venerdì 28 febbraio 2025

Guardate a lui e sarete raggianti

Avvicinatevi al Signore e sarete illuminati È dolce, dice l'Ecclesiaste, questa luce (cfr. Qo 11, 7) ed è cosa assai buona per la vista dei nostri occhi contemplare questo sole visibile. Tolta infatti la luce, il mondo sarebbe senza bellezza e la vita senza anima. Perciò quel primo contemplativo di Dio che fu Mosè disse: E Dio vide la luce e disse che era una cosa buona (cfr. Gn 1, 3).

  Ma a noi conviene considerare la grande, vera ed eterna luce che «illumina ogni uomo che viene in questo mondo» (Gv 1, 9) cioè Cristo Salvatore e redentore del mondo, il quale, fattosi uomo, scese fino all'infimo grado della condizione umana.

Ha chiamato dolce la luce ed ha preannunziato come cosa buona il vedere coi propri occhi il sole della gloria, vale a dire colui che al tempo della divina incarnazione disse: «Io sono la luce del mondo; chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8, 12). 

Il Signore promise di sostituire la luce che vediamo cogli occhi corporei con quel sole spirituale di giustizia che è veramente dolcissimo per coloro che sono stati ritenuti degni di essere ammaestrati da lui. Essi hanno potuto vederlo con i loro occhi quando viveva e s'intratteneva in mezzo agli uomini come un uomo qualunque, mentre invece non era uno qualunque degli uomini. 

 Ma anche adesso è cosa veramente dolcissima volgere verso di lui gli occhi spirituali e contemplare e considerare la sua semplice e divina bellezza, essere illuminati e innalzati da questa stessa partecipazione e comunicazione, essere ricolmati di spirituale dolcezza, rivestirsi di santità, acquistare intelligenza, e infine essere ripieni di divina esultanza e sperimentarla tutti i giorni della vita presente. Infatti di ogni gioia è interamente autore il Sole di giustizia, per quelli che lo contemplano.

 Dalla «Spiegazione dell'Ecclesiaste» di san Gregorio di Agrigento, vescovo (Lib. 10, 2; PG 98, 1138-1139)



giovedì 27 febbraio 2025

Significato di pena temporale

INDULGENZA E PENA TEMPORALE

In che senso è legittima - anzi, insuperabile - la dimensione della "pena" nel sacramento della penitenza?

Se noi ritenessimo che la "pena" nel sacramento della penitenza sia solo un retaggio di un passato medioevale con cui non abbiamo più nulla a che fare, allora non solo rinunceremmo a comprendere fino in fondo che cosa sia la prassi indulgenziale, ma anche perderemmo il senso complessivo dello stesso sacramento della confessione. D'altra parte, quando accettiamo una dimensione propriamente "penitenziale" della confessione e siamo disposti ad ammettere la sua dimensione di "pena", abbiamo certo riconosciuto una giusta esigenza, ma non l'abbiamo ancora compresa. 

Per una comprensione teologica di questo concetto di "pena del peccato", così essenziale per un'adeguata concezione della penitenza e quindi anche delle indulgenze, non si deve partire dal modello che ci viene fornito dalle pene inflitte dal potere dello stato per un delitto commesso contro l'ordine pubblico. 

La concezione di "pena temporale" deve essere attinta da un diverso orizzonte, altrimenti si rischia di confondere Dio con il mondo, senza più comprendere la dimensione trascendente della grazia e della misericordia. Tale orizzonte è costituito dalla libertà dell'uomo e dal riconoscimento del suo carattere corporeo, legato alla sensibilità e alla materia. 

La "distanza", tra la decisione di mutare vita e la sua effettiva modificazione, questa discrepanza, sempre possibile e sempre dolorosa, tra volontà (nuova) e realtà (vecchia) rappresenta il luogo proprio delle "pene del peccato". Esse sono allora come il sopravvivere della decisione cattiva non più nella volontà, ma nell'oggettivazione corporea che di essa le precedenti espressioni/esperienze della volontà hanno lasciato in me, nel mondo e nel prossimo. Scopriamo che l'elemento salvaguardato dalla "pena" nel processo di conversione è precisamente il rapporto complesso e mai semplice, concreto e mai astratto, tra uomo nuovo e uomo vecchio, che il peccato, dopo il battesimo, mette a dura prova. In questo modo, attraverso concetti apparentemente astratti, il Medioevo ha preso sul serio la storicità dell'uomo, mentre la nostra insensibilità al tema non è altro che un volto della scarsa considerazione che abbiamo per quella storicità, che solo a parole diciamo di ritenere tanto decisiva. 

La colpa dell'uomo battezzato, quando emerge alla coscienza grazie al nuovo incontro con la parola salvifica che Dio gli rivolge, porta con sé, proprio con l'essere perdonata, il rovello del cambiamento, la fatica della realizzazione corporea, storica ed esistenziale di ciò che l'uomo ha scoperto riservato da Dio per lui. 

La confessione della colpa e la misericordia di Dio che scende sull'uomo sono il principio e il definitivo cambiamento dell'uomo ma non e non possono essere il mutamento storico della sua libertà, che resta libera (purtroppo e per fortuna) anche di fronte alla propria conversione. 

Infatti il sacramento della riconciliazione annuncia e realizza nuovamente il riconciliarsi, avvenuto in Cristo, di Dio con l'uomo. La grazia di Dio incontra la libertà dell'uomo e la libera, instillando la certezza che "se il nostro cuore ci condanna, Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa". Per questo, nel sacramento, non è centrale semplicemente l'offerta della grazia, ma anche la capacità di rispondere adeguatamente a quella grazia. Anzi, potremmo dire addirittura che il sacramento riprende l'offerta della grazia tipica dei sacramenti dell'iniziazione, ma ha come specificità di prendersi cura della risposta dell'uomo. È celebrazione della rinnovata possibilità che la grazia di Dio trovi risposta da parte del battezzato caduto nel peccato postbattesimale. 

La dimensione di preghiera comunitaria

La rimotivazione moderna del concetto di "pena temporale" ha cercato di interpretare l'indulgenza partendo non dal "potere delle chiavi", ma dalla "preghiera cristiana". In effetti, questa riflessione ci consente di pensare l'indulgenza come preghiera particolare della Chiesa, che essa innalza per i propri membri nella sua azione cultuale e nella preghiera per la loro completa purificazione; questa preghiera, nell'indulgenza, viene applicata solennemente e in modo particolare a un membro determinato. 

Con tale visione viene assicurato un duplice risultato: si assicura alla dimensione comunitaria, a quella relazione di comunione tra gli uomini che si chiama Chiesa, il ruolo di accompagnare e anche di intercedere per la sofferenza di un suo membro. «La Chiesa è in grado di avallare simile preghiera. Essa non è mai stata solo l'organizzazione burocratica esteriore della verità e dei mezzi di grazia. È l'unico corpo di Cristo, nel quale tutte le membra vivono, soffrono e raggiungono la perfezione; le une per le altre». 

