giovedì 9 febbraio 2023

GESU' SIGNORE E SALVATORE


Mārêh Ješûă´ Mešihā: Signore Gesù il Messia! Questa è stata la primitiva confessione di fede cristiana. Sono parole in aramaico, la lingua dei primi credenti in Gesù. Una professone analoga, contemporaneamente, fu espressa in greco: Gesù è il Signore [Kyrios]! (Cf At 11,20; Rm 10,9; 1 Cor 12,3). Prossimo al titolo di Signore, fu quello di Salvatore (Lc 2,11; At 5,31). 

Gesù fu annunciato come il Messia atteso, il Signore, il Salvatore. Se è Signore e Salvatore, non è soltanto un maestro, un rabbi, come si poteva pensare ad un primo sguardo. Che differenza c’è tra considerare Gesù un maestro o il Signore?

Un maestro comunica delle nozioni, offre un messaggio, lascia degli scritti e i discepoli hanno il compito di studiarli, di praticarli e di diffonderli, in base alla loro abilità. Tuttavia, «La vera novità del Nuovo Testamento non sta in nuove idee, ma nella figura stessa di Cristo, che dà carne e sangue ai concetti – un realismo inaudito!» (Benedetto XVI, Deus caritas est, 12).

Il suo insegnamento è la sua persona, in due sensi:

a) la dottrina che ci ha lasciato è se stesso, la sua esistenza. 

b) per imitarlo, per attuare il suo insegnamento, dobbiamo prima ricevere il suo stesso essere, la sua luce. Lo dico in modo paradossale: prima dobbiamo diventare Lui per poter agire, poi, come Lui. 

I suoi discepoli possono praticare i suoi insegnamenti e continuare la sua missione, soltanto perché sono in Lui ed Egli vive in loro. 

Il Vangelo, quindi, è Gesù che vive nell’oggi. Il suo messaggio è Lui stesso, al presente. Osserva Romano Penna: «Purtroppo succede spesso che, soprattutto da parte laica, ma a volte è inconsciamente anche nella  chiesa, s'identifichi il cristianesimo come un sistema di valori, con una dottrina spiritualistica o con una prassi di solidarietà.  In questo caso, volenti o nolenti, la figura di Cristo viene cacciata ai margini, ridotta a un semplice punto di riferimento, sia di un insegnamento sia di un comportamento» (Profili, 126).

Le sue parole, poi, possono essere riassunte in un solo comando: date tutto voi stessi agli altri, per amore, come ho fatto io. È questo che Dio vuole da voi. Lo potete fare perché vi comunico la mia capacità d’amore (agape). 

Nel libro dell’Apocalisse, leggiamo: «[L'Angelo] Mi mostrò la città santa... avente la gloria di Dio: il suo Portatore di luce (fostir) corrisponde ad una pietra preziosissima come la pietra diaspro che manda riflessi di cristallo» (Ap 21,11). 

In questo versetto compare un'unione profonda tra Cristo e la Chiesa: essa viene illuminata da un Portatore di luce (fostir) paragonato ad un diamante che riflette tutti i colori. In questo passo, Gesù non è prima di tutto un maestro, né soltanto un maestro ma colui che comunica alla comunità il suo splendore. 

«Cristo è la mia vita, è la nostra santificazione, la nostra giustizia»: così pensa Paolo. Del Cristo possiamo parlare per sostantivi, perché egli è la sostanza stessa di tutti i beni, di tutti i doni. 

Come possiamo conoscerlo ed unirci a Lui?

Nella sua prima lettera, Giovanni parla della sua esperienza di Gesù, vissuta insieme agli altri apostoli: «Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi» (1 Gv 1,1-3). Osservando bene, Giovanni sottolinea l’importanza dell’udire. Forse noi avremmo dato più importanza al vedere. La sua testimonianza si apre e si conclude richiamando il valore dell’ascolto. Come mai? Lo spiega subito dopo: quello che abbiamo visto e udito, noi lo annunciamo anche a voi. Quelli che non conobbero Gesù perché abitavano lontano dalla Palestina o perché nacquero dopo, sono più sfortunati dei testimoni oculari? No, perché ascoltando gli insegnamenti degli apostoli, anche noi partecipiamo agli eventi narrati, ne comprendiamo il significato e incontriamo Gesù stesso. 

