venerdì 24 febbraio 2023

Gregorio di Nissa 1.2.3 Omelie sul Cantico dei cantici

Omelia I

Invito alle nozze divine

Iniziando la predicazione, G. avverte i suoi uditori che possono ascoltarlo, in modo proficuo, soltanto quelli che hanno cominciato a purificarsi e, quindi, a rivestirsi di Cristo. Essere partecipi di Cristo è, nello stesso tempo il dono massimo già ricevuto dal cristiano, nel battesimo, ma anche il vero obiettivo da conseguire in pienezza. 

La predicazione non si limita a fornire delle conoscenze, ma mira a trasformare le persone, contribuendo a sviluppare la vita battesimale. È un atto che realizza un evento sacro, come viene evidenziato nell’equazione ascoltate (akousate), entrate (entos geneste) (B 772). 

L’evento fondamentale della vita è entrare in comunione profonda con il Signore, vivere un’unione nuziale (syzyghia) con Lui (B 774). La via fondamentale che permette di raggiungere tale scopo è l’amore (B 774). 

L’amore è volgersi a Dio con un sentimento di gratuità, escludendo la paura o la ricerca del proprio vantaggio; chi è interessato soltanto a sfuggire la punizione o a guadagnare benefici, non cerca il Signore in modo autentico (Cf. Omelia XV B 1518.1520). I fedeli s’accostano a Dio spinti da vari motivi (paura, ricerca del guadagno, amore) e la motivazione dalla quale sono mossi, li colloca a livelli ben diversi davanti a Lui: la paura li rende schiavi, la ricerca della ricompensa, dei semplici mercenari. Soltanto l’amore è il sentimento che rende figli.

Conseguire la salvezza significa guadagnare un amore totale e gratuito verso Dio, che afferra tutta la persona. L’amore ci consente di aver parte a quello che Dio è; G. usa il termine metousia, che significa partecipazione. 

Il rilevamento di tre livelli della vita spirituale (principianti, progredenti, perfetti oppure schiavi, mercenari, figli), è comune alla tradizione patristica, a partire da Clemente d’Alessandria (Cf Dictionnaire de Spiritualité, II, Parigi 1953, 535-536. Basilio, Regole Diffuse, Prologo, Edizioni Qiqajon, Magnano 1993, p. 67. Giovanni Cassiano, Conferenze II, XI, 6-7, Roma 2000, pp. 16-19. Doroteo di Gaza, Insegnamenti Spirituali, IV, 48, pp. 88-90. Isacco di Ninive, Disc. 13, Discorsi ascetici, ESC ESD, Bologna 2018, p. 297-301). 

«Voi tutti che vi siete spogliati dell'uomo vecchio con le sue azioni e le sue bramosie, come fosse un mantello sporco e, purificando la vostra vita, vi siete rivestiti delle vesti luminose del Signore, quelle che Egli mostrò sul monte della Trasfigurazione; meglio ancora, voi che avete indossato lo stesso nostro Signore Gesù Cristo, coprendovi del suo santo abbigliamento e vi siete trasfigurati con Lui per conseguire il dominio delle passioni e una vita più conforme al divino, ascoltate il mistero del Cantico dei cantici, entrate, anzi, nella casa delle nozze immacolate, vestendo l'abito bianco dei vostri puri e casti pensieri» (B 772). 

«Assimilando gli insegnamenti esposti in questo libro, l'anima viene ornata come una sposa per poter giungere all'unione sponsale con Dio, immateriale, spirituale ed immacolata. [Il Signore], volendo salvare tutti gli uomini e farli giungere alla conoscenza della verità (1 Tm 2,4), indica il modo perfetto e beato per conseguire tale scopo: l'amore. 

Alcuni si salvano per paura: sono quelli che decidono di staccarsi dal male perché si sentono minacciati dal supplizio della Geenna. Altri diventano virtuosi perché sperano di ottenere il premio riservato alle persone rette; si impegnano, quindi, non per amore del bene ma per l'attesa della ricompensa. Chi, invece, si propone di giungere presto alla perfezione, prima di tutto allontana la paura (lasciarsi prendere da essa è da schiavi: non ci consente di avvicinarci al Signore amichevolmente né ci libera dall'angoscia della punizione), ma poi si disinteressa anche della ricompensa, poiché non sarebbe capace di stimare il dono più del Donatore. “Ama con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze (Dt 6,5)”, Colui che è la sorgente stessa di ogni bene, non qualcuno dei beni che derivano da Lui. Il Signore che ci ha chiamati alla comunione con sé richiede questa disposizione d'animo a coloro che accolgono [il suo invito]» (B 776).

La pedagogia della Sapienza

G., oltre a quelle appena offerte, aggiunge altre motivazioni per giustificare la predicazione su questo libro. La Bibbia attribuisce la sua composizione a Salomone, come a lui erano stati assegnati altri due libri della tradizione sapienziale: Proverbi e Qoelet (denominato allora come Ecclesiaste). 

In realtà, secondo G., a parlare in questi libri è stato il Verbo stesso di Dio, che si è servito del ministero prestato da Salomone (B 776,17-18). Cristo esercita un ruolo pedagogico dei confronti dei suoi fratelli/discepoli. Egli vuole condurre tutti alla salvezza (intesa come conformazione a Lui) ma, pur nutrendo questo progetto ottimale, si adatta alla comprensione di ogni persona. Fornisce, perciò, un insegnamento appropriato al grado di maturazione di fede a cui è giunto il singolo discepolo, anche se intende portare tutti alla piena maturità. 

Ai principianti è rivolta l’istruzione offerta nel libro dei Proverbi, che insegna il distacco dal male, l’orientamento al bene e i primi esercizi di vita virtuosa. Al secondo livello, per i più progrediti, troviamo il messaggio del libro del Qoelet, che li esorta ad interessarsi soprattutto del vero Bene, staccandosi da ogni altro. Per i credenti maturati nell’amore, disposti alla comunione nuziale con Dio, è adatto in modo particolare il libro della Cantica. Questa suddivisione tra i tre libri biblici, corrispondenti a tre fasi spirituali, risale ad Origene (Commento al Cantico dei Cantici, Prologo 3,1, B pp. 179-193. Cf Teodoreto di Cirro, Commento al Cantico dei Cantici, Prologo, cit p. 55).

Nel primo livello, l’autore dei Proverbi educa dei discepoli che sono bambini o adolescenti, persone che si lasciano attrarre facilmente da ciò che a loro piace, in modo immediato e spontaneo. Per educarli, occorre unire l’utile al dilettevole, rinunciando a dominare con la paura o con la costrizione, ma sollecitando piuttosto l’ardore e il desiderio. I giovani maschi sono sollecitati dalla bellezza femminile ed allora Salomone/Cristo presenta la Sapienza come una ragazza attraente, ricca, saggia, desiderosa di corrispondere al giovane che la cerca. La forza della passione amorosa viene trasferità dalla sfera fisica alla bellezza spirituale. 

Nel passaggio successivo, l’istruzione viene impartita dal libro del Qoelet, destinato ai più progrediti. 

Infine, proprio nell’esercitarsi ad operare il bene che li ha affascinati, seguendo l’invito della Sapienza, i discepoli scoprono in se stessi un desiderio incoercibile di raggiungere la Bellezza/ Bontà perfetta che è Dio. Ora può effondersi tutta l’energia dell’amore:

«[Salomone] biasima la tendenza degli uomini ad attaccarsi alle cose visibili, ritenendo che ogni realtà instabile e passeggera sia inconsistente»; di conseguenza «esorta a preporre a tutto ciò che si può cogliere coi sensi, la propensione insopprimibile delle nostre anime per la bellezza invisibile» (B 786). 

«Se a rivolgerti quest’invito [nuziale] è la stessa Sapienza, amala quanto lo puoi, con tutto il cuore e con tutta la tua forza, desiderala quanto ne sei capace! Anzi aggiungo, a queste sollecitazioni, un invito ancora più audace: amala con passione. L'ardore verso le realtà spirituali e irreprensibile e libero dal vizio, come la Sapienza attesta nei Proverbi nell'intento di suscitare amore per la bellezza divina» (B 788).

Nel recesso dei misteri

Salomone/Cristo, conclusa l’attività di preparazione, guida infine «il nostro cuore alla comprensione dei misteri, conducendolo all'interno dei penetrali divini», nei luoghi segreti predisposti da Dio per l’incontro intimo con l’amata, l’anima di ogni fedele. Il luogo sacro e segreto, era rappresentato dal Santo dei Santi, la zona più sacra del tempio di Gerusalemme, normalmente inacessibile; era prefigurato anche nel monte Sinai, dove Dio si rivelò a Mosé. Abitarlo, equivale ad un ritorno al paradiso delle origini. 

Il cristiano sperimenta ciò che il Signore aveva pensato per l’uomo fin dall’inizio: paradiso è la relazione intima con Dio alla quale può partecipare chi si è reso simile a Lui. Il ritorno al paradiso non è, di per sé, vivere un’esperienza d’eccezione, ma corrisponde al godimento della  pacificazione interiore, sperimentata da chi ha liberato la propria passionalità.  

