domenica 21 dicembre 2025

La virtù della speranza

 

IL FONDAMENTO DELLA SPERANZA

Le ragioni contro la speranza

La Bibbia conosce diverse ragioni che congiurano contro la speranza: la generale vanità dell'esistenza, per esempio, come ha lucidamente scritto Qohelet: «Vanità delle vanità, tutto è vanità: che senso ha l'affannarsi dell'uomo sotto il sole?» (1,2). O anche, la deludente constatazione che il mondo non cambia mai: gli arroganti sono sempre più arroganti, gli uomini curvi sempre più curvi. Nel Magnificat cantiamo che Dio abbassa i superbi e innalza gli umili, ma quando e dove? È questa una delle grandi domande degli uomini di ogni tempo: se Dio è Dio, perché la prepotenza è più forte della giustizia? «Fino a quando, Signore?» (Ab 1,1), si lamenta il profeta Abacuc. Lo stesso lamento si legge anche nel libro dell'Apocalisse: «Fino a quando, sovrano, tu che sei santo e verace, non farai giustizia e non Vendicherai il nostro sangue sopra gli abitanti della terra?» (6,10).

C'è poi una terza ragione, che proviene, questa volta, dall'interno di noi stessi: la ripetuta esperienza del peccato, un peccato ostinato, incrostato, che non si riesce a scrollarsi di dosso, come si legge ripetutamente nel libro di Geremia. Infine una quarta ragione, una ragione, questa, che fotografa in modo particolare l'uomo del Vangelo, l'uomo che ha fatto dell’annuncio il motivo portante della propria vita: la ripetuta constatazione che la Parola di Dio pare più debole della parola degli uomini, non capita, rifiutata, inefficace.


La speranza evangelica

Ma per comprendere pienamente la speranza neotestamentaria, nelle sue contraddizioni come nelle sue ragioni, occorre collocarsi al centro stesso dell'evento di Gesù, scandalo della speranza e insieme, fondamento che la sorregge. Può sembrare un paradosso. Il fatto è che la speranza evangelica non si identifica con la speranza mondana, bensì la converte profondamente, rinnovandola. Il Vangelo suggerisce un modo nuovo di pensare la speranza.

Nel mondo pagano (così, per esempio, nel mondo greco) il fondamento della speranza non può che collocarsi all'interno dell'esperienza dell'uomo. Un fondamento debole, che sconfina nell'illusione. Non così la concezione cristiana. Nella Prima lettera ai Tessalonicesi (1,3) - forse il testo più antico del Nuovo Testamento - la speranza è collocata dopo la fede e la carità e il suo fondamento è Gesù Cristo. Non è una previsione che l'uomo fa alla luce della propria esperienza o in forza di dati che possiede. E invece una certezza che si fonda sulla promessa fatta da una Persona (Gesù Cristo) di cui ti fidi totalmente. Ma il legame con Gesù Cristo è detto al genitivo: «Speranza del Signore nostro Gesù Cristo». Si tratta dunque di un legame ancora più stretto: la speranza cristiana non solo trova il fondamento in Gesù Cristo, ma è la stessa speranza di Gesù Cristo. Per capire la speranza cristiana occorre guardare la speranza che Gesù ha vissuto. La speranza cristiana poggia sulla speranza di Gesù.

Quale speranza? Ho già detto che paradossalmente Gesù si presenta come scandalo della speranza e come. fondamento della speranza. Infatti Gesù non si presenta come un semplice profeta che annuncia il futuro avvento di Dio. Egli dichiara che il regno di Dio è già arrivato nella sua persona, nelle sue parole e nella sua attività. Questa convinzione sottosta a tutte le sue parole, le sue parabole, i suoi gesti, il suo modo di parlare di Dio. Con il suo arrivo iniziano i tempi nuovi e accoglierlo o rifiutarlo è per l'uomo una questione decisiva. 

E tuttavia questa pretesa di Gesù sembra continuamente smentita: l'opposizione e il rifiuto si fanno sempre più chiari e l'avvento di Dio sembra annullato dalla croce. La storia del Messia porta con sé lo scandalo della sconfitta. Di fronte a questa sconfitta Qohelet avrebbe esclamato: «anche questo è vanità». 