Non ci resta altro da fare che imitare il discepolo amato che appoggiò il suo capo sul petto di Gesù (Gv 13,25). Il discepolo amato ci insegna ad assorbire, come fossimo una spugna, tutto il mistero del Signore (Gregorio di Nissa). 



Momenti della vicenda di Cristo

Nel Nuovo Testamento, la vicenda completa di Gesù comporta tre fasi: 

a) l'esistenza presso il Padre, prima dell'incarnazione: il Verbo era presso Dio (Gv 1,1); 

b) l'esistenza condotta sulla terra: il Verbo si fece carne (Gv 1,14) 

c) il ritorno presso il Padre da Risorto, nella sua umanità e con tutta l'umanità (Gv 17,5. 24). 

Esistenza presso il Padre 

Parliamo dapprima della sua esistenza presso Dio Padre. A questo proposito, rileggiamo il primo tratto dell’inno riportato nella lettera ai Filippesi: «Egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini» (2,6-7). 

Questa breve annotazione ci rivela che l’esistenza di Gesù, nelle sue modalità concrete, è stata, per così dire, l’esecuzione di un ragionamento svolto mentre era presso Dio in cielo: «L’esistenza donata dell’uomo Gesù è il prolungamento, o lo specchio, di un ragionare divino» (B. Maggioni, Annunciava loro la Parola, Vita e Pensiero, Milano 2018, p. 141). 

 «Donarsi all'infinito: ecco la legge della vita intima di Dio» (T. Merton, Nessun uomo è un'isola, Garzanti, Milano 1998, p. 21). 

Farsi dono è il modo di ragionare e di esistere di Dio, ma nell’inno appare un elemento ancora più significativo del semplice donarsi: la partecipazione alla nostra condizione umana. Il donarsi all'infinito diventa disponibilità alla condivisione della nostra esistenza concreta, anche nella sua povertà. 

Parlando a Mosè, il Signore diceva: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo» (Es 3,7-8). Si può commentare questa decisione di Dio con un'osservazione di papa Benedetto: «Dio non può patire ma può compatire» (Benedetto XVI, Spe salvi, 39). Tuttavia qui, nella dichiarazione a Mosè, la sua discesa è una vera compartecipazione ma non è ancora una vera coesistenza perché Egli rimane invisibile nel cielo, esente da ogni travaglio. 

In Gesù, invece, avviene qualcosa di più significativo: la divinità scende davvero presso di noi: Gesù «non ha fatto se non opere mirabili ma l’azione più sorprendente è stata la sua volontaria umiliazione quando ha assunto la nostra carne e ha condiviso le nostre sofferenze» (Bruno di Segni PL 164,836 C). 

Salire fino alla realtà celeste è un movimento molto ambito dagli uomini. Enoch ed Elia sono stati onorati in questo modo (Gen 5,24; 2 R2 2,11). Gli imperatori romani presumevano di elevarsi fino al rango divino e, per questo, imponevano la loro deificazione. Nell’arco di Tito, a Roma, è raffigurato l’imperatore che viene ghermito da un’aquila e portato in cielo presso le divinità. Salire è facile; difficile è, dalle sublimità celesti, scendere in basso con una decisione volontaria, condividendo la sorte degli umili. Gesù è l’unico, tra i grandi personaggi religiosi, del quale si può annunciare un fatto simile. 

L’esistenza presso di noi

Gesù, in tutta la sua persona e in tutto il suo operare, si manifestò come l’immagine di Dio. Ogni uomo è ad immagine di Dio ma Gesù è stato l’Immagine, pienamente corrispondente a Dio (2 Cor 4,4), anzi la sua stessa impronta. Un autore biblico usa proprio il termine impronta (charaktêr Eb 1,3). È possibile comporre insieme nella stessa persona divinità e umanità? Come può Gesù manifestarsi quale il Figlio di Dio vivendo nei limiti stretti della nostra umanità? 

Dire che Egli è stato la piena manifestazione del Padre è come dire che Egli è stato l’amore più profondo e più puro tradotto in una esistenza umana. 