Esiste, quindi, una chiara differenza tra il semplice ascolto della parola e la sua messa in pratica. L’ascolto e la pratica conducono a godere anche di esperienze particolari (che oggi definiamo come mistiche), che non possono essere descritte ma soltanto sperimentate. Gregorio si mostra interessato alla vita mistica, annunciata dall’apostolo Paolo:

«L’anima, aderendo profondamente al Signore, diventa con lui un solo spirito» (1 Cor 6,16) (B 790,25-26). 

«Entriamo, allora, nel Santo dei Santi ossia nel mistero del Cantico dei cantici. Come nell'udire Santo dei Santi pensiamo a un grado di santità eminente ed elevato, edotti dalla gravita del termine, così pure tramite la dizione Cantico dei cantici possiamo capire che l'elevatezza della parola vuole significare il mistero dei misteri» (B 792-793). 

«Gli uomini non possono, né comprendere, né trovare qualcosa di più grande da contenere» (B 794), da sperimentare; perciò è necessario che «… l'anima, rimanendo intenta alla bellezza inaccessibile della natura divina, venga presa dall'amore per essa, almeno quanto il corpo si affeziona a ciò che gli è congenere e affine» (B 794). 

Conclusa questa lunga premessa, prima di affrontare l’interpretazione dei singoli versetti del testo biblico, G. aggiunge qualche altra osservazione. Il libro della Cantica è come un quadro. Non è opportuno che gli uditori si soffermino sui particolari di minore pregio ma che si lascino piuttosto catturare dalla bellezza dell’insieme. Gli elementi più appariscenti richiamano l’impulso sessuale (bacio, profumo, membra del corpo), ma la realtà annunciata è qualcosa di molto più grande. L’esegeta si chiede se non sia troppo rischioso parlare a lungo di argomenti che possono risvegliare la sensualità e distrarre gli ascoltatori dall’argomento principale ma supera questa precauzione. È convinto, infatti, che il Signore non desideri la mortificazione del corpo ma che gli uomini siano così padroni delle loro passioni, in modo da poter parlare di cose spirituali usando termini appartenenti alla sfera della sessualità (B 798). La grazia, anzi, opera una trasformazione totale della persona, così da anticipare, in modo parziale, nel tempo, lo stato proprio della risurrezione:

«[Le realtà annunciate sono] la beatitudine, il dominio delle passioni, l’unione con Dio (pros to theion synapheia), l’estraneità al male, l’assimilazione della perfetta bellezza e bontà. […] Non ci obbliga a soffocare gli impulsi della carne, a uccidere le nostre membra terrene o a eliminare dal nostro linguaggio le parole attinenti ai nostri istinti. Al contrario ella [la Sapienza] ha trasformato l'anima in modo tale da renderla capace di ammirare la purezza in quelle cose stesse che sembrano indecorose, cogliendo un significato esente dal male in discorsi intrisi di passionalità» (B 798).

«Condotto per mano alla scoperta del senso spirituale nascosto in queste parole, [il fedele maturo] offre la prova che non è più un uomo né ha una natura partecipe della carne e del sangue ma che è pregno della vita che speriamo di ricevere alla risurrezione dei credenti, divenuto uguale agli angeli ora che hai conseguito la libertà dalle passioni» (B 800). 

«A risurrezione avvenuta, il corpo, trasformato nell'incorruttibilità, si unirà all'anima dell'uomo e le brame che ora ci molestano, stimolando la carne, non sussisteranno più in quei corpi. Una condizione di pacificazione succederà alla nostra attuale esistenza. La «sapienza della carne» (Rm 8,6) non sarà più in lotta contro l'anima, ne una guerra intestina si scatenerà contro la legge dello spirito, prendendo occasione dai sentimenti passionali, né l'anima, sconfitta, si troverà ad essere ancora prigioniera del peccato. La nostra natura supererà questo contrasto. L'una e l'altro, carne e spirito, avranno un unico e medesimo pensiero poiché ogni sentimento carnale verrà eliminato dalla nostra natura» (B 800). 


Cominciamo, ora, a seguire il Commento al Cantico dei Cantici.


Mi baci con i baci della sua bocca

(Ct 1,2). G. si meraviglia dell’ardire della ragazza che chiede, con ardore ed insistenza, d’essere baciata dal giovane da lei amato. In via normale, infatti, l’iniziativa d’una relazione era presa dal maschio. 

Nell’interpretazione allegorica, l’anima desidera il Signore con tutte le sue forze. Dio è veramente dolce, desiderabile, amabile (B 802). Mosè parlò con Dio in modo amichevole e l’espressione faccia a faccia (Es 33,11) viene interpretata bocca a bocca

Il bene della comunione con Dio non provoca noia, per tornare poi a ripresentarsi in seguito come bisogno «perché insieme al possesso si estende anche l’appetito. Il desiderio di questo bene si sviluppa insieme alla fruizione, e non finisce con il conseguimento dell’oggetto desiderato, ma quanto più ci si diletta di esso, tanto più la brama diviene ardente contemporaneamente al diletto stesso» (Omelie su Qoelet, II, 8, Sources Chrétiennes ed. italiana, Bologna 2011, pp. 196-197). 

«Veramente, Dio solo è dolce, desiderabile e amabile. Chi lo ha gustato — questo godimento è sempre possibile — viene preso da un desiderio ancora più intenso; chi partecipa dei suoi beni, dilata la sua brama. Mosè ha vissuto l'esperienza della sposa e ha amato lo Sposo come la vergine del Cantico che implora: “Mi baci con i baci della sua bocca”. Come attesta la sacra Scrittura, egli parlò con Dio “bocca a bocca” [faccia a faccia] (Es 33,11). Dopo che Dio gli si fu manifestato più volte, sempre di più desiderò ricevere questi baci, anelò vedere Colui che cercava, come se non lo avesse mai contemplato. Così pure tutti gli altri che alimentavano in loro il desiderio di Dio, mai si sentirono nauseati del loro godimento; tutto ciò che ricevettero da Dio, per appagare il loro anelito, lo usarono come esca e combustibile per far divampare il fuoco. Anche ora l'anima che si è unita a Dio, non resta mai appagata del godimento provato. Quanto più si nutre di quella bellezza, tanto più stimola la sua fame» (B 802). 

Le tue tenerezze sono migliori del vino; il profumo dei tuoi unguenti supera tutti gli aromi 

(Ct 1,2). La ragazza esprime la gioia che sgorga dalla relazione affettiva e dal contatto fisico. 

La versione greca (LXX): «Le tue mammelle (mastoi) sono migliori del vino». La dichiarazione, intesa in senso allegorico, significa: «La letizia che deriva ai fedeli dai doni dello sposo è più grande di tutta la gioia umana messa insieme» (Teodoreto di Cirro, Commento al Cantico dei cantici, cit. p. 63). 

Nell’allusione ai sensi del gusto (vino) e all’olfatto (profumo), G. scopre un riferimento all’esperienza dei sensi spirituali di cui aveva parlato Origene (cf anche Omelia IV B 942). Essa scaturisce interamente dall'antropologia biblica, nell'idea dell’armonia naturale tra corpo e spirito nell'uomo. La sensibilità dello spirito, analoga a quella fìsica, si risveglia nell'uomo purificato che ha posto in Dio tutta la sua gioia. Si rende percepibile al credente nella misura della crescita in lui della vita di Cristo e corrisponde all’esperienza dell'effìcacia della vita di grazia, comune presso gli autori spirituali: «Se c’innamoriamo ardentemente della virtù di Dio, lo Spirito Santo fa gustare alla nostra anima la dolcezza di Dio» (Diadoco di Foticea, Opere spirituali, 90, Sources Chrétiennes edizione italiana, Bologna 2016, p. 237). 

Il risveglio della percezione spirituale indica il ritorno dell'uomo alla primitiva condizione di Adamo e permette di attingere, in forma prolettica, la beatitudine futura. 

«In noi esiste una duplice sensibilità, una biologica e l'altra più affine al divino; lo conferma la sacra Scrittura in un versetto dei Proverbi: “Troverai una percezione divina” (Pr 2,3). […] il massimo che può dare la sapienza profana è molto inferiore all'insegnamento della parola di Dio, per quanto semplice sia questo. Ecco perché le mammelle divine sono migliori del vino umano e la fragranza degli unguenti divini supera il buon odore di qualsiasi profumo» (B 806). 

«…i profumi simboleggiano le virtù, come la sapienza, la saggezza, il coraggio, la prudenza ecc. Ogni persona può appropriarsene a misura dell'impegno e della libera scelta e ognuno ne assorbe la fragranza in modo diverso dagli altri. Alcuni odorano di sapienza o di saggezza, altri di giustizia o di coraggio o di qualche altra qualità considerata virtuosa. Qualcuno assorbe una tale fragranza da essere una composizione di tutti questi profumi. Ciò nonostante tutte queste qualità, pur così ottime, non possono neppure essere paragonate a quella Virtù perfetta [Dio] che trascende anche i cieli» (B 810).

II tuo nome è un profumo effuso

(Ct 1,3). L’amato  è il profumo stesso di cui è impregnata l’amata (Mazzinghi, cit., p. 39)

Nell’allegoria, la metafora del profumo è introdotta per richiamate l’incomprensibilità del Dio conosciuto. Tuttavia ogni creatura è pregna del profumo, ossia della perfezione inattingibile di Dio. 

