mercoledì 11 gennaio 2012

Magrassi Mariano Bibbia e preghiera (1-2)

Capitolo primo


Proclamazione liturgica e “lettura sacra”

“E’ necessario che tutti… conservino un contatto continuo con le Scritture, mediante la sacra lettura e lo studio accurato… onde apprendere “la sublime scienza di Gesù Cristo” (Fil 3, 8) con la frequente lettura delle divine Scritture. L'ignoranza delle Scritture, infatti, è ignoranza di Cristo”. Queste esortazioni che il Concilio rivolge a tutti i membri del Popolo di Dio, chierici, religiosi e laici al n. 25 della Dei Verbum, meritano somma attenzione, e la loro accoglienza condiziona in gran parte il successo dell'opera di rinnovamento intrapresa dal Concilio.
E’: stato insistentemente e da più parti ribadito che la riforma liturgica, senza una parallela catechesi biblica, si risolverà in un insuccesso sul piano pastorale: avremo sì dei riti rinnovati, ma non un'attiva, cosciente e piena partecipazione ad essi. E questo non è ancora tutto. Occorre aggiungere che la catechesi biblica a sua volta non arriverà a “ piantare ” nel cuore dei fedeli la parola di Dio se, nel contatto assiduo con essa, non attingerà quell'animazione e quel fervore che darà alle sue parole il carattere di un vero evangelion: infatti “è vano predicatore della parola di Dio all'esterno, colui che non l'ascolta di dentro”[1]; e se d'altra parte non avrà come obiettivo quello di portare ogni fedele, come dice il testo conciliare, a quel contatto personale con la Parola che permette ad essa di “compiere in noi la sua corsa ”. E’ quello che un'antica regola monastica esprimeva con questi termini suggestivi: “… bere dalle sacre Scritture la salvezza per suscitare il fervore spirituale ”[2], La sacra lettura viene così ad essere, per ogni proclamazione biblica (e liturgica), la fonte a cui attinge il suo fervore e il termine ultimo in cui trova la sua piena fecondità spirituale.
I1 tema affrontato in questa prospettiva si inserisce in un problema più vasto che da qualche tempo è oggetto di vivo interesse e di appassionate discussioni: quello cioè del rapporto tra Liturgia e vita interiore; Jacques Maritain direbbe: “ Liturgia e contemplazione ”[3]. La riflessione su questo problema capitale, nata in un clima di polemiche e di incomprensioni, ha ritrovato l'equilibrio tra preghiera liturgica e preghiera privata, e ne ha riscoperto la profonda unità. E in questo ha avuto un ruolo di primo piano la riscoperta della tradizione patristica e medievale. E’ su questa linea che vorremmo mettere in luce la continuità vitale che lega tra loro questi due momenti della vita cristiana: l'ascolto della Parola nelle celebrazioni ecclesiali e la lettura privata del testo sacro. 


