giovedì 21 marzo 2013

Spiritualità del Vangelo di Giovanni


LA PAROLA DI VITA

II prologo di Giovanni presenta Gesù Cristo come la parola, logos, fatta carne, in modo da fornire al lettore una precomprensione di tutto ciò che seguirà. «In principio era la parola e la parola era con Dio e la parola era Dio» (1, 1). Le parole umane sono suoni udibili che manifestano i pensieri, i sentimenti, gli stati d'animo, il potere e la personalità invisibili di chi parla. Logos in greco significa anche ragione, donde il termine «logico», ma nel giudaismo ellenistico indicava la sapienza di Dio per mezzo della quale egli ha creato il mondo, mentre nella filosofia stoica denotava il fattore intelligente e immanente che da razionalità all'universo. Chiamando il Cristo preincarnato «parola», Giovanni evoca quindi deliberatamente alla mente dei lettori diverse connotazioni che si devono sia al giudaismo sia al mondo ellenistico. La novità del prologo, d'altra parte, consiste in ciò: se nel giudaismo «parola» era sinonimo di «sapienza», la personificazione di un attributo divino, e nella filosofia una anima mundi impersonale, in Giovanni è una persona che s'incarna in Gesù e rivela il vero volto di Dio: «Nessuno ha mai visto Dio. È Dio l'unigenito Figlio, che è vicino al cuore del Padre, che lo ha fatto conoscere» (i,18); «Chiunque ha visto me ha visto il Padre» (14,9).
«In lui (sc. nella parola) era la vita e la vita era la luce di tutti gli uomini» (1,4). Vita è la pienezza dell'essere e dell'esistenza, che è l'essenza di Dio comunicata alla parola;
il suo fulgore splende sull'umanità, aprendone gli occhi sulla verità, su Dio stesso. Rigettare la luce, la rivelazione, significa rigettare la vita stessa, lasciando le persone nelle tenebre del «mondo», tenebre che conducono alla morte. «La luce splende nelle tenebre e le tenebre non l'hanno vinta» (1,5) giacché tale fulgore ha in sé la potenza della vita. La vita e la verità possono essere crocifisse perché «il mondo non lo riconobbe» (i,io), ma non possono estinguersi perché l'almo potere di Dio sconfigge la morte medesima. «Ma a tutti coloro che lo accolsero, che credettero nel suo nome, diede il potere di divenire figli di Dio, i quali erano nati non da sangue né da volontà di carne né dal volere di un uomo ma da Dio» (1,12-13). Ciò che l'unigenito ha ricevuto dal Padre sarà ora condiviso da coloro che credono; costoro sono nati a un'esistenza più alta e acquistano una nuova personalità, incarnata nella filiazione di Cristo, e la partecipazione al dinamismo della vita divina.
«E la parola divenne carne e visse tra noi... piena di grazia e verità» (1,14). Ciò si può parafrasare come segue: «la parola divenne un essere umano, con tutti i suoi limiti fisici e psicologici; egli dimorò tra noi come se fosse uno straniero, eppure portò con sé la pienezza dell'amore del Padre e la realtà di tutto ciò che era stato prefigurato nella rivelazione precedente». Grazia e verità possono essere i termini di una endiadi che indica proprio il dono della verità, oppure la vera grazia contrapposta alla oscura inadeguatezza della manifestazione di Dio nell'Antico Testamento; in effetti, «la legge fu data appunto per mezzo di Mosè; la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo» (1,17).
Il prologo viene sovente paragonato al preludio di una delle opere di Wagner, che contiene le principali toniche musicali sulle quali i diversi personaggi svilupperanno poi le arie per caratterizzarle. È ad alcune di queste arie che ora si volgerà l'attenzione.


LEGGERE I SEGNI

Si è già osservato che Giovanni chiama i miracoli di Gesù «segni», nel senso che essi non sono fine a se stessi, non rappresentano meri atti caritatevoli, ma rimandano a qualcosa oltre il miracolo stesso e devono essere interpretati in tale ottica se si vuole evincerne un qualche significato. Sant'Agostino paragona i miracoli a un bellissimo manoscritto mostrato a un analfabeta: questi può ammirare la bellezza delle lettere, che tuttavia per lui rimangono prive di senso.