Tanto più che il medesimo scandalo si introduce nell 'esperienza della comunità, anche dopo il trionfo della risurrezione. Passati i primi entusiasmi i cristiani si sono ben presto accorti che il mondo continuava per la sua strada, nella sua arroganza e nel suo peccato, e che addirittura il peccato e la divisione colpivano anche la comunità. Tutto sembrava continuare come prima. Ma allora come è possibile sperare?

E tuttavia è necessario sperare. La caduta della speranza comporterebbe due rischi: il primo è la rassegnazione. In una comunità cristiana priva di speranza la parola del Vangelo risuona smorta, senza sapore e colore, priva di ogni reale convinzione. E tutte le attività si fanno abitudinarie, subito vecchie, del tutto prive di quella giovinezza inferiore che sola riesce a imprimere a qualsiasi progetto, non importa se vecchio o nuovo, quella carica intcriore, vivace e convincente, che si fa contagiosa. La speranza allarga il cuore, la rassegnazione lo rinchiude.

Il secondo rischio è di cedere alla tentazione di sostituire le vie del Vangelo (che sembrano troppo lente e inefficaci) con le scorciatoie degli uomini. L'impazienza del successo (che fatalmente accompagna ogni speranza dal fiato corto) porta necessariamente alla ricerca di mezzi mondani, che contraddicono quello stesso progetto evangelico che pure si vorrebbe servire. 

C'è anche il pericolo di confondere il regno di Dio con un regno di uomini. È una tentazione che Gesù stesso ha incontrato, non solo nel deserto ma lungo tutto il suo ministero, dall'inizio alla fine: percorrere la strada suggerita dalla Parola di Dio oppure preferire i suggerimenti degli uomini che propongono scorciatoie che sembrano più sicure e convincenti? Non si dimentichi che se il Vangelo ricorda le tentazioni di Gesù non è soltanto per chiarirci le idee su di Lui e sulla sua strada messianica, bensì per chiarirci le idee sulla strada che noi stessi dobbiamo percorrere. Il Vangelo ci fa riflettere sulla nostra esistenza. E così il senso è chiaro: chi si pone alla sequela di Cristo deve sapere che incontrerà a ogni passo la tentazione. Perciò sono richieste lucidità e vigilanza. C'è la tentazione di far coincidere il progetto di Dio con un progetto costruito dall'uomo. C'è la tentazione di pretendere da Dio segni chiari e risolutori, dominatori (e se Dio non li compie, non è raro che siano gli uomini stessi a tentare di compierli al suo posto). C'è, soprattutto, la tentazione di allearsi - in grande o in piccolo -al dominio e al potere per imporre dall'alto il regno di Dio.

Tutte queste tentazioni hanno alla radice una paura molto precisa: la paura di affidarsi completamente e unicamente alla Parola di Dio, una Parola che troppe volte sembra debole, non competitiva nei confronti di altre parole e di altre strade che la saggezza umana suggerisce: strade suggerite dagli uomini che sembrano addirittura più adatte per realizzare quella stessa missione che Cristo ha affidato ai discepoli! Si cade così nel compromesso col mondo, e questa è la tentazione che annulla la speranza.


Le condizioni per poter sperare

La speranza cristiana richiede alcune precise condizioni. Il Nuovo Testamento ne indica almeno tre. All'inizio della Prima lettera ai Tessalonicesi ( 1,2), compaiono insieme le tre virtù teologali, ciascuna definita da una precisa parola. La fede è érgon, opera, impegno, qualcosa di concreto. La carità è kópos, dura fatica. La speranza è ypomoné, un termine che significa la forza di sopportare e di attendere. Ypomoné è la virtù della pietra: se anche la calpesti, non si lascia modificare, a differenza della cera molle che invece appena la tocchi si modifica. La ypomoné è la durezza che ti fa restare quello che sei, qualsiasi cosa succeda. La speranza non regge senza questa forza. Ma oltre che costanza nell'avversità, la ypomoné di cui parla Paolo è anche la pazienza di attendere, non importa se a lungo. La pazienza è essenziale per l'attesa cristiana. Senza pazienza non c'è possibilità di speranza.

Giacomo scrive alle sue comunità (5,7-8): «Siate dunque pazienti, fratelli, fino alla venuta del Signore. Guardate il contadino: egli aspetta pazientemente il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le piogge d'autunno e le piogge di primavera. Siate pazienti anche voi, rinfrancate i vostri cuori». La necessità di diventare duri come la pietra è detta nell’imperativo «rinfrancate i vostri cuori» (sterizein), e la forza di attendere nell 'imperativo «siate pazienti». Il termine che Giacomo qui predilige è però makrothumia, non ypomoné. Makrothumia è la larghezza d'animo, lo sguardo lungo, l'atteggiamento di chi è abituato a vedere le cose in grande, come il contadino che butta il seme e poi attende. Non è lui che stabilisce il tempo necessario per la crescita del seme. E non rinuncia a seminare il campo, anche se non sarà lui a coglierne i frutti. Senza lo sguardo lungo non è possibile alcuna speranza.

A una comunità perseguitata, piccola minoranza in un mondo ostile, Pietro scrive: «Non vi sgomentate per paura di loro, ne vi turbate, ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (IPt 3,14-15). Rendere ragione (lògos) della speranza significa almeno due cose: giustificare la speranza evangelica riconducendola al fondamento della fede (la morte e risurrezione del Signore), e indicare i segni, oggi, della speranza. 

Fa parte della speranza cristiana l'intelligenza di guardare le situazioni in profondità, cogliendo anche dietro ai fallimenti più clamorosi i segni del rinnovamento. C'è una parola di Gesù che dovrebbe allargarci il cuore: «Levate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura» (Gv 4,35). In qualsiasi tempo della storia le messi biondeggiano. Se non le vediamo è perché i nostri occhi sono annebbiati, o perché, privi di vera speranza o perché ripiegati su noi stessi. Per vedere i segni occorre alzare lo sguardo: «Levate i vostri occhi». Chi si ripiega su se stesso non sarà mai una persona di speranza.

Anche nell'Antico Testamento si possono trovare esempi che ci interessano come l'episodio della vita di Elia, profeta coraggioso, difensore della signoria di Dio fino all'intransigenza. Ebbene anche questo profeta coraggioso ha attraversato lo scoraggiamento. Nella solitudine del deserto egli desidera morire, perché non c'è più in Israele un uomo che non abbia piegato le ginocchia davanti agli idoli, e perché non c'è più un profeta dopo di lui. Ma con sottile ironia Dio gli dice di tornare indietro, perché sulla strada c'è già pronto Eliseo a prendere il suo posto di profeta, e perché in Israele ci sono almeno settemila uomini che non hanno piegato le ginocchia davanti agli idoli. 

Non si possono dimenticare le parole del secondo Isaia. In una situazione apparentemente priva di speranza (come e più delle nostre), il grande profeta dice: «Non ricordate le cose passate, non pensate più alle cose antiche: ecco faccio una cosa nuova, sta già germogliando, non ve ne accorgete?» (43,18-19). Se si vuole sperare, non si deve rimanere chiusi nel passato. Non è il passato che deve ritornare, ma qualcosa di nuovo che deve affacciarsi. C'è un attaccamento al passato (anche al passato di Dio!), una nostalgia di ciò che «c'era una volta», che chiude gli occhi e impedisce di scorgere le cose nuove che pure ci sono. Chi tenta di riportare le cose indietro non è mai un costruttore di speranza. Per essere una persona di speranza è invece necessaria l'apertura del cuore, una giovanile curiosità e molta capacità di stupirsi.


la speranza di gesù

Ma ritorniamo alla figura di Gesù. Si è già detto che l'evento di Gesù è al tempo stesso scandalo sfondamento: scandalo che costringe la speranza a purificarsi, scrostandosi delle sue molte illusioni; fondamento che le offre una ragione più solida di ogni fallimento. 

Di fatto Gesù ha sperimentato tutte le ragioni contro la speranza: l'ostilità dell’autorità religiosa, l'abbandono delle folle, l'insuccesso della sua parola, l'abbandono dei discepoli, la vita spezzata, la missione incompiuta. Dove ha trovato Gesù la ragione per mantenere intatta la sua fiducia? La risposta si legge in una sua confidenza riportata dall'evangelista Giovanni: «Ecco, verrà l'ora, anzi è già venuta, in cui voi vi disperderete ciascuno per proprio conto e mi lascerete solo: ma io non sono solo, perché il Padre è con me» (16,32).

La speranza di Gesù non si lascia distruggere dall’abbandono e dall'insuccesso, perché solidamente fondata sulla certezza della presenza del Padre. Non si può mantenere intatta la fiducia senza una sicurezza, ne si può restare fermi nella solitudine senza una compagnia. Il Crocifìsso è la gigantografia di tutte le ragioni che congiurano contro la speranza: la verità zittita, il dono di sé incompreso e deriso («ha salvato altri, non può salvare se stesso»); persino la fiducia in Dio messa in dubbio, perché inefficace («ha confidato in Dio. Lo salvi Lui, se davvero è suo Padre!»). Ma se da un lato il Crocifisso sembra essere la sconfitta della speranza, dall'altro ne è il più solido fondamento. A motivo della risurrezione, certamente: la verità che si voleva far tacere è risuonata ancora più forte di prima, e l'amore che si è deriso per la sua debolezza è apparso più forte della stessa morte. Gesù è risorto: ecco il fondamento della speranza.

Ma ci piace vedere una ragione di speranza già nel Crocifisso, figura di un amore che nessuna violenza è riuscita a scoraggiare e di una fedeltà di Dio che trasforma il rifiuto in perdono e misericordia.

La speranza evangelica nasce, dunque, dalla certezza della fedeltà di Dio, non da situazioni storielle favorevoli o da un generico ottimismo o da una ingenua fiducia nelle possibilità dell'uomo. E una speranza sottratta ali'alternarsi delle vicende e agli alti e bassi della storia. È la fedeltà di Dio che da al cristiano il diritto di sperare. Nonostante le infedeltà degli uomini, nonostante le forze del male, il disegno di Dio non si interrompe. La carta vincente è saldamente nelle sue mani.


La parabola del seme

Mi si permetta, a questo punto, di volgere l'attenzione a una splendida parabola che si legge soltanto nel Vangelo di Marco (4,26-29) e che potremmo intitolare: «La parabola del Contadino che attende». Rapida la semina, rapida la raccolta, ma tra le due azioni scorre un lungo tempo di attesa: un tempo in cui il seme non si vede, e tuttavia germoglia; un tempo in cui il contadino è inerte, quasi messo da parte, e tuttavia è il momento in cui avviene il grande prodigio del seme che mette radici. La lezione è fin troppo trasparente: le inutili ansie non sono il segno di una grande passione per il Regno, ma il segno di poca speranza, e le impazienze non servono, ne la voglia di protagonismo. La speranza non regge senza la forza di attendere, non importa se a lungo. Solo gli uomini dallo sguardo lungo sono uomini di speranza, uomini capaci di vedere le cose in grande, come il contadino che butta il seme e sa di attendere. Non è lui che stabilisce il tempo necessario alla crescita del seme. E non rinuncia a seminare il campo, anche se sa che non sarà lui a coglierne i frutti. 


gratuità e concretezza della speranza

È opportuno ricordare che la speranza cristiana è al tempo stesso «gratuita» e «concreta». Il cristiano fonda la sua speranza nella memoria del Dio di Gesù Cristo. Dunque non una speranza che nasce dall'esterno della propria fede, ma dentro. Una speranza - di conseguenza - non misurata sulla facilità della meta, ma sulla grandezza della propria fede. Il cristiano scorge la solidità della speranza guardando in alto verso Dio, o guardando indietro verso la croce di Cristo, non guardando in basso o a lato, verso gli uomini. E così è possibile parlare di una sorta di gratuità della speranza.

Tuttavia la speranza ha anche bisogno di concretezza: i segni di speranza. E qui trova tutto il suo spazio la comunità cristiana, che è chiamata a farsi segno. «Segno» dice qualcosa di visibile e di convincente, ma dice anche qualcosa che rinvia. Il segno non ferma lo sguardo su di sé, ma rinvia altrove. Dunque, il coraggio di farsi segno e la pazienza di attendere anche a lungo il compimento. L'importante è ricordarsi che il segno è valido se chiaro, non necessariamente se grande.

Come per Gesù, anche per il cristiano il fondamento della Speranza sta in una promessa, ma una promessa che offre i suoi segni di credibilità anche nell'esperienza della vita. Gesù ha vissuto l'esperienza dell'abbandono sulla croce, ma ha anche vissuto l'esperienza della comunione col Padre e della forza della sua Parola in tante occasioni della sua vita: le folle che accorrevano, i malati che guarivano, le conversioni, i miracoli.

Come per Gesù, anche per il cristiano il fondamento ultimo della speranza va posto nella fedeltà di Dio: una fedeltà che però va sperimentata anche nella propria vita di fede, come ha fatto Gesù. Senza questa esperienza di fede, la speranza si dissolve.

Come nel caso di Gesù, ciò che si spera è anzitutto il trionfo della dedizione, dell'amore, di una vita donata. L'Oggetto ultimo della speranza è il trionfo dell'amore, non il trionfo di chi sa quali altre cose. Se vivi la dedizione come Cristo, vivrai sino in fondo lo scandalo della speranza, ma anche troverai la vera ragione per Sperare. Paradossale: la speranza si alimenta in una vita a rischio. La speranza cristiana trova il suo fondamento nella risurrezione di Gesù, ma - anche prima, ai piedi della croce - nel miracolo di una violenza subita che si trasforma in amore. Fondamento della speranza è anche il Crocifisso, non soltanto il Risorto. Nel Crocifisso scorgi un amore più forte del male. Una visione che convince, come il martirio.

il progetto e la strada

Lo si è già detto, ma giova ugualmente ripeterlo. Il pericolo fondamentale della speranza è quello di sostituire al progetto di Dio un progetto fatto da noi: il rischio, cioè, di sperare che si realizzi (naturalmente con l'aiuto di Dio ! ) un progetto nostro, anziché aprirci alla novità del progetto di Dio. Nella speranza non è semplicemente importante il progetto (che è di Dio), ma la strada che permette di raggiungerlo.

In proposito mi permetto di citare un passo del Vangelo di Giovanni. Gesù dice ai discepoli: «Del luogo dove io vado voi conoscete la via» (14,4). A Tommaso queste parole sembrano incoerenti: «Signore, non sappiamo dove vai, come possiamo conoscere la via?». Tommaso è convinto, come tutti, che per conoscere la strada devi prima conoscere la meta dove vuoi arrivare. Per Gesù è vero il contrario: quando si conosce la via giusta, si giunge alla meta giusta. La via giusta è seguire Gesù, ora, nella situazione presente. L'importante è conoscere quale strada: la meta si troverà di certo alla fine. Così Gesù ha rovesciato il modo comune di pensare: non prima la previsione del progetto e poi l'individuazione della strada che vi conduce, ma prima la strada.

Ci sono anche i rischi della speranza, lo abbiamo già detto. Per esempio, è facile - anche per il cristiano - sperare nel ritorno di un passato, anziché affidarsi all'evento di Gesù Cristo e alla sua novità. Oppure è facile ancora di più un altro rischio, quello di fare un progetto proprio e poi pregare e lavorare perché Dio ci aiuti a realizzarlo. Ma la vera speranza evangelica è vivere nel proprio presente con la sicurezza di conoscere la strada che conduce al futuro. La nuova Gerusalemme, dice l'Apo-calisse, scende da Dio come un dono. Quindi nessuna angosciosa preoccupazione di una impossibile conquista, ma l'ingenua serenità di un bambino che si fida del padre. Il mondo nuovo - oggetto della speranza cristiana - è un dono gratuito dell'amore di Dio. Per questo la sua venuta è sicura, purché si percorra la strada che Gesù ha indicato.


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