martedì 12 marzo 2013

IL CANTO DEL SERVO DEL SIGNORE (Is 53)


52,13-53,12 La passione del servo

Ci sono molteplici possibilità di identificare il servo di Is 53 con un personaggio storico. Ma il testo è di ima tale difficoltà, di una tale complessità, da scoraggiare qualsiasi tentativo in tal senso. La sola risorsa ermeneutica è tentare di decodificare la struttura del brano, perché la struttura dice già molte cose, è come decifrare il codice genetico del testo. 
Questo si divide in tre parti: un oracolo introduttivo (A: 52,13-15)
e un altro conclusivo (A': 53,11-12),
 con al centro una lamentazione collettiva (B: 53,1-10). 
Abbiamo cioè una testimonianza (o un lamento) resa da un soggetto plurale («noi») che è inquadrata da due oracoli divini, in cui si parla del «mio servo». Quindi, in questo testo, ci sono due voci: quella di Dio e quella di «noi». Entrambe parlano, evidentemente, della stessa persona, ma ne parlano in maniera molto diversa. Quella di Dio ne profetizza l'esaltazione (soltanto la voce divina lo chiama «servo») mentre quella di «noi» ne racconta le sofferenze, in maniera molto più dettagliata di quanto non faccia la voce divina. «Dio», in questo testo, dice molto meno di «noi». Si direbbe che Dio lascia a «noi» tutto il peso della testimonianza. Inoltre, nell'introduzione e nella conclusione il servo è contrastato con «molti» (molte genti, i re della terra): rabbìm ricorre cinque volte in 52,13-15 e 53,11-12. Nella parte centrale c'è un altro contrasto, ma è tra «noi» e «lui», tra il soggetto narrante e il soggetto narrato, e sono entrambi non meglio identificati. 
In altri termini, in A e A' i soggetti sono chiari: sono il servo e le moltitudini dei góyim, ossia le nazioni gentili. In B, invece, non si sa bene chi siano ne «noi», ne «lui». Ma, se A e A' formano il quadro di riferimento anche per B, dovrebbe essere logico pensare che i soggetti siano gli stessi, e quindi «lui» sia il servo e «noi» le genti. In B, come s'è detto, vi è un gruppo che racconta la passione di un individuo. Ma questo soggetto plurale non sta narrando in maniera spassionata la storia di un altro: narra in maniera estremamente partecipe una storia che lo riguarda. Al punto che questo «noi», a un certo momento, entra a far parte della storia narrata. Infatti «lui» ha portato i nostri dolori, si è caricato delle nostre iniquità. Tra «noi» e «lui» si stabilisce quindi una solidarietà fondamentale. Per questo possiamo dire che, per la comprensione di questo grande testo, vertice profetico di tutto l'Antico Testamento, è quasi più importante sapere chi siamo «noi» che non sapere chi è «lui». Detto altrimenti: noi, lettori di oggi, siamo chiamati a identificarci con il «noi» narrante: possiamo capire la vera identità del servo
solo se ci lasciamo coinvolgere interamente nella sua storia, nella sua passione. Il servo è colui che prende su di sé i nostri peccati, le nostre iniquità. Solo così noi possiamo arrivare a capire chi è.
L'oscurità di Is 53 nasce dal fatto che il testo è andato soggetto a molte interpre-tazioni ed è stato continuamente riscritto, prima di approdare alla forma attuale. Si può dire che già i traduttori greci non lo capivano più tanto bene: infatti, la Settanta di Is 53 è più una parafrasi che una traduzione. Mi fermo soltanto sui punti che consentono maggiormente di orientare la nostra interpretazione. 


