mercoledì 20 marzo 2013

La morte di Gesù secondo Giovanni


Allora lo consegnò loro perché fosse crocifisso. Essi presero Gesù ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo detto del Cranio, in ebraico Gòlgota, dove lo crocifissero e con lui altri due, uno da una parte e uno dall’altra, e Gesù in mezzo. 

Prendiamo innanzitutto in considerazione alcuni aspetti che caratterizzano il testo. Con l'espressione: «Portando su se stesso la croce», Giovanni non ignora che Gesù sia stato aiutato dal Cireneo, ma la croce di cui Gesù si fa carico non è semplicemente il pezzo di legno che si porta sulle spalle, ma è la scelta di dono e di esproprio totale di sé. Rinnegare totalmente se stesso e portare la propria croce significa farsi dono a oltranza, ed è esattamente quello che compie Gesù. L'assoluta volontà di dono, di oblatività totale e di completo svuotamento di sé è caratteristica di Gesù ed è proprio quest'ultima a spingerlo sulla croce.


Epigrafe

Pilato compose anche l’iscrizione e la fece porre sulla croce; vi era scritto: «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei».  Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove Gesù fu crocifisso era vicino alla città; era scritta in ebraico, in latino e in greco.  I capi dei sacerdoti dei Giudei dissero allora a Pilato: «Non scrivere: “Il re dei Giudei”, ma: “Costui ha detto: Io sono il re dei Giudei”».  Rispose Pilato: «Quel che ho scritto, ho scritto». 

Per far sì che i Giudei leggessero l'iscrizione era sufficiente conoscere l'ebraico, lingua da loro utilizzata comunemente. In questa particolare circostanza però è fondamentale sottolineare l'uso intenzionale, oltre che dell'ebraico, del latino e del greco, le lingue ali'epoca maggiormente diffuse nel bacino del Mediterraneo. Ciò significa che la regalità affermata di Gesù racchiude in sé una spinta di universalità che supera la cerchia immediata dei Giudei e assume una valenza globale.
Pilato con quest'iscrizione proclama a tutti gli effetti la regalità di Gesù. Egli stesso ha detto a Pilato che il suo regno non è di questo mondo; però rimane comunque re: Gesù dunque porta un contesto di valori nuovi, basati sulla sua verità, e di questo contesto lui è il garante assoluto.
A questo punto è necessario aprire una breve parentesi esplicativa e precisare che il re nella concezione semitica viene solitamente paragonato a una piramide rovesciata, che poggia interamente su un unico punto. La piramide, sciogliendo la metafora, rappresenta il popolo e, di conseguenza, ogni cosa che riguarda il popolo in termini di giustizia, difesa e prosperità dipende direttamente dal re. Gesù è re dei Giudei, ma non è affatto sua intenzione dominarli o assoggettarli al suo potere. Il suo essere re va interpretato nella generosa ottica di servizio, secondo la quale i problemi di tutti graveranno su di lui. Ma non solo: egli si fa carico dei dolori, delle sofferenze, delle problematiche dell'umanità intera già in questa situazione di crocifisso. Egli è re adesso e, proprio in questo stato di apparente sconfitta e prostrazione, fonda il suo regno di dono totale e gratuito di sé. Il fatto che Gesù sia re dei Giudei coinvolge tutto il popolo di Dio, e quindi ha una portata universale che mira realmente a raggiungere ogni uomo. Proprio in questa situazione di oblatività assoluta Gesù diventa la luce venuta nel mondo per illuminare ogni uomo, come Giovanni ci ha comunicato fin dall'inizio del Vangelo (vedi ancora 1,5.8-9). La regalità che coinvolge l'umanità intera e diventa universale è quindi permanente; sebbene vi saranno opposizioni, nulla la potrà scalfire. La proclamazione di Filato ormai è tale e tale rimarrà: la regalità di Gesù sarà dunque perenne.


La tunica

I soldati poi, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti, ne fecero quattro parti – una per ciascun soldato – e la tunica. Ma quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo.  Perciò dissero tra loro: «Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca». Così si compiva la Scrittura, che dice: Si sono divisi tra loro le mie vesti e sulla mia tunica hanno gettato la sorte. E i soldati fecero così. 