«La frase vuoi dire questo: non è possibile comprendere adeguatamente la natura divina infinita racchiudendola in una definizione. Qualunque nome noi pensiamo per definire il profumo della tua divinità — dichiara la sposa — non cogliamo certo l'essenza di un tale unguento solo a parole ma ci limitiamo a tracciare qualche indicazione grazie allo studio della teologia che è soltanto una lieve esalazione della qualità del profumo divino» (B 810). «Le meraviglie che contempliamo ovunque ci offrono lo spunto per elaborare quei nomi che ritroviamo presso i teologi. Utilizzandoli, diciamo che Egli è sapiente, potente, buono e santo, beato ed eterno, lo confessiamo giudice e salvatore e gli diamo altri titoli ancora. Tutte queste denominazioni a stento ci fanno percepire qualcosa del profumo della divinità di cui ogni creatura è stata impregnata, come fosse un vaso aromatico, ricevendo quei pregi che ammiriamo in essa» (B 812).

Per questo le giovani ti amano; ti attrassero a sé.

(Ct 1,3). È come se la giovane dicesse: non è possibile non innamorarsi di te a motivo della tua bellezza straordinaria! (Mazzinghi, cit. p. 39)

La bellezza di Cristo consiste nella sua generosità estrema, come chiarirà nel corso della predicazione (Omelia II B 852). È necessario, però, ottenere il dono di saperlo contemplare, conservando un ardore giovanile spirituale. 

«In questo modo viene indicata la causa [che ha risvegliato] un così grande lodevole desiderio e tanta prontezza ad amare. Chi rimarrebbe insensibile di fronte a tanta bellezza se soltanto possedesse almeno un occhio capace veramente di contemplarla? In realtà la bellezza che ammiriamo con gli occhi fisici non è mai così sublime, tutt'al più è molto più grande quello che riusciamo ad immaginare sulla base di quanto conosciamo […] Soltanto l'anima che è uscita dall'infanzia ed è pervenuta alla maturità spirituale, che non presenta né macchia né ruga, che non è priva di sensibilità a causa dell'età troppo giovane o che non è inferma per decrepitezza, quest'anima viene chiamata giovane dalla Bibbia. Ella obbedisce al grande e principale comandamento della Legge e con tutto il cuore e tutte le forze ama quella bellezza che la mente umana non sa descrivere, né immaginare, né congetturare» (B 814). 

Il Re mi ha introdotto nella sua stanza

(Ct 1,4) La sua stanza (tameion): dispensa, stanza, luogo del tesoro. In 2,4 la chiamerà, piuttosto, casa del vino (LXX B 948). La relazione nuziale, richiamata dalla ragazza, evoca la comunione profonda con Dio nel suo vertice che è l’esperienza mistica, là dove la Sposa/Chiesa può scrutare (sperimentare) gli abissi divini, entrare nei recessi del paradiso, vedere cose invisibili e ascoltare parole ineffabili

Gli abissi divini sono i doni più grandi che il Signore concede agli uomini ed essi permettono di superare la dimensione ordinaria dell’esistenza. Come aveva già detto, l’esperienza mistica è un ritorno alla condizione che il Signore alle origini aveva prospettato per l’umanità, simboleggata nel paradiso di Adamo. [Sulla presunta esistenza reale del paradiso come luogo fisico e sul suo significato per la vita mistica, cf. A. Stolz, «Il Paradiso di Dio» in La Scala del paradiso. Teologia della mistica, Morcelliana, Brescia 1979, pp. 10-20.] Per molti autori spirituali, il paradiso non è un luogo ma una condizione spirituale e un’esperienza di vita. Ciò viene attestato dalla tradizione spirituale: «Il Paradiso è l'amore di Dio. Nell'amore è il paradiso di ogni beatitudine, dove il beato Paolo è stato nutrito di un cibo che oltre la natura. Gusto il frutto dell'albero della vita ed esclamò: quelle cose che occhio non vide, né orecchio sentì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate che lo amano» (Isacco di Ninive, Disc. 35, Discorsi ascetici, cit., p. 577). 


«Ottenuti questi doni, penetrata nella profondità dell'ineffabile, annuncia di aver raggiunto non solo il vestibolo della casa del tesoro ma anche la primizia dello Spirito. In seguito, ella fu ammessa a godere il dono più ambito, il suo bacio, ossia ha potuto scrutare gli abissi divini e, introdotta nei segreti del paradiso, come dice il grande Paolo (2 Cor 12,4), ha visto l'invisibile e udito parole inenarrabili» (B 818).

Esulteremo e ci rallegreremo per te

(Ct 1,4). La giovane, che ho goduto della relazione con il suo amato, rappresenta la Chiesa delle origini che ha goduto ed alimentato una relazione particolare con il Signore Gesù. La Chiesa primitiva degli apostoli, poi, ha tramandato ai cristiani d’ogni epoca la sua esperienza perché tutti loro potessero parteciparvi (cf 1 Gv 1, 1-4). La Tradizione non è soltanto una comunicazione di verità ma la consegna di sé, con cui Cristo si dona sempre alla sua Chiesa. 

Il Vangelo parla del discepolo amato che si posò sul petto del Signore senza specificarne il nome (ma l’esegesi antica lo identificherà con Giovanni, o epistethos, “colui che si china sul petto”). Questo discepolo rappresenta tutta la Chiesa apostolica che riceve la tradizione, ossia la consegna di sé che Gesù ha operato in tutta la sua vita e soprattutto nella sua Pasqua. Il discepolo amato assorbe la vitalità di Gesù come una spugna. 

«Il versetto seguente illustra la storia della salvezza riguardante la Chiesa. Quelli che per primi furono istruiti dalla grazia e furono testimoni oculari del Verbo, non conservarono questo bene soltanto per se stessi ma lo comunicarono ai posteri come tradizione. Per questo le giovani si rivolgono alla sposa, a colei che per prima, nell'incontro a bocca a bocca col Verbo, fu ricolmata di beni e ammessa nel segreto dei misteri e le dichiarano: “Esulteremo e ci rallegreremo per te. Anche noi partecipiamo alla tua gioia e alla tua letizia”» (B 818).

«Per chiarire il senso di questa frase, lo riesprimo così: Giovanni amò le mammelle del Verbo, Colui che si posò sul petto del Signore e immerse il suo cuore, come una spugna, nella fonte della vita (Gv 13,25). Ricolmato dei misteri riposti nel cuore del Signore, ottenuti come da una ineffabile tradizione, porge anche a noi la mammella alimentata dal Verbo e annunciandoci la Parola eterna fa sovrabbondare anche noi dei beni attinti a quella sorgente» (B 820).

Riposare sul petto di Gesù divenne un ideale ambito: «[Giovanni] aderiva al Logos e si riposava in Lui anche negli aspetti più mistici, così come anche il Logos è nel seno del Padre. […] Apprendendo che chi è appoggiato al seno di Gesù è colui che egli amava, dobbiamo fare di tutto per essere giudicati degni del suo amore particolare. Potremo così anche noi appoggiarci al seno di Gesù» (Origene, Commento al Vangelo di Giovanni, XXXII, XX, UTET, Torino 1968, pp. 785 e 787); «Vicini a Dio, saranno, per così dire, ai primi posti vicinissimi a lui quelli che hanno il cuore puro» (Cirillo d’Alessandria, Commento al Vangelo di Giovanni, IX, Città Nuova, Roma 1994, p. 31). «Se tu non interponessi interruzione al calore del colloquio del cuore, in poco tempo ti troveresti stretto [intrecciato] al petto di Gesù» (Isacco di Ninive, Disc. 17, Discorsi ascetici, cit., p. 329).


Sintesi


La predicazione è un atto che realizza un evento sacro perché vuole trasformare gli ascoltatori. Lo scopo della vita è entrare in comunione profonda con il Signore, simboleggiata dalle nozze, e il mezzo per raggiungerlo è l’amore. Amare è aprisi a Dio con un sentimento di gratuità, escludendo la paura o la ricerca del proprio vantaggio. La Cantica è il terzo libro che la tradizione sapienziale attribuisce a Salomone dopo quello dei  Proverbi e del Qoelet. Il vero autore è il Verbo stesso di Dio, il Cristo, che si è servito del ministero prestato da Salomone. Il libro dei Proverbi che insegna il distacco dal male, l’orientamento al bene e i primi esercizi di vita virtuosa è adatto ai principianti. I più progrediti, vengo nutriti dal messaggio presente nel libro del Qoelet, che li esorta ad interessarsi soprattutto del vero Bene, staccandosi da ogni altro. Per i credenti maturati nell’amore, disposti alla comunione nuziale con Dio, è adatto in modo particolare il libro della Cantica. 

