lunedì 20 febbraio 2023

San Pier Damiani il progetto

 1. Solitudine nella comunione

Il progetto

Pier Damiani si propose di diffondere la vita eremitica, continuando l’opera già intrapresa da san Romualdo, e, inoltre, s’impegnò con energia per la riforma della Chiesa. Visse da eremita soprattutto nella prima parte della sua esistenza monastica (1034-1045), mentre, nel periodo successivo, soprattutto a partire dal 1046, affrontò faticosi impegni e viaggi di carattere apostolico. 

Fondò anche monasteri; nutrì una profonda stima verso la comunità di Cluny, tanto da considerarla «non tanto una invenzione umana quanto piuttosto il magistero dello Spirito Santo» (Lett. 100,6). Apprezzò molto anche la comunità di Montecassino (Lett. 102,2) ma la sua preferenza, senza dubbio, fu rivolta all’eremo. 

L’eremitismo, sostenuto da lui, tuttavia, prevedeva che la vita solitaria fosse vissuta in comunione. Gli eremi erano costituiti da modesti raggrupamenti di piccole dimore o celle, ognuna abitata da un solo eremita (o, al massimo, da due), immersi nel silenzio. 

La vita comune non era data soltanto dalla struttura esteriore, quella d’un piccolo villaggio, o dalla semplice partecipazione a pratiche comunitarie, ma era sostanziata dallo sforzo di relizzare una fraternità autentica. L’uomo di Dio doveva essere una persona dalla quale traspariva una carità condita da gioia e da mitezza. Un modello del genere lo riscontrò nell’eremita Leone, grande asceta ma soprattutto uomo di profonda carità: «Ogni forma di ascesi si trova in lui ma specialmente sono in lui da ammirarsi la carità, l’umiltà, la mansuetudine. La sua parola, dolce come il miele, consola gli afflitti, ammaestra gli ignoranti, riappacifica quelli che sono in preda all’ira» (Lett. 44,11). L’austerità non doveva mai offuscare la reciproca ospitalità: «Quando ti fa visita un fratello, la tua carne senta refrigerio. Appena il fratello busserà alla tua porta, spariscano dal tuo volto le rughe di tristezza, fà mostra di un viso sereno, di un atteggiamento festoso che rechi letizia» (Lett. 44,22). 

La solitudine, quindi, non doveva essere scelta per il desiderio d’isolarsi, per assecondare il proprio arbitrio o per mascherare il disprezzo verso il prossimo. Proprio per escludere l’insorgere di queste motivazioni negative, volle che gli eremiti obbedissero ad un superiore da loro scelto: «Questo sopratutto si deve evitare: nessuno, col pretesto della vita eremitica, si sottragga al giogo dell’obbedienza; anzi, tanto più si leghi strettamente alla legge dell'obbedienza quanto più sia consapevole che questa forma di vita è superiore alla regola dei cenobiti» (Lett. 50,44). Ancora di più, «se due fratelli dimorano insieme nella propria cella, ci sia sempre uno che faccia da superiore, l’altro obbedisca, evidentemente con l’autorità del priore comune» (ivi). 

Per allenare all’obbedienza, previde, perfino, la sottomissione a decisioni di per sé immotivate, pensate soltanto come esercizio d’apprendimento di tale virtù: «É per questo che spesso si ordina ad un fratello di lasciare la propria cella per andare ad abitare in un'altra e non gli si permette di portar via alcun utensile, neppure di quelli che si era procurato col proprio lavoro. Per questo spesso coloro che desiderano vivere in pace, del tutto in disparte, sono obbligati ad uscire per il disbrigo di qualche affare. Talvolta, quelli che si erano prescritti una rigida astinenza sono obbligati a cibarsi con maggior larghezza e quelli che, al contrario, vorrebbero mangiare, sono costretti al digiuno. Spesso si comanda a un fratello di andare lontano accompagnando le bestie da soma; di frequente lo si manda al mercato a vendere e a fare acquisti. Eppure tutte queste cose e quanto altro sia comandato dal priore, si debbono eseguire con pazienza e umiltà, né più né meno che se fossero comandate da Dio. L’obbedienza rende degne di lode le nostre opere buone e scusa le nostre colpe di negligenza» (Lett 50,47). 

La figura al contrario del vero eremita, uomo di comunione, è il solitario inselvatichito che prende a cornate il prossimo «come un toro dalla superba cervice (tamquam torvae cervicis taurus cornibus ventiles)» (Lett. 44,30). PD diffida, quindi, dell’eremita che si fa da sé, rifiutando di farsi educare, preventivamente, in un monastero; non nutre alcuna fiducia in colui che ha cominciato subito «ad insegnare prima che ad imparare, a dettar leggi prima che ad osservarle» (Lett. 44,6). 