L’Agnello di Dio
Giovanni introduce il ministero pubblico di Gesù con la testimonianza del Battista: «Ecco l'agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo! Questi è colui del quale ho detto: Dopo di me viene un uomo che viene davanti a me perché era prima di me» (1,29). Giovanni testimonia di aver visto lo Spirito discendere su Gesù al momento del battesimo, a indicare che egli doveva battezzare con lo Spirito e non con la sola acqua. Giovanni ne deduce che Gesù è il figlio di Dio (1,32-34). L'epiteto «agnello di Dio» rimanda all'agnello pasquale, nonché al servo sofferente di Is. 53,7; ciò vale anche per il cenno allo Spirito che discende su Gesù (Is. 42,1), sebbene il Battista vada oltre e proclami la filiazione di Gesù nel senso della preesistenza della parola.
Due discepoli di Giovanni ne accolgono la testimonianza e seguono Gesù. Essi gli chiedono con tutta semplicità: «Dove stai?», intendendo: «Dove vivi?»; egli risponde: «Venite e vedrete». Egli non può fornire loro un indirizzo, giacché la sua dimora è in cielo con il Padre, ma lo capiranno solo coloro che «trascorrono un giorno» con lui, ossia coloro che fanno esperienza della sua amicizia.
L'evangelista indica il momento preciso di questo incontro e nel corso della narrazione scruta sovente l'ora, finché non giunge l'«ora suprema», sollecitando in tal modo il lettore a trascorrere «un giorno» meditando sul vangelo per arrivare a comprendere dove Gesù abiti veramente (1,35-39).
Questi due discepoli si precipitano a diffondere la parola e i vv. 41-51 riportano alcune confessioni di fede che seguono un semplice incontro con Gesù: «Abbiamo trovato il messia» (v. 41); «Abbiamo trovato colui del quale scrissero Mosè nella legge e anche i profeti. Gesù figlio di Giuseppe da Nazaret» (v. 45); «Rabbi, tu sei il figlio di Dio! Tu sei il rè d'Israele!» (v. 49).

Cana
Il primo vero «segno» che Gesù opera è la trasformazione dell'acqua in vino a Cana (2,1-11), in cui egli manifesta la propria gloria e i discepoli credono in lui. Questo celebre racconto è stato per secoli una crux interfretum; lo si commenterà brevemente in accordo con alcuni ese-geti moderni. La trasformazione dell'acqua in vino sarebbe un miracolo alquanto inutile se non avesse un significato più profondo; nei particolari del racconto si rinviene la chiave per interpretarlo. Il contesto è costituito da un matrimonio cui probabilmente partecipava l'intero villaggio, ed è pertanto un'occasione gioiosa, guastata soltanto dal venir meno del vino durante i festeggiamenti. Giovanni non menziona altre nozze ne altri sposi. In Mt. 9,15 si ritrova Gesù in veste di sposo e in Ef. 5,32, nonché Apoc. 21, è la chiesa a essere la sposa di Cristo. Forse l'evangelista intende suggerire che fosse Gesù il vero sposo? In questo secondo capitolo Giovanni introduce per la prima volta anche la «madre di Gesù». È lei a notare il disagio della coppia per la mancanza di vino e coinvolge suo figlio con grande semplicità. Ciò implica una richiesta di aiuto di qualsiasi sorta? La risposta di Gesù è sorprendente: «Donna, che ci riguarda? La mia ora non è ancora giunta» (v. 4); non desta minor meraviglia la replica di Maria, quando ordina ai servi di fare qualsiasi cosa Gesù dirà. Al pari di molte parabole, la mancanza di logica nel racconto mette in rilievo il principio secondo cui la logica «di lassù» non segue il corso della razionalità «di quaggiù». Anzitutto, è inconsueto l'appellativo «donna»: perché non «madre»? Gesù le si rivolge in maniera analoga in Gv. 19,26, allorché era giunta l'ora di essere «innalzato», e tale occorrenza comune collega i due episodi. La notazione che le sei grandi giare d'acqua servivano «per i riti di purificazione dei giudei» (v. 6) è indispensabile per interpretare l’intero passo: esse simboleggiano i riti di purificazione dell'Antico Testamento che Gesù convertirà nello squisito vino del Nuovo; non ora, in ogni caso, ma quando verrà la sua ora, l'ora di essere innalzato sulla croce e al Padre. Solo allora il miracolo simbolico di Gesù a Cana troverà la sua vera concretizzazione. È altresì allora che egli designerà sua madre quale madre del discepolo prediletto e di tutta la chiesa. L'osservazione che nessuno sapesse donde provenisse questo buon vino a eccezione dei diakonoi, i servi (v. 9), rimanda ai discepoli che un giorno dispenseranno il vino del Nuovo Testamento a tutti coloro che partecipano alle nozze dell'agnello con la sua sposa celeste (cf. Apoc. 21,9-11). Dopo aver visto tale segno, «i discepoli credettero in lui» (v. 11).