Conclusa l’istruzione preparatoria per mezzo dei primi due libri, Salomone (il Verbo), ci sprona all’unione con Dio, conducendoci all'interno dei «penetrali divini», predisposti da Dio per l’incontro con ogni fedele. Poter entrarvi, equivale ad un ritorno al paradiso delle origini. Il cristiano sperimenta ciò che il Signore aveva pensato per l’uomo fin dall’inizio: paradiso è la viva relazione con Dio, alla quale partecipa chi si è reso simile a Lui. Il ritorno al paradiso non è vivere un’esperienza d’eccezione, ma corrisponde al godimento della pacificazione interiore, sperimentata da chi ha dominato la propria passionalità. Aderendo profondamente al Signore, il battezzato diventa con Dio un solo spirito (Cf 1 Cor 6,16). 

Di conseguenza, sebbene il racconto parli d’una normale relazione affettiva, la realtà annunciata è qualcosa di molto più grande. I fedeli possono diventare così padroni delle loro passioni, in modo da poter ascoltare cose spirituali espressi in immagini appartenenti alla sfera della sessualità (B 798). La grazia, anzi, opera una trasformazione totale della persona, così da anticipare, in modo parziale, nel tempo, lo stato proprio della risurrezione. 

 Nel credente si fa avvertire una nuova sensibilità. La sensibilità dello spirito, analoga a quella fìsica, si risveglia nell'uomo purificato che, ponendo tutta la sua gioia in Dio, ha saputo rifiutare i piaceri egoistici. Si rende percepibile al credente nella misura della crescita in lui della vita di Cristo e corrisponde alla presa di coscienza dell'effìcacia della vita di grazia. Il risveglio della percezione spirituale indica il ritorno dell'uomo alla primitiva condizione di Adamo e permette di attingere, in forma prolettica, la beatitudine futura. 

La giovane, che ha goduto dell’unione con l’amato, rappresenta la Chiesa delle origini che ha sperimentato una relazione molto viva con il Signore Gesù. Essa, poi, ha tramandato ai cristiani d’ogni epoca la sua esperienza perché tutti loro potessero parteciparvi (cf 1 Gv 1,1-4). È ben rappresentata dal discepolo amato che si posò sul petto del Signore per assorbire il suo mistero, come una spugna. La Tradizione non è soltanto una comunicazione di verità ma la consegna di sé, con cui Cristo si dona sempre alla sua Chiesa.




Omelia 2


La seconda omelia è incentrata sulla dottrina della creazione dell’uomo ad immagine di Dio, sull’offuscamento successivo di questa condizione e sul suo recupero. È un argomento molto caro a Gegorio, sul quale ritorna di frequente. 

Sono nera e bella, figlie di Gerusalemme, come le tende di Kedar, come le coltri di Salomone. 

«Bruna sono ma bella» (Ct 1,5). La ragazza, una campagnola, vuole difendersi dal disprezzo con il quale viene trattata dalle donne della città: “anche se sono nera, abbronzata dalla vampa del sole, sono bella”. Secondo Origene, la ragazza nera che respinge il disprezzo delle nobildonne, rappresenta i pagani giunti a far parte del popolo di Dio, grazie alla fede in Cristo: «Non ho ricevuto l’illuminazione della Legge di Mosè, ma, cionostante, ho con me la mia bellezza [...], in me sussiste ciò che per primo in me è stato fatto ad immagine di Dio» (B 285). In modo simile Teodoreto di Cirro: «Nera per la precedente empietà, bella grazie alla fede» (Commento al Cantico…, 1,5-6, cit. p.73). 

G. accoglie l’ipotesi che Kedar derivi dalla radice qadar, oscurarsi e modifica il primo tempo verbale: ero nera ma ora sono bella. La dichiarazione della giovane gli ricorda la giustificazione per grazia concessa da Dio a favore di chi era nella bruttezza morale. Dio ama anche chi è detestabile e ciò rivela il suo amore smisurato per gli uomini (tên ametrêton tou nymfiou filanthrôpian B 828). Ci ha salvati per mezzo di Gesù che ha preso su di sé la nostra bruttezza, per renderci partecipi della sua bellezza. Gli uomini che sentono annunciare questa buona notizia, si rianimano di fiducia e la Sposa/Chiesa non permette che le anime sue discepole, pensando alle loro colpe, perdano la speranza di diventare belle. 

«[La Sposa/Chiesa] fa conoscere alle sue discepole il prodigio avvenuto a loro favore, affinchè noi pure veniamo a conoscere l'amore smisurato dello Sposo per gli uomini, poiché Egli ha cercato di accrescere la bellezza dell'amata, grazie all'amore: Non meravigliatevi che la Rettitudine [il Cristo] mi abbia amata, ma stupitevi piuttosto di questo: ero nera per il peccato, simile alla tenebra a causa delle cattive azioni ma egli mi fece bella con il suo amore, donandomi in cambio la sua bellezza al posto della mia brutezza. Dopo aver trasferito su di sé la sporcizia delle mie colpe, mi offrì la sua innocenza rendendomi partecipe della sua bellezza. Mi ha reso amabile quando ero detestabile e poi mi ha amato». […] Anche se siete delle tende di Kedar, per aver ospitato in voi il principe dell'impero delle tenebre (il termine Kedar significa, infatti, tenebra) potete diventare coltri di Salomone, diventare un tempio del Re, accogliendo in voi il re Salomone» (B 828-830). 

«Mi sembra che il grande Paolo, nella Lettera ai Romani, si sia soffermato su questo argomento, là dove osserva che Dio ha dato prova del suo amore per noi in quanto, mentre eravamo ancora peccatori e neri, ci ha resi luminosi e amabili facendo risplendere per noi la grazia (Rm 5,8). Durante la notte, tutto, anche ciò che di per sé sarebbe luminoso, annerisce nell’oscurità poiché predomina la tenebra, ma al sopraggiungere della luce, ciò che era diventato buio, non rimane più ottenebrato nell'oscurità. In modo simile l'anima che è passata dalla menzogna alla verità, cambia il suo comportamento tenebroso ed appare nell'area luminosa della grazia. Queste cose — annunciate alle giovani dall’Amata — vengono testimoniate anche a Timoteo da parte di Paolo, sposa di Cristo. Egli da nero che era divenne in seguito luminoso, poiché fu reso degno di diventare anch'egli bello, lui che prima era stato un bestemmiatore, un persecutore e un violento, nero nell’anima (1 Tm 1,13-15). Afferma che Cristo è venuto nel mondo per rendere luminosi quelli che erano ottenebrati. Chiamando a sé, a penitenza, non i giusti ma i peccatori (Lc 5,32), fece brillare come astri (Fil 2,15), nel bagno della rinascita, questi uomini tenebrosi, e ripulì nell'acqua il loro aspetto. David vede realizzarsi questo prodigio nella città celeste e la visione lo riempie di meraviglia: “Come mai nella città di Dio, di cui si dicono cose stupende, abita il Babilonese, viene ricordata la prostituta Raab e stranieri, come i cittadini di Tiro o il popolo etiope possono abitare in essa?” (Sal 87,3-4) Accade, infatti, che là gli stranieri prendono la cittadinanza, i babilonesi diventano abitanti di Gerusalemme, la prostituta diventa vergine, gli etiopi bianchi e Tiro una città celeste» (B 832).

Non meravigliatevi vedendo che sono diventata nera, il sole, infatti, mi ha guardata con ostilità

«Non state a guardare che sono bruna, perché mi ha abbronzato il sole» (Ct 1,6). Come mai persone create integre da Dio si sono abbronzate, oscurate nel male? A fare ciò fu il sole che guardo la giovane in modo astioso. Compare infatti il verbo parablepo che significa guardare di sbieco, ossia in modo ostile. La ragazza subì un’attenzione maligna. Ella rappresenta tutta l’umanità che, creata nella bellezza dell’innocenza, fu danneggiata, in seguito, dalla vampa del sole, cioè dalla tentazione del Maligno. Non è stato il Creatore la causa del male, ma la libera scelta di ognuno a dare origine ad esso (Cf Gregorio di Nissa, La Verginità, XII GNO VIII,1 pp. 297-302).

L’umanità, comunque, merita più compassione che riprovazione perché fu assalita dal Maligno quando ancora non aveva potuto consolidarsi nel bene; tuttavia, nessun uomo è solido in modo sufficiente, se è privo della forza dello Spirito Santo:

«Non meravigliatevi vedendo ch'io sia diventata nera, ella dice, in origine non ero così. Le mani luminose di Dio non potevano plasmare una forma dall'aspetto tenebroso e annerito. Non fui sempre come sono ora, ma lo diventai. Non sono nera di natura; questa deturpazione fu aggiunta in seguito, poiché fu il sole a cambiare il colore del mio aspetto e da luminoso lo rese nero» (B 834). 

«La natura umana nacque a immagine della vera luce e, risplendendo per la sua somiglianza con la bellezza archetipa, era ben lontana dall'aver un aspetto tenebroso. La tentazione, poi, dopo aver introdotto, con l'inganno, un ardore infuocato, distrusse il primitivo germoglio, ancora tenero e privo di radici. Non si era ancora consolidata l'abitudine al bene, né le radici avevano cominciato ad estendersi in profondità, con la coltivazione dei buoni pensieri, quando, ad un tratto, il germoglio verde e rigoglioso si seccò, a causa della disubbidienza e infine la vampa del sole lo annerì» (B 836).