Romualdo e Pier Damiani non hanno introdotto una novità perché l’eremitismo era già apparsa nel mondo cristiano, tra apprezzamenti e critiche. 

Nel monachesimo primitivo, alcuni scelsero una vita di solitudine assoluta, dedicandosi in modo esclusivo a Dio. Il caso più conosciuto è quello di Paolo, di cui Girolamo ha scritto la biografia: rifugiatosi nel deserto all’epoca delle persecuzioni, vi sarebbe vissuto totalmente sconosciuto agli uomini, fino al termine d’una lunghissima vita (A. De Vogüé, Il monachesimo prima di san Benedetto, 14). Non soltanto Pier Damiani ma anche gli eremiti di Camaldoli si ispirarono a questa figura antica ed altre simili, come Antonio ed Arsenio (Lett. 50, 8; Rodolfo LER VI). 

Il sinodo di Vannes (sec. V), pur accettando soltanto la vita comunitaria come modalità normale per i monaci, concesse, a uomini provati, di abitare in celle solitarie, discoste dalla comunità (A. De Vogüé, cit. 129). In Gallia (V sec.), un certo Leoniano, visse in reclusione per quarant’anni, prima ad Autun, poi a Vienne, dove dirigeva alcuni monaci e una comunità femminile (A. De Vogüé, cit. 132). 

In Oriente, Gregorio di Nissa, venuto a contatto con un movimento ascetico radicale (inflenzato dal messalianesimo), concesse, con molta precauzione, che alcuni asceti si ritirassero in una vita dedita in modo esclusivo alla preghiera, rimanendo tuttavia sotto il controllo della comunità. In Asia Minore, sul monte Olimpo, in Bitinia, a partire dal sec III, si stabilì una colonia monastica: tra essi vivenano cenobiti, eremiti reclusi e semi-eremiti (cf. M. Bielawski, Il monachesimo Bizantino, 28-29). La riforma di Romualdo/PD riprendeva, quindi, pratiche già conosciute. 

La vita negli eremi

Come si viveva nelle comunità fondate o guidate da questo santo riformatore?

Testimonianze precise ci vengono offerte soprattutto nella Lettera 18 (agli Eremiti di Fonte Avellana), nella Lettera 44 (a Teuzone) e nella Lettera 50 (a Stefano recluso). 

A Fonte Avellana vivevano una ventina di monaci, dislocati nelle celle (o in altri allogi); era presente anche un gruppo di conversi e di lavoratori laici, dediti ai lavori più impegnativi. Tutti dovevano essere animati dall’amore per una solitudine, in una stretta regola di silenzio (Lett. 18,13). 

La virtù più stimata, tuttavia, era la fraternità: «[…] quello che a buon diritto si reputa eccellere su ogni virtù per tutti coloro che vivono santamente, è il fatto che tanta è la carità fraterna, tanta l’unione delle volontà fuse nel fuoco dell'amore scambievole, che nessuno si reputi nato per sé ma per tutti, che ognuno possieda il bene altrui, e che il proprio, per estensione di amore, lo comunichi agli altri. Anche questo, fratelli miei, mi piace molto: se qualcuno tra voi appare un po' debole, subito tutti voi, a gara, cercate di sapere di che cosa soffre, e lo assistete affinchè non esiti a rallentare il solito rigore della regola, e non solo cercate ancora di fornirgli tutto ciò che è necessario, ma siete lieti di offrire voi stessi di buon grado per assisterlo» (Lett. 18,14). 

La preghiera occupava gran parte della giornata. Le pratiche penitenziali erano molto stimate. Nascevano dalla consapevolezza, da parte degli eremiti, di non essere migliori degli uomini «nel mondo» ma persone sempre bisognose di vera conversione. Riprendevano usanze comuni a tutta la Chiesa, imposte al penitente che doveva riscattarsi da gravi colpe (Cf Lettera 56,9). Gli eremiti si sottomettevano a digiuni (a pane, acqua e sale) in giorni e tempi liturgici differenziati, sia pure con esenzioni previste per i fratelli deboli e più cagionevoli. Erano raccomandati cibi cotti la domenica e permesso un uso moderato del vino. Frequenti genuflessioni o prostrazioni (metanie) accompagnavano la recita dei salmi ed era abituale anche la flagellazione con ramoscelli d’albero. I solitari, nelle celle, rimanevano a piedi nudi, privi di calze e di zoccoli, rivestiti di abiti rozzi. Erano consentite assenze dall’eremo per ragioni di necessità. 