Il tempio e Nicodemo
Il segno successivo, non miracoloso, è la purificazione del tempio, occasione in cui Gesù proclama: «Distruggete questo tempio e in tré giorni lo ricostruirò» (2,19), intendendo, commenta Giovanni, il tempio del proprio corpo (2,21). Il detto, a dire dei sinottici, fu menzionato contro di lui al processo e fornì il pretesto per la sua condanna. Durante la pasqua, prosegue il racconto, molti credettero nel suo nome vedendone i miracoli, ma Gesù «non si affidava a loro, giacché li conosceva tutti e non v'era bisogno che qualcuno testimoniasse per l'altro,perché egli stesso sapeva che cosa v'era in ciascuno» (2, 23-25).
Forse uno di questi era Nicodemo, la cui visita a Gesù è riportata in 3,1-15. Quegli venne «di notte» perché la sua mente era ancora ottenebrata; aveva osservato con stupore i segni di Gesù, ma non sapeva «leggerli» e solo in seguito avrebbe visto la luce. La conversazione tra Gesù e questo membro del sinedrio funge da modello per confronti analoghi che la comunità giovannea ebbe con giudei ben intenzionati, che erano attratti dal cristianesimo e si meravigliavano che in esso vi fossero carismi e miracoli. L'essenza del messaggio di Gesù e della comunità è che le buone intenzioni non bastano; per entrare nel regno di Dio è indispensabile il battesimo, e non le mere purificazioni dei giudei o il rituale del Battista, bensì il battesimo di Gesù, che conferisce lo Spirito santo, fondamento dello status della nuova alleanza. Esso rigenera la persona di modo che appartenga ora al mondo «di lassù». Il figlio del-l'uomo che discendeva «di lassù» doveva essere «innalzato», dapprima sulla croce, poi nei cieli, e la fede in lui trasportava anche il credente in una esistenza più elevata. A prescindere dal battesimo con lo Spirito, il neofita doveva accettare il kerygma giovanneo, compendiato nei vv. 16-21 e 31-36 e in / Gv. 4,7-10: la presenza del Figlio è un segno dell'amore del Padre per il mondo; egli è qui in veste di salvatore, non di giudice. La condanna è il giudizio che s'infliggono coloro che rifiutano di credere nella luce e preferiscono le opere malvagie delle tenebre. Anche qui si può ricordare sant'Agostino, a detta del quale occhi malati odiano la stessa luce che occhi sani amano tanto intensamente. Gesù viene dall'alto e riferisce ciò che ha udito da Dio, che è amore; credere alle sue parole significa quindi ricevere la vita eterna, che lo Spirito trasmette illimitatamente. La prima lettera di Giovanni aggiunge che l'amore di Dio si manifesta nell'invio del Figlio per l'espiazione dei nostri peccati. Questo è il significato effettivo dei segni di Gesù: chiunque riesca a interpretarli chiaramente risponde con una confessione di fede che corrisponde alla predicazione di Giovanni.


