. Nella meravigliosa raccolta d'icone del Museo Alessandro III di Pietrogrado è particolarmente facile il confronto, perché accanto a quattro sale d'arte russa ce n'è una d'arte greca. Ti colpisce soprattutto il calore di sentimento proprio dell'arte iconografica russa e estraneo a quella greca. La stessa cosa si prova visitando la collezione moscovita di I.S. Ostrouchov, dove pure accanto a icone russe ve ne sono di greche, ovvero di russe arcaiche che ancora conservano lo stile greco. Operando un tale confronto, colpisce il fatto che proprio nell'iconografia russa, a differenza di quella greca, il viso umano non è privo di vita ma invece altamente ispirato e significante. Per esempio, che v'è di più immobile del volto del « Salvatore non dipinto da mano umana » o di quello del « Profeta Elia » nella collezione di I.S. Ostrouchov? Tuttavia a uno sguardo attento si fa evidente che in essi traspaiono le ispirate sembianze del tipo popolare russo. Non soltanto i tratti umani in genere, ma anche i tratti nazionali vengono così assunti nell'immobile pace del Creatore e su questa vetta dell'arte religiosa sono trasfigurati e mantenuti.

Evgenij Trubeckoj Testo integrale in "Contemplazione nel colore". Tre studi sull'icone russa. La Casa di Matriona (1977) Milano. 

Nessun commento:

Posta un commento