martedì 21 febbraio 2023

San Pier Damiani Le riforme

 3. Il riformatore

PD mostra due caratteristiche fondamentali: amore per la solitudine dell’eremo e costante impegno per la riforma della Chiesa. 

Gli eremi

Dal momento che la prima attività di conversione riguarda se stessi o il proprio ambiente di vita, in primo luogo, cercò di riformare il movimento monastico a cui apparteneva. Vigilò sull’osservanza dello stile di vita degli eremi da lui fondati. Le norme fissate vennero accolte con fervore da alcuni e con più freddezza da altri. Constata che qualcuno, perfino, s’impose una regola più rigida di quella fissata (Lett. 50,32). 

Talora, invece, ha sentito dire un discorso che ha suscitato in lui un certo sconforto e una certa irritazione: «Padre, siamo peccatori, e ti vogliamo obbedire, ma ci è impossibile osservare la regola di un modo di vivere così duro. Siamo infermi, fragili: riteniamo quindi preferebile vivere alla meglio, privi di gloria, sotto un carico leggero, che morire da forti sotto un carico pesante» (Lett. 90,7). Come rispondere a queste dichiarazioni di falsa umiltà? «I sensi interiori di tali persone sono veramente ottusi, perché non discerdono i cibi spirituali della mente […] per esse non hanno sapore alcuno quel cibo celeste, a mangiare il quale il profeta invita tutti gli uomini spirituali: Gustate e vedete quanto è soave il Signore» (ivi). 

 Nell’epistolario, emergono vari problemi. I solitari che si recavano a confessarsi presso qualche confratello, si perdevano poi in chiacchere (Lett. 50,25). Gli eremiti di Gamugno (presso Faenza), accogliendo un ospite pieno di fervore (un patarino milanese?), lo scandalizzarono addirittura. Scrivendo loro, li avverte: «Udì alcuni di voi, che pronunciavano ciance da vecchiette e li vide anche scambiare con i secolari scherzi stupidi e burle di mondo. Tali cose lo indussero a fargli perdere del tutto il proposito di intraprendere la vita monastica» (Lett. 142,2). 

Nel corso della lettera espone agli stessi altri rimproveri: «La maggior parte delle pratiche di astinenza, da me regolarmente stabilite tra di voi, è ora andata del tutto in dimenticanza» (Lett. 142,6). Infine rivela un estremo pericolo nel quale sono incorsi: «C'è ancora un'altra cosa che mi preoccupa non poco: oltrepassando ogni limite di disobbedienza, voi ricevete indifferentemente elemosine dai secolari, procurate di estendere con ardente desiderio i confini della vostra proprietà e, per dirla in breve, vi affrettate sia in privato sia in pubblico a diventare ricchi. Ma ciò facendo voi vi lacerate con le punture amarissime della concupiscenza terrena, distruggete non solo per voi, ma anche per i vostri posteri la dolcezza della pace dell'eremo, vi avviluppate nei lacci delle preoccupazioni terrene e, cosa veramente esecranda, vi procurate materia di conflitti continui con i secolari, anzi di asservimento ad essi» (Lett. 142,9). 

La sola adesione all’eremitismo, scelto senza il fervore opportuno, non dava garanzie assolute e permenenti di vera, totale e sincera conversione. 

I monasteri

Nella riforma del monachesimo, criticò con audacia lo stile di vita mondano assunto dagli abati e dai priori di comunità, senza lesinare rimproveri anche agli stessi monaci. 

Nella Lettera 105 si congratura con Bonizone di Perugia per aver voluto dimmettersi dalla carica di abate. In quell’epoca, un abate doveva immergersi in molteplici affari secolari; rischiava di daneggiare se stesso dal punto di vista della crescita nella fede e di non procurare alcun vantaggio ai monaci che presiedeva, i quali erano maldisposti a vivere un’esistenza realmente cristiana. 

Le critiche del Damiani alla figura del superiore, sono perentorie e si possono comprendere soltanto tenendo presente il contesto storico da cui sono emerse. «Apppena uno comincia a essere abate, finisce di essere monaco» (Lett. 105,3). È una critica assai aspra ma generica. Che cosa rimprovera agli abati (ma lo stesso vale per i Priori) in modo più dettagliato?