52,13-15 Esaltazione del servo

Si preannuncia l'esaltazione del servo, in tre termini molto enfatici: «alto ed elevato, sarà molto innalzato» (52,13). Perché tutta questa enfasi? In realtà, i primi due termini (rum e nissà ') sono gli stessi che designano il trono divino in Is 6,1 : «Vidi yhwh seduto su un trono alto ed elevato». Quindi non si tratta -i di una esaltazione qualsiasi, ma di un insediamento del servo sul trono celeste, come il «figlio dell'uomo» di Dn 7. Ricordiamo che anche quella figura può ricevere sia un'interpretazione collettiva (il popolo dei santi), sia un'in-terpretazione individuale (il messia). Ma ciò che più sorprende, è che questa esaltazione fa seguito a una estrema umiliazione. Perciò rappresenta un motivo di stupore, di meraviglia, per le «genti» (52,14-15). Dal punto di vista storico, cioè del contesto deuteroisaiano, nulla si oppone, per adesso, a una lettura in chiave collettiva: le genti si stupiscono che il popolo d'Israele, spaventosamente umiliato durante l'esilio babilonese, ora sia sorprendentemente liberato dall'editto di Ciro, e possa far ritomo a Gerusalemme, che è considerata come il trono del Dio Altissimo.


53,1-10 Noi e Lui

Ascolto o annuncio? L'interpretazione di Is 53,1 è di grande importanza per tutto il seguito. C'è una parola rara in ebraico, dalla radice «ascoltare», che presenta una forte ambiguità. Possiamo tradurla con «ascolto» o «audizione», ma può essere sia qualcosa che uno ha udito, sia qualcosa che egli ha fatto udire, cioè un annunzio. Quindi una delle due: «Chi ha creduto a ciò che abbiamo udito?»; oppure: «Chi ha creduto a ciò che abbiamo annunziato?». Se leggiamo Is 53,1 in continuità con quanto precede in 52,15 (le genti «vedranno ciò che mai è stato loro narrato e intenderanno ciò che mai hanno ascoltato») viene abbastanza spontaneo optare per la prima alternativa, vale a dire: qui prendono la parola le nazioni pagane per confermare in prima persona che ciò che hanno udito a proposito del servo è qualcosa di incredibile, di inaudito. La prospettiva è ancora quella dello stupore circa il destino di tutto Israele, identificato con il servo che porta i peccati di tutte le genti. La Settanta, però, ha fatto propria la seconda possibilità: «Signore, chi ha creduto al nostro annunzio?». La prospettiva non è più quella dello stupore delle genti, ma quella del fallimento di una parte di Israele, il cui annunzio non è stato creduto. Qualcuno fa osservare che, psicologicamente, solo il trasmettitore di un messaggio, non il suo ricettore, si preoccupa della sua credibilità. Comunque sia, qui la prospettiva si rovescia: chi parla è una parte d'Israele e il servo, che è certamente «uno di Israele», diventa il suo messia, poiché solo il messia riscatta Israele dai suoi peccati. Questa è l'interpretazione del Nuovo Testamento (cfr. Rm 10,16). Il testo di Is 53 è aperto in due sensi, a due possibilità di lettura.