PD si mostra preoccupato che gli eremiti non scendessero dal rigore dell’eremo alla rilassatezza del monastero: «È, sì, buono il regime di vita del monastero, ma migliore quello dell’eremo» (Lett. 18,17). 

La vita penitenziale non era affrontata per raggiungere un genere di vanto atletico, ma era vissuta nell’intento di dominare se stessi, vincere le proprie tendenze negative e conseguire la carità. Bisognava esercitarsi a reprimere la volontà perversa e lottare contro i pensieri maligni (Lett. 50,4). Preghiere e pratiche penitenziali erano il mezzo ma lo scopo consisteva nel conseguire la carità oppure nel far riapparire in noi la figura di Gesù: «Mostrati tranquillo e pacifico con tutti, e specialmente sottomettiti con tutta umiltà e obbedienza a coloro che sono da Dio, affinchè quelli che in te cercano Cristo, abbiano motivo di trovare in te proprio Cristo; ossia, affinchè dalla mansuetudine che vedranno da te manifestata all'esterno, comprendano che è l'autore stesso della mansuetudine a dirigerti nel profondo, sedendo sul trono del tuo cuore» (Lett. 44,31). 

Gli eremiti recitavano, di norma, un salterio al giorno (Lett. 50,43) e leggevano con frequenza la Bibbia: «Abbiamo cercato di procurare anche l’intera Bibbia con tutti i volumi dell’Antico e del Nuovo Testamento» (Lett. 18,19). 

Non soltanto erano provvisti di testi biblici ma avevano la possibilità di leggere anche i commentari dei Padri: «Avete inoltre un buon numero di omelie dei santi Padri, e di commentari che espongono i significati allegorici della Sacra Scrittura: commentari cioé di Gregorio, di Ambrogio, di Agostino, di Girolamo, di Prospero, di Beda, di Remigio e anche di Amalario, nonché di Aimone e di Pascasio» (ivi). È felice nel pensare che le loro anime crescono con l’orazione e si saziano con la lettura (ivi). Perchè leggere tali autori? Se ad un monaco capitava di trovare troppo difficile il passo biblico che stava leggendo, come fosse una focaccia indurita, allora una mano ben istruita gielo spezzava e gli mostrava il contenuto profondo (medullam) dello Spirito (Cf. Lett. 27,5). Con senso allegorico, s’intende senso spirituale: ciò che giova alla vita del credente. Queste informazioni che ho esposto ora, le ricaviamo dalla Lettera 18.

La Lettera 50, a Stefano recluso, riporta, sostanzialmente, le medesime istruzioni della precedente e il contenuto d’entrambe corrisponde, in gran parte, allo stile di vita fattoci conoscere dal Beato Rodolfo a Camaldoli. 

In essa, ribadisce il valore primario della scelta eremitica ma aggiunge altri suggerimenti di carattere spirituale, assenti nella prima. 

Perché il digiuno? Non è affrontato per estenuare o punire il corpo: «Il ventre si deve limitare perché, riempiendosi smodatamente di cibo, finisce per infettare con i suoi vizi anche le altre membra» (Lett. 50,13). L’uomo è  un’unità psicofica ed ogni sua componente influisce sull’altra. 

Perché il silenzio? La chiacchera «svuota l’anima del vigore della grazia» (ivi). Non sarebbe sbagliato parlare se fossimo persone veramente interiori e sempre capaci di relazioni integre. 

Affiorano alcune tensioni nello spirito del legislatore. PD. Si propone di dare dei suggerimenti che rendano impegnativa la vita dei solitari ma contemporaneamente teme di pretendere uno sforzo eccessivo e di scoraggiare i più deboli. Si mostra sempre disposto a diluire le asprezze. Quando, però, offre delle concessioni, appare timoroso che quest’ultime diventino la norma e il fervore s’affievolisca. PD sa che anche presso gli antichi, all’interno della medesima comunità, si osservano norme differenti (Lett. 50,31). Un singolo, nel digiunare poco, può compiere uno sforzo maggiore di chi digiuna molto: «Per questo difficilmente si può fissare una regola definitiva e comune…» (ivi). Quindi ci sono pratiche alle quali tutti debbono ottemperare, ma altre sono lasciate, in modo pieno, alle capacità e alla scelta d’ognuno: questo vale soprattutto per le prostrazioni e le flagellazioni (Lett. 50,46). 