Primato dell’ascolto ecclesiale

Evidentemente la proclamazione liturgica rimane il luogo e il mezzo privilegiato del contatto con il testo sacro. Lì mi è restituita nella sua pienezza la Parola “vivente ed efficace”. E’ facile mostrarlo in base a una semplice riflessione teologica[4]. La Parola è viva quando è presente l'interlocutore e risuona attualmente dalla sua bocca. Solo la presenza di Cristo impedisce dunque alla Parola di trasformarsi in un puro documento di storia. La Chiesa ha il privilegio di questa presenza, perché essa si identifica con Cristo; ne è la continuazione; “è il Cristo diffuso e comunicato” direbbe Bossuet. Ora il Mistero della Chiesa trova la sua attuazione massima nella celebrazione.
L'assemblea liturgica non è solo una manifestazione, una “epifania” del grande “ Popolo adunato nell'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”, secondo la celebre definizione di Cipriano ripresa dal Concilio; essa rappresenta pure il culmen della sua attuazione. Ogni assemblea locale è come una concentrazione della grande Chiesa universale (cf. Lumen Gentium, n. 26). E poiché la Chiesa è il Corpo di Cristo, l'attuazione plenaria del suo Mistero trascina con se la pienezza della presenza del Risorto. In questa prospettiva prendono tutto il rilievo le parole della Costituzione liturgica: “E’ ben Lui che parla quando nella Chiesa si leggono le Scritture” (n. 7). Lì la parola è legata al rito che è azione di Cristo, e ritrova tutta la sua forza nativa di proclamazione che salva. Tutta la tradizione liturgica orientale e occidentale, nei suoi riti (vedi gli onori resi agli Evangeliari) e nei suoi testi sottolinea questa presenza del Signore. Ci basta qui citare la Didaché che ammoniva: “Ricordati giorno e notte di chi predica la parola di Dio e onoralo come il Signore, perché dove viene annunziata la maestà del Signore ivi egli è presente” (IV, 1) e il dialogo introduttivo alla lettura del Vangelo nel rito armeno, in cui all'invito del diacono: “ Siate attenti ” il popolo risponde: “E’ Dio che parla! ”. Quando è Dio presente che parla, la sua Parola conserva tutto il suo originario potenziale di salvezza. S Parola creatrice: fa quello che dice.
Da questi principi occorre trarre tutte le conseguenze, evitando però maggiorazioni indebite. Affermare con il Concilio che la Liturgia in tutti i suoi elementi è “il culmine verso cui tende tutta l'azione della Chiesa” (Cost. lit., n. 10) non significa fare del pan-liturgismo. S detto infatti con la stessa chiarezza che essa “non esaurisce tutta l'azione della Chiesa” (Ibid., n. 9). La Chiesa non attua il suo Mistero e non esplica la sua attività unicamente negli atti liturgici. Ne deriva, per l'argomento che ci interessa, che la Parola è viva e attuale nell'atto liturgico massimamente, ma non esclusivamente. Ogni altra forma di predicazione, quella del missionario o del catechista ad esempio, impegna la Chiesa in qualche modo, ed implica perciò una presenza di Cristo nella Parola proclamata. E’ apostolo infatti colui che la trasmette e “l'apostolo di un uomo è come un altro lui stesso”: lo diceva già un detto giudaico.
Analogamente si deve dire per la lettura privata della Bibbia. Certo il Libro in se non è la parola di Dio: è solo il mezzo attraverso cui mi è trasmessa. Ma colui che legge nel Libro è un membro della Chiesa. La sua lettura si pone nel contesto del Mistero ecclesiale ove è presente ed agisce quello stesso Spirito che ha animato i profeti e gli agiografi; il testo può dunque essere letto “ con lo stesso Spirito con cui è stato scritto ”. Se la Chiesa è l'organo che conserva e trasmette la Parola viva ed attuale, chiunque vive in essa e prende il messaggio biblico dalle mani di colei che lo possiede nella sua integrità vivente, è interpellato da una Parola divina, in cui Dio stesso è presente. È un punto questo su cui la teologia dovrebbe approfondire la sua riflessione. Basta qui aver affermato il principio generale.