Un primo vizio è la permanente assenza dalla comunità. Per l’abate «il monastero non è che un semplice luogo in cui trovare ospitalità, mentre la sua dimora quotidiana è stare sulla groppa del cavallo» (Lett. 105,5). Frequenta più spesso e volentieri i tribunali e le corti dei principi e non si assenta neppure dai campi di battaglia. È  oberato dalle brighe in cui s’immerge e così «mentre ricusa di portare sul collo il giogo di Cristo, che pure è dolce, non aspira a cibarsi al suo convito» che promette ristoro agli stanche e affaticati (cf. Lett. 105,6). 

Un secondo vizio è costituito dall’autoritarismo. Anche chi non aveva ancora imparato a vivere da vero monaco nè aveva ancora appreso l’obbedienza, «il giorno stesso in cui diviene prelato assume una tale aria superiore, una tale prosopopea da padrone, che non lo diresti uno che è stato eletto da poco, bensì uno che è nato abate» (Lett. 105,8). Come manifesta la sua spocchia? «Diventa subito nero in volto, imperioso nella voce, aspro nel correggere, spiccio nel giudicare; se offende, è del tutto lontano da chiedere scusa… A suo capriccio comanda una cosa, ne proibisce un’altra per ripicca (pro suae voluptatis arbitrio): lega, scioglie, dice, disdice, e non si degna davvero di chiedere consiglio a noi inferiori» (ivi). Dal momento che esercita benevolenza verso chi si sottomette a lui mentre si vendica con chi gli si oppone, «somiglia più a un console che spadroneggia armato di fascio (in praefectoriis fascibus agere)» (ivi). 

Un terzo vizio consiste nel pretendere distinzioni a pranzo e nel dormitorio (ivi). «L’arte di fare il signore è facile, anzi facilissima da imparare… tanto che uno, anche se ebete per ogni altro ufficio, in questo, appena ci si mette, si dimostra maestro più che versato» (Lett. 105,9). 

PD riconosce che spesso, tuttavia, gli abati subiscono critiche pesanti ed ingiuste da parte dei fratelli a cui presiedono. Anzi, spesso sono proprio i sottoposti a desiderare l’assenza del superiore per sottrarsi più facilmente ai loro doveri. «L’abate corregge quelli che trasgrediscono? È un empio! Nei loro confronti è troppo indulgente? È privo delle zelo per Dio! Prova qualche volta a imporsi il silenzo? Ci si mette a dire che quando il pastore sta muto, allora il lupo assale il gregge» (Lett. 105,10). 

Diventano oggetto di critiche contradditorie: «Se si veste con particolare eleganza, si pensa che cerchi la vanagloria, se si accontenta di una veste lacera e grezza, che disonora il monastero. Se le sue prediche sono un po’ lunghe, si comincia a scatarrare, a manifestare fastidio, a dire che fa cascare dal sonno…» (Lett. 105,11). 

Mentre, per un verso, criticano la mondanità dell’abate, per un altro, i monaci, spesso, sono ben lieti che sia una persona stimata dai potenti, sappia parlare bene in pubblico e difendere gli interessi del monastero (Cf. Lett. 105,12). 

Temono, invece, che voglia riformare lo stile di vita, e promuovere una crescita spirituale; temono «che venga ad insegnare loro la mortificazione, ad obbligarli per qualche sciocca superstizione al digiuno, che ami troppo la povertà, che cerchi d’impedire a ciascuno e questo sarebbe insopportabile per tutti – di fare la propria volontà» (Lett. 105,13). Vogliono per abate «chi saprà acquistare molti beni e dare ai propri sudditi non solo il necessario, ma anche il superfluo» (Lett. 105,14). 

In conclusione, Bonizone ha fatto bene a dimettersi? Senz’altro, però non deve illudersi: se non dovrà più lottare con gli uomini, come faceva prima, dovrà sempre confrontarsi con se stesso: «Tu hai mutato luogo, ma non hai mutato il nemico; ovunque andrai, sempre ti porterai dietro, lo voglia o no, il peso della tua corruzzione» (Lett. 105,18). 

I ministri della Chiesa

PD, come è noto, si oppose alla simonia e al concubinato degli ecclesiastici. La sua battaglia fu rivolta soprattutto contro queste due trasgressioni. 