Samaritana
Il fatto della risposta di fede alla manifestazione che Gesù da di sé per mezzo di segni può essere esaminato nell'incontro con la samaritana al pozzo (4,1-42). Nel corso della conversazione ci s'imbatte nuovamente nel confronto tra l'acqua del pozzo di Giacobbe e l'acqua viva della vita eterna elargita da Cristo. Il dialogo è tipicamente gio-vanneo: Gesù parla di cose celesti, di lassù, ma l'interlocutore le intende in maniera terrena, di quaggiù. Il segno di Gesù consiste nel raccontare a questa donna sconosciuta tutta la sua vita passata; indi egli prosegue dicendole che il culto della nuova alleanza non sarà legato a un tempio locale ma sarà un culto di adorazione «in Spirito e verità», nel suo corpo, come si è già osservato. Egli infine dichiara di essere il messia (ta'eb) atteso sia dai giudei sia dai samaritani (4,26). La donna risponde dapprima trattandolo con disprezzo, in quanto giudeo; in seguito lo chiama «signore» e allorché Gesù ha letto nel suo cuore e le ha svelato la sua vita segreta ella, seppure ancora immatura, lo riconosce quale «profeta» e lo annuncia al proprio popolo come possibile messia; il racconto si conclude con la confessione che egli è davvero «il salvatore del mondo». Questa volta la luce ha brillato nelle tenebre e le ha pienamente illuminate.

Il cieco
Accade esattamente il contrario nella guarigione dell'uomo nato cieco del capitolo 9. Questo non è un miracolo prodigioso, è un segno che, se interpretato correttamente nella sua ricca tipologia, chiarifica sia la persona sia la missione di Gesù. L'intera questione verte sulla cecità dei farisei che si adoperano per negare o per liquidare la vicenda divenuta celeberrima. La tipologia del racconto rievoca la teologia presente nell'episodio di Nicodemo. Il cieco viene unto e gli viene detto di lavarsi gli occhi nella fontana di Siloe, il cui nome viene tradotto con «inviato», a indicare il battesimo nell'«inviato» che è Cristo (v. 7). Nel cristianesimo primitivo il battesimo era chiamato photismos, illuminazione. Si può osservare il processo di illuminazione spirituale nell'uomo che venne guarito. Egli dapprima parla di Gesù come dell'«uomo chiamato Gesù» (v. n), indi dichiara che è un profeta (v. 17), motivo per il quale è espulso dalla sinagoga, e infine lo confessa quale figlio dell'uomo (vv. 35-38). Si è assistito a un processo di illuminazione analogo nella samaritana. Secondo la prospettiva giovannea, riconoscere Gesù quale profeta è positivo, ma insufficiente. Gesù è molto più di un profeta dei tempi antichi: è il figlio dell'uomo, il salvatore del mondo e deve essere confessato come tale. Il processo di illuminazione è in netto contrasto con la cecità dei farisei. In 8,12 Gesù proclama: «io sono la luce del mondo»; ora afferma: «'Sono venuto in questo mondo per giudicare di modo che coloro che non vedono possano vedere, e coloro che vedono possano divenire ciechi.' Alcuni farisei nei pressi udirono ciò e gli chiesero: 'Certo non siamo ciechi, non è vero?'. Gesù disse loro: 'Se foste ciechi non avreste peccato. Ma ora che dite: 'Noi vediamo', il vostro peccato rimane'» (vv. 39-41).

Lazzaro
Un ultimo esempio del contrasto di fede e cecità è fornito dall'episodio della risurrezione di Lazzaro nel cap. n, che prefigura la risurrezione di Gesù. Il miracolo è preceduto da un detto con «io sono»: «io sono la risurrezione e la vita. Chi crede in me, anche se muore vivrà, e chiunque vive e crede in me non morirà mai» (11,25), seguito dalla confessione di Marta: «Credo che tu sia il messia, il figlio di Dio, colui che viene nel mondo» (v. 27). Poiché la circostanza è tanto chiara che soltanto un cieco potrebbe negarla, i farisei stabiliscono di uccidere Lazzaro per eliminare la prova, come se (ancora Agostino) colui che risuscitò se stesso dai morti non potesse risuscitare nuovamente un Lazzaro assassinato. Non sorprende allora che la prima parte del vangelo si concluda con la citazione di Is. 6,10: «Ha accecato i loro occhi e indurito il loro cuore, affinché non possano guardare con gli occhi e capire con il cuore e convenirsi - e io li guarisca» (12,40).