Confida nella maturazione dell’eremita e pensa che egli un giorno possa confessare: «Quanto ci sapeva di sgradevole ed amaro si converte in dolcezza. Quando al timore subentra l’amore e alla servitù la libertà, allora la necessità si cambia in volontà e per ineffbile incendio d’amore diviene soave e gioioso quello che prima sembrava aspro e duro» (Lett. 50,63). 

La vita nell’eremo era un’esistenza caraterizzata, in modo quasi esclusivo, dalla preghiera nel silenzio. Quale spazio era assegnato al lavoro manuale? Era alquanto difficile comporre insieme due attività così diverse, come un lavoro prolungato e la preghiera continua, in modo da soddisfare le esigenze d’entrambe. 

Cassiano aveva criticato i solitari che si profondevano in lavori estenuanti, come quel monaco che «si affannava tutto il giorno a costruire e riparare cose non necessarie» (Conf. 9,5). Aveva fatto notare come l’avidità possa intaccare anche il lavoro di un eremita: «Nel caso che il lavoro compensato con un soldo, possa servire a coprire le necessità del nostro corpo, sarebbe male pretendere di occuparci in una fatica più lunga allo scopo di assicurarci il guadagno di due o tre soldi» (ivi). 

A Fonte Avellana alcuni membri della comunità fungevano da scrivani, a servizio del Damiani stesso. Questo presuppone che fossero alfabetizzati, una rarità in quel periodo. Suppone che si fabbricassero delle suppelletteli necessarie per l’uso quotidiano o s’impegnassero in lavori più facili. I lavori agricoli faticosi erano sostenuti per lo più dai conversi e da domestici (i primi partecipavano alla vita religiosa senza, però, assumerne tutti gli impegni, i secondi erano laici). Questa distinzione tra persone di diversa appartenenza alla comunità, non nasceva da ragioni classiste, ma serviva in modo esclusivo per garantire agli eremiti la continuità e la tranquillità d’una vita orante. Gli eremiti, dediti in modo prevalente al culto, attendevano di essere soccorsi dai fedeli per i quali pregavano e dai quali ricevevano grande stima ed apprezzamento. Ad esempio, la moglie del marchese Manfredo «si era data come norma che, qualsiasi cosa le venisse a chiedere il messo degli eremiti, desse il doppio di quanto richiesto» (Lett. 110,24). 

Per quanto riguarda il monaco recluso (ossia quello  che rimaneva sempre in cella), PD non sembra sollecitare, in modo esplicito, la necessità di qualche lavoro, sia pure per alleviare la fatica dell’impegno della preghiera insistente. Gli sfugge, però, una confessione: «Ebbi la presunzione di scrivere un certo numero di opuscoli,  per non aver a subire, senza una qualche forma di attività, la noia di un ozio inerte e di una cella troppo solitaria. Li scrissi - non potendo affaticarmi in lavori manuali - con l’intenzione di costringere il cuore, incline al vagare e alla lascivia, nell’armatura di una forma di applicazione mentale e così tenere più facilmente lontano il rombo incalzante dei pensieri e la minaccia dell'accidia, sempre pronta ad insinuarsi» (Lett. 62,2). Un tempo prolungato in cella, soprattutto se trascorso nell’ozio, diventava un rischio assai pericoloso. Chi rimane rinchiuso, si sottrae ai pericoli della lingua o dell’azione, ma incontra quello ancora più insidiosi della mente. Il Damiani che non può impegnarsi in lavori manuali, necessari se non altro per comporre un equilibrio psico-fisico, si dedica ad un lavoro intellettuale e scrive. La cella può essere un luogo di paradiso ma anche di noia. Per questo il B. Rodolfo aveva ordinato: «Ogni fratello stia attento a non restare in cella senza far niente» (LER XXXII,2). 

Del resto, la stessa applicazione al culto era condotta anche come una fatica fisica poiché le ripetute prostrazioni che accompagnavano i salmi diventavano un vero sforzo fisico. La preghiera coinvolgeva tutta la persona: la mente, il cuore, la voce e tutto il corpo. 



2. Le ragioni d’una scelta

La rilevanza dell’eremitismo

Quali furono le ragioni che spinsero il Nostro a diffondere l’eremitismo? Non solo solleck8itava a vivere in eremo, ma era un forte sostenitore di una vita trascorsa in reclusione. 

È facile rilevare dai suoi scritti due motivazioni principali: la prima, più superficiale, ma sentita con forza da parte sua, consisteva nel tentativo di porre rimedio ad un certo rilassamento conosciuto dal monachesimo dell’epoca. Questo elemento, però, non spiega tutto. La seconda, più profonda, corrispondeva alla stima nei confronti della solitudine stessa, pensata e sperimentata quale forma efficace e privilegiata per raggiungere l’unione con Dio. 