Tale dimensione ecclesiale della preghiera per la penitenza di ogni singolo credente - che raggiunge una particolare evidenza nell'indulgenza costituisce anche il concetto di "tesoro della Chiesa", che corrisponde alla volontà salvifica propria di Dio e, a ben vedere, a Dio nella misura in cui tale volontà vive nel Cristo (capo) vittorioso ormai per sempre nel mondo: Cristo che è sempre voluto da Dio come primogenito tra molti fratelli e quindi con il suo corpo che è la Chiesa. Nell'indulgenza viene perciò alla luce la dinamica profonda con cui ogni penitente è chiamato a rispondere non solo con la sua volontà, ma anche con il suo corpo, con le sue scelte ulteriori, in ultima analisi con l'intera sua esistenza, alla parola di grazia che Dio ha voluto rivolgergli ancora una volta. 

Di fronte a tale parola, l'uomo non è dispensato dal rispondere in prima persona. È lui e solo lui a dover rispondere. Ma in questo non è solo. Gli sta accanto, lo accompagna, lo sollecita, lo implora, lo ammonisce, lo instrada, lo ascolta, lo consola la compagnia di Cristo e della Chiesa

La morte e risurrezione di Cristo, tesoro della Chiesa, è la parola irrevocabile di comunione di Dio con l'uomo, che come tale assume un'efficacia ordinaria nel cammino di penitenza dei cristiani penitenti, e un volto straordinario nella preghiera che costituisce e accompagna l'indulgenza. 

Andrea Grillo, Indulgenza. Storia e significato, San Paolo 2015 (passim)

mercoledì 26 febbraio 2025

Profezia

 LIBRO DEL PROFETA ABACUC 

Capitolo 1

Prima protesta: non ha più forza il diritto!

1 1Oracolo ricevuto in visione dal profeta Abacuc. 2Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti, a te alzerò il grido: «Violenza!» e non salvi? 3Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione? Ho davanti a me rapina e violenza e ci sono liti e si muovono contese. 4Non ha più forza la legge né mai si afferma il diritto. Il malvagio infatti raggira il giusto e il diritto ne esce stravolto. 

Abacuc protesta con Dio perché permette al male di dilagare mentre scompare del tutto la fraternità tra gli uomini. Le contese giudiziarie si moltiplicano e la società è dominata dalla violenza. Non c’è più rispetto della Legge, al punto che il prepotente raggira (machtir) con facilità il misero. L’attenzione è sui mali sociali; non compare in primo piano la lotta contro l’idolatria, come si riscontra in altri profeti. Grida (shivva’ti) e piange (ez’ak) per l’ingiustizia. Violenza e assenza di fraternità devono scuotere il credente di ogni tempo e considerarli fenomeni inaccettabili. 

Abacuc prolunga la sua invocazione inascoltata e formula una protesta. Questo fatto presuppone che egli goda d’una grande confidenza con Dio e una fiducia illimitata in Lui. È convinto che il Signore sia in grado rimediare al male e che solo lui possa farlo. È certo che Egli interverrà a motivo del suo amore e quindi che la sua noncuranza sia soltanto apparente o almeno temporanea. 

Nella Sacra Scrittura compare una protesta che è frutto di mancanza di fede e d’amore, chiamata mormorazione (Nm 14,36; 16,11; Gv 6,41; Fil 2,14) ma è attestata una protesta che si muove all’interno d’un dialogo accorato con Dio (Gb 7,19; Sal 6,4; 13,2). In questo secondo caso, chi solleva il lamento è anche pronto a passare al ringraziamento: «Fino a quando, Signore, starai a guardare? Libera la mia vita dalla loro violenza, dalle zanne dei leoni l’unico mio bene. Ti renderò grazie nella grande assemblea, ti loderò in mezzo a un popolo numeroso» (Sal 35,17-18). 

Nei momenti d’angoscia il credente ha la possibilità di parlare con Dio in modo sincero e spontaneo. «Affida al Signore il tuo peso ed egli ti sosterrà, mai permetterà che il giusto vacilli» (Sal 55,23). «Umiliatevi sotto la potente mano di Dio, affinché vi esalti al tempo opportuno, riversando su di lui ogni vostra preoccupazione, perché egli ha cura di voi» (1 Pt 5,6). 

Geremia, formulando una preghiera simile: «Le nostre iniquità testimoniano contro di noi, ma tu, Signore, agisci per il tuo nome! O speranza d’Israele, suo salvatore al tempo della sventura…, perché vuoi essere come un uomo sbigottito, come un forte incapace di aiutare? Eppure tu sei in mezzo a noi, Signore, il tuo nome è invocato su di noi, non abbandonarci!» (Ger 14,7-9). Dio agisce per il suo nome, per quello che Egli è e non per quello che siamo noi; agisce come Salvatore soprattutto nel momento della sventura e quando siamo più indegni del suo aiuto; vuole beneficare il suo popolo con una presenza continua e non saltuaria. 

Prima risposta: faccio sorgere i Caldei!

5«Guardate fra le nazioni e osservate, resterete stupiti e sbalorditi: c’è chi compirà ai vostri giorni una cosa che a raccontarla non sarebbe creduta. 6Ecco, io faccio sorgere i Caldei, popolo feroce e impetuoso, che percorre ampie regioni per occupare dimore non sue. 7È feroce e terribile, da lui sgorgano il suo diritto e la sua grandezza. 8Più veloci dei leopardi sono i suoi cavalli, più agili dei lupi di sera. Balzano i suoi cavalieri, sono venuti da lontano, volano come aquila che piomba per divorare. 9Tutti, il volto teso in avanti, avanzano per conquistare. E con violenza ammassano i prigionieri come la sabbia. 10Si fa beffe dei re, e dei capi se ne ride; si fa gioco di ogni fortezza: l’assedia e la conquista. 11Poi muta corso come il vento e passa oltre: si fa un dio della propria forza!». 

La risposta del Signore, anziché tranquillizare, può esasperare l’inquietudine del profeta. 

vv. 5-6 Invita Abacuc ad osservare ciò che sta accadendo. I Babilonesi, denominati Caldei (hakkasdim), stanno emergendo sulla scena mondiale, suscitando grande amarezza e preoccupazione da parte degli altri sovrani che non si aspettavano una novità così perturbante. Infatti l’unica legge che riconoscono è la loro volontà di dominio. 

Il vv. 8-9 fanno risaltare la tempestività dell’avanzata dei Caldei (o Babilonesi); vengono paragonati a leopardi, a lupi famelici che si gettano sulla preda, ad aquile predatrici. Sono protesi in avanti come i corridori, intenti soltanto ad assogettare gli altri popoli. Gli uomini, quando adottano un comportamento violento, vengono assimilati ad animali feroci, come se non fossero più riconoscibili come vere persone umane

vv. 9-11 Passano veloci come una bufera di vento. Il risultato della conquista è il gran numero di prigionieri catturati e delle fortezze occupate. Disprezzando ogni altra autorità, “venerano” la loro volontà di dominio. 