IL PANE DELLA VITA

Nel capitolo 6 Giovanni riprende i racconti della moltiplicazione dei pani che ricorrono in Me. 6,32-44 e 8,1-10. Come di consueto, si ascolta l'annuncio di Gesù: «io sono il pane della vita. Chiunque viene a me non avrà mai fame e chiunque crede in me non avrà mai sete» (v. 35). Questa volta le persone semplici che assistono al miracolo vogliono «farlo rè» (v. 15), ma Gesù, sapendo che la sua regalità «non è di questo mondo» (18,36), sale su un monte a pregare per i discepoli che sono in pericolo sul lago in tempesta, nello stesso modo in cui in seguito ascenderà al cielo per intercedere per la chiesa. Il lungo discorso su Cristo che, quale pane della vita, discese dal cielo rimanda alla manna nel deserto, pur ponendosi in contrapposizione ad essa giacché questa rappresentava solo un pane materiale e coloro che la mangiarono alla fine morirono. Mangiare, nel senso di credere in Gesù, conferirà la vita eterna e l'immortalità (vv. 49-51). Nell'Antico Testamento, la sapienza invita tutti a partecipare del suo potere che da la vita (Sir. 24,19-21). Gesù è la sapienza stessa divenuta carne ed è la carne di Gesù che ora deve essere mangiata (v. 51). Non tutti lo comprendono, soltanto coloro che sono istruiti da Dio (vv. 41 ss.; cf. Is. 54,13; Ger. 31, 34). Certo, non sono unicamente i giudei a scandalizzarsi di questo detto, ma anche alcuni discepoli che «si tirarono indietro e non si accompagnarono più a lui» (v. 66), rappresentati dalla defezione di Giuda (v. 71) e altresì emblema dei docetisti che in seguito negheranno la realtà del corpo di Gesù (z Gv. 4,2; 2 Gv. 7). Per evitare qualsia-si interpretazione antropofagica Giovanni chiarifica ulteriormente che la carne di cui Gesù parla è la carne del Cristo risorto, il figlio dell'uomo asceso al cielo cui appartiene (v. 62), ma è solo per mezzo dell'illuminazione dello Spirito santo che questa dottrina può essere compresa (v. 63). In effetti, allorché viene chiesto ai dodici se anche loro vogliano abbandonare Gesù, essi rispondono tramite Pietro, istruito dal Padre: «Signore, da chi possiamo andare? Tu hai parole di vita eterna. Noi siamo giunti a credere e sapere che tu sei il Santo di Dio» (vv. 68-69).
Il significato dell'eucaristia è stato esaminato in un capitolo precedente. Qui basti rilevare che Giovanni ripropone, con la propria terminologia, i fondamenti della dottrina che si trova nei sinottici e in Paolo: si impiega «carne» in luogo di «corpo»; «per la vita del mondo» sostituisce «dato per voi», la vita eterna promessa a tutti coloro che mangiano la sua carne e bevono il suo sangue corrisponde alla visione escatologica di Paolo.