Per chiarire meglio quest’ultima convinzione, metto a confronto due lettere. Esaminiamo un passo della Lettera 82, inviata all’abate di Montecassino, Desiderio; PD gliela scrisse per raccomandargli che, mentre si effondeva nel servizio ai fratelli, non trascurasse la vita interiore. Così attesta: «… chi manifesta, mediante una vita retta, di essere figlio di Dio e si pente dal profondo del cuore dei propri peccati, mentre attende con sollecita cura ai fratelli, riceve in dono dal Signore la grazie delle lacrime» (Lett. 82,6). 

Il dono delle lacrime era una manifestazione tipica di chi aveva raggiunto il «locum familiaritatis» (Lett. 82,7), il titolo di amico e familiare di Dio, in altri termini lo stato di contemplativo. Damiani ricorda all’abate che, se alimenta un vero pentimento, vive con rettitudine e serve i fratelli, può ottenere questo dono. La vita d’azione non ostacola il conseguimento della contemplazione. Anzi, possono esserci dei monaci che non riescono ad applicarsi agli esercizi propriamente spirituali; costoro, tuttavia, se rimangono fedeli al loro lavoro, in spirito d’obbedienza, possono raggiungere lo stato di contemplazione (ivi). 

Scrivendo all’eremita Stefano, sembra sostenere, invece, un punto di vista opposto: «Per non omettere quello che io stesso ho provato di frequente: anche lo zelo spirituale, il governo delle persone a noi affidate, la correzione degli erranti, il parlare nella santa predicazione, queste insomma ed altre simili cose, quantunque sante e volute dalla stessa autorità di Dio, è noto però che praticamente sono d’impedimento alle lacrime» (Lett. 50,66). 

PD parla di un fatto che ha sperimentato di persona. Si è preso cura dei fratelli come loro guida e si è dato alla predicazione. Di per sé, queste azioni sono sante, comandate da Dio, eppure confessa che non gli hanno procurato quella elevazione spirituale che aveva sperimentata nella solitudine, e che hanno ostacolato l’effusione delle lacrime. 

Non esprime un’opinione casuale ed esclusivamente personale; dice: è noto che…. Riferendo quanto ha saputo dal discepolo Domenico Loricato, che aveva «il dono di abbondanti lacrime ma non in modo continuo» scrive: «Quando, da recluso, si impone un rigoroso silenzio, subito, appena vuole, piange a dirotto; ma quando è visitato per un colloquio, si lamenta d’aver perso le lacrime» (Lett. 44,20). 

Raccontando la vita di Romualdo, ricorda come il santo abbia conosciuto i vertici dell’esperienza mistica, manifestati dalle lacrime, proprio in un periodo in cui visse come recluso (Vita di Romualdo, XXXI). 

Damiani mette a confronto due generi di vita santa, apostolato ed eremitismo, ma conosce, per esperienza (e non grazie ad un’opinione teologica), che la solitudine favorisce una comunione con Dio molto profonda più di qualsiasi altro tipo d’impegno religioso. A mio parere, questo è la motivazione più vera della sua preferenza nei suoi confronti. 

Giovanni Cassiano aveva già diffuso un insegnamento simile. L’eremita cercando la solitudine, ascende al monte Tabor, alla montagna della Trasfigurazione: «Potranno contemplare la sua divinità [di Gesù] con occhi purissimi quelli soli i quali, distogliendosi dalle opere umili e terrene e da simili pensieri, si collocano accanto a Lui nell’alto monte della solitudine. Quell’altezza, libera com'è dal tumulto di tutti i pensieri e perturbazioni terrene, e al sicuro dall’influsso di tutti i vizi, rivela la gloria del suo volto e l'immagine del suo splendore a coloro che meritano di contemplarlo con lo sguardo dell'anima» (Conf X,6). 

L’osservazione fa sorgere spontaneamente un interrogativo: se la visione del Cristo trasfigurato, è possibile per tutti coloro che purificano il loro cuore, non diventa, allora, inutile o troppo sofisticato ritirarsi in solitudine? 

Cassiano subito precisa: «Gesù è visto pure da coloro che abitano nelle città, nei castelli, nei villaggi, vale a dire da coloro che si trovano coinvolti nell’abituale attività operosa, non però in quello splendore, con il quale Egli apparve a coloro in grado di ascendere con Lui al suddetto monte delle virtù, e cioè a Pietro, a Giacomo e a Giovanni» (ivi). L’impegno apostolico non viene deprezzato ma è più stimato il bene di una rigorosa solitudine. 