A motivo della potenza dispiegata, applicata con ferocia, Babilonia diventa d’ora in avanti il simbolo del male che opprime la storia degli uomini (Cf Sal 137,8; Is 21,9; 47.1; 1 Pt 5,13; Ap 14,8). 

L’aspetto più sorprendente di questo passo (1,5-11) emerge nel v.6. dove viene detto che la devastazione è suscitata da Dio. Nei versetti precedenti il profeta si mostrava stupito che il Signore gli facesse vedere (tare’eni) e osservare (tabbit) l’iniquità, senza impedire il prevalere del male. Nella risposta il Signore rende più grave la sua responsabilità perché non solo si limita ad osservare la situazione senza intervenire, come ha pensato Abacuc, ma dichiara di essere corresponsabile del fatto più drammatico che si sta verificando. 

Lo costringe ad osservare con attenzione ciò che sta consentendo che accada. Un passo del Deuteronomio conferma la spietatezza di Babilonia ma precisa ancora più chiaramente di quanto ha insinuato Abacuc che il suo espandersi è consentito da Dio: «Il Signore solleverà contro di te da lontano, dalle estremità della terra, una nazione che si slancia a volo come l’aquila: una nazione della quale non capirai la lingua, una nazione dall’aspetto feroce, che non avrà riguardo per il vecchio né avrà compassione del fanciullo. Mangerà il frutto del tuo bestiame e il frutto del tuo suolo, finché tu sia distrutto. Ti assedierà in tutte le tue città, finché in tutta la tua terra cadano le mura alte e fortificate, nelle quali avrai riposto la fiducia» (Dt 28,49-52). Per bocca di Geremia, chiama il re di Babilonia «mio servo» (Ger 25,9).

Gli eventi drammatici che si stanno verificando sono ciò che Dio che vuole (o meglio permette) che avvenga. L’esplosione della malvagità, simile ad un’eruzione vulcanica, sfugge del tutto al controllo degli uomini ma è conosciuta e dominata da Dio. Si trova sotto il suo sguardo. L’uomo non può rasserenarsi nel verificare ciò che vede ma può confidare nella visione che ne ha Dio. «Ciò che tu osservi, o uomo, è già visto anche da me e questo ti basti!». 

Ottenuta questa risposta dal Signore, il disappunto di Ab non s’acquieta. È facile che il lettore condivida il disagio del profeta e lo accompagni nella ricerca di ottenere una risposta più persuasiva. 


Seconda protesta: gli uomini sono come pesci?

12Non sei tu fin da principio, Signore, il mio Dio, il mio Santo? Noi non moriremo! Signore, tu lo hai scelto per far giustizia, l’hai reso forte, o Roccia, per punire. 13Tu dagli occhi così puri che non puoi vedere il male e non puoi guardare l’oppressione, perché, vedendo i perfidi, taci, mentre il malvagio ingoia chi è più giusto di lui? 14Tu tratti gli uomini come pesci del mare, come animali che strisciano e non hanno padrone. 15Egli li prende tutti all’amo, li pesca a strascico, li raccoglie nella rete, e contento ne gode. 16Perciò offre sacrifici alle sue sciàbiche e brucia incenso alle sue reti, perché, grazie a loro, la sua parte è abbondante e il suo cibo succulento. 17Continuerà dunque a sguainare la spada e a massacrare le nazioni senza pietà? 

Abacuc non è soddisfatto dal sapere che gli eventi di cui è spettatore sono conosciuti e dominati dal Signore ma cerca rassicurazioni più persuasive e più pacificanti. Dio può pazientare all’infinito, gli uomini no! Soprattutto vuole sentir pronunciare da Dio la promessa che Israele non verrà annientato: «Noi non moriremo». Dai tempi antichi, dall’epoca dei patriarchi e degli eventi dell’Esodo, Dio ha voluto mostrarsi come alleato del suo popolo e per questo motivo Israele è certo che non verrà meno. 

Abacuc, cercando di capire il senso degli avvenimenti, formula l’ipotesi che essi siano una punizione comminata da Dio, il quale non ostacolerebbe i Caldei perché Israele non meriterebbe alcun soccorso, anzi avrebbe bisogno di sperimentare una severa correzione. Considera probabile questa ipotesi ma ritiene che non sia in grado di offrire una spiegazione adeguata, anzi sia più problematica che risolutiva. Egli pensa: se Dio giustamente detesta la violenza e non può tollerare il dilagare della malvagità, a maggior ragione, dovrebbe intervenire proprio contro i Caldei. Oltretutto, per quanto sia peccatore, Israele è migliore di loro e non ha mostrato una perversità pari alla loro. Israele, poi, non sta subendo una punizione severa, per quanto meritata, ma sta rischiando d’essere annientato. 

Dall’attenzione sul suo popolo, Abacuc spinge lo sguardo su ciò che avviene ovunque. Babilonia sta comportandosi come un avido pescatore che continua a catturare pesci indifesi, uomini inermi. Accortasi della possibilità di ottenere una pesca molto abbondante, continua a lanciare il suo amo. Adopera anzi una rete a strascico. Gode del pescato ottenuto e venera gli strumenti del suo successo. 

Babilonia agisce come tanti altri potentati brutali. Dio, che dovrebbe aver cura delle sue creature, sembra trascurarle come se non contassero nulla. Il profeta si rivolge al Signore senza alcuna remora. Non dubita di lui e continua a mostrare grande rispetto ma non soffoca la sua angoscia né attenua la forza della sua protesta. 

Capitolo 2

La seconda risposta di Dio alla sentinella solerte

2 1Mi metterò di sentinella, in piedi sulla fortezza, a spiare, per vedere che cosa mi dirà, che cosa risponderà ai miei lamenti. 2Il Signore rispose e mi disse: «Scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette, perché la si legga speditamente. 3È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà. 4Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede». 

v.1 Attribuisce a se stesso il compito della sentinella che deve prestare attenzione a ciò che sta accadendo. Altri profeti avevano paragonato se stessi ad una sentinella (Cf Is 21,8; Ez 3,17. 33,7; Os 9,8). Se si pone in attesa d’una risposta, perché è convinto che Dio voglia venirgli incontro. 

Non ritiene d’aver parlato con presunzione o di essere stato privo di rispetto nei confronti di Dio a motivo della sua vivace rimostranza (thocahthy) e spera che egli non la rifiuti. 

v.2 Il Signore non può non provare pietà. Riconosce la gravità della situazione e l’angoscia del profeta. Non è rimasto offeso dalla sincerità e dall’ardimento del suo interlocutore. Pur stando al di sopra di tutto, comprende la situazione in cui versa l’umanità e sa che gli interrogativi espressi dal suo profeta non sono segni di intemperanza ma un umile ricorso all’unico che accetta di rispondere e può salvare. 