IO E IL PADRE SIAMO UNO

Si è osservato che ciascuno dei segni di Giovanni è seguito da un detto con «io sono» e da una confessione di fede in risposta. Il segno più grande di Gesù è evidentemente la sua risurrezione; è a tale evento che si riferisce allorché gli chiesero, dopo la purificazione del tempio: «Quale segno puoi mostrarci per fare ciò?» (2,18). La risposta fu la risurrezione del suo corpo il terzo giorno. È quindi chiaro che la confessione di fede più grande che si possa incontrare nel vangelo è l'esternazione di Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!» (20,28). Giovanni riteneva ceno accettabile e approvava che Gesù.vemsse indicato quale profeta, messia, figlio dell'uomo, figlio di Dio, rè e salvatore del mondo, ma la peculiarità della cristologia giovannea è che Gesù, la parola fatta carne, è Dio. Nei sinottici si ritrova un cenno a tale affermazione nel processo di Gesù. L'ammissione d'essere il figlio di Dio ne determinò la condanna per blasfemia, a indicare che il sinedrio aveva compreso, forse anche meglio dei discepoli stessi, le implicazioni di una rivendicazione del genere. Giovanni non riporta tale processo alla fine del ministero di Gesù; egli riferisce soltanto il processo davanti a Filato, che giudica Gesù innocente, ma tutto il quarto vangelo ha un impianto processuale, in particolare i capp. 5, 7, 8 e io. L'ultima condanna è quella di 11,47-53, dopo la dichiarazione profetica di Caifa secondo cui «è meglio per voi che muoia un uomo solo per il popolo piuttosto che venga distrutta la nazione intera».
In Gv. 5 ricorre un lungo discorso di Gesù in risposta all'accusa, da parte dei giudei, di aver curato di sabato un uomo alla piscina di Betesda. Egli lo introduce affermando: «II Padre mio è ancora all'opera e anch'io lo sono» (v. 17), che provoca la grave accusa di essersi fatto uguale a Dio. Il racconto di questo miracolo è già simbolico: i cinque portici della piscina, sotto i quali giace una moltitudine di invalidi, rimandano al Pentateuco. Nel rispondere, Gesù affronta tré questioni salienti in cui afferma di agire di conserva con il Padre (vv. 19-24); di aver ricevuto dal Padre la pienezza della vita a beneficio dell'umanità (vv. 25-30); di avere Dio come testimone (vv. 31-38). La logica di queste tré argomentazioni costituisce una risposta esauriente all'accusa secondo cui una guarigione di sabato non è opera di Dio. Il Padre è sempre all'opera, e parimenti il figlio. La guarigione di un invalido è un segno del potere creatore di Gesù; Dio gli rende testimonianza per mezzo dei miracoli.
Il Padre, cui il Figlio è unito in amore perfetto, ha concesso a quest'ultimo sia il potere di dare la vita sia quello di giudicare: il Figlio può risuscitare i morti al pari del Padre e ha facoltà di giudizio, di modo che il rispetto per Dio non possa essere separato da quello per il Figlio. Rigettare la fede nel Figlio equivale a una condanna, mentre credere conduce alla vita eterna. La risurrezione dei morti deriva dalla pienezza di vita che il Figlio ha ricevuto dal Padre. Gesù non è solo il figlio di Dio, è anche il figlio dell'uomo di cui ha parlato Daniele (7,13-14): egli può quindi giudicare, ma il suo giudizio è conforme a quello del Padre. Infine, Gesù non rende testimonianza a se stesso; il Battista ha già testimoniato per lui. Piuttosto, sono i miracoli a rendergli testimonianza, unitamente alle Scritture. Se si è arrivati a comprendere Mosè in modo appropriato e se si è accordato l'orecchio alla voce di Dio, la si riconoscerà prontamente nelle parole e nelle azioni di Gesù.
Il discorso di Gesù nel tempio durante la festa dei tabernacoli, riportato nel cap. 7, prosegue quello del capitolo 5 come se non esistesse il cap. 6, interposto tra i due. Egli accusa i giudei di non osservare la legge di Mosè e di non conoscere Dio. Ciò provoca un dissidio tra la folla:
alcuni iniziano a dubitare, altri affermano che sia pazzo. Non può essere il messia, ribadiscono, perché non viene da Betlemme, mostrando in tal modo - secondo Giovanni - di ignorare sia l'origine divina sia quella umana di Gesù. Nei vv. 33-39 Gesù preannuncia il suo ritorno nel cielo da cui era disceso e l'invio dello Spirito santo su coloro che credono in lui. Ancora una volta è accolto con diffidenza e incredulità dalle autorità giudaiche.
Ma è nel capitolo successivo che le rivendicazioni divine di Gesù raggiungono il culmine. Riportando i discorsi inerenti alla controversia con i giudei, Giovanni riprende il suo consueto stile a spirale, ripetendo le tematiche del capitolo precedente ma a un livello più alto. Gesù esordisce proclamandosi luce del mondo (8,12) e in replica all'accusa di stare portando testimonianza a se stesso dice:
«Anche se testimonio per me stesso, la mia testimonianza è valida perché so da dove sono venuto e dove sto andando... Io testimonio per me stesso e il Padre che mi ha mandato mi rende testimonianza... Voi non conoscete me ne il Padre mio. Se mi conosceste conoscereste anche il Padre mio» (8,14.18.19). La loro ignoranza dipende da questo: «voi siete di quaggiù, io sono di lassù; voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo» (v. 23). Qui Gesù introduce la definizione di sé come «io sono» assoluto, senza predicato, nello stile del «sono chi sono» di Jahvé in Es. 3,14; ma ciò si paleserà soltanto quando verrà innalzato, prima sulla croce poi al cielo cui appartiene (v. 28). Segue una controversia su Abramo, che si conclude col detto cruciale: «In verità vi dico, prima che Abramo fosse, io sono» (v. 58). È un «io sono» di preesistenza divina e di eternità. «E allora afferrarono delle pietre per lanciargliele addosso, ma Gesù si nascose e uscì dal tempio» (v. 59). Come a Cana, la sua «ora» non era ancora giunta.