Ma questo carattere vivente della Parola nel seno della Chiesa, dovunque la si accosti, non distrugge la priorità indiscussa di quell'ascolto che si ha là dove la presenza del Salvatore raggiunge il suo apice. E come ogni proclamazione ecclesiale della Parola è orientata a quella liturgica come al suo termine ultimo, così ogni lettura personale del testo sacro trova nell'ascolto liturgico il suo centro focale: come preparazione ad esso, o come prolungamento.


La “ lettura divina ” preparazione dell'ascolto liturgico

Come preparazione anzitutto. E evidente, e l'esperienza ce lo prova ogni giorno, che non basta ascoltare una lettura biblica per trarne automaticamente un frutto spirituale. Non è il suono materiale delle sillabe che ci vivifica; chi ascolta deve comprendere; deve afferrare con una fede illuminata la portata del messaggio che Dio gli trasmette, deve spalancare le porte dell'anima a Colui che si dona nella sua Parola, con una disponibilità amante. E possibile questo per chi non ha mai preso in mano la Bibbia? I1 Concilio direbbe piuttosto che “ bisogna tenerla sempre tra le mani ”. I1 discorso è analogo a quello che si suol fare per il Pane eucaristico. Ricevuto senza preparazione, senza fede e senza amore, il “ Pane di vita ” non vivifica più. L'iniziativa salvifica di Dio è frustrata. Dio si arresta davanti alle porte chiuse.
C'è un'altra ragione anche più evidente. Per quanto la riforma ci abbia preparato “ una mensa più ricca della Parola ”, per necessità di cose la Liturgia ci presenterà sempre dei frammenti dei libri biblici: una “ pagina sacra ”, come dicevano gli antichi, che ha bisogno di essere integrata nel contesto globale della pericope e del libro da cui è tratta. Anche il nuovo Lezionario, se permette una scelta più abbondante, non giunge però a presentarci tutta la Bibbia. E del resto esso è affare di pochi: per la massa del popolo cristiano c'è solo la lettura domenicale. La situazione era diversa per i monaci medievali che avevano meno fretta di noi. Si riferisce che l'abate Giovanni di Gorze, nel secolo X, un giorno fece leggere come terza lezione tutto il libro di Daniele! E del resto le letture dell'Ufficio venivano prolungate da quelle del refettorio. In taluni Lezionari manoscritti è indicato il punto del testo biblico ove si sospendeva la lettura liturgica per riprenderla durante il tempo della mensa[5]. E con tutto ciò i legislatori monastici prescrivono nell'orario della giornata parecchie ore dedicate alla lettura divina: e si sa che in questa il testo biblico aveva una parte preponderante[6], Dopo tutto ciò, non ci meraviglia più il fatto che la familiarità con la Scrittura facesse di questi uomini quasi delle “ concordanze viventi”. Ma, ahimé, quanto noi, monaci o no, ne siamo lontani!
Col Breviario le letture di una volta sono state ridotte, come dice il termine stesso, a un compendio: e il contatto personale con il testo sacro era diventato l'affare di qualche biblista o di qualche contemplativo. Se ne sono viste le conseguenze: si è visto l'impoverimento di una teologia e di una prassi pastorale sempre più lontana dal tenore autentico della parola di Dio. I1 Concilio esige una riconversione.
La riforma assicura alle letture liturgiche una scelta migliore, e una più grande varietà: ma è chiaro che il “ Breviario ” rimarrà breviario e le letture della Messa dovranno tener conto dei limiti imposti dalla situazione pastorale. Altre epoche hanno conosciuto la tendenza a rendere più prolisse le celebrazioni liturgiche: oggi il movimento è in senso opposto. E non è detto che ciò sia necessariamente un male: “ non per pregare meno ma meglio ”, era il ritornello ripetuto dai fautori di tale tendenza in un congresso di Abati. Ma il compendio conserva il suo pieno significato solo grazie al tutto di cui è il riassunto. La “ lezione breve ” riprende la pienezza del suo senso se ritrova il suo posto in una lettura più `lunga, sotto forma di lettura privata. Nel momento e nell'ordine in cui il ciclo del tempo ce ne offre dei saggi, bisognerà impegnarsi a leggere i libri della Bibbia da cui sono tratti. Solo a questa condizione potremo tornare alla pienezza biblica di un tempo, anche se non è possibile, e neppure opportuno, riprodurre la situazione liturgica di allora.