Solidarietà o sostituzione? Nei vv. 2-3 si usano delle immagini che sono evidentemente poetiche, e quindi eccessive, non da prendersi alla lettera. «Senza forma, senza avvenenza da farsi notare» (v. 2) non vuoi dire che abbia un aspetto repellente, una forma mostruosa e disumana. Ha, precisamente, la forma di un servo: cioè di qualcuno di cui nessuno si cura, che nessuno tratta con riguardo. «Disprezzato, evitato dagli uomini» (v. 3): semplicemente, nessuno gli faceva caso. Non pensavano che valesse qualcosa, non ne avevano alcuna stima. Ma a partire dal v. 4, segnalato da una forte avversativa «eppure», «invece», nella voce dei testimoni si introduce un elemento di valutazione che cambia completamente la prospettiva. Questo cambiamento di valutazione segna anche una conversione da parte dei narratori. Ritoma il verbo «pensare», «considerare» (hasab, cfr. al v. 3): «Noi lo consideravamo... un colpito da Dio», e invece non era così. Abbiamo dovuto cambiare il nostro modo di pensare. Questo cambiamento di mentalità consiste nel riconoscere che «lui» ha portato le nostre malattie, ha sopportato i nostri dolori. E questo che cosa significa? Che ha condiviso le nostre sofferenze o che le ha portate da solo, al posto nostro? Questo è forse il problema teologico più importante che pone l'interpretazione di questo capitolo isaiano. Su questo, la lettura cristiana e quella ebraica si diversificano molto. Perché, da un punto di vista cristiano, sono ammissibili entrambe le prospettive: sia la solidarietà che la sostituzione; mentre per l'ebraismo la morte dell'innocente al posto dei peccatori è un'idea inaccettabile e considerata poco biblica. Comunque sia, se si parla di «nostri» dolori, di «nostre» malattie, è diffìcile pensare che «noi» non li abbiamo provati, non li conosciamo: vuoi dire che la partecipazione alle stesse sofferenze è l'idea più importante del testo. Ma se l'idea di fondo è quella di una comunione tra «noi» colpevoli e «lui» innocente nelle stesse sofferenze, diventa anche più facile che sia «noi» sia «lui» appartengano allo stesso gruppo, cioè che anche il «noi» narrante sia una voce ebraica. È più diffìcile, o per lo meno meno immediato, pensare a una comunione di sofferenze tra Israele e le nazioni. Al v. 5 la versione CEI traduce: «Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità». Ma si deve osservare che la preposizione ebraica non è «per», ma «da» (min): «trafitto dalle nostre colpe, schiacciato dalle nostre iniquità». Vi è una certa differenza: «per noi» denota un'idea sostitutiva («al posto nostro»), mentre «da» esprime un'idea di causalità: «a causa dei nostri peccati». Quindi, anche qui, si tratta più di solidarietà che di sostituzione. Lui è innocente e noi colpevoli, eppure è stato castigato come noi. Anche dopo, quando si dice: «II castigo della nostra pace è su di lui, nella sua ferita si opera la nostra guarigione», non è da intendere:
a lui il castigo e a noi la pace; a lui la piaga e a noi la guarigione. Anzi, la nostra guarigione non può avvenire senza una adeguata partecipazione alle sofferenze del servo. E qui c'è un collegamento da fare con Is 6,10, il famoso testo dell'in-durimento d'Israele, che fa della guarigione una conseguenza della conversione («si converta» e «guarisca»). Ciò che impedisce la nostra guarigione è proprio
la mancanza di conversione. Ovvero: ciò che la passione del servo fa scattare è proprio la nostra conversione. Benché sia un uomo provato, abituato a soffrire, il servo non è il solo uomo sofferente. Ogni uomo ha le sue piaghe. Ma la passione dell'innocente che si carica delle nostre sofferenze, o che soffre a causa dei nostri peccati, è il luogo della nostra conversione, e quindi della nostra guarigione. Per questo possiamo dire che siamo guariti dalle sue piaghe.