Invita Abacuc a scrivere su tavolette il messaggio che gli rivolge in modo personale. Scrivere è rendere pubblica la rivelazione ricevuta ma anche perpetuarla nel tempo. In questo modo deve esporsi davanti a tutti e sollecitare tutti a condividere il suo atto di fede. I fedeli ansiosi hanno la possibilità di esseri rinfrancati dalla premura con la quali il Signore viene incontro alla loro angoscia. 

La promessa del Signore non si adempie nell’immediato ma neppure in un futuro troppo lontano. Egli ha fissato una scadenza precisa, prossima all’attesa dei suoi fedeli. 

Dio stabilisce delle scadenze ma queste non possono essere fissate dagli uomini. Stabilire delle scadenze o pretendere di far coincidere i progetti di Dio con le nostre attese è agire senza fede. Ricordiamo le parole sagge di Giuditta: «Se non siete capaci di scrutare il profondo del cuore dell’uomo né di afferrare i pensieri della sua mente, come potrete scrutare il Signore, che ha fatto tutte queste cose, e conoscere i suoi pensieri e comprendere i suoi disegni? No, fratelli, non provocate l’ira del Signore, nostro Dio. Se non vorrà aiutarci in questi cinque giorni, egli ha pieno potere di difenderci nei giorni che vuole o anche di farci distruggere dai nostri nemici. E voi non pretendete di ipotecare i piani del Signore, nostro Dio, perché Dio non è come un uomo a cui si possano fare minacce, né un figlio d’uomo su cui si possano esercitare pressioni. Perciò attendiamo fiduciosi la salvezza che viene da lui, supplichiamolo che venga in nostro aiuto e ascolterà il nostro grido, se a lui piacerà» (Gdt 8,14-17).

La risposta ultima del Signore viene incontro al dubbio più lacerante che inquieta il cuore di Abacuc. Nonostante la gravità della minaccia che incombe, Israele continuerà a sussistere, mentre la proterva Babilonia scomparirà dalla scena. L’essenziale della seconda risposta sta in questo. Non c’è, quindi, una risposta sul motivo per cui Dio permetta il male ma viene fatto conoscere in che modo l’uomo possa avere la forza di sfuggire a quanto può accadere (Lc 21,36).

Il contenuto del responso possiede una valenza tale da superare la circostanza storica in cui è stato espresso. La risposta contiene un messaggio che è valido per sempre perché ribadisce l’importanza decisiva della fede. Dio costruisce il futuro dell’uomo servendosi della collaborazione di chi crede in lui e s’affida a lui. Esaminiamo con maggior attenzione il contenuto del messaggio affidato ad Abacuc e a tutto l’Israele fedele a Dio, rappresentato dal profeta. 

La vittoria del giusto

Babilonia è descritta come un uomo il cui istinto vitale è ingordigia, il cui orientamento di vita è distorto: «Ecco è gonfia d’orgoglio e la sua brama in lui non è retta». Vuole divorare le ricchezze e i beni di tutti i popoli, non si ferma neppure davanti allo sterminio. È come il regno dei morti (kish’ol): «spalanca come gli inferi le sue fauci e come la morte non si sazia» (2,5). 

Israele, invece, viene chiamato giusto: «Il giusto vivrà per la sua fede (vetzaddik be’emunato yichyeh)». «Ho visto un malvagio trionfante, gagliardo come cedro verdeggiante; sono ripassato ed ecco non c’era più, l’ho cercato e non si è più trovato. Osserva l’integro, guarda l’uomo retto: perché avrà una discendenza l’uomo di pace» (Sal 37,35ss).

Giusto è l’uomo osservante della ma il termine presenta altre accezioni. 

1) Il giusto è la persona che si fida di Dio nelle situazioni drammatiche dell’esistenza, quando credere alla promessa di Dio diventa molto difficile. Leggendo la storia del patriarca Abramo troviamo che questi fu stimato da Dio come giusto perché ebbe grande fiducia in lui. Confidò nell’adempimento della sua promessa per la quale egli avrebbe potuto generare un figlio quando questo sembrava impossibile che si realizzasse (Gen 15,6). Ancora di più, nella circostanza del sacrificio d’Isacco, pensò che Dio avrebbe potuto restituire il figlio strappandolo anche dalla morte. Era convinto che Dio fosse capace di chiamare le cose all’esistenza dal nulla e far risorgere perfino dai morti. [San Paolo celebra la fede di Abramo per questa estrema fiducia nella sua benevolenza e non per altri motivi (Cf Rm 4)]. 

Ciò che ora viene richiesta ad Abacuc è una fede pari a quella espressa dal patriarca. Nelle gravissime condizioni del momento storico, mentre Israele sembra ormai destinato a perire insieme ad altre genti, è esortato a credere in una continuità di vita, per opera della fedeltà di Dio. La fiducia nella fedeltà di Dio rende il credente un giusto. Per questo sentire, viene stimato da Dio, anche se non potesse vantare un’osservanza inappuntabile. 

2) Il giusto è il povero oppresso. Ecco un testo chiarificatore: «Non impareranno dunque tutti i malfattori, che divorano il mio popolo come il pane e non invocano il Signore? Ecco, hanno tremato di spavento, perché Dio è con la stirpe del giusto. Voi volete umiliare le speranze del povero, ma il Signore è il suo rifugio» (Sal 14,5-6). In questo testo, il popolo d’Israele è denominato dapprima giusto e poi povero. I malfattori (gli imperi predatori) non invocano Dio, non sono aperti a lui, anzi si sostituiscono a lui. Presi da autosufficienza arrogante, cercano d’annientare il popolo di Dio, ma Egli si schiera dalla parte del perseguitato e in futuro gli aguzzini dovranno tremare di spavento. Israele è giusto semplicemente perché, nella sua povertà, invoca Dio. Quasi costretto dalla sua situazione d’impotenza, si apre alla speranza nel Signore. Dal momento che l’oppressore tenta di avvilire e di schiacciare il misero che confida in Dio, per questo stesso motivo lo rende solido ed invincibile perché attiva la solidarietà del Signore nei suoi confronti. 

Sofonia presenta un modo simile di vedere le cose. Secondo lui, il povero ideale non è soltanto il misero sofferente. Piuttosto è colui che, mentre si trova in situazioni sfavorevoli o drammatiche, pone la sua totale fiducia e speranza in Dio: «Lascerò in mezzo a te un popolo umile e povero. Confiderà nel nome del Signore il resto d’Israele» (Sof 3,12). È un dono prezioso di Dio, saper sperare contro ogni speranza. Questa scienza è la caratteristica del povero in spirito. 

La rivelazione consegnata al profeta contiene un messaggio semplice ma fondamentale: il giusto perseguitato continuerà a vivere a motivo della sua fede nei confronti del Signore. Vivrà, in ultima analisi, perché si mostra certo della fedeltà del Signore verso di lui. 