Approfondimento e personalizzazione

Ma non è solo questione di estensione: è anzitutto questione di approfondimento. I! chiaro che il testo biblico, anche se accompagnato dall'omelia, non rivela tutte le sue ricchezze a un primo ascolto: tanto meno riesce di primo acchito a calarsi vitalmente nel vivo dell'esistenza di ciascuno, a incorporarsi profondamente a tutto il suo mondo interiore. Un ascolto vitale esige un ripiegamento amoroso, calmo, meditato, personale sul testo.
Ancora una volta è illuminante un raffronto col Pane eucaristico. Si sa con quanta insistenza la prassi ascetica, guidata dai documenti ecclesiastici, inclusi gli ultimi[7], insista sulla necessità di un ringraziamento personale. Esso permette all'anima di aprirsi alla presenza spirituale di Cristo e alla sua azione, perché Egli penetri tutte le facoltà e riempia la vita: così l'energia divina, immessa in noi dal sacramento, si radica nell'anima e si fissa in profondità. Le esigenze della Parola sono identiche, poiché con l'Eucaristia essa costituisce un'unica mensa. Non basta nutrirsi, bisogna assimilare; gli antichi dicevano: “ruminare”. La “ lezione sacra ” appare così come il naturale complemento della proclamazione ecclesiale. Lì il fedele penetra sempre più a fondo nelle ricchezze di un testo che si rivela inesauribile. Lì è colto da quelle folgorazioni interiori, e spesso improvvise, che illuminano il messaggio di una luce nuova; di un testo mille volte ascoltato si percepisce finalmente la portata decisiva, capace di orientare e di nutrire tutta un'esistenza. Iit un'esperienza che si ripete ogni giorno nel mondo delle anime. Si pensa spontaneamente al prologo della Lettera agli Efesini che ha rivelato a Dom Marmion quella che sarà “ l'idée maitresse ” del suo mondo interiore: la figliazione adottiva in Cristo, e a Suor Elisabetta della Trinità la sua vocazione di laudem gloriae[8]8,
Con ciò tocchiamo un altro aspetto del problema: l'approfondimento diventa “ personalizzazione ”. Nella Liturgia “ Dio parla al suo Popolo … il Popolo a sua volta risponde a Dio con il canto e con la preghiera ” (Cost lit., n. 33). La parola del Dio vivente raduna l'intera comunità, la quale intorno all'altare nel comune ascolto cementa la sua unione. Si insiste oggi giustamente sul carattere comunitario di ogni atto liturgico, e della stessa vita cristiana, in reazione a un'educazione troppo esclusivamente individuale che ha caratterizzato gli ultimi secoli. Ma occorre nello stesso tempo tenere presente il carattere personale e irrepetibile di ogni incontro con Dio. Dall'armoniosa fusione dei due elementi nasce l'equilibrio cristiano. La parola di Dio non sfugge a questa legge. Dio non parla soltanto al suo popolo: interpella anche personalmente me. La sua Parola assume per me un tono e una risonanza unica, in funzione di quel disegno particolare e irrepetibile di Dio che traccia il cammino della mia esistenza. E’ così che il dialogo universale dell'atto liturgico diventa personale ed unico nella lettura sacra che lo prolunga: sento come rivolto a me quello che prima il Signore ha detto a tutti. Sento che quella Parola risponde ai miei problemi, illumina i miei passi, prospetta il mio ideale.
Ogni vita autenticamente contemplativa costituisce una splendida riprova di questo iter obbligato. Si pensi al modo con cui Charles de Foucauld rivive i misteri di Cristo sulle tracce del testo evangelico: quel “ tete à tete ” con l'Amico divino in cui l'anima si effonde con accenti caldi e appassionati, è ciò che di più personale si possa pensare: ma ad un tempo ogni anima che cerca sinceramente Dio si ritrova in quegli slanci contemplativi, che prolungano le celebrazioni ecclesiali dell'anno liturgico nell'intimo santuario dell'anima.
Tuttavia la tradizione cristiana conosce esempi in cui il nesso vitale tra ascolto liturgico e meditazione personale della Parola prende un rilievo più marcato. La figura più studiata in questa luce è quella di santa Gertrude[9]; ma il medioevo pullula di figure analoghe: sono casi privilegiati i quali riflettono ciò che tutti hanno realizzato in modo più ordinario: l'individuo che vibra interiormente in perfetta sintonia con le realtà oggettive che la celebrazione liturgica ha presentato a tutto il Popolo di Dio.
Meditazione, preghiera personale e vita mistica sgorgano dalla Parola colta sulle labbra della “Chiesa in preghiera” e si alimentano costantemente a quella sorgente. Caratteristiche al riguardo le “rivelazioni ” di Gertrude: sono i momenti in cui ciò che prima era materia di fede diventa per lei oggetto di una certa esperienza. I1 Signore le parla: e che cosa si sente dire? Le stesse parole che Egli ha pronunciato nella Liturgia. Quando Gertrude cerca di tradurre in iscritto quelle esperienze, il linguaggio di cui si serve è quello dei testi biblici ricorrenti nella liturgia del giorno. Troviamo qui il segno patente di una meditazione personale condizionata dalla Parola liturgica e inseparabile da essa.
Con termini tecnici i medievali direbbero che nell'ambito liturgico la Parola rivela soprattutto la sua dimensione allegorica (che si riferisce al Mistero di Cristo e della Chiesa) e anagogica (in riferimento alla consumazione finale), mentre nella lettura personale rivela piuttosto la sua dimensione antropologica (in rapporto con la vita spirituale del singolo). Ora si sa che questi “ sensi ” sono molti e uno ad un tempo. Colgono aspetti diversi di una realtà unica: il Mistero di Cristo vissuto a diversi livelli. Donde la continuità organica che li lega insieme. La Chiesa e la singola anima non sono realtà del tutto diverse: non solo perché l'anima vive nella Chiesa, ma perché in ogni anima si aduna in qualche modo tutto il Mistero della Chiesa. Non è dunque un'accomodazione sentire come rivolto a se ciò che il Signore dice alla sua Sposa.
Di questo gli antichi avevano un'esperienza viva. Non ci può essere separazione né conflitto tra il dialogo dell'anima con Dio e quello della Chiesa, perché ognuno sa di essere a suo modo tutta la Chiesa, sente rivivere in se tutto il suo Mistero: “ ciascuno di noi è anche la Chiesa… ” diceva Bernardo[10], e altrove: “ la Chiesa cioè l'anima che ama Dio… ”[11]. Per Origene poi questa identità diventa uno dei motivi dominanti dell'esegesi; “ io sono la Chiesa, sono io la Sposa ”, non cessa di ripetere. In ogni anima credente vede il “ microcosmo della Chiesa perfetta ”: la Città di Dio, Gerusalemme, è nello stesso tempo la Chiesa di cui Cristo è l'architetto, e quella dimora interiore e invisibile che Egli si costruisce nel cuore di ciascuno[12]. I Commenti tradizionali al Cantico, considerato come il cuore di tutta la Rivelazione, applicano questo principio nel modo più sistematico: lì si esprime la coscienza comune della Tradizione[13]. Questa convinzione tradizionale ha dato prova di una meravigliosa fecondità e abbiamo un urgente bisogno oggi di farla nostra. Se l'anima ha coscienza di identificarsi con il Mistero della Chiesa ritroverà spontaneamente l'unità tra ascolto liturgico e meditazione personale. Dall'uno all'altro c'è allora un riflusso di fervore. Da una parte essa nei suoi momenti di preghiera rimane con facilità sotto l'influsso di ciò che l'ha fatta vibrare nella celebrazione, e lo rivive, lo approfondisce, lo personalizza nel dialogo a tu per tu con il divino interlocutore. Dall'altra ciò che esperimenta in questi momenti rifluisce, per cosl dire, durante la Liturgia, sull'atteggiamento dell'anima in ascolto: la rende presente tutta intera, con un ascolto più ricettivo, con una disponibilità più piena. Diventano due momenti complementari di un unico atto vitale.

[L'esperienza di Gregorio Magno e le ricchezze della tradizione antica].




Capitolo secondo


“ Lettura divina ”: il termine e la sua portata espressiva

L'espressione lettura divina, accanto a quella di lettura sacra, trova un largo uso nella letteratura patristica del IV e del V secolo[24], in massime luminose e incisive come le seguenti:
“ L'animo si nutra quotidianamente della divina lettura” (Girolamo)[25];
“ Intento a nutrirsi della divina lettura ” (Ambrogio, parlando di un cristiano)[26];
 “ ... ci sollevano le divine letture ” - “ Perché tu possa nutrire il timore di Dio con la divina lettura e il colloquio serio ” (Agostino)[27];
“ Attendiamo dunque alla divina lettura ” (Ilario)[28] ecc.
Con le Regole monastiche tale lettura viene consacrata come una delle pratiche fondamentali della vita ascetica, e le viene riservata una parte notevole nell'economia della giornata del monaco[29]; allora le allusioni nella letteratura spirituale si moltiplicano a misura che la sua pratica guadagna in estensione e in profondità. A raccogliere la dottrina di Gregorio Magno al riguardo ci sarebbe da scrivere tutto un poema: un poema che non è architettato dalla mente, ma creato da una esperienza vitale: “ ... mi dava vita il respiro di una compunzione quotidiana che nasceva dal conforto di una lettura fatta con amore ”[30]. Egli ha analizzato questa esperienza in descrizioni ammirabili[31]. Da lui e dai grandi Padri, soprattutto Origene, Girolamo e Agostino, le generazioni monastiche del medioevo hanno imparato a fare di quell'esercizio una sorgente di luce per lo spirito: “come la luce rallegra la vista, così la lettura il cuore”[32]. Soprattutto ne hanno fatto una sorgente di preghiera; è “il pozzo di Giacobbe da cui si attingono le acque che si effondono poi sulla preghiera”[33].
Tutto è guidato da una idea-forza ripetuta con un'insistenza martellante: se nella preghiera l'uomo parla a Dio, prima ancora nella lettura Dio parla all'uomo: “Quando preghiamo, siamo noi a parlare con Dio; ma quando leggiamo è Dio che parla con noi ”[34].
I1 principio era già classico presso i Padri: “ Preghi? Sei tu che parli allo Sposo. Leggi? E’ Lui che ti parla ” diceva Girolamo[35]. E’ una idea esaltante che fa gridare a uno dei tanti: “ O dolce colloquio, o soave trattenimento”[36]. Nella sua riscoperta dei grandi valori biblici tradizionali, il Concilio non poteva fare a meno che ripresentarlo; e lo fa attraverso un testo di sant'Ambrogio[37].
Prima di tentare un'analisi più dettagliata di questa lettura tradizionale, è bene individuare la portata evocativa del termine. Qualche testo patristico ce ne dà un'idea concreta facendo rivivere, in bozzetti vivaci, la lettura di qualche personaggio.
Così Agostino ci descrive Ambrogio quando rientra affaticato dalla vita pubblica, e si ritira in un luogo appartato della sua casa; una fame spirituale lo attrae alle pagine del Libro sacro: “ Mentre leggeva, con gli occhi scorreva le pagine e con la mente scrutava il significato; la voce e la lingua tacevano ”. Agostino entra, lo guarda così profondamente assorto, e poi se ne va senza osare interromperlo[38].
Paolino da Nola descrive Melania senior così assorta nella lettura e inebriata dalla sua gioia da non sentire più la durezza del giaciglio su cui riposa[39].
Difficile trovare nel nostro linguaggio un termine che ne renda il contenuto. Non basta parlare di “lettura ”: il nostro termine indica qualcosa di troppo superficiale e di troppo poco impegnato. Né è migliore quello di “ studio ”, solo perché indica un'attività molto più impegnata; esso si situa infatti a un livello intellettuale, ma diventa facilmente sinonimo di ricerca scientifica o di cultura. Ora in nessun modo gli antichi miravano con la lettura a farsi una cultura, sia pure teologica o biblica. Più vicino il termine “meditazione”: ma i metodi recenti di orazione che lo hanno assunto, gli hanno dato connotazioni di sistematicità e di complessità psicologica che gli antichi ignoravano, e che ugualmente ignora quella scuola di preghiera ecclesiale che è la Liturgia.
E’ possibile darne un'idea complessiva con una formula che in qualche modo la definisca? Certo, le realtà spirituali sono ricche e complesse, e difficilmente si lasciano ridurre in formule. Non è mancato tuttavia chi ha abbozzato un tentativo di definizione. Guigo il Certosino la definiva: “scrutare accuratamente le Scritture con piena attenzione dell'animo”[40]: definizione espressiva che evoca all'immaginazione le numerose generazioni di monaci che, nel loro pacifico scrittorio, si sono amorosamente curvati sulle pagine della Bibbia e dei Padri. Ma in fondo rimane piuttosto generica e non dice nulla della sua intima natura. Gli antichi, del resto, non avevano il genio delle definizioni: più che analizzarle, queste realtà le vivevano.
Nella sua brevità concisa ci pare che l'espressione di Leclercq attinga l'anima stessa di questa lettura: “La lectio divina è una lettura pregata”[41]. Bouyer ne ha tentato una descrizione più dettagliata:

“E’ una lettura personale della Parola di Dio, durante la quale ci si sforza di assimilarne la sostanza; una lettura nella fede, in spirito di preghiera, credendo alla presenza attuale di Dio che ci parla nel testo sacro, mentre il monaco si sforza di essere egli stesso presente, in uno spirito di obbedienza, di completo abbandono alle promesse come alle esigenze divine”[42].

In queste espressioni egli vuole condensare l'essenziale dell'attitudine tradizionale di fronte alla Parola, presso i Padri come presso tutta la tradizione monastica.
Un grande monaco, Dom Paul Delatte, abate di Solesmes, che, al pari degli autori citati, conosceva molto bene questa tradizione, ce ne ha dato a sua volta questa analisi:

“ La lectio divina è l'insieme dei procedimenti intellettuali progressivi con cui ci rendiamo familiari le cose di Dio e ci abituiamo a guardare l'invisibile. Non è né speculazione astratta e fredda, né semplice curiosità umana, né lettura superficiale: è una ricerca seria, approfondita e perseverante della Verità stessa. Si può dire che di questo studio Dio solo è l'oggetto, l'ispiratore e anche l'agente principale: poiché essa si fa non solo sotto il suo sguardo, ma nella sua luce, e in contatto molto intimo con Lui. Essa è preghiera ed è tenerezza. Si chiama lectio, e non è che il primo grado di una serie a-scendente: lectio, cogitatio, studium, meditatio, oratio, contemplatio ”[43] 20.

Agli antichi forse la prima parte di questa descrizione sarebbe parsa troppo “ intellettuale ”: si sarebbero riconosciuti invece facilmente nella seconda parte, ove si sottolinea la presenza viva dell'Interlocutore che allaccia il dialogo e vi svolge il ruolo di agente principale, cui il lettore è associato in una forma di sinergia.
È su questo punto che insiste pure P. Dumontier, con quel suo tono appassionato che sgorga da una grande familiarità e perfetta sintonia con la scuola cistercense. Egli si applica a spiegare l'aggettivo “ divina ” e osserva che non ha solo senso oggettivo: una lettura che ha per oggetto i Libri di Dio, la sua Parola; ma pure senso soggettivo: una lettura fatta a due, con Dio, cuore a cuore con Lui. Più ancora: una lettura che mi reca un messaggio d'amore del Dio che mi cerca, secondo una espressione cara a Bernardo, che raggiungendo l'anima le fa sentire il gusto di Dio, e la stabilisce in contatto personale con Lui. Si esperimenta allora la verità del versetto salmodico che tanta fortuna ebbe nella letteratura monastica: “ Gustate e vedete com'è buono il Signore ”[44].
Altri si applica a precisare meglio gli elementi della psicologia e della grazia che entrano in gioco nella lettura. Certo non basta parlare di “ procedimenti intellettuali ”. Anche l'amore è un coefficiente di conoscenza, soprattutto nell'ambito della vita di fede: e spesso penetra oltre i limiti imposti all'intelletto. “ L'Amore è conoscenza ” amavano dire i medieva1i[45], anticipando “ le ragioni del cuore ” -di Pascal. Accanto al lavoro intellettuale bisogna porre dunque quello affettivo: e al di sopra di essi la luce della fede che li trasfigura entrambi, e permette all'anima di penetrare nell'universo divino. Tutto si raccoglie così in “ uno sguardo profondo e tranquillo sul mondo invisibile”[46] attraverso quella Parola che è “ fiaccola per i nostri passi ” nel cammino verso il Dio vivente.
Data dunque la serietà e l'impegno che caratterizzano questa lettura, non ci sorprende più l'enorme fiducia nella sua efficacia spirituale, testimoniata ad esempio da questo testo di Smaragdo che riflette la concezione comune:

“ L'esperienza della lettura sacra acuisce la sensibilità del lettore, aumenta la capacità di comprenderla, scuote dal torpore, allontana l'ozio, dà ordine alla esistenza, corregge le cattive abitudini, provoca un pianto che fa bene e trae dal cuore compunto le lacrime... frena le chiacchere e le banalità, accende il desiderio di Cristo e della patria celeste. La lettura sacra deve sempre accompagnarsi all'orazione ed esserle intimamente unita, perché dall'orazione siamo purihcati e dalla lettura istruiti. Così chi vuol essere sempre con Dio deve pregare di frequente e di frequente leggere: quando preghiamo infatti siamo noi che parliamo con Lui e quando leggiamo è Lui che parla con noi. Chiunque cerca la perfezione deve progredire nella lettura, nella preghiera e nella meditazione. Leggendo si impara ciò che non si conosce, meditando riteniamo ciò che abbiamo imparato, con la preghiera otteniamo di vivere ciò che abbiamo ritenuto. La lettura delle Sacre Scritture ci offre un duplice dono: rende più perspicace la comprensione dell'animo e conduce l'uomo, dopo averlo strappato alle vanità del mondo, all'amore di Dio... ”[47].