L 'Agnello-Pastore. A un certo punto (v. 6), la voce «noi», che racconta, irrompe entrando a far parte della narrazione: «noi tutti erravamo come un gregge». Questo lascia intendere che il servo è stato il nostro pastore, colui che ci ha radunati, e anche questo si adatta meglio a una interpretazione messianica, individuale, o per lo meno questa è l'interpretazione del Nuovo Testamento, come suggerisce IPt 2,25, che è forse la più completa rilettura neotestamentaria di Is 53. Analogamente, l'immagine dell'agnello mansueto, della pecora muta, che in Ger 11,19 indicava l'inconsapevolezza, al v. 7 sta a dire la volontaria sottomissione. «Non apriva la bocca», ripetuto per due volte, indica una scelta volontaria e consapevole (come Gesù di fronte al Sommo sacerdote). «Si lasciò opprimere»: è questa obbedienza a trasformare le sofferenze patite, a fare di esse una benedizione anche per gli altri.
Morte di un singolo o esilio di un popolo? I vv. 8 e 9 sarebbero forse i più importanti per delineare l'origine e la portata storica di Is 53, di chi veramente si parli, ma dobbiamo restare nell'incertezza perché il testo è molto corrotto, probabilmente in maniera irrimediabile. Secondo la lettura adottata in 8a («dopo arresto e giudizio fu condotto via»), il testo sopporta una interpretazione tanto collettiva quanto individuale. La stessa cosa si può dire di «fu reciso dalla terra dei viventi» (v. 8b): si tratta di un individuo che è stato ucciso, o di tutto il popolo che è stato esiliato fuori della terra d'Israele? L'incertezza, in sede testuale, permane. Anche l'ultima frase del versetto si potrebbe ricostruire (con la Settanta e Qumran):
«Per il peccato del suo popolo fu colpito a morte», ma il Testo Masoretico non consente questa lettura. La stessa «sepoltura con il ricco» è un'espressione che lascia piuttosto perplessi, e non se ne capisce la ragione se non nella passione secondo Matteo (cfr. Mt 27,57-60).
Espiazione. Quindi (v. 10), la voce che narra la passione del servo toma a esprimere una valutazione su di essa dal punto di vista di Dio: «yhwh ha voluto prostrarlo», cioè ha gradito le sue sofferenze. Segue una frase importantissima, dal punto di vista della valutazione di queste sofferenze, ma purtroppo grammaticalmente molto oscura, molto ambigua. In ogni caso, vanno notate almeno due cose: prima di tutto il condizionale ( 'im, «se»), che sottolinea ancora una volta la volontarietà del sacrificio che il servo fa di se stesso. Non è obbligato, potrebbe anche non sacrificarsi. Forse questo testo è aperto profeticamente a un compimento futuro. In secondo luogo, il termine 'asàm, che denota, inequivocabilmente, un sacrificio espiatorio o di riparazione. Vuoi dire che il servo offre la sua vita in sacrificio per gli altri, così come, al v. 12, si dirà che «ha versato la vita fino a morire».
Qui direi che è impossibile sottrarsi ali'idea di una morte espiatrice o «al posto» degli altri, secondo la testimonianza concorde di tutto il Nuovo Testamento. Di questo, vorrei attirare l'attenzione su un solo passo (Gv 12,37-40), in cui si cita Is 53,1 secóndo la Settanta («chi ha creduto al nostro annuncio?») combinato con Is 6 (il tema dell'indurimento d'Israele). Quindi l'evangelista conclude: «Questo Isaia disse, perché vide la sua gloria e parlò di lui» (Gv 12,41). Per Giovanni non ci sono tré Isaia, ce n'è uno solo. Colui che ha visto la gloria di Dio (al e. 6) è lo stesso che ha parlato di «Lui» (al e. 53). Isaia ha visto la gloria del messia proprio parlando del servo del Signore: ha profetizzato la gloria della croce!


53,11-12 Resurrezione










La terza parte dell'oracolo isaiano (A') ci ripresenta le cose come in principio (A): come un oracolo divino riguardante il servo e indirizzato ai «molti» che sono le genti straniere. In un certo senso, si ribadisce la prospettiva ermeneutica iniziale, che favorisce un'interpretazione collettiva del servo-Israele in mezzo alle nazioni. Ma abbiamo visto che, nel quadro di questa prospettiva più ampia, Is 53 ne rende possibile anche un'altra, nella dialettica tra un «noi» e un «lui» più strettamente solidali. Comunque, due sono gli spunti principali di questa conclusione: la resurrezione (rinascita) del servo, resa più esplicita a Qumran e nella Settanta («vedrà la luce») e la giustificazione degli empi da parte dell'unico giusto, attraverso il suo sacrificio e la sua intercessione.

Alberto Mello (Comunità di Bose)

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