LA MANIFESTAZIONE AI DISCEPOLI

I cinque capitoli che precedono il resoconto giovanneo della passione sostituiscono il racconto dell'ultima cena dei sinottici. Vengono tradizionalmente definiti discorsi di addio e appartengono a un genere letterario che ricorre sovente nella Bibbia. Gesù apre il proprio cuore ai discepoli per accrescerne la fede e prepararli alla missione.
«Ora, prima della festività di pasqua. Gesù sapeva che era giunta l'ora di lasciare questo mondo e di andare al Padre. Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (13,1). Tale esordio solenne introduce la lavanda dei piedi di Gesù ai discepoli. Lavare i piedi era di norma un compito degli schiavi e questo è proprio il motivo per il quale Gesù lo avoca a sé: «Sapete che cosa vi ho fatto? Voi mi chiamate maestro e signore - e avete ragione, perché è ciò che sono. Perciò se io, vostro signore e maestro, vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavarli gli uni agli altri» (13,12-14). E una lezione di umiltà e servizio reciproco.
Un episodio che getta un'ombra su questo incontro è la predizione, da parte di Gesù, del tradimento di Giuda. Per Giovanni, Giuda diviene il prototipo di tutti coloro che abbandonano la fede in Cristo. Il boccone che Gesù offre da mangiare a Giuda, un atto d'amore ma anche un monito, fa entrare dentro di lui Satana, che poi lo conduce nella notte «del mondo» dove troverà la morte in luogo della vita eterna. Nel vangelo giovanneo l'ingiunzione reiterata a «rimanere in me» costituisce un'esortazione a tutti credenti a non abbandonare la salda fede in Gesù e a non ricadere nelle tenebre di un mondo dominato dal maligno (13,21-30). Nondimeno, Gesù può perdonare il triplice rinnegamento di Pietro giacché è da attribuire alla debolezza, più che alla mancanza di amore (vv. 36-38).
Quando Giuda si allontana. Gesù annuncia la reciproca glorificazione del figlio dell'uomo e di Dio, nonché il proprio ritorno al Padre. Egli lascia loro, a guisa di testamento, il «comandamento nuovo» di amarsi gli uni gli altri come egli ha amato loro. La novità di tale comandamento consiste nel modo in cui viene concepito l'amore; è «l'amore sino alla fine» di 13,1 a sacrificare vicendevolmente le proprie vite; sarà il segno distintivo del vero discepolato in tutto il mondo (v. 35).
Gesù ritorna al Padre per preparare il ritorno dei discepoli. La risposta alla perplessità di Tommaso su dove egli stia andando, «io sono la via, la verità e la vita. Nessuno giunge al Padre se non attraverso di me» (14,6), è una chiara affermazione che Cristo è l'unico mediatore tra Dio e l'umanità; egli è la verità personificata dell'amore del Padre, poiché «m lui era la vita e la vita era la luce di tutti» (1,4). La sua rivelazione è lo splendore che emana dall'almo potere della vita stessa di Dio. Ne consegue che l'ingenua richiesta di Filippo, «Signore, mostraci il Padre e saremo soddisfatti» (14,8-10), può avere una sola risposta: «Chiunque ha visto me ha visto il Padre... Io sono nel Padre e il Padre è in me». Qui «vedere» implica quella fede salda in Gesù che scorge il fulgore della divinità splendere per mezzo della sua umanità e può confessare: «Abbiamo visto la sua gloria, la gloria come di unigenito del Padre» (1,14). Ciò alludeva forse alla trasfigurazione di Mc. 9,2-8?