I figli di mia madre hanno lottato in me; mi posero a guardia delle vigne, ma la vigna, quella mia, non l'ho custodita

(Ct 1,6). I fratelli s’erano attribuiti un ruolo di vigilanza nei confronti della sorella ma l’innamorata è riuscita ad eludere la loro custodia. 

1. Secondo G., i fratelli sono gli esseri che, sebbene siano stati creati da Dio, s’oppongono a Lui e vogliono spingere anche altri a partecipare alla loro ribellione. Troviamo un’esegesi piuttosto elaborata sul dramma delle origini che si ripete sempre anche in ogni periodo storico: il rifiuto dell’opera di Dio, la perdita della libertà e il dilagare dell’iniquità. La madre, di cui si parla, è Dio stesso, provvido creatore di ogni uomo e così tutti gli uomini sono fratelli, figli di quest’unica Madre. [La maternità divina ha un valore metaforico: Dio trascende il genere e presenta i caratteri della mascolinità e della femminilità, Cf Omelia VII (B 1098)]. 

Egli donò all’uomo la facoltà di desiderare il bene e di attuarlo perché il compiere il bene non doveva essere il risultato d’una costrizione ma una decisione volontaria. Purtroppo, invece, l’uomo si lasciò traviare da colui che, per primo, volle contrapporsi al disegno di Dio. 

2. Dio è creatore di tutti gli essere razionali e della loro bontà ma essi si distinguono tra loro a motivo della diversità delle loro scelte. Molti, anche al presente, imitano il Maligno. La sposa rimase coinvolta in questa scelta negativa. Da pura, qual’era, divenne nera per il peccato e, a motivo di questo, si lamenta con gli altri uomini traviati. Non fu più in grado di custodire la vigna che il Signore le aveva affidato. Ancora peggio, fu costretta a custodire la vigna che produce iniquità ed amarezza.

1. «Tutte le cose provengono da Dio, il Padre, dal quale tutto deriva; non esiste alcun essere che non riceva l’esistenza per mezzo di lui o da lui. […] Dio elargì alla natura razionale il dono dell'autodeterminazione e gli diede inoltre la capacità di trovare il bene che si proponeva, così da poterlo realizzare. Il bene non veniva mai conseguito per costrizione, in modo forzato, ma era il risultato di una libera scelta. Mentre ci lasciavamo condurre da questo movimento di autodeterminazione là dove ci sembrava opportuno dirigerci [ossia verso il bene], in totale padronanza, uno degli esseri creati [il diavolo] abusò del suo potere e divenne il primo responsabile del male, come insegna l'apostolo. Quest'essere deriva anch'esso da Dio e, da questo punto di vista, è nostro fratello. Tuttavia egli si allontanò in modo volontario dalla partecipazione al bene, rese effettivo il male, divenne padre della menzogna; perciò si trova nella posizione di nemico, ostile a tutti quelli che possiedono un libero arbitrio per poter tendere verso il meglio» (B 840 e 842). 

2. «Gli uomini che si sono allontanati dalla relazione con il bene e, abbandonando la ricerca del loro miglioramento, hanno dato consistenza al male male (l'essenza del male consiste nella separazione dal bene) impiegano ogni sforzo e ogni disegno per far aderire anche gli altri alla relazione con il male. Per questo [la sposa] afferma: I figli di mia madre (il termine è al plurale per esprimere la molteplicità dei vizi) hanno sollevato in me una guerra. Non lottarono compiendo delle incursioni dall'esterno, ma resero l'anima un campo di battaglia. In ogni uomo divampa una guerra, come spiega il divino apostolo quando dice: “Nelle mie membra vedo un'altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra(Rm 7,23). Mentre si svolgeva in me questa guerra intestina, [suscitata] dai miei fratelli, nemici della mia salvezza, divenni nera avendo subita la sconfìtta e non custodii la mia vigna. La vigna, qui, sta a significare il paradiso […] Dio aveva affidato all'umanità l'incarico di coltivare e di custodire il giardino, come dichiara la Sposa: Dio collocò l'anima mia nella vita — (la gioia del paradiso era vita; in esso Dio pose l'uomo perché lo coltivasse e lo custodisse). I nemici, tuttavia, la trasferirono dal suo incarico: [distogliendola] dalla custodia del paradiso, l’obbligarono a prendersi cura della loro vigna, il cui grappolo produce acidità e l'uva amarezza di fiele […] Anche oggi è possibile vedere come la maggioranza degli uomini siano coltivatori e custodi di vigne come queste; conservano le loro passioni con tanta diligenza da sembrare quasi che abbiano timore di perdere la loro iniquità. Guarda i malvagi custodi dell'idolatria, che assecondano l'empietà e l'avarizia, come fanno attenzione a conservare il male, credendo che sia un danno rimanere privi dell'iniquità!» (B 842-848). 

La mia vigna non l'ho custodita. Questa affermazione è chiaramente un'espressione di dolore e da essa i profeti vengono stimolati al rimpianto nelle loro lamentazioni: “Come mai è diventata una prostituta, Sion, la città fedele, piena di giustizia?” (Is 1,21) Come mai è stata abbandonata la figlia di Sion, come una capanna in una vigna? (Is 1,8) Come ha potuto diventare nera colei che da principio era stata illuminata dalla vera luce? (Lam 4,1). Tutto questo mi è accaduto – confessa - perché non ho custodito la mia vigna. La vigna è l'immortalità; la vigna è la libertà dalle passioni e la somiglianza con Dio, l'estraneità da ogni male. Il frutto di questa vigna è la purezza; è proprio questo il grappolo bello, splendido, esposto al sole, capace di procurare piacere ai sensi dell'anima per la sua bellezza. Il tronco della vite è la partecipazione alla vita eterna e la parentela con essa […] Mentre possedevo tutti questi beni - dichiara la sposa - e mi vantavo di poterli godere, indossai il nero del lutto per non aver custodito la mia vigna. Perduta l'innocenza, mi coprii con una veste tenebrosa (il vestito di pelle simboleggia questo stato) ma adesso, poiché la Rettitudine ha ripreso ad amarmi, ritornata ad essere bella e splendente, vigilo con timore sulla mia felice situazione per non perdere di nuovo la mia avvenenza (B 848 e 850). 

Fammi sapere, o amato del mio cuore, dove pascoli, dove riposi nel meriggio, affinchè non sia più un'errabonda dietro il gregge dei tuoi compagni

(Ct 1,7) Supplica rivolta al giovane perché comunichi all’innamorata  il luogo in cui si trova. 

«Interrompe, allora, il discorso alle giovani e di nuovo invoca e supplica lo sposo, sostituendo il nome del desiderato con una espressione che rivela il suo sentimento verso di lui. Come lo chiama? “Fammi sapere, o amato del mio cuore, dove pascoli, dove riposi nel meriggio, affinchè non sia più un'errabonda dietro il gregge dei tuoi compagni”. Dove pascoli, o buon pastore, che porti sulle tue spalle tutto il gregge (Lc 15,5)? (Tutta l'umanità è una sola pecora che tu hai preso sulle tue spalle). Indicami il luogo tranquillo, fammi conoscere l'acqua che ristora, conducimi al pascolo fecondo, chiamami per nome, affinchè io, che sono la tua pecorella, possa udire la tua voce (Gv 10,16); donami, mediante l'ascolto della tua parola, la vita eterna. Fammi sapere, o amato del mio cuore... così preferisco chiamarti poiché il tuo nome è sopra ogni altro nome, né può essere pronunciato e compreso dall'uomo razionale. Il tuo nome, riconoscibile dalla tua bontà, traspare nell'amore riconoscente della mia anima verso di te. Come potrei, infatti, non amarti, tu che mi hai amata così tanto che, mentre ero ancora nera, hai dato la tua vita per la pecora che pascoli? Non si può pensare a un amore più grande di questo: che tu abbia dato la vita per la mia salvezza (Gv 15,13). Fammi sapere dove pascoli, affinchè, avendo trovato il pascolo salutare, mi sazi del cibo celeste (poiché chi non si nutre di questo cibo non può entrare nella vita) e accorra alla fonte, attinga la bevanda divina che tu fai zampillare per chi ha sete, facendo scaturire acqua dal tuo fianco dopo che con il ferro è stata aperta questa fonte (Gv 19,34); chi avrà gustato di essa diventa una sorgente di acqua zampillante fino alla vita eterna (Gv 4,14)» (B 850 e 852).

Se non conosci te stessa, o bella tra le donne, esci al seguito delle tue greggi e conduci al pascolo i capretti presso le tende dei pastori. 

(Ct 1,8). «TM: Se proprio non lo sai…». 

Se gli uomini comprendessero bene se stessi, custodirebbero la loro identità e rimarrebbero nel bene, più facilmente. La persona vale per ciò che è, non per i beni che ha conseguito o per talune capacità professionali. G. rileva la transitorietà e, quindi l’illusorietà dei beni cercati perfino con ardore. Il tempo scorre veloce e distrugge gradualmente ogni illusione: non bisogna passare velocemente con ciò che è transitorio ma rimanere costanti nei beni immutabili. 