L'insistenza dell'evangelista sul particolare della tunica non è semplicemente finalizzata a mostrare la puntuale corrispondenza col Salmo 22, ma racchiude in sé un significato aggiuntivo. All'apparenza sarebbe stato sufficiente limitarsi a un generico riferimento alla tunica, ma Giovanni aggiunge un'ulteriore precisazione: «Tessuta da cima a fondo», cioè dall'alto in basso, ovvero tutta d'un pezzo. I soldati non vogliono ridurla a brandelli per non sciuparla, indizio evidente dell'intenzione di mantenere un'integrità che riguarda da vicino l'episodio della crocifissione. L'unità a cui probabilmente si intende alludere è quella della Chiesa: anche se alcuni studiosi hanno ipotizzato che il rimando fosse invece riconducibile ali'abito del sommo sacerdote, questa teoria, diversamente che in Apocalisse (cf. Ap 1,13), non sembra essere plausibile.
L'unità della Chiesa emerge in tutto il suo splendore nel cap. 17, quando il dialogo tra Gesù e il Padre raggiunge il suo culmine. Qui Gesù dice: «Tu in me e io in loro, perché siano perfetti nell'unità» (cf. 17,23). Pertanto l'unità della comunità cristiana non è un semplice accordo o una uniformità piatta e incolore, ma consiste nell'accettazione piena di Gesù sul modello della sua acccttazione incondizionata della volontà del Padre. Ne consegue che il segreto della nostra unità è Gesù stesso, che con la sua accettazione sempre crescente rende dinamica la nostra unità. Essa non ha bisogno di essere creata, in quanto esiste ed è già viva e presente in mezzo a noi; si tratta solo di fare in modo che possa crescere e sviluppare al meglio le sue enormi potenzialità. Un ragionamento analogo è valido anche per tutto ciò che conceme l'aspetto ecumenico: sostenere l'insuccesso del raggiungimento dell'unità che Gesù desiderava realizzare, significa rendere di fatto inefficace la sua preghiera che invece ci vuole uniti e solidali. Se Gesù ha pregato per noi, nessuno può impedire alla sua preghiera di fare effetto. Ne consegue che la nostra unità non è paragonabile a quella esclusivamente funzionale di una scuola filosofìca o di un'azienda, ma presuppone un percorso condiviso da affrontare insieme, tenendosi per mano, sempre aperti ad accogliere quel valore aggiunto, offerto da Cristo e dal Padre, che dobbiamo ancora fare nostro.


Maria

Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala.  Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!».  Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre!». E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé. 

In Maria coesistono due differenti livelli di maternità: uno che a Betlemme l'ha resa madre biologica di Gesù e un altro che la fa diventare madre di Gesù in senso morale e spirituale, nella stessa maniera suggerita da Paolo nella Lettera ai Galati. Rivolgendosi a loro infatti l'apostolo usa queste parole: «Figlioli miei, io vi partorisco di nuovo» (cf. Gai 4,19). L'efficace espressione «partorire di nuovo» è un simbolo valido finché Cristo non prenderà forma, non si svilupperà e maturerà pienamente in loro. ll parto di Paolo rappresenta il suo sforzo e il suo infaticabile impegno per trasmettere i valori di Gesù. Il parto non è semplicemente una sofferenza fine a se stessa, ma al contrario è in grado di dare alla luce qualcosa di infinitamente prezioso.
Se a Cana Gesù sostiene che non è ancora arrivata la sua ora, in questo momento ci troviamo nella situazione in cui essa è finalmente giunta e quel legame rimasto allora in sospeso nella domanda alla madre si svela ed è chiarito. Maria, oltre ad essere la madre naturale di Gesù, è chiamata a partorirlo di nuovo e a divenire presenza attiva nella Chiesa, per infonderle i tratti peculiari del figlio. È proprio per questo che si dice: «Da quell'ora il discepolo la prese nel suo ambiente».
Per quanto riguarda invece l'espressione: «Da quell'ora», è importante sottolineare di nuovo che non significa «da quel momento», ma dall'«ora» di Gesù: come frutto dell'«ora», il discepolo comincia a capire Maria e la accetta come madre di Gesù nella sua Chiesa.
Gesù, però, le affida soprattutto l'incarico specifico di far crescere nella comunità e in ciascuno dei cristiani che accettano l'amore di Gesù i suoi valori di fondo. Ecco perché nella Chiesa risulta indispensabile la presenza di Maria, intesa nella sua vocazione materna e nel servizio volto a comunicare la sua incomparabile esperienza e conoscenza di Gesù.