È un messaggio, come ho detto, che va ben oltre il momento storico in cui il profeta l’ha pronunciato. È stato ripreso da san Paolo per annunciare un elemento fondamentale della vita in Cristo, ossia la giustificazione per fede. 

L’apostolo denuncia anch’egli i mali della società, in linea con la critica dei profeti, evidenziando come non esista un solo uomo che sia privo di peccato (Rm 3,23-24). Gli uomini da soli non sono in grado di uscire dalla loro situazione dolorosa ma hanno bisogno di un intervento solidale da parte di Dio, che non intende abbandonare l’umanità a se stessa. Paolo annuncia l’intervento decisivo operato dal Signore. Egli invia il Redentore, che è stesso Figlio di Dio, Gesù. Divenuto gradito a Dio Padre per la sua fedeltà fino alla croce, può intercedere per tutti. Grazie all’intercessione di Gesù, gli uomini ottengono il perdono dei peccati e il dono dello Spirito Santo che li rende capaci di vivere come visse Gesù. Ora il giusto è l’uomo che, venendo a conoscere l’opera misericordiosa di Dio, l’accoglie nello stupore e si fida della sua misericordia. L’uomo era destinato alla morte a motivo del Peccato, un dominatore più crudele di Babele, ma ora può sperare di vivere per la redenzione di Gesù. 

Come ho già rilevato, il giusto delineato dal Vangelo percorre un cammino simile a quello del patriarca Abramo. Come questi, confida nella misericordia di Dio e crede che Egli sia sia in grado di suscitare la vita là dove ormai la morte, provocata dal peccato, sembra avere il dominio incontrastato. 

Il messaggio di Abacuc ha ottenuto, quindi, una risonanza molto vasta, imprevedibile per il profeta stesso. 

Da qui in avanti il libro si dilata in due direzioni: da una parte troviamo esposta e ribadita la malvagità di Babilonia, minacciata dal giudizio del Signore nella forma di cinque “guai”; dall’altra troviamo un inno e una supplica a Dio che sembra la risonanza nel cuore del profeta della risposta ricevuta. 

Il punto cruciale di Abacuc è un acuto problema di teodicea. «Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?» (Gen 18,25). Già la fede di Abramo aveva dovuto raccogliere la stessa sfida e misurarsi con Dio in un aperto confronto dialogico dall'esito incerto, per arrivare a un grado maggiore di conoscenza del mistero. La forma letteraria impiegata è la lamentazione, cui viene impressa però una diversa prospettiva rispetto al passato. Vi è ancora l'eco del lamento tipico dei Profeti prima dell'esilio che denunciano l'infedeltà del Popolo a fronte della Giustizia di Dio ma qui risuona quella del dopo esilio di cui l'esperienza della vittima (giusta almeno in relazione all'oppressore) induce a mettere in discussione la rettitudine del Signore. Il suo modo di fare giustizia risulta infatti problematico: se egli usa pazienza, l'ingiusto prospera a danno dei deboli indifesi; se invece punisce, sembra farlo indiscriminatamente e anche i giusti vengono colpiti. La risposta a questo dilemma si scorge nel culmine teologico Abacuc che raggiunge in 2,4 all'interno di un oracolo profetico annunciato nella forma di una massima sapienziale. Il giusto non è chi compie opere buone, ma è la vittima del violento. Dio non sembra intervenire in sua difesa e per questo il profeta protesta. A un primo lamento accusatorio del Profeta secondo la logica del Riv, era già seguita una risposta Divina: l'affermazione della sovranità di Dio sulla storia. Insoddisfatto, aveva replicato, e adesso vi è questa nuova risposta: il giusto oppresso (che è la vittima innocente del malvagio), ma a patto che mantenga e custodisca la sua fedeltà. Tale atteggiamento credente assume con coraggio la prospettiva paziente che arriva a sostenere il martirio, nella certezza che l'ultima parola sarà comunque del Dio della vita. Come per Giobbe la vera risposta del problema della sofferenza del giusto non va tanto cercata in qualche mirabile formulazione teologica. Dio risponde, solo chi accetta di coinvolgersi in modo autentico in questo rapporto, nella fede (Luca 18,38) perché la risposta è già contenuta, serbata e pronta a svelarsi, in questa esperienza esperienza di comunione sofferta. Il giusto quindi vivrà, ma mediante la fede/fedeltà che si esprime in questo stesso rapporto. (Da “La Bibbia. Scrutate le Scritture”, San Paolo 2020, p. 2297).

Cinque denunce minacciose (“Guai”)

5La ricchezza rende perfidi; il superbo non sussisterà, spalanca come gli inferi le sue fauci e, come la morte, non si sazia, attira a sé tutte le nazioni, raduna per sé tutti i popoli. 6Forse che tutti non lo canzoneranno, non faranno motteggi per lui? Diranno: «Guai a chi accumula ciò che non è suo, – e fino a quando? – e si carica di beni avuti in pegno!». 7Forse che non sorgeranno a un tratto i tuoi creditori, non si sveglieranno e ti faranno tremare e tu diverrai loro preda? 8Poiché tu hai saccheggiato molte genti, gli altri popoli saccheggeranno te, perché hai versato sangue umano e hai fatto violenza a regioni, alle città e ai loro abitanti. 

9Guai a chi è avido di guadagni illeciti, un male per la sua casa, per mettere il nido in luogo alto e sfuggire alla stretta della sventura. 10Hai decretato il disonore alla tua casa: quando hai soppresso popoli numerosi hai fatto del male contro te stesso. 11La pietra infatti griderà dalla parete e la trave risponderà dal tavolato. 

12Guai a chi costruisce una città sul sangue, ne pone le fondamenta sull’iniquità. 13Non è forse volere del Signore degli eserciti che i popoli si affannino per il fuoco e le nazioni si affatichino invano? 14Poiché la terra si riempirà della conoscenza della gloria del Signore, come le acque ricoprono il mare. 

15Guai a chi fa bere i suoi vicini mischiando vino forte per ubriacarli e scoprire le loro nudità. 16Ti sei saziato d’ignominia, non di gloria. Bevi anche tu, e denùdati mostrando il prepuzio. Si riverserà su di te il calice della destra del Signore e la vergogna sopra il tuo onore, 17poiché lo scempio fatto al Libano ricadrà su di te e il massacro degli animali ti colmerà di spavento, perché hai versato sangue umano e hai fatto violenza a regioni, alle città e ai loro abitanti. 18A che giova un idolo scolpito da un artista? O una statua fusa o un oracolo falso? L’artista confida nella propria opera, sebbene scolpisca idoli muti. 

19Guai a chi dice al legno: «Svégliati», e alla pietra muta: «Àlzati». Può essa dare un oracolo? Ecco, è ricoperta d’oro e d’argento, ma dentro non c’è soffio vitale. 20Ma il Signore sta nel suo tempio santo. Taccia, davanti a lui, tutta la terra!