«Il modo più sicuro per custodire i beni [deposti] in noi è quello di conoscersi. Ogni uomo deve conoscere se stesso per ciò che è; [deve] distinguere con chiarezza cio che egli è, dai beni che gli stanno intorno, affinchè non avvenga che ci si prenda cura di ciò che ci è estraneo, trascurando quanto gli appartiene. Chi osserva la vita presente e giudica degni di particolare cura i beni che vengono stimati quaggiù, non sa distinguere i beni che possiede da quelli che non sono suoi. Nessun bene passeggero può essere considerato nostro sicuro possesso. Come è possibile esercitare un dominio effettivo sui beni che passano scorrendo via? Le realtà spirituali e immateriali sono stabili e permanenti, mentre invece quelle materiali sono transitorie, si trasformano in continuazione travolte dal flusso e dal movimento. Separate naturalmente dall'essere immobile, sono coinvolte nel movimento instabile. Chi si attacca ai beni passeggeri e nello stesso tempo trascura quelli immutabili, fallisce in ogni caso perché i primi non riesce a trattenerli e i secondi non riesce ad afferrarli» (B 856 e 858). 

«Molti uomini non riescono a capire da soli come stiano le cose in realtà ma, influenzati dal modo di fare dei loro antenati, errano nel formulare una giusta valutazione delle cose e pongono come criterio di giudizio del bene una consuetudine irrazionale, anziché un'analisi attenta condotta razionalmente. Non bisogna, allora, seguire le tracce delle greggi; esse stanno a significare le persone che conducono l'esistenza rimanendo attaccate alla vita terrena e lasciano in essa le loro orme. Finché rimaniamo in questa vita, immersi nelle realtà visibili, non possiamo apprezzare appieno, nel loro giusto valore, i beni più preziosi; solo dopo che saremo usciti da essa, potremo riconoscere la preziosità dei valori che abbiamo perseguito» (B 858 e 860). 


Nell’ultima parte dell’Omelia, G. esalta l’uomo quale unica creatura costituita ad immagine di Dio. Come tale, non soltanto può imitare il Signore nel suo comportamento ma diventare anche sua dimora. Rivolgendo l’attenzione al Signore, diventa ciò che Egli è. Il ritorno dell'uomo alle sue origini è possibile  tramite la contemplazione o imitazione del divino, un esercizio che richiede una purificazione permanente.


«“Presta attenzione a te stessa!”, ti suggerisce il Verbo. Questo è il modo sicuro per custodire il tesoro [ricevuto]: riconoscere quanto tu sia stata onorata dal tuo Creatore, rispetto a qualsiasi altra creatura. Il cielo non fu creato a immagine di Dio, né lo furono la luna o il sole o gli splendidi astri. Nessun’altra creatura visibile [lo fu]. Soltanto tu sei stata creata come raffigurazione della Natura [divina] che supera ogni comprensione, [sei stata costituita] somigliante alla bellezza immortale, impronta della vera divinità, ricettacolo della vita beata, riflesso della vera luce. Volgendo lo sguardo ad essa, tu sarai quella, ciò che essa è; riprodurrai Colui che risplende dentro di te, grazie al raggio riflesso dalla tua purezza. Nessuno degli esseri è tanto grande da poter essere commisurato alla tua grandezza. L’intero cielo può essere racchiuso nelle mani di Dio, la terra e il mare stare nel suo pugno, ma, ciò nonostante, Colui che è tale e tanto da contenere la creazione nel suo palmo, viene racchiuso totalmente da te, in te abita e non si restringe per nulla venendo a dimorare dentro di te, poiché ha detto: “Stabilirò la mia dimora in mezzo a voi e camminerò in mezzo a voi (2 Cor 6,16)”. Se tu avrai compreso [il valore di] questo [privilegio], non ti occuperai di alcun bene terreno. Che dico? Neppure il cielo meriterà la tua ammirazione. Come farai a meravigliarti dei cieli, o uomo, quando osservando te stesso, ti accorgerai di essere più stabile dei cieli? Mentre essi passano, tu rimani per sempre unito all'Essere eterno» (B 862 e 864). 

“Volgendo lo sguardo ad essa, tu sarai quello che essa è”. È palese l'influsso di Plotino. Questo filosofo riteneva che il divino può essere conosciuto dall’anima soltanto se essa recupera il suo splendore originario. «L’uomo può vedere e Lui e se stesso: vedere se stesso splendente, ripieno di luce intelligibile, o meglio, diventato luce pura, che sta diventando dio, o meglio che è già dio» (Cf. Enneadi, VI,9,10, Rusconi, Milano 1992, p. 1359). Tuttavia mentre Plotino riteneva che l'anima fosse partecipe della divinità di sua natura, Gregorio pensa che essa sia solo una creatura e che non sia in grado di deificarsi con le sole sue forze. L'anima può imitare Dio perché egli la inabita per grazia e risplende dentro di lei. «L'antico principio che il simile viene conosciuto attraverso il simile [...] viene trasformato nel senso che è solo la grazia, ossia l'opera dello Spirito Santo, ciò che rende l'anima simile a Dio» (E. von Ivanka, Platonismo cristiano, Milano 1992, p. 127).


Sintesi

La giovane dichiara di essere tornata bella, recuperando la bellezza d’un tempo che aveva perduto. Questo fatto ricorda la giustificazione per grazia concessa da Dio a favore di chi era nella bruttezza morale. Dio, che ama anche chi è detestabile, ci ha salvati per mezzo di Gesù che ha preso su di sé la nostra corruzzione, per renderci partecipi del suo splendore. La ragazza rappresenta tutta l’umanità che, creata nella bellezza dell’innocenza, fu danneggiata, in seguito, dalla vampa del sole, cioè dalla tentazione del Maligno. Non è stato il Creatore la causa del male, ma la libera scelta di ognuno a dare origine ad esso. Il dramma delle origini che si ripete sempre anche in ogni periodo storico: il rifiuto dell’opera di Dio, la perdita della libertà e il dilagare dell’iniquità. Donò all’uomo la facoltà di desiderare il bene e di attuarlo perché il compiere il bene non doveva essere il risultato d’una costrizione ma una decisione volontaria. Se gli uomini comprendessero bene se stessi, custodirebbero la loro identità e rimarrebbero nel bene, più facilmente. La persona vale per ciò che è, non per i beni che ha conseguito o per talune capacità professionali. G. rileva la transitorietà e, quindi l’illusorietà dei beni cercati con ardore. Il tempo scorre veloce e distrugge gradualmente ogni illusione: non bisogna passare velocemente con ciò che è transitorio ma rimanere costanti nei beni immutabili. 

Infine, G. esalta l’uomo quale unica creatura costituita ad immagine di Dio. Come tale, non soltanto può imitare il Signore nel suo comportamento ma diventare anche sua dimora. Rivolgendo l’attenzione al Signore, come al suo modello, diventa ciò che Egli è. Il ritorno dell'uomo alle sue origini è possibile  tramite la contemplazione o imitazione del divino, un esercizio che richiede una purificazione permanente. 



OMELIA III

Nell’omelia pronunciata nel terzo giorno di predicazione, gli ascoltatori sentiranno parlare lo Sposo stesso, il Signore, e udranno le parole che Egli rivolgerà alla Sposa. Finora s’erano espressi la ragazza, le amiche, gli amici ma non lo Sposo. Egli non parla soltanto per comunicare delle nozioni: «la parola che stiamo meditando ci rende partecipi del divino. Il Verbo di Dio, facendo sentire la sua voce, offre a chi lo ascolta la partecipazione alla sua forza incontaminata» (B 860). L’argomento principale dell’omelia, infatti, sviluppa il tema della nostra partecipazione alla vita di Gesù Risorto. 

Da questa partecipazione, scaturisce un’altra novità: il credente, che non può comprendere Dio a motivo della sua infinità, lo conosce assimilando le sue qualità. 

Alla mia cavalla ai carri di Faraone ti ho reso simile, o mia vicina

«Alla cavalla, ai cocchi del faraone, ti assomiglio, amica mia» (Ct 1,9). G. non parla di cavalla, ma di cavalleria, forse perché nella Scrittura persone singole, stimate per la grande energia della loro fede, vengono paragonate ad un cavallo ma anche ad una cavalleria (cf. 2 Re 2,11-12; Ab 3,8; Zc 1,10-11). L’attributo “amica mia” non è interpretato nel senso di “mia amata” ma “mia simile”, come elogio che verifica una trasformazione etica avvenuta: sei diventata simile a quello che sono. 

Nell’interpretazione di G., il Verbo, introducendo questo paragone, si propone d’elogiare la sua amata a motivo dell’energia da lei mostrata nel combattimento spirituale. La paragona alla cavalleria invisibile, ossia alla potenza divina che, al Mar Rosso, sbaragliò quella egiziana. Secondo Origene la cavalleria vittoria invisibile era il Signore stesso, la sua potenza insuperabile (B 374). 


Il passaggio del Mar Rosso era considerato un simbolo prefigurativo del Battesimo, cf. Cirillo di Gerusalemme, Le Catechesi, I Catechesi Mistagogica 2-3, Città Nuova, Roma 1993, pp. 436-437; G. Crisostomo, Le Catechesi Battesimali, VII, 23-27, Città Nuova, Roma 1982, pp. 137-139. Nell’esegesi di Origene e di Teodoreto di Cirro il protagonista dello scontro al Mare Rosso è lo sposo, il Cristo; è Lui che ha combattuto il diavolo rafforzando l’impegno dell’anima fedele. Origene ricorda la figura del Verbo di Dio che cavalca un cavallo bianco, seguito da eserciti celesti (Ap 19,11-14) (B 379). Teodoreto: «Ti giudico simile alla mia cavalla, valendomi della quale ho sommerso nel mare i carri del faraone immateriale», (Commento al Cantico.., 1,9 cit. p. 79). 