La percezione della fede è resa possibile dallo Spirito santo, cui rimandano diversi passi di questi capitoli: 14,16-17; 15,26-27; 16,7-15. Giovanni chiama lo Spirito parakletos, un termine che è arduo tradurre con una parola sola; talvolta viene tradotto con «consigliere», altre con «consolatore» o «avvocato». In realtà, come indica l'etimologia del termine, il parakletos era. un amico che ti affiancava in un processo o nelle tribolazioni per consigliarti e difendere la tua causa, nonché per offrire conforto. Allorché Gesù parla di «un altro parakletos» implica di esserlo egli stesso nella misura in cui intercede per noi presso il Padre, ci illumina e ci consola. I passi sullo Spirito verranno collegati tra loro al fine di compendiarne il messaggio, che occupa un posto cruciale nella dottrina e nella spiritualità giovannee.
Lo Spirito è concesso dal Padre per mezzo dell'intercessione di Gesù e rimarrà per sempre con la chiesa. È Spirito di verità giacché funge costantemente da memento dell'insegnamento di Gesù, che è verità. Soltanto coloro che amano Gesù e ne osservano i comandamenti a credere in lui e ad amarsi scambievolmente possono percepire la presenza dello Spirito; il mondo non ci riesce a causa della cecità nella fede. Lo Spirito infatti procede dal Padre, che rende testimonianza a Gesù, e pertanto anch'esso gli sarà testimone e sosterrà tutti i credenti affinché facciano altrettanto. Esso verrà nel mondo allorché Gesù sarà glorificato nel cielo, poiché è il Cristo risorto che invierà lo Spirito per perpetuare nella storia la propria presenza tra i credenti. Il mondo ha condannato Cristo; ora è tempo che Cristo condanni il mondo per mezzo dello Spirito, che agirà da pubblico ministero per imputargli la mancanza di fede in Gesù e l'ingiustizia perpetrata nel condannarlo a morte, ora che Dio gli ha reso testimonianza innalzandolo al cielo, e per pronunciare la condanna finale di Satana, fonte della malvagità e della cecità «del mondo», di cui è signore. A ogni modo, all'interno della chiesa lo Spirito non solo continuerà, ma estenderà anche l'insegnamento di Gesù adeguandolo alle esigenze dei tempi, e donerà ai credenti lo spirito della profezia. Giacche Cristo ha le medesime peculiarità del Padre, qualsiasi rivelazione dello Spirito è rivelazione sia del Padre sia del Figlio. È in tal modo che il parakletos glorificherà Cristo.
Anche se lo Spirito, al pari del vento, «soffia dove vuole» (3,8), lo ricevono coloro che non solo credono, ma rimangono in Cristo. Giovanni traspone la metafora paolina del corpo (mistico) di Cristo in quella della vite e dei tralci (15,1-11). Gesù è la vite, i tralci sono coloro che credono in lui e non possono portare da soli il frutto delle opere d'amore: ciò è possibile unicamente se restano attaccati alla vite. Se si separano, seccheranno e diverranno soltanto materiale da ardere. Rimanere in Gesù significa osservarne i comandamenti; se i credenti ne seguono sinceramente l'insegnamento, possono chiedere a Dio qualsiasi cosa e la otterranno per l'amore che il Padre gli porta. Coloro che credono sono stati scelti da Cristo e, pertanto, non sono più servi, ma amici (15,14-15). Per questo motivo essi saranno odiati da quel medesimo mondo che ha odiato Gesù e il Padre e, di conseguenza, patiranno il suo stesso destino (15,18-25).

( da Prosper Grech, Spiritualità del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 2013, 121-133)
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