La sete

Dopo questo, Gesù, sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si compisse la Scrittura, disse: «Ho sete».  Vi era lì un vaso pieno di aceto; posero perciò una spugna, imbevuta di aceto, in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca.  Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: «È compiuto!». E, chinato il capo, consegnò lo spirito. 

Nell'episodio viene di fatto descritto il culmine dell'esistenza terrena di Gesù, il quale è consapevole che ormai ogni cosa è volta al compimento della Scrittura e del disegno di Dio. In questa drammatica situazione egli dice di avere sete: la sua, com'è già stato evidenziato, è indubbiamente una sete fisica, ma tenendo presenti le espressioni ricorrenti nei salmi, si percepisce come essa sia anche sinonimo di amore, un amore struggente. Ad esempio, l'espressione: «L'anima mia ha sete del Dio vivente» (cf. Sal 42,3) indica l'amore, l'aspirazione e l'anelito verso Dio; è segno evidente di un amore tormentoso che diventa desiderio incontenibile. Qui ci troviamo in una situazione del tutto analoga: Gesù, nel suo angoscioso stato di crocifisso, prova un amore lancinante per il Padre e per gli uomini. A tal proposito, è emblematico anche come ali'inizio della sua Passione lui stesso abbia affermato: «Perché il mondo sappia che io amo il Padre e faccio quello che il Padre mi ha comandato» (cf. Gv 14,31). All'intemo dei salmi molto spesso la sete è interpretata come situazione di un amore estremamente sofferto e tormentato, lo stesso genere di amore che Gesù prova nei confronti del Padre e degli uomini. Nel crocifisso quindi è riconoscibile un Gesù completamente preso da questo amore che lo consuma completamente. Ed è proprio nel momento in cui Gesù accetta l'aceto, come segno del suo amore smisurato, che esclama: Tetélestai, ossia «È compiuto!». Con questa espressione egli ci attesta di essere finalmente giunto, a tutti gli effetti, alla realizzazione del progetto del Padre.
Alla luce di tutto questo, si comprende allora che «dare lo Spirito» non è riducibile qui a un fatto puramente fisiologico, ma è indice di una vita che viene donata: è quella vitalità nuova che Gesù comunica alla Chiesa nel suo Spirito.


L’apertura del fianco

Era il giorno della Parasceve e i Giudei, perché i corpi non rimanessero sulla croce durante il sabato – era infatti un giorno solenne quel sabato –, chiesero a Pilato che fossero spezzate loro le gambe e fossero portati via.  Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe all’uno e all’altro che erano stati crocifissi insieme con lui.  Venuti però da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe,  ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua. 

Gesù è già morto, come appare chiaramente; non c'è quindi bisogno di praticargli il crurifragium. Di sua iniziativa, però, un soldato «gli trafisse il fianco». Il testo poi continua: «E uscì subito sangue e acqua». Giovanni si riferisce evidentemente a un fatto fisico di cui è stato testimone oculare e lo descrive fenomenologicamente. Nel fatto è sottintesa una forte valenza simbolica. In effetti, il senso simbolico dell'acqua era stato rivelato esplicitamente dallo stesso Gesù: i «fiumi di acqua viva» annunciati da Cristo come zampillanti dal suo seno (cf. Gv 7,38) e l'acqua che scaturisce dalla ferita del costato indicano la stessa realtà: il dono escatologico dello Spirito. Dallo Spirito donato alla Chiesa e stillante da Cristo derivano poi tutti gli altri strumenti salvifici che arricchiscono la comunità cristiana, e in primo luogo i sacramenti. 
Inoltre, l'acqua è qui unita al sangue e, siccome il sangue rappresenta la Passione e ha anche un probabile significato eucaristico, possiamo dire con S. Ippolito che, proprio attraverso il sangue, noi abbiamo l'acqua dello Spirito. Del resto, il dono dello Spirito ci deriva dalla Passione di Gesù. 

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