Dal momento che il «tempo dei digiuni» (la Quaresima), nel quale sviluppa il Commento alla Cantica, rievocava il tempo consacrato alla preparazione al Battesimo, nelle omelie, appaiono molteplici riferimenti a questo sacramento. La Sposa, armata dalla grazia battesimale, ha potuto contrastare con forza l’esercito del male fino ad annientarlo. L’energia per operare una vera conversione si trova nel sacramento del Battesimo, la cui grazia si prolunga nell’intera esistenza. 

«[La Sposa] non sarebbe stata paragonata a quella forza che fece cadere malamente l'Egitto e, per mezzo della quale, invece, Israele venne liberato da una amara tirannia, se tutti questi eventi non fossero stati realizzati anche da lei, provocando la caduta dell'Egitto e preparando una strada per l’incontro con Dio a coloro che emigravano dal fango dell'Egitto verso la terra promessa. Orbene, poiché, come avverte il divino apostolo, tutti gli insegnamenti della Bibbia ispirata sono stati scritti per la nostra istruzione (1 Cor 10,11), il Verbo, nell'elogio indirizzato alla sposa, nient'altro intende dirci se non questo: bisogna che anche noi, una volta che ci siamo fatti condurre dal Verbo, sconfiggiamo la cavalleria egiziana con i suoi carri e cavalieri, buttando a mare tutto il suo malvagio potere; così, avendo immerso nelle acque l'esercito nemico, possiamo, a nostra volta, essere paragonati proprio con quella potenza divina. Ripeto quanto ho detto perché possa essere compreso meglio: non è possibile che qualcuno venga raffrontato con la cavalleria che spinse a mare i carri egiziani, se non si è liberato dalla schiavitù del nemico nelle acque del mistero battesimale, se non ha abbandonato nell'acqua ogni pensiero egiziano, ogni malizia a lui estranea e ogni peccato, se non riemerge puro, evitando di portare ancora con sé, nella vita successiva, qualcosa che abbia relazione con l'Egitto» (B 878. 880). 

Ornamenti simili all'oro faremo per te, con ceselli d'argento

(Ct 1,11). Gli amici della ragazza, volendo adornarla in modo degno del suo amato, si propongono di preparare per lei ornamenti preziosi. Non viene usato l’oro stesso ma un altro metallo di qualità simile ad esso. I doni preziosi alquanto ma inferiori al valore dell’oro, rappresentano, nell’interpretazione di Origene, le verità parziali annunciate nell’Antica Alleanza, prefigurative della verità future del Vangelo oppure le prime fasi di maturazione nella fede dei singoli battezzati (B 391-415). 

G., in modo simile all’alessandrino, interpreta questi ornamenti come un dono parziale e provvisorio, pegno di un bene più grande. Tuttavia per lui il dono ancora parziale consiste nella conoscenza concettuale di Dio, una realtà eccellente, ma più povera in confronto all’esperienza di Lui. Soltanto la partecipazione a Dio è considerata oro. 

L’oro rappresenta la divinità ed ora la Sposa viene adornata, in ogni caso, con virtù che sono proprie di Dio. Ella, dal punto di vista concettuale, non può cogliere l’essenza divina in tutta la sua profondità, ma può partecipare ad essa e, infine, ospitare in lei il Signore , diventare suo trono e sua casa (Cf Omelia II B 864). Divenendo simile a Lui, giunge a conoscerlo per esperienza, mediante la fede. Conoscerlo soltanto tramite nozioni razionali, per quanto sublimi, sarebbe troppo poco. L’anima, piuttosto, grazie alla fede, fa abitare in sé Colui che supera ogni comprensione. Il Dio incomprensibile, quindi, si comunica e viene conosciuto grazie alla fede. 

«Non dobbiamo trascurare un particolare, senza esaminarlo: come mai, come ornamento, non venga preso l'oro stesso ma del materiale simile all'oro; non viene preso neppure l'argento, ma solo puntini di questa materia assomigliante all’oro. Penso che questa particolarità abbia il seguente significato: qualsiasi dottrina riguardante l'ineffabile natura divina, sebbene possa sembrare elevata e conveniente al divino, può essere simile all'oro ma non è l'oro stesso. Non è possibile descrivere compiutamente quel Bene che supera ogni comprensione. […] Bisogna che l'anima, condotta per mano da questi concetti verso la comprensione dell'inafferrabile, faccia abitare in se stessa la natura che trascende ogni concetto, appoggiandosi sulla fede soltanto. È quello che gli viene detto dagli amici: […] Tu, dopo aver accolto queste immagini, accetta di diventare, per la fede, un luogo di abitazione di Colui che sta per stabilire in te la sua dimora. Tu sarai il suo trono e diventerai la sua abitazione» (B 894.896-898). 

II mio nardo ha effuso il suo profumo

(Ct 1,12) La ragazza, per onorare il giovane, steso sul triclinio, lascia espandere il buon odore del nardo che ha preparato. Il nardo è un profumo di lusso, un potente afrodisiaco (Mazzinghi p. 44).

Nell’interpretazione di G., il nardo è la persona stessa della giovane che si è profumata delle virtù del Diletto. Il profumiere che prepara il nardo (un uso appartenente alla cultura semitica), compone un unguento che viene ottenuto dalla mescolanza di varie erbe odorose. Ora la Sposa ha fatto di se se stessa un nardo assimilando le varie virtù dello Sposo. L’unguento, ossia la sua persona, espande quindi la fragranza dello Sposo. Nel Vangelo si narra di una donna che versò il profumo sul capo di Gesù, riempiendo di buon odore tutta la casa dov’era stato ospitato (cf Gv 12,3). Fare di sé un nardo odoroso che ricorda il buon odore di Cristo è, ora, il compito di tutta la Chiesa.

«Approssimandosi a Colui che aveva desiderato, prima ancora di essere in grado di cogliere con la vista la sua bellezza, tocca Colui che cercava col senso dell'olfatto. Col senso olfattivo riconosce le caratteristiche del colore di quella particolare persona, come se ne vedesse l'aspetto. Dichiara di aver riconosciuto il suo odore dal profumo dell’unguento chiamato nardo e grida agli amici: II mio nardo ha effuso il suo profumo. Come voi, afferma, non avete potuto donarci l'oro puro della divinità ma degli ornamenti simili all'oro, ossia quei concetti razionali che possiamo comprendere e non avete potuto svelare la sua natura intima con un discorso adeguato così anch'io, con l'effusione del mio profumo, ho percepito col senso (dell'olfatto) la sua fragranza» (B 898). 

«[Il Verbo], che nella sua essenza misteriosa trascende ogni essere, è inaccessibile a noi e non può essere afferrato né compreso, ma la fragranza che si trova in noi, ottenuta mediante quella purificazione che deriva dall'acquisto delle virtù, è presente in noi al posto di lui, poiché essa imita con la sua purezza colui che è senza macchia, con la sua bontà colui che è buono, con la sua immortalità colui che è immortale e con tutte le azioni virtuose compiute imita la vera virtù, quella che trascende tutti i cieli [cioè Dio]. […] Attraverso l'acquisto delle virtù possiamo conoscere quel bene che supera ogni comprensione, così come è possibile cogliere il modello, per somiglianza, tramite un'immagine. [L’apostolo Paolo] componendo insieme i diversi frutti dello Spirito, 1'amore, la gioia, la pace e le altre essenze simili a queste, compone il nardo, come fa un profumiere, e dichiara di essere il profumo di Cristo mentre effonde tale grazia superiore alla natura e irraggiungibile da noi (B 904,91). 

Se nel Canto dei cantici il nardo ha impregnato la sposa del profumo dello sposo, con l'avvento del vangelo, esso diventa il profumo di tutto il corpo della Chiesa diffusa in tutta la terra e il profumo di Cristo sparso in tutto il mondo, poiché solo ora esso riempie tutta la casa [del mondo]» (B 904,92).

Un sacchetto di mirra è per me il mio diletto, posato tra i miei seni

Dal nardo si passa ad un’altra metafora, quella del sacchetto di mirra, anch’essa di carattere afrodisiaco.

 (Ct 1,13). «Si dice che le donne premurose di abbellirsi, non si preoccupano solo degli ornamenti esteriori al fine di piacere ai loro mariti ma piuttosto hanno cura di profumarsi il corpo per essere attraenti al coniuge. A questo scopo nascondono nelle pieghe della veste un unguento abbastanza forte e, così, mentre questo espande il suo odore anche il corpo assorbe la qualità dell'essenza. Se questa è la loro abitudine, quanto coraggio mostra questa nobile vergine! Ella dichiara: Tengo appeso al collo e porto sul petto un sacchetto e per mezzo di esso profumo il corpo. Non contiene alcun profumo eccetto che il Signore stesso il quale, diventato mirra, dimora nel sacchetto dell'anima, pernotta nel mio cuore. Gli studiosi affermano che la posizione propria del cuore si trova a metà tra i seni. Ora la sposa dichiara di aver messo il suo sacchetto proprio là, dove viene riposto il bene, come un tesoro. 