Scorse, però, altre difficoltà, come la sottomissione ai potenti da parte dei vescovi per ottenere avanzamenti di carriera: «Venerabile padre, sono moltissime le cose che non mi piacciono tra i vescovi d’oggi, ma ciò che assolutamente non posso tollerare è che troppi di loro, quando aspirano agli onori ecclesiastici si prosternano in modo vergognoso dinanzi ai potenti della terra, come servi che fanno il loro atto di dedizione» (Lett. 69,2). 

Condanna il fatto che i rettori delle Chiese cerchino di recuperare con la violenza i beni sottratti loro da uomini prepotenti (Lett. 87,7 e 9). Regno e sacerdozio hanno compiti distinti e se un re può usare le armi, la Chiesa si cinge con la spada dello Spirito, che è la Parola di Dio, imitando la mitezza e la pazienza di Gesù (ivi). Ammonisce i vescovi a non cedere all’avarizia (Lett. 97). 

Non si limitò, però a rimproverarli ma donò loro utili suggerimenti. Non soltanto i monaci devono meditare le Sacre Scritture, ma anche i vescovi stessi. Ecco il consiglio dato ad uno di loro: «Quando ti metti in viaggio, qualsiasi cosa utile tu faccia, la tua bocca rumini sempre qualche parola della Scrittura, e a guisa di un mortaio macini salmi e li renda profumati come essenze aromatiche per la loro fragranza» (Lett. 72,6).

Era molto preoccupato della situazione in cui versava il clero. Molti presbiteri erano analfabeti o semi-analfabeti: «I sacerdoti sono ora così digiuni di lettere, che non solo non comprendono quel che leggono, ma ache sillabando riescono appena farfugliare le parole che trovano scritte» (Lett. 47,2). Tale deficienza, però, non và generalizzata: a Torino ha conosciuto chierici «abbastanza onesti e sufficientemente istruiti» (Lett. 112,2). Non vuole aggravare di consigli un chierico di Milano, ed allora lo rinvia nel recesso più prezioso della sua mente «dove certamente sono custodite molte pagine delle Scritture» (Lett. 70,20). 

I presbiteri, privi di istruzione, non potevano né presiedere l’Eucaristia in modo degno, nè tanto meno istruire il popolo. Anzi «i più di loro non si differenziano dalle condizioni di vita e dalle abitudini scostumate dei secolari; si dedicano senza tante sottigliezze alle loro stesse occupazioni; non si riguardano dal parlare frivolo e licenzioso» (Lett. 47,6). «Sono di tanta trascuratezza circa gli oggetti sacri dell’altare che non si fanno problemi di vedere che i calici di stagno o di qualsiasi altro metallo, per il lungo abbandono, si stanno coprendo di ruggine. Offrono e avvolgono il Corpo del Signore in un panno che è un vero cencio» (Lett. 47,8). «Si arricchiscono con le offerte dei fedeli, ricevendole, non per procurare il cibo agli orfani e alle vedove, ma per accumulare vergognosi guadagni per se stessi e per i propri familiari» (Lett. 47,11). 

Come si sarebbe potuto rimediare alla mancanza di preparazione del clero? PD, nei suoi viaggi, aveva apprezzato un’ininiziativa della diocesi di Besançon che aveva istituito una scuola per i candidati al presbiterato. Con il suo solito accento retorico, scrive al vescovo di quella Chiesa: «Lì la candida schiera dei tuoi chierici fa come la figura di un coro di angeli. Lì difatti, come nel ginnasio d’una Atene celeste, vengono ammaestrati nella parola delle Sante Scritture; lì si applicano con zelo agli studi della vera filosofia e si addestrano ogni giorno nella regolare osservanza» (Lett. 111,2). 

All’epoca molti fedeli non accettavano più il degrado del clero e insorgevano vivacemente. Ne fa fede il movimento dei patarini di Milano, pronti ad insorgere contro i ministri della Chiesa, anche con la violenza. Per incarico del papa, in qualità di cardinale vescovo di Ostia, nel 1059 presiedette a Milano un Sinodo per applicare le riforme promulgate al Sinodo del Laterano, appena concluso. Affiancato dal vescovo di Lucca, Anselmo da Baggio, fece pressione sul vescovo di Milano (Guido da Velate) e sul clero di quella diocesi perché rinunciassero alle pratiche simoniache ed accettassero le norme del celibato. Li esortò anche a sottoporsi a severe pratiche penitenziali. In una lettera (Lett. 65) inviata ad un collaboratore del papa Nicola II, l’arcidiacono Ildebrando di Soana (il futuro papa Gregorio VII), traccia un resoconto dettagliato e drammatico della fortunosa vicenda  vissuta. 