Capitolo 3

Lode e supplica

La preghiera di Abacuc è la risonanza personale alla risposta ricevuta da Dio che gli assicurava che il giusto avrebbe continuato a vivere grazie alla sua fede. La preghiera, soprattutto la lode, è sempre la risposta migliore alla parola ricevuta. 

Egli è in sintonia con il salmista: «Se cammino in mezzo al pericolo, tu mi ridoni vita; contro la collera dei miei avversari stendi la tua mano e la tua destra mi salva. Il Signore farà tutto per me. Signore, il tuo amore è per sempre: non abbandonare l'opera delle tue mani» (Sal 138,7-8). 

2Signore, ho ascoltato il tuo annuncio, Signore, ho avuto timore e rispetto della tua opera. Nel corso degli anni falla rivivere, falla conoscere nel corso degli anni. 

v. 2 Ha conosciuto il nome, la fama di Dio e ha udito il racconto delle grandi azioni del Signore. È ben consapevole della rinomanza che Dio si è procurato con l’operare le grandi meraviglie del passato, le quali suscitano ancora stupore e rispetto profondo nel suo animo. Chiede che Egli le mantenga in vita (hayyehu) e le manifesti nel presente (e nel futuro). 

Nello sdegno ricòrdati di avere clemenza.

Lo sconvolgimento determinato dai fatti perturbanti (be roghez) che stanno accadendo, deve essere dominata dallo “sconvolgimento” delle viscere materne del Signore (rachem tizkor). La misericordia di Dio deve superare la sua giustizia; il rinnovamento deve vincere il peccato. Dove abbonda il peccato, sovvrabbonda la grazia. 

3Dio viene da Teman, il Santo dal monte Paran. La sua maestà ricopre i cieli, delle sue lodi è piena la terra. 4Il suo splendore è come la luce, bagliori di folgore escono dalle sue mani: là si cela la sua potenza

v. 3 a Il profeta descrive la venuta del Signore (Eloha) che si è fatto conoscere al Sinai. Teman e Paran sono situate a sud-est di Giuda, regioni abitate da Edom, le prime percorse da Israele nel cammino dell’esodo. È rievocata, quindi, l’uscita dall’Egitto, un evento di liberazione che ora si sta rinnovando. Dio viene a salvare il suo popolo, il suo consacrato, in un nuovo Esodo (v.13). 

v.3 b Il suo splendore (la sua maestà) copre i cieli come se fossero avvolti da una nube luminosa e la sua lode riempie la terra. 

La terra è piena di violenza (Gen 6,10; Ez 9,9) e d’inquietudine (Sap 9,15) ma, proprio per questo, l’intervento della misericordia di Dio diventa più sollecito così che essa diventi piena della gloria di Dio (Is 6,3; Sal 72,19); piena del suo amore (Sal 34,5), della sua giustizia (Sal 48,11) o delle sue lodi. «La misericordia non è necessaria dove non c'è miseria. Sulla terra abbonda la miseria dell'uomo e sovrabbonda allora la misericordia di Dio» (Agostino PL 36,287).

v. 4 Il suo splendore è luminoso. Bagliori, raggi potenti [corni] escono dalle sue mani con le quali agisce con grande forza. L’apparizione di Dio è così luminosa da abbagliare, da renderlo perciò invisibile. «Sei rivestito [Signore] di maestà e di splendore, avvolto di luce come di un manto» (Sal 104,1-2). «Abita una luce inaccessibile: nessuno fra gli uomini lo ha mai visto né può vederlo» (1 Tm 6,16).

5Davanti a lui avanza la peste, la febbre ardente segue i suoi passi. 6Si arresta e scuote la terra, guarda e fa tremare le nazioni; le montagne eterne vanno in frantumi, e i colli antichi si abbassano, i suoi sentieri nei secoli. 7Ho visto le tende di Cusan in preda a spavento, sono agitati i padiglioni di Madian. 

v.5 La peste è simbolo delle gravi punizioni contro quelli che gli resistono e si rifiutano di credere a lui. «Diede in preda alla peste la loro vita» (Sal 78,50; Cf Dt 32,24). Nulla può resistere di fronte alla sua energia. «Il Signore avanza come un prode» (Is 42,13). Ora il Signore intende devastare le potenze che vogliono annientare il suo popolo (v.12), in modo particolare Babilonia. L’incedere del Signore suscita un forte timore nella natura (colli e montagne) e nei popoli nomadi del deserto (Cusan e Madian). 

8Forse contro i fiumi, Signore, contro i fiumi si accende la tua ira o contro il mare è il tuo furore, quando tu monti sopra i tuoi cavalli, sopra i carri della tua vittoria? 9Del tutto snudato è il tuo arco, saette sono le parole dei tuoi giuramenti. Spacchi la terra: ecco torrenti; 10i monti ti vedono e tremano, un uragano di acque si riversa, l’abisso fa sentire la sua voce e in alto alza le sue mani. 

Dio contrasta vigorosamente l’irrompere del caos, immaginato come un violento fortunale sul mare che è pensato come abitato da mostri. «I quattro venti del cielo si abbattevano impetuosamente sul Mare Grande e quattro grandi bestie, differenti l’una dall’altra, salivano dal mare» (Dan 7,2-3). Nel passaggio del Mar Rosso il Signore aveva combattuto contro le forze che contrastavano la sua opera liberatrice: «Allora gli Egiziani dissero: “Fuggiamo di fronte a Israele, perché il Signore combatte per loro contro gli Egiziani!”» (Es 14,25). «Hai riscattato il tuo popolo con il tuo braccio. Ti videro le acque, o Dio, ti videro le acque e ne furono sconvolte; sussultarono anche gli abissi. Le nubi rovesciavano acqua, scoppiava il tuono nel cielo; le tue saette guizzavano. Il boato dei tuoi tuoni nel turbine, le tue folgori rischiaravano il mondo; tremava e si scuoteva la terra. Guidasti come un gregge il tuo popolo per mano di Mosè e di Aronne» (Sal 77,16-20). 

11Il sole, la luna rimasta nella sua dimora, al bagliore delle tue frecce fuggono, allo splendore folgorante della tua lancia. 12Sdegnato attraversi la terra, adirato calpesti le nazioni. 13Sei uscito per salvare il tuo popolo, per salvare il tuo consacrato. Hai demolito la cima della casa del malvagio, l’hai scalzata fino alle fondamenta. 14Con le sue stesse frecce hai trafitto il capo dei suoi guerrieri che irrompevano per disperdermi con la gioia di chi divora il povero di nascosto. 15Calpesti il mare con i tuoi cavalli, mentre le grandi acque spumeggiano

v.11 Continua la descrizione della lotta vittoriosa del Signore contro il caos, che si ripresenta nelle nazioni nemiche invasori. La battaglia ha una risonanza sulla natura come accadde con Giosuè a Gabaon (Gs 10.12), al punto da coinvolgere il sole e la luna. Un’opera divina esercita una sua forte influenza sul mondo perciò il cosmo manifesta la sua partecipazione all’evento, come accadde alla morte di Gesù: «A mezzogiorno si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del pomeriggio» (Mt 27,45). 

v. 12 Il Signore calpesta tutte le nazioni con sdegno. Calpestare fino a ridurre in polvere segnala una vittoria significativa (Cf 2 Re 13,7). Compie ciò che fanno le superpotenze ma quest’ultime calpestano per opprimere mentre il Signore per annientare i loro progetti iniqui. «Rende vani i pensieri degli scaltri, perché le loro mani non abbiano successo. Egli sorprende i saccenti nella loro astuzia e fa crollare il progetto degli scaltri» (Gb 5,13.14). «Secca l’erba, appassisce il fiore ma la Parola del nostro Dio dura sempre» (Is 40,8). «Conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo, progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza» (Ger 29,11).