Si dice anche che il cuore è la fonte del nostro calore naturale e partendo di là esso si diffonde per tutto il corpo passando nelle vene; per mezzo di esso tutte le parti del corpo si rianimano e si vivificano, riscaldate dal tepore del cuore. La sposa, accogliendo nel vertice dell'anima il profumo del Signore e rendendo il suo cuore un sacchetto che contiene questa mirra, ottiene che tutte le attività della sua vita, come fossero le membra di un corpo, s'infiammino al soffio caldo che proviene dal cuore e che nessuna colpa raffreddi l'amore verso Dio in qualcuna delle membra di quel corpo» (B 908). 

Già Origene aveva interpretato: «Con mammelle intendi la principale facoltà del cuore, grazie alla quale la chiesa tiene a sé stretto Cristo e l’anima il Verbo di Dio, legato ai lacci del suo desiderio. Infatti, solamente colui che, nel suo cuore, tiene a sé stretto il Verbo di Dio, con tutto il suo affetto e con tutto il suo amore, potrà ricevere l’odore della sua fragranza e della sua dolcezza» (Origene, B 427)


Un grappolo di Cipro è per me il mio diletto, nelle vigne di Engaddi

(Ct 1,14). Il diletto ora viene paragonato ad un grappolo, un frutto che cresce in modo sui tralci della vite, a poco a poco. 

Origene, nel grappolo che si sviluppa sulla vite, aveva visto il cristiano che assimila le qualità del Cristo: la perfezione viene acquisita dal cristiano mediante «progressive gradazioni» (Origene, B 431). Teodoreto di Cirro riprenderà la sollecitazione: «Ritengo che in rapporto alle età spirituali un medesimo grappolo per alcuni sia fiorito, per altri acerbo, per altri stia maturando, per altri ancora sia maturo, ma credo che possa essere bevuto solo da chi ha raggiunto la perfezione» (cit. p. 86-86).

Con maggiore audacia, G. sostiene che è il Cristo stesso a svilupparsi, in modo graduale, in ogni battezzato che l’accoglie. Nel discepolo si riproduce il percorso umano che Egli ha vissuto col passare dall’infanzia all’adolescenza, fino all’acquisizione della maturità. La metafora esprime un evento reale e noi possiamo favorire (ma anche rallentare) lo sviluppo del processo di generazione del Cristo. 

Nell’Omelia XIII, G., riprendendo questo pensiero, dichiara che Cristo, rinascendo in ogni cristiano, viene generato un’infinità di volte, e ciò avviene senza un concepimento, proprio a somiglianza della sua nascita particolare (D 214). 

«Chi è divenuto tanto beato, anzi chi è giunto al colmo della beatitudine così che, guardando il risultato del suo lavoro, il grappolo della sua anima, possa vedere in esso lo stesso Padrone della vigna? (B 910,95)

Gesù, nato per noi come un bambino, cresce in sapienza, età e grazia nelle persone che lo accolgono, ma lo fa in modi diversi. Non si trova in tutti allo stesso modo ma appare come un bambino, come un adolescente o come un adulto a seconda della disponibilità di chi raccoglie e nella misura in cui ne è degno chi lo riceve. La stessa cosa capita anche ad un grappolo; non lo vediamo sulla vite sempre nella stessa forma ma cambia col passar del tempo, germoglia, fiorisce, raggiunge la forma piena e matura, infine diventa vino. La vite, dunque, assicura (la crescita) al suo frutto mentre questi non è ancora pronto per essere trasformato in vino ma deve aspettare il compimento della stagione adatta; benché, intanto, possa già offrire qualche piacere: infatti procura godimento all'odorato se non può darlo al gusto e mentre si attende il frutto rallegra i sensi dell'anima con un profumo che infonde speranza. In questo modo, l'aspettativa, fondata e infallibile, di coloro che sono in paziente attesa del frutto viene alleviata dalla speranza del dono. Lo stesso avviene per il grappolo di Cipro; esso promette il vino mentre non è ancora vino ma mostrando il fiore (la speranza è un fiore) conferma la certezza del dono futuro. L'aggiunta di Engaddi significa luogo prospero; radicandosi in esso, la vite produce un frutto gradito e dolce. Gli storici dei luoghi geografici dicono che l'eredità di Gad era adatta per la coltivazione della vite. Chi conforma la sua volontà alla legge divina e la medita giorno e notte, diventa un albero sempre verde; piantato lungo l'acqua corrente, porta frutto alla stagione adatta; per questo la vigna dello sposo, piantata in Engaddi, radicata e cresciuta in questo terreno ubertoso (ossia nella profonda conoscenza irrigata dagli insegnamenti divini) ha prodotto questo grappolo verdeggiante e fiorente, nel quale contempla il suo agricoltore e il suo coltivatore. Felice davvero questa coltivazione, il cui prodotto riflette la figura dello Sposo! Egli è la vera luce, la vera vita e la vera giustizia, come dichiara la Sapienza (Pr 1,3), e tutte le altre perfezioni, quando qualcuno ottiene queste virtù che sono lui stesso, allora, guardando nel grappolo della sua anima, vede in essa lo stesso Sposo, poiché contempla la luce della verità nella sua vita splendente e senza macchia» (B 912 e 914). 

Il tema della generazione di Cristo, nella Chiesa e in ogni credente, è ripreso in molti Padri a partire da Ireneo (Cf. G. Greshake, Maria-Ecclesia, Queriniana, Brescia 2017, pp. 139-161). Ambrogio: «Ogni anima che crede, concepisce e genera il Verbo di Dio. Se, secondo la carne, una sola è la madre di Cristo, secondo la fede tutte le anime geberano Cristo; ognuna infatti accoglie in sé il Verbo di Dio» (Commento al Vangelo di Luca, II,26 PL 16, 1561. Massimo il Confessore: «Il Verbo di Dio fu generato secondo la carne una volta per tutte. Ora, per la sua benignità verso l’uomo, desidera ardentemente nascere, secondo lo spirito, in coloro che lo vogliono e diviene bambino che cresce con il crescere delle loro virtù. Si manifesta in quella misura di cui sa che è capace chi lo riceve» (Cinquecento capitoli, I Centuria, 8 PG 90, 1182).


Sintesi


Il Verbo, volendo elogiare la sua amata a motivo dell’energia da lei mostrata nel combattimento spirituale, la paragona alla cavalleria invisibile, ossia alla potenza divina, che sbaragliò quella egiziana al Mar Rosso. Il battesimo veniva considerato come un’attualizzazione sacramentale del passaggio del Mar Rosso. La Sposa, rafforzata dalla grazia battesimale, ha potuto contrastare l’esercito del male fino ad annientarlo. L’energia per operare una vera conversione si trova nel sacramento del Battesimo, la cui grazia si prolunga nell’intera esistenza.

Gli amici della ragazza, volendo adornarla in modo degno del suo amato, si propongono di predisporre per lei ornamenti preziosi. Non viene usato l’oro stesso ma un altro metallo di qualità, simile ad esso. G. interpreta questi ornamenti come un dono parziale e provvisorio, pegno di un bene più grande. Il dono ancora limitato consiste nella conoscenza concettuale di Dio, una realtà eccellente, ma più povera in confronto all’esperienza di Lui. Soltanto la partecipazione a Dio è considerata oro. L’oro rappresenta la divinità ed ora la Sposa viene adornata, in ogni caso, con virtù che sono proprie di Dio. Ella, dal punto di vista concettuale, non può cogliere l’essenza divina in tutta la sua profondità, ma può partecipare ad essa e, infine, ospitare in lei il Signore (Cf Omelia II B 864). Divenendo simile a Lui, giunge a conoscerlo per esperienza, mediante la fede. Conoscerlo soltanto tramite nozioni razionali, per quanto sublimi, sarebbe troppo poco. L’anima, piuttosto, grazie alla fede, fa abitare in sé Colui che supera ogni comprensione. Il Dio incomprensibile, quindi, si comunica e viene conosciuto grazie alla fede. 

Il profumiere che prepara il nardo, compone un unguento che viene ottenuto dalla mescolanza di varie erbe odorose. Ora la Sposa ha fatto di se se stessa un nardo assimilando le varie virtù dello Sposo e ne espande, quindi la fragranza. Nel Vangelo si narra di una donna che versò il profumo sul capo di Gesù, riempiendo di buon odore tutta la casa dov’era stato ospitato (cf Gv 12,3). Fare di se stessa un nardo odoroso che ricorda il buon odore di Cristo è, ora, il compito di tutta la Chiesa. 

Il diletto, infne, viene paragonato ad un grappolo che cresce sul tralcio d’una vite. G. sostine, con audacia, che è il Cristo stesso a svilupparsi, in modo graduale, in ogni battezzato che l’accoglie. La metafora esprime un evento reale e noi possiamo favorire (ma anche rallentare) lo sviluppo del processo di conformazione a Cristo.




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