Proprio l’esperienza del limite facilita la pratica dell’amore, lo rende più vero e concreto. Amare, nel suo grado ultimo, infatti, significa infine saper soffrire per l’altro. Ora se Dio è Amore, Gesù rivela ancora meglio questa verità, proprio vivendo la nostra condizione umana, limitata. In tutte le vicissitudini della sua esistenza, Egli rende presente la carità che è Dio stesso, alla quale Egli partecipa. Un eroe rappresenta se stesso, mentre Gesù manifesta il Padre che lo ha inviato. 

L’evangelista Giovanni spiega questo aspetto di Gesù servendosi d’una metafora attinta dal mondo artigianale: «Il Figlio da se stesso non può fare nulla, se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa allo stesso modo. Il Padre infatti ama il Figlio, gli manifesta tutto quello che fa e gli manifesterà opere ancora più grandi di queste, perché voi ne siate meravigliati (Gv 5,19-20).

Gesù si raffigura come un figlio che impara il mestiere lavorando con il padre nella stessa bottega artigianale, ripetendo ciò che vede fare da lui. L’obbedienza non è vista come sottomissione spersonalizzante ma, al contrario, come acquisizione di dignità. Gesù si propone come persona autorevole proprio perché segue con fedeltà il volere di Dio; esegue ciò che vede fare e, quindi, diventa un riflesso del Padre (cf. R. Infante, Giovanni, 145). Non è un dio alternativo ma la manifestazione dell’unico Dio vero. 

Gesù si mostra libero, proprio obbedendo; Egli vuole obbedire, ossia vuole fare suo il disegno del Padre ed esistere soltanto per gli altri. È veramente libero, chi è libero anche da se stesso; solo allora può donarsi a tutti. 

Per questo, quasi volendo cogliere tutto il senso del suo percorso di vita, i primi cristiani hanno detto: «È apparsa a noi la grazia di Dio» (Tt 2,11); «Dio è amore» (1 Gv 4,8). È apparsa la grazia: si è manifestata una realtà che esisteva da sempre ma non era ancora stata resa nota con la chiarezza con cui si è mostrata in lui. 

Ritorno al Padre, con noi

L’apostolo Pietro, dopo la Pasqua, così parla alla folla di Gerusalemme: «Gesù di Nàzaret – uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso fece tra voi per opera sua, come voi sapete bene –, consegnato a voi secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, voi, per mano di pagani, l’avete crocifisso e l’avete ucciso. Ora Dio lo ha risuscitato…» (At 2,23-24).

In altre parole rievoca la vita trascorsa da Gesù e lo presenta come una persona a cui Dio aveva affidato una missione particolare, accreditandolo con miracoli e segni affinché tutti credessero in lui. Ciò che conta di più, tuttavia, è quanto è accaduto dopo la sua morte, quando Dio lo ha confermato come suo Inviato, risuscitandolo da morte. Pietro, infatti, prosegue: «Sappia con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso» (At 2,36). 

Gesù, già accreditato da Dio nella sua vita terrena, ora si trova insediato su un trono celeste. La resurrezione fu compresa e annunciata, fin dal principio, come un evento di intronizzazione, come l’innalzamento di Gesù alla destra di Dio Padre. Ora diventa manifesto che Gesù non fu un presuntuoso che si attribuì una missione ambiziosa, rivelatasi poi illusoria, ma la sua messianicità fu confermata dalla sua risurrezione (Cf. R. Penna, Lettera ai Romani, 97-101). 

C’è di più. Il Padre, elevando Cristo fino a sé,  onora quel tipo d’esistenza rappresentato da Gesù in tutta la sua vita terrena. Il titolo di Cristo (che significa Consacrato, Messia), unito al nome Gesù, stabilisce una continuità in tutta la vicenda di Gesù: nella sua vita terrena era il Cristo (= Messia); nella sua vita da Risorto è confermato come il Cristo. Da un lato, la sua persona terrena può essere compresa in tutto il suo valore solo a partire dalla glorificazione; dall’altro, la risurrezione non è all’origine della missione autorevole di Gesù ma ne rappresenta la conferma e la ripartenza, con un efficacia decisiva.

I primi cristiani, perciò, non annunciarono soltanto che Gesù era risorto, quindi che era ancora vivente, ma che era stato costituito come Signore. «Gesù Signore non equivale a Gesù risorto, perché - al di là dell'approvazione di Dio che ha accolto il Crocifisso nella vita eterna, come poteva avvenire nel caso di un qualsiasi martire - Signore indica da un lato una collocazione sul piano del divino, una partecipazione alla gloria di Dio, e dall'altro indica la presenza attiva e autorevole (la signoria, appunto) del Risorto nella comunità. Per questo il gesto di Dio che risuscita Gesù non è solo un gesto che ha approvato il Crocifìsso, ma un gesto che ne ha rivelato l'identità» (B. Maggioni, Annunciava…, 135). 

La conseguenza

Ritorniamo ancora al discorso di Pietro a Gerusalemme. Dopo aver annunciato l’innalzamento di Gesù alla destra del Padre, l’apostolo segnala un fatto che attesta la veridicità di questo evento: «Innalzato alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire» (At 2,33). 

Compare un elemento di grande rilievo: Gesù ora può inviare lo Spirito Santo, la pienezza della forza di Dio. «Gesù fu innalzato come Signore perché effondesse lo Spirito che dà inizio alla vita cristiana» (J. A. Fitzmyer, DENT II, 137).

L’annuncio del dono dello Spirito Santo è molto importante perché rende possibile la nostra partecipazione alla vita di Cristo. Per così dire, Gesù non vuole più rimanere soltanto un caso isolato, ma diventare una collettività; è tutti noi: Egli è la vite, noi i tralci (cf Gv 15); la Chiesa è il Corpo di Cristo (cf 1 Cor 12). Grazie allo Spirito, anche noi possiamo partecipare alla sua missione; diventare figli di Dio come lui. Solo grazie allo Spirito Santo, comincia la vita cristiana e il Vangelo può continuare la sua presenza nel mondo. Parlare di Gesù senza evocare il suo Spirito è formulare un discorso a vuoto. 

Nell’Antico Testamento, lo Spirito rappresentava l’energia incomparabile di Dio, visibile soprattutto nella creazione. Uomini carismatici come i capi del popolo, re e profeti sperimentarono di aver ricevuto l’energia di Dio e lo mostrarono nella forza delle loro azioni, nelle vittorie, nell’efficacia delle loro parole. Infine lo Spirito venne considerato una forza che sarebbe apparsa nell’epoca definitiva (escatologica) della salvezza e sarebbe stato la potenza dei tempi messianici, il segno di una nuova era; avrebbe dato inizio ad una nuova creazione (Is 44,3; 32,15). In modo particolare, avrebbe reso possibile una vera comunione con Dio perché gli uomini, sostenuti da Lui, sarebbero stati in grado di osservare la Legge divina. Gesù Signore inaugura il tempo atteso. Continua ad introdurre il regno del Padre nel mondo, ad instaurare la novità definitiva, inviando, ai credenti in Lui, lo Spirito ricevuto dal Padre.

Dopo la Risurrezione di Gesù, l’evento più significativo, allora, è l’invio dello Spirito da parte di Cristo; privi di questa presenza, nessuno avrebbe potuto dare continuità alla sua opera. «Negli Atti l’effusione dello Spirito a Pentecoste è il momento in cui i discepoli sperimentano per la prima volta sulla propria persona l’inizio degli ultimi giorni, il momento in cui è iniziata per loro la fede cristiana nel vero senso della parola (At 11,17)» (J. Dunn/ E. Hahn, Spirito Santo, NDEIB 1019). La fede in Gesù è opera dello Spirito: «Nessuno può dire: Gesù è Signore! se non sotto l’azione dello Spirito Santo» (1 Cor 12,3). 

Il cristiano non è semplicemente il discepolo di un maestro ma un nuovo essere. L’esistenza, che lo rende un uomo nuovo, in primo luogo, è un dono ricevuto gratuitamente. Tale dono, tuttavia, non è una forza che agisce in automatico, senza la collaborazione del ricevente. Il dispiegamento di energia divina avviene nella fede e soltanto in modo graduale. Non esiste alcun automatismo, né alcuna costrizione. Di solito occorre tempo. 


Segue

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