Il salmo 33 offre un’indicazione dello stesso genere. Dio annulla i disegni [iniqui] delle nazioni e rende vani i progetti [nefasti] dei popoli (v.10). La dispersione avvenuta alla torre di Babele è esemplare in questo senso. Contro quei progetti deteriori, fa valere il suo, elaborato nel suo cuore, un piano dalla durata eterna (v.11). Inutile opporre i mezzi della presunta onnipotenza umana, simboleggiata nel grande esercito o nei prodi violenti e presuntuosi (v.16). Chi sarà il vincitore? «Ecco l’occhio del Signore è su chi lo teme, su chi spera nel suo amore» (v.18). Questi supera le situazioni di morte e viene nutrito misteriosamente in tempo di fame. «Chi fa affidamento sui carri, chi sui cavalli: noi invochiamo il nome del Signore, nostro Dio. Quelli si piegano e cadono, ma noi restiamo in piedi e siamo saldi» (Sal 20,9). 

In ultima istanza, il Signore annienta i peccati e i vizi degli uomini, non le persone; calpesta il peccato e la morte. «È necessario infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi» (1 Cor 15,25). 

V.13 Annuncia la demolizione totale della casa del malvagio che è lieto di divorare il misero. «Il Signore ha rovesciato i troni dei potenti, al loro posto ha fatto sedere i miti. Il Signore ha estirpato le radici delle nazioni, al loro posto ha piantato gli umili. Il Signore ha sconvolto le terre delle nazioni e le ha distrutte fino alle fondamenta. Non è fatta per gli uomini la superbia né l’impeto della collera per i nati da donna» (Sir 10,14-18). «Dio li scuoterà dalle fondamenta... Si presenteranno tremanti al rendiconto dei loro peccati; le loro iniquità si ergeranno contro di loro per accusarli» (Sap 4,19-20). 

16Ho udito. Il mio intimo freme, a questa voce trema il mio labbro, la carie entra nelle mie ossa e tremo a ogni passo, perché attendo il giorno d’angoscia che verrà contro il popolo che ci opprime. 17Il fico infatti non germoglierà, nessun prodotto daranno le viti, cesserà il raccolto dell’olivo, i campi non daranno più cibo, le greggi spariranno dagli ovili e le stalle rimarranno senza buoi. 18Ma io gioirò nel Signore, esulterò in Dio, mio salvatore. 19Il Signore Dio è la mia forza, egli rende i miei piedi come quelli delle cerve e sulle mie alture mi fa camminare

Riferisce il sentimento provato nell’ascoltare l’annuncio del Signore e nel contemplare la manifestazione luminosa della sua gloria. Il sentimento più importante sta nella fiducia del compimento della promessa divina. Spesso la manifestazione di Dio suscita reazioni sconvolgenti: «Quando la [gloria del Signore] vidi, caddi con la faccia a terra» (Ez 1,28). «Vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato… E dissi: sono perduto!» (Is 6,5). Soltanto dopo la Pasqua di Gesù, ogni battezzato «ottiene la libertà di accedere a Dio in piena fiducia» (Ef 3,12). 

Abacuc continua a soffrire per le conseguenze dell’invasione dei Caldei che ha devastato la campagna. Geremia aveva profetizzato la rovina causata dalla guerra: «[Babilonia] divorerà le tue messi e il tuo pane, divorerà i tuoi figli e le tue figlie, divorerà le greggi e gli armenti, divorerà le tue vigne e i tuoi fichi» (Ger 5,17). 

Ciò nonostante continua a sperare nel Signore e la speranza gli infonde una gioia profonda. «Allora troverai la delizia nel Signore» (Is 58,14). «Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove, sapendo che la vostra fede, messa alla prova, produce pazienza. E la pazienza completi l’opera sua in voi, perché siate perfetti e integri, senza mancare di nulla» (Gc 1,2-4). «È retto di cuore l'uomo che, soffrendo per quanto gli accade, non ritiene che Dio sia insipiente. Un legno storto, anche se lo collochi sopra un pavimento liscio, non si adagia ma sempre si muove e traballa; così anche il tuo cuore, finché è distorto, non può allinearsi con la rettitudine di Dio, così da aderire a Lui» (Agostino, PL 36,273.274).


martedì 25 febbraio 2025

Padre nostro (A. BARBI)

Introduzione

Introdotto con l'espressione «così dunque pregate voi», il Padre nostro (Mt 6,9-13) si presenta come l'indicazione della preghiera tipica del discepolo che si contrappone a quella dei pagani.

La versione matteana del Padre nostro è più lunga di quella di Luca (11,2-4). L'opinione più diffusa tra gli esegeti è che non sia stato Luca ad accorciare ma sia stata la versione matteana a subire allargamenti, un fenomeno quest'ultimo tipico dei testi liturgici frequentemente utilizzati. Cosl l'aggiunta alla semplice invocazione «Padre» dell'espressione «nostro nei cieli» sembra doversi attribuire alla redazione matteana o alla sua comunità. 

Anche l'allargamento con la terza domanda sul compimento della volontà divina, sia per il vocabolario che per la prospettiva, è dovuto a Matteo (in aggancio forse alla tradizione della sua comunità e anche a preghiere di stampo giudaico). Infine anche l'invocazione positiva «ma liberaci dal male», agganciata alla sesta domanda, pur potendo essere nata in circoli giudeo-cristiani, è entrata nel Padre nostro ad opera di Matteo. Con queste aggiunte la versione matteana appare ben equilibrata: dopo l'invocazione appellativa iniziale, si presentano tre richieste dove si evidenzia il «tuo» e tre richieste dove prevale il «noi-nostro»

L'invocazione iniziale

L'invocazione iniziale dà il tono a tutte le richieste successive. Dio è invocato come Padre nostro che sei nei cieli. Al semplice «Padre» di Luca è aggiunto il possessivo «nostro». La comunità dei discepoli si sente abilitata a rivolgersi a Dio come «Padre nostro» perché Gesù stesso ha parlato a lei del «Padre vostro» (cfr. Mt 5,16.45.48; 6,1.8.14.15.26.32; 7,11; 10,20.29; 18,14; 23,9). La particolare vicinanza di Dio ai discepoli che in questo appellativo si esprime è certamente mediata da Gesù stesso che, specialmente nella sua preghiera, osava rivolgersi a Dio con il confidenziale Abbà (papà) (Mc 14,36; cfr. Gal 4,6; Rm 8,15)3. La preghiera cristiana inizia dunque con questo atto di fede nell'amore di Dio che riposa particolarmente sulla comunità dei discepoli di Gesù e che fa di essa un'unica famiglia. 