Un altro documento che manifesta il suo rigoroso impegno di riforma dei costumi del clero è la lettera inviata a papa Leone IX, in cui chiede d’intervenire con severità, contro l’immoralità, fino, in alcuni casi, a destituire i presbiteri che avevano praticato e difeso moralmente rapporti omosessuali (Lett. 31, denominata Gomorrianus). 

I laici

PD era molto ferito dalla situazione amara in cui versava la società. Era, anzi, così turbato da pensare che la fine del mondo fosse prossima (Lett. 96,12: iam huius saeculi terminus appropinquat) e che l’Anticristo fosse prossimo a venire (Lett. 96,23). Il mistero dell’iniquità era già in opera. «Tutto il mondo, pertanto, ai nostri giorni non è che gola, avarizia e libidine» (96,15). Come fecero sempre i moralizzatori, PD pensa di vivere nel tempo peggiore e che il passato fosse stato più sopportabile.

La Lettera 96, inviata a papa Alessandro II per sollecitarlo ad intervenire per porre un freno al degrado morale (25), è redatta in tono retorico e allarmistico. Motivi di disagio sussistevano certamente. Denuncia la facilità con cui gli ecclesistici con i secolari, e i secolari tra loro si combattessero in dispute giuridiche accanite che sfociano per giunta in atti di violenza, a danno delle persone più deboli: «Danno l’assalto alle capanne di canna dei contadini, le incendiano, e il fiele di una violenta aggressività, che non possono rovesciare sui loro nemici, non si vergognano di darlo da bere a dei contadini inermi» (Lett. 96,8). 

Incoraggia, allora, gli uomini di potere ad esercitare realmente la giustizia, a punire i malvagi a difesa dei poveri: «Quale sacrificio più soave può essere offerto a Dio di quello di liberare gli orfani dalle mani dei violenti, di difendere le vedove, di sollevare gli oppressi?» (Lett. 68,4). I responsabili della giustizia non devono esitare ad essere severi nel giudicare e nel punire perchè, se è vero che una punizione troppo dura scoraggia il pusillanime, una compassione eccessiva induce i malvagi a persistere nel male (Cf. Lett. 68,3). Oltretutto il colpevole, subendo la pena meritata, espia il suo peccato e si preserva dalla condanna eterna (Lett. 68, 8). 

È convinto che il rapporto coniugale sia ammesso soltanto in vista della procreazione e quindi considera cedimento alla libidine ogni atto compiuto non in vista di tale fine (Lett. 96,17). I maschi s’attaccano troppo alle loro mogli cadendo in illusioni ingenue: «Se la moglie viola il talamo, quando la notizia ormai corre sulla bocca di tutti i vicini, solo il marito non sa ancora nulla» (Lett. 96,21).

Altrove condanna soprattutto l’avarizia «Nessuna piaga purulenta puzza tanto alle narici di Dio, quanto lo sterco dell’avarizia» (97,5). Questa compare in modo palese quando il giudice, corrotto da regali, assolve il colpevole (97,4). L’avaro è pari al parriccida, all’incestuoso, all’eretico e all’idolatra; se per caso, questi fosse un uomo che s’impegna in pratiche religiose, ciò nonostante, la sua avarizia lo renderebbe peggiore di qualsiasi altro uomo (Lett. 97,6). 

L’avarizia si manifesta nella ricerca del lusso. Su questo punto lancia uno strale anche contro alcuni vescovi: «Non ricordo di aver mai visto pastorali così carichi d’oro e così splendenti, come quelli dei vescovi di Ascoli e di Trani». Questi, in seguito furono deposti e così «non giovò, a quei vescovi di legno (pontifices lignei), l’aver usato pastorali d’oro, perchè il merito del sacerdozio non si misura dallo sfoggio di abiti splendidi, bensì dall’esemplarità delle virtù» (Lett. 97,19).

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