Azione e contemplazione

L’applicazione nella vita concreta di questi due beni, valore della solitudine e servizio ai fratelli, è avvenuta in modo tutt’altro che lineare. PD, come prima di lui, san Romualdo, sono passati di fatto dall’attività alla solitudine (o viceversa), e non possono essere considerati dei solitari in assoluto, come lo fu san Paolo eremita. Nella visione damianea, è possibile, quindi, l’esperienza di una solitudine breve, prolungata o perfino totale [Lett. 44,9: un eremita non esce di cella da quindici anni; Lett. 110,24: l’eremita Leone da vent’anni vive in una cella come recluso], come anche un eremitismo che mantiene un contatto con gli uomini e serve le necessità della Chiesa. 

Il modo normale per soddisfare le due esigenze era quello dell’ospitalità. L’eremita, anche recluso, doveva accogliere volentieri chi veniva a cercarlo ma questo poteva causare una certa tensione tra il proposito di solitudine e dovere dell’accoglienza (Lett. 96,2). 

PD acconsente l’attività apostolica ma, nel contempo, pone dei limiti al suo esercizio. Teme ad esempio che un predicatore si dedichi alla parola prima di aver raggiunto la maturità spirituale necessaria: «Il freddo rigido del cuore di consueto toglie la voce. Se vuoi far risuonare la parola di Dio, stà bene attento che non si affievolisca in te la fiamma dell’amore di Dio» (Lett, 117,9). La voce sparisce non quando il predicatore non sa parlare con perizia ma quando non tocca il cuore dell’ascoltatore per convincerlo al bene. Non basta ricorrere a stratagemmi (come apprendere le regole della retorica) ma è necessario piuttosto far divampare in noi l’amore per Dio. «Il seme della parola germoglia facilmente allorquando il sentimento di pietà del predicatore lo irrora nel cuore di chi l’ascolta» (Vita di S. Mauro I,3). Ancora meglio: «Sproni con maggior forza coloro che ti vedono seguire Cristo, di quanto avresti potuto sollecitarli con l’ascolto di tante parole» (Lett. 117,7). 

Nonostante queste titubanze, non s’accontentò di accogliere eventuali ospiti ma s’impegnò nella predicazione all’esterno dell’eremo e, nell’intero corso della vita cercò un equilibrio faticoso tra la volontà di solitudine e i doveri di carità. 

Scrivendo a Giseberto, un prete di Ravenna, espone con chiarezza un dissidio interiore che lo lacera. Riconosce che in un primo tempo, era desideroso di recarsi a predicare per le diverse regioni d’Italia «spinto dall’amore per il prossimo» (Lett. 8,4) ma ora sente il bisogno di ancorarsi nella solitudine. Confessa: «Mentre desideravo richiamare gli altri allo stato di rettitudine, fui io stesso sul punto di cadere nel vizio del girovagare [potui vagationis incurrere nevum]» (ivi). Che cosa dovrà fare in futuro? Il predicatore, quando esegue bene il suo compito, attira il rispetto e la riverenza dei suoi ascoltatori. Egli deve cercare questo risultato, rischiando però, in questo modo, di cadere nella vanagloria. Rinunciare a predicare lo sottrae a questo rischio, ma teme di non produrre il frutto che gli viene richiesto da Dio stesso. PD non sceglie ed invita il suo interlocutore a suggerirgli il proponimento più opportuno. 

Nella lettera 44, confessa d’aver chiesto consiglio ad un eremita anonimo circa questo dilemma: doveva vivere ritirato o accondiscendere alle richieste di chi gli chiedeva d’uscire dall’eremo? Il dubbio, evidentemente, lo angustiava. Questi gli rispose: «Che giova alla candela il far bene agli altri, se frattanto la sua fiamma divoratrice la consuma?» (Lett. 44,11). Avrebbe dovuto, quindi, vivere ritirato. Ci riferisce di aver accolto tale risposta come un responso oracolare ma in realtà la riadattò secondo le sue convinzioni: «Salva la carità e l’obbedienza, decisi di attenermici sempre» (ivi). In altre parole sarrebbe rimasto nell’eremo, finché non fosse stato richiesto di uscirne per ragioni di carità o d’obbedienza. 

Nel corso delle uscite, cercava di rientrare quanto prima nel suo Eremo: «… benché andassi in fretta quanto più potevo, appena il 27 ottobre potei risalire a Fonte Avellana, da dove ero partito» (Lett. 100,2) e subito si rinfrancò nel ritrovare i suoi libri: «Alla vista dei divini libri che stavano ancor chiusi, come davanti al bicchiere della medicina ripresi salute, per la semplice fragranza degli inchiostri profumati che da essi emanava» (Lett. 100,3). 