Al confidente «Padre nostro» Mt aggiunge «nei cieli», secondo un modo di pensare e di esprimersi tipicamente giudaico. Con tale indicazione egli esprime l'alterità di Dio rispetto non solo a tutti i padri terreni, ma anche a tutte le realtà della terra. Improvvisamente Dio sembra essere allontanato nella sua infinita trascendenza. Ma «i cieli» non sono il luogo dove Dio risiede in forma statica, sono piuttosto il luogo dal quale egli esercita, in modo dinamico, il suo potere sull'universo intero. Dio è dunque Padre ma anche Signore del mondo. E i discepoli sono coscienti di poter essere i primi beneficiari di questa signoria divina.


Le prime tre domande

Le prime tre domande non hanno la forma della lode ma di una pressante richiesta. Più che di tre domande distinte si tratta di un'unica domanda che si esprime in tre formulazioni diverse. Occorre, dunque, comprenderle non separatamente ma in reciproca relazione. Tra l'altro esse sono caratterizzate da un procedimento stilistico sostanzialmente comune. La prima e la terza domanda (sulla santificazione del nome e sul compimento della volontà divina) fanno uso del passivo divino così che le realtà invocate devono pensarsi come attuate da Dio. Ma anche nella seconda richiesta sull'avvento del regno si presuppone che sia Dio a realizzarla. Il verbo in posizione enfatica iniziale in tu tte e tre le domande segnala che il desiderio dell'orante punta su un evento. L'uso dell'aoristo (sia santificato - venga - sia fatta ) indica che le richieste sono orientate a un evento puntuale che è l'irrompere escatologico della signoria di Dio, attraverso il quale il nome di Dio sarà manifestato come santo e la sua volontà salvifica avrà compimento. L'attuarsi di un tale evento va letto nell'orizzonte della specificazione agganciata alla terza domanda: «come in cielo così in terra». Ciò che Dio ha già ora deciso «nel cielo» sarà realizzato un giorno da lui «sulla terra» a favore degli uomini.


Sia santificato il tuo nome

La richiesta sulla santificazione del nome va illuminata attraverso il motivo veterotestamentario della profanazione-santificazione del nome di Jahvè. Occorre premettere qui che il «nome» è inteso quasi come il lato esterno di Dio, la manifestazione della sua essenza, della sua santità e maestà. Ora la santificazione di questo nome sembra in qualche caso condizionata alla condotta del popolo che egli si è scelto e a cui ha legato il suo nome. Questo popolo eletto può profanare il nome di Dio con l'idolatria (cfr. Ez 43,7-8) e con il venir meno agli impegni assunti con Dio (cf r. Lv 22,31-32; Ger 34,15-16). In tal modo esso non lascia più trasparire nel suo agire la santità del nome del suo Dio di fronte alle nazioni. 

In altri casi la santificazione del nome dipende da Dio stesso, negativamente nel non porre interventi che possano creare scandalo (cf r. Ez 20,9.14.22) e positivamente non lasciando il popolo nella sofferenza (cf r. Is 52,5-6) e venendo in suo soccorso contro i nemici (cfr. Ez 39,7; Is 29,23). La sintesi quasi di queste due prospettive si ha in un significativo testo di Ezechiele (36,20-28) che presenta l'intervento decisivo di Jahvè: egli stesso santificherà allora il suo nome di fronte alle nazioni intervenendo a radunare Israele sulla sua terra e donandogli un cuore nuovo così che possa essere profondamente fedele ai suoi comandamenti. La santificazione del nome di Dio presuppone dunque questo suo intervento escatologico che permetterà agli uomini di riconoscere la sua santità, ma al contempo presuppone anche una comunicazione della santità di Dio agli uomini cosl che essi la potranno far trasparire pienamente.

La prima richiesta del «Padre nostro» riflette questa speranza escatologica. Essa invoca il grande intervento di Dio che inaugurerà il mondo nuovo. Il cristiano che prega così sa però che questa piena manifestazione è già iniziata in Cristo e per il dono dello Spirito. Dio ha già santificato il suo nome in noi credenti perché lo possiamo santificare di fronte agli uomini. L'invocazione perché Dio manifesti in pienezza la santità del suo nome ricorda all'orante che anch'egli deve porsi nella disponibilità a prendere parte alla santificazione del nome divino.


Venga il tuo Regno

La seconda richiesta sull'avvento del regno è intimamente collegata con la prima e ne continua l'istanza. Certamente il regno di cui si invoca la venuta è quello del quale il messaggio di Gesù proclama l'imminenza (cfr. Mt 4,17; 10,7). Gesù però non ne precisa mai la natura. Egli presuppone che i suoi contemporanei sappiano ciò di cui egli parla. L'espressione «regno [dei cieli] di Dio» aveva una duplice valenza. Da una parte essa conteneva la speranza profetica che un giorno Dio si sarebbe fatto presente, sarebbe venuto personalmente per esercitare la sua regalità (cfr. Is 24,23; 40,9; 52,7; Mt 4, 6-7). Dall'altra parte essa si coloriva anche degli accenti tipici dell'apocalittica per la quale il regno di Dio era lo spazio nuovo che egli creava con la sua sovranità. Quando il regno di Dio fosse sceso sulla terra, ciò avrebbe inaugurato la nuova creazione, cosl che questo regno sarebbe stato pieno non solo della gloria di Dio, ma anche della beatitudine per gli uomml.

Quando l'orante invoca la pienezza della venuta del regno ambedue queste prospettive sono presenti. Egli desidera che la regalità di Dio si affermi definitivamente cosl che «Dio sia tutto in tutti» (cfr. lCor 15,28) e che la salvezza giunga pienamente agli uomini. E questa unità, dunque, che l'orante implora: la condizione definitiva del mondo, in cui viene realizzato tutto l'onore dovuto a Dio e tutta la salvezza e la novità del mondo. Ma l'orante sa già che questo regno è "germinato" con Gesù e che la sua pienezza è legata al suo ritorno glorioso. Perciò egli invoca anche «Maranatha» (cfr. lCor 16,22; Ap 22,20), «Vieni Signore Gesù».


Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra

La terza richiesta sul compimento della volontà di Dio è riportata solo da Matteo. La preferenza di questo evangelista per il termine «volontà» (thelema) in relazione all’appellativo «Padre», per indicare Dio, è abbastanza chiