lunedì 24 settembre 2012

LOTTA DI GIACOBBE (Preghiera biblica martedi)


Giacobbe aveva sottratto al suo gemello Esaù la primogenitura in cambio di un piatto di lenticchie e aveva poi carpito con l’inganno la benedizione del padre Isacco, ormai molto anziano, approfittando della sua cecità. Sfuggito all’ira di Esaù, si era rifugiato presso un parente, Labano; si era sposato, si era arricchito e ora stava tornando nella terra natale, pronto ad affrontare il fratello dopo aver messo in opera alcuni prudenti accorgimenti. Ma quando è tutto pronto per questo incontro,  Giacobbe, viene aggredito improvvisamente da uno sconosciuto con il quale lotta per tutta una notte. Proprio questo combattimento diventa per lui una singolare esperienza di Dio.


Don Claudio Doglio Conosciamo la Bibbia (Vimeo)

L’episodio si svolge nell’oscurità ed è difficile percepire non solo l’identità dell’assalitore di Giacobbe, ma anche quale sia l’andamento della lotta. Leggendo il brano, risulta difficoltoso stabilire chi dei due contendenti riesca ad avere la meglio; i verbi utilizzati sono spesso senza soggetto esplicito, e le azioni si svolgono in modo quasi contraddittorio, così che quando si pensa che sia uno dei due a prevalere, l’azione successiva subito smentisce e presenta l’altro come vincitore. All’inizio, infatti, Giacobbe sembra essere il più forte, e l’avversario – dice il testo – «non riusciva a vincerlo» (v. 26); eppure colpisce Giacobbe all’articolazione del femore, provocandone la slogatura. Si dovrebbe allora pensare che Giacobbe debba soccombere, ma invece è l’altro a chiedergli di lasciarlo andare; e il Patriarca rifiuta, ponendo una condizione: «Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto» (v. 27). Colui che con l’inganno aveva defraudato il fratello della benedizione del primogenito, ora la pretende dallo sconosciuto, di cui forse comincia a intravedere i connotati divini, ma senza poterlo ancora veramente riconoscere.

Il rivale, che sembra trattenuto e dunque sconfitto da Giacobbe, invece di piegarsi alla richiesta del Patriarca, gli chiede il nome: “Come ti chiami?”. E il Patriarca risponde: “Giacobbe” (v. 28). Qui la lotta subisce una svolta importante. Conoscere il nome di qualcuno, infatti, implica una sorta di potere sulla persona, perché il nome, nella mentalità biblica, contiene la realtà più profonda dell’individuo, ne svela il segreto e il destino. Conoscere il nome vuol dire allora conoscere la verità dell’altro e questo consente di poterlo dominare. Quando dunque, alla richiesta dello sconosciuto, Giacobbe rivela il proprio nome, si sta mettendo nelle mani del suo oppositore, è una forma di resa, di consegna totale di sé all’altro.
Ma in questo gesto di arrendersi anche Giacobbe paradossalmente risulta vincitore, perché riceve un nome nuovo, insieme al riconoscimento di vittoria da parte dell’avversario, che gli dice: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto» (v. 29). “Giacobbe” era un nome che richiamava l’origine problematica del Patriarca; in ebraico, infatti, ricorda il termine “calcagno”, e rimanda il lettore al momento della nascita di Giacobbe, quando, uscendo dal grembo materno, teneva con la mano il calcagno del fratello gemello (cfr Gen 25,26), quasi prefigurando lo scavalcamento ai danni del fratello che avrebbe consumato in età adulta; ma il nome Giacobbe richiama anche il verbo “ingannare, soppiantare”. Ebbene, ora, nella lotta, il Patriarca rivela al suo oppositore, in un gesto di consegna e di resa, la propria realtà di ingannatore, di soppiantatore; ma l’altro, che è Dio, trasforma questa realtà negativa in positiva: Giacobbe l’ingannatore diventa Israele, gli viene dato un nome nuovo che segna una nuova identità. Ma anche qui, il racconto mantiene la sua voluta duplicità, perché il significato più probabile del nome Israele è “Dio è forte, Dio vince”.

Dunque Giacobbe ha prevalso, ha vinto - è l’avversario stesso ad affermarlo - ma la sua nuova identità, ricevuta dallo stesso avversario, afferma e testimonia la vittoria di Dio. E quando Giacobbe chiederà a sua volta il nome al suo contendente, questi rifiuterà di dirlo, ma si rivelerà in un gesto inequivocabile, donando la benedizione. Quella benedizione che il Patriarca aveva chiesto all’inizio della lotta gli viene ora concessa. E non è la benedizione ghermita con inganno, ma quella gratuitamente donata da Dio, che Giacobbe può ricevere perché ormai solo, senza protezione, senza astuzie e raggiri, si consegna inerme, accetta di arrendersi e confessa la verità su se stesso. Così, al termine della lotta, ricevuta la benedizione, il Patriarca può finalmente riconoscere l’altro, il Dio della benedizione: «Davvero – disse – ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva» (v. 31), e può ora attraversare il guado, portatore di un nome nuovo ma “vinto” da Dio e segnato per sempre, zoppicante per la ferita ricevuta.

La notte di Giacobbe al guado dello Yabboq diventa così per il credente un punto di riferimento per capire la relazione con Dio che nella preghiera trova la sua massima espressione. La preghiera richiede fiducia, vicinanza, quasi in un corpo a corpo simbolico non con un Dio nemico, avversario, ma con un Signore benedicente che rimane sempre misterioso, che appare irraggiungibile. Per questo l’autore sacro utilizza il simbolo della lotta, che implica forza d’animo, perseveranza, tenacia nel raggiungere ciò che si desidera. E se l’oggetto del desiderio è il rapporto con Dio, la sua benedizione e il suo amore, allora la lotta non potrà che culminare nel dono di se stessi a Dio, nel riconoscere la propria debolezza, che vince proprio quando giunge a consegnarsi nelle mani misericordiose di Dio.
 E ancora di più: Giacobbe, che riceve un nome nuovo, diventa Israele, dà un nome nuovo anche al luogo in cui ha lottato con Dio, lo ha pregato; lo rinomina Penuel, che significa “Volto di Dio”. Con questo nome riconosce quel luogo colmo della presenza del Signore, rende sacra quella terra imprimendovi quasi la memoria di quel misterioso incontro con Dio. Colui che si lascia benedire da Dio, si abbandona a Lui, si lascia trasformare da Lui, rende benedetto il mondo. (Benedetto XVI)

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