In tarda età, dopo aver collaborato a lungo con la Sede apostolica e aver affrontato lunghi viaggi nelle molteplici missioni che gli furono affidate, «dopo tanti eccessi di vita errabonda e di nociva libertà» (Lett. 57,3), decise di rinunciare all’episcopato e ritirarsi nella sua amata solitudine. «Sono ritornato come un fuggitivo alla mia diletta solitudine» (ivi) dichiara al papa Niccolò II, sperando che questi confermasse le sue dimissioni. Il papa, invece, si oppose. Siamo nel 1058.

Tre anni dopo, il Damiani rinnovò la sua richiesta. Non esitò ad insinuare che il papa precedente (Stefano II) si era comportato con lui da tiranno, obbligandolo ad accettare l’episcopato, fino a forzare le procedure canoniche. Gli chiese di ricordare con quale insistenza gli avesse chiesto il permesso di dimettersi dalla carica. «Ricordate, o mio signore, quanti lamenti feci in vostra presenza, quanti gemiti emisi; ciò nondimeno, allora non ottenni il permesso di lasciare l’incarico» (Lett. 72,2). Conferma la sua intenzione di abbandonare episcopato e cardinalato: «Rimetto irrevocabilmente nelle vostre mani sante l’episcopato e i monasteri affidatemi… siccome per i miei innumerevoli peccati non sono degno di restare titolare della dignità ecclesiastica, mi conceda la misericordia divina di vivere ciò che resta della mia vita nel lutto e nella penitenza» (Lett. 72,67). 

Fu esaudito? Un’altra lettera scritta qualche mese dopo lo mostra più rasserenato poichè prevede che l’accettazione delle sue dimissioni sia prossima e certa (Lett. 79). Tuttavia scrivendo al papa nella quaresima del 1063, pur trovandosi a Fonte Avellana libero ormai da incarichi specifici, lamenta di non poter dedicarsi alla contemplazione in modo conforme ai suoi desideri: «Proprio io che fui detronizzato dalla dignità della cattedra episcopale, sono oppresso dagli oneri che spettano al vescovo […] Non riesco a penetrare nella profondità della contemplazione, non arrivo ad erompere nelle lacrime della compunzione […] Il cuore umano, fintanto che è saturo dell’umidità delle cose mondane, non riceve il pingue nutrimento della grazia interiore» (Lett. 96,4). 

Nell’ultimo tratto della vita si sottopose a duri viaggi in Gallia (Cluny) e in Germania. In realtà, ciò che riuscì a praticare del suo alto ideale corrisponde allo stile di vita realizzato da s. Mauro: «Non abbandonò del tutto la vita attiva quando prese a cercare la pace di una vita contemplativa; ma, neppure, disperdendosi largamente in una vita attiva senza porsi dei limiti, si allontanò dalla contemplazione» (Vita di San Mauro I,3). La congiunzione di azione e contemplazione è una saldatura necessaria per i ministri della Chiesa.

In Oriente

Vediamo ora, al fine di delineare un quadro più completo della questione, come è stata vissuta, in oriente, questa tensione tra solitudine ed apostolato. 

M. Bielawski parla del monachesimo bizantino in tali termini: «Il suo scopo è quello di trovare, attraverso la purificazione, l’unità perfetta con l’Uno, cioè con Dio. Perciò il monaco non lavora e non predica ma vive nella solitudine per stare con il Solo […] La ragione della sua esistenza sta nella sua unione con l’Uno» (Il monachesimo bizantino, 14). Detto questo così conclude: «Questa fuga mundi non di rado fu la causa del formalismo e del mancato interesse per i problemi pastorali della chiesa» (ivi). Questo giudizio non è troppo sbrigativo?

Isacco di Ninive, grande fautore dell’eremitismo, dovette affrontare tale obiezione sollevata proprio da un suo interlocutore: «Perché, sebbene il Signore nostro abbia stabilito che sia la misericordia a renderci simili alla maestà del Padre che è nei cieli, i monaci le hanno anteposto l’esichia [eremitismo]?» (Serm. 67). 