Dopo aver lumeggiato così, in modo sintetico, la portata del termine, si tratta di coglierne ora in modo piú analitico le componenti; individuare cioè le linee portanti della spiritualità tradizionale di fronte alla Parola di Dio accostata nella lettura divina.


[1]AGOSTINO, Sermo 179, 1; PL 38, 966, citato nella Cost. Dei Verbum, n. 25.
[2]Regula Ferioli o Ferreoli Uzeticensis, cap. 24- ed. HOLSTEINBROCKIE, Codex Regularum I, Graz 1957, p. 156 sg.
[3]La discussione ha raggiunto punte particolarmente calde con I opuscolo di JACQUES e RAISSA MARITAIN, Liturgia e contemplazione, ed. ital. Torino 1960: è un grido d'allarme in difesa dell'ideale contemplativo minacciato, a loro avviso, dal movimento liturgico, verso il quale i due coniugi assumono un atteggiamento polemico. Il libro ebbe l'effetto di un sasso in piccionaia.
Già dal 1957 aveva visto la luce l'ormai classica opera di C. VAGAGGINI, Il senso teologico della Liturgia, che aveva dedicato una lucida, approfondita analisi al problema dei rapporti tra Liturgia e vita mistica: gli ambienti liturgici erano perciò particolarmente sensibilizzati alla questione. Molte riviste reagirono tempestivamente: La vie spirituelle Questions liturgiques et paroissiales, Worship, Revue Grégorienne, Rivista di ascetica e mistica che ospitò nei 1962 un articolo dello stesso Padre Vagaggini. L'equivoco fondamentale su cui poggia l'argomentazione di Maritain è quello di ridurre la partecipazione al culto a qualcosa di puramente estrinseco, per contrapporla poi alla contemplazione che si attuerebbe fuori e indipendentemente dalla celebrazione. In realtà l'atto cultico è “ contemplativo ” e, se riveste un carattere comunitario non impegna meno per questo le energie interiori e personali del credente. Si deve anzi affermare l'eminenza della contemplazioné cultica su quella privata, come un corollario della tesi che afferma la superiorità della preghiera liturgica su quella privata. Tutto questo trova un'applicazione concreta in quel particolare settore dell'argomento di cui qui ci occupiamo.
[4]Riprendiamo qui in sintesi alcuni principi che abbiamo più ampiamente formulato in: La Parola di Dio nell'assemblea liturgica, Brescia 1966, pp. 69-100.
[5]Cf. J. LECLERCQ, La liturgia e i paradossi cristiani, trad. ital. Milano 1967, P. 286.
[6]Cf. A.-M. MUNDó, Las Reglas monásticas latinas del siglo VI y la “ lectio divina ”, in Studia monastica, 9 (1967) 229-256.
[7]Si veda ad es. I'Istruzione Eucharisticum mysterium al n. 38.
[8]Cf. i due pregevoli saggi consacrati da M. M. PHILIPON a queste due figure di primo piano nella spiritualità del novecento: La dottrina spirituale di Dom Marmion, trad. it., Brescia 1956, La dottrina spirituale di Suor Elisabetta della Trinità, Brescia 1957.
[9]Cf. ad es. J. LECLERCQ, op. cit., pp. 221-227 e C. VAGAGGINI, Il senso teologico della Liturgia, IV ed., Roma 1965, pp. 699-792.
[10]BERNARDO, Super Cant. 57, 3; ed. J. LECLERCQ…, II, p. 121.
[11]ID., Super Cant. 29, 7; ed. cit., I, p. 248.
[12]ORIGENE, In Ex., h. 9, n. 34; PG 4, 237-244.
[13]Cf. H. DE LUBAC Exégèse médiévale. Les quatre sens de l'Ecriture, P. I, t. II, Parigi 1959, pp. 560-561. L'autore sottopone giustamente a critica la pretesa di E. DE BRUYNE, (Etudes d'esthétique médiévale, III, pp. 31-32) di individuare nella tradizione due filoni ben distinti: da una parte un “socratismo cristiano” che commenta la Scrittura in funzione della vita interiore, e dall'altra una dottrina “ecclesiastica’ che la colloca invece nel contesto dogmatico ed ecclesiale.
[14]GREGORIO, In Ezech. II, 1; PL 76, 949.
[15]ID., Moral. XXIII, 19, 34; PL 76, 271.
[16]ID., In Ezech., loc. cit.
[17]Cf. L. BOUYER, Parola, Chiesa e Sacramenti nel Protestantesimo e nel Cattolicesimo, trad. it., Brescia 1962, pp. 11-12
[18]Negli ultimi decenni sono stati dedicati all'argomento parecchi studi validi, sia monografici, che sintetici. Tra tutti merita di essere segnalata l'opera monumentale di H. DE LUBAC, già citata i cui quattro grossi volumi costituiscono una miniera inesauribile di testi, di temi e di prospettive tradizionali. Non è più possibile ormai liquidare con un sorriso di benevolo compatimento questo apporto tradizionale, che si rivela di una ricchezza e di una vivacità sorprendenti. – Un Convegno di studio è stato dedicato dai monaci italiani, al tema “Bibbia e spiritualità”, visto tutto l'arco della tradizione pur con notevoli lacune. Gli Atti sono stati editi dalle Paoline nei volume Bibbia e spiritualità, Roma 1967.
[19]AGOSTINO, Confess. XI, 2, 3.
[20]Cf. GERHOH, In Ps. XXI; PL 193, 990 B C.
[21]Cf. RUPERTO, In Mich, I; PL 178, 456 A.
[22]Cf. LEONE M., Serm. 60, c. 1; PL 54, 34243; ILARIO, Tr. Myst. I, 1; ed. Sourc. Chrét. 19, p. 74.
[23]Paul Claudel interroge l’Apocalypse, p. 332.
[24]Cf. H. DE LUBAC, Exégèse médiévale, op. cit., t. I, pp. 82 84.
[25]GIROLAMO, In Tit. III, 9.
[26]AMBROGIO, In Luc. IV, 20; PL 15, 1618 B.
[27]AGOSTINO, Serm. 142, 1; PL 38, 778. Ep. 20, 3; PL 33, 87.
[28]ILARIO, Tractatas in CXVIII psalmam; PL 9, 570 A.
[29]Cf. A.-M. MUNDó, Las Reglas monásticas, op. cit., pp. 229-256.
[30]GREGORIO, Mor., ep. miss., ed. Sourc. chrét., 32, Paris 1952, P. 116.
[31]Cf. ad es. Mor. 13, 20, 38; PL 76, 274 AB.
[32]ALCUINO, Epist. 51; PL 100, 216 C.
[33]ID., Epist. 1, col. 139 A
[34]ADALGERO, Admon. ad Nonsuindam reclus., c. 13, PL 134, 931 C. Per l'epoca patristica ricordo: CIPRIANO, Ad Donatum, 15: “Prega o leggi con assiduità; ora sii tu a parlare con Dio ora Dio a parlare con te”; GIROLAMO, Ep. 3, 4: “Egli ascolta Dio quando legge le divine Scritture, conversa con lui quando prega il Signore” (PL 22, 334). Altri testi medievali li abbiamo citati altrove: cf. M. MAGRASSI, La preghiera a Cluny e a Citeaux in La preghiera nella Bibbia e nella tradizione patristica e monastica, Roma, 1964, pp. 645-646.
[35] GIROLAMO, Ep. 22, 25; PL 22, 411.
[36]L'exhortation de Guillaume Firmat ”, ed. J. LECLERCQ, in
Anal. monast. II (St. Anselm., 31) 397 - 404.
[37]AMBROGIO, De off. ministr. I, 20, 88; PL 16, 50; cf. COSt Dei Verbum, n. 25.
[38]AGOSTINO, Conf. 6, 3.
[39]PAOLINO DA NOLA, Epist. 29, 13; PL 61, 321.
[40]GUIGO 11, Scala claustralium, c. 1; PL 184, 476 B.
[41]Cf. J. LECLERCQ, L'amour des lettres et le désir de Dieu (Initiation aux auteurs monastiques du moyen-age), Paris 1957, p. 72
ID., Lecture et oraison, in La vie spirituelle, Maggio 1954, pp. 392402; ID., La lecture divine in La Maison-Dieu n. 5 (1946) 22-23; ID.-J.-P. BONNES, Un máitre de la vie spirituelle au XI siècle, Jean de Fécamp, Paris 1946, pp. 97-103, ID., La spiritualité de Pierre de Celle (1115-1183), Paris 1946, pp. 99-107 ecc...
[42]L. BOUYER, Parola, Chiesa e Sacramenti nel Protestantesimo e nel Cattolicesimo, trad. ital., Brescia 1962, p. 17.
[43]P DELATTE, Commentaire sur la Règle de Saint Benoit, Paris 1948, PP. 348-349.
[44]P DUMONTIER, Saint Bernard et la Bible Paris 1953, P. 50 e 86.
[45]E’ il titolo di uno studio di J. DECHANÉT SU Guglielmo di san Teodorico e san Bernardo, in Revue du moyen-age latin 1 (1945)
[46]Cf. G. COLOMBAS - L. SANSEGUNDO - O. CUNILL, San Benito. Su vida y su Regla, Madrid 1954, PP. 463-464.
[47]SMARAGDO, Commentaria in Reg. S. Benedisti, ad cap. 4, n. 56; PL 102, 784.

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