La risposta di Isacco è articolata. 1. Prima di tutto, concordando con l’obiettante, ribadisce la verità evangelica: è la misericordia a renderci simili al Padre. 2. Precisa, poi, che l’intento dell’eremita non è, di per sé, quello di allontanarsi dagli uomini ma quello di cercare un metodo di purificazione più efficace (epi pleon). 3. Prosegue aggiungendo che il solitario, in ogni momento, deve essere interiormente colmo di misericordia per ogni creatura. 4. Infine afferma: «non dobbiamo però custodire la misericordia solo interiormente», ma, quando l’occasione richiede di agire, e c’è necessità, è necessario manifestare esternamente l’amore in un’azione, poiché «senza l’amore del prossimo, l’intelletto non può essere illuminato nel rapporto con Dio e nel suo amore» (Cf. Discorso 67). 

Nello sviluppo del sermone, chiarisce ancora meglio il suo pensiero. Traccia una distinzione tra gli eremiti che scelgono una solitudine totale, situandosi in regioni remote, e quelli che invece alternano una vita di silenzio con una vita di servizio. Soltanto i primi sono dispensati da azioni solidaristiche, mentre gli altri sono obbligati, anche nei periodi di ritiro, di soccorrere il prossimo in caso di necessità. È chiaro che egli preferisce l’eremitismo totale, come scelta di maggior valore spirituale, perché le uscite dalla solitudine «ci fanno passare da uno stato più alto a uno inferiore» (ivi). I servizi pratici, per quanto raccomandabili, finiscono col diventare dispersivi. Riaffiora la medesima esperienza rilevata da Cassiano e ribadita dal Damiani. 

 Un solitario, a motivo di una missione particolare ricevuta da Dio, può dedicarsi in modo esclusivo a Lui, in totale solitudine. In questo caso, e solo in questo evenienza, l’amore per il prossimo, che deve ugualmente esistere, può essere limitato al solo sentimento di benevolenza nei confronti di tutti gli uomini, senza però che questa disposizione d’animo lo obblighi a compiere azioni solidali, le quali lo distoglierebbero dalle pratiche necessarie per alimentare l’amore per Dio. 

Come si verifica una pratica solidale senza amore, così esiste un amore che non si esprime in attività specifiche ma soltanto nell’offerta totale di se stessi a Dio. È questo che PD augura al monaco Aliprando: «Dio ti accolga come ostia vivente, offerta in olocausto dalle tue stesse mani e ti faccia pregredire nelle virtù spirituali. Ti conceda di rimanere sempre in lui e lui, a sua volta, riposi sempre con piacere in te» (Lett. 117, 27). Tale assenza d’operosità si giustifica soltanto se si pensa che la persona che raggiunge il livello di amico di Dio offra all’umanità una ricchezza più grande di quella data dai benefici prodotti nell’agire. Tornando all’imagine precedente della candela, possiamo dire: una candela accesa non arde mai soltanto per se stessa. In un modo misterioso, che soltato Dio conosce, essa procura luce e calore anche a chi è lontano e neppure la vede. Per questo deve fare attenzione a non esaurirsi. 

Ciò che compie o meglio, ciò che diviene l’eremita «recluso», torna a vantaggio di tutti. PD ritiene, infatti, che questi non debba essere considerato e, neppure lui stesso deve ritenersi, una monade chiusa, separata dalla Chiesa e dall’umanità. Deve riconoscere, piuttosto, di essere una porzione della Chiesa e dell’umanità intera. Egli deve ritenersi tale ed agire di conseguenza. Scrivendo a Leone recluso, PD gli comunica un’intuzione teologica tra le migliori che ha elaborato: la Chiesa, strettamente unita nella carità, animata sempre dall’unico Spirito, divenuta un solo corpo grazie all’Eucaristia «è una nella totalità e tutta in ciascuna parte (in pluribus una et in singulis tota)» (Lett. 28, denominata De Domino vobiscum). La Chiesa è presente in interezza in ogni singolo eremita e la vita solitaria, condotta in santità, arricchisce la comunione dei santi più di qualsiasi altro genere di vita o d’attività.

Nella prassi sociale, l’unica cosa cosa ad avere valore è il soccorso effettivo. Dal punto di vista religioso, invece, non soltanto la motivazione che spinge ad agire è fondamentale ma è anche sufficiente la sola benevolenza interiore per alcuni che s’impegnano in certe scelte particolari (e soltanto per loro). In via normale, però, tutti i battezzati (ed anche gli eremiti che devono e vogliono un certo contatto con gli uomini) devono concretizare il sentimento interiore almeno con una certa attività esteriore. Ilario di poitiers osserva: «Sono numerosi i modi in cui si può obbedire ai precetti di Dio; non ci si aspetta tutto da tutti e nessuno può realizzare in tutto la pienezza divina» (PL 9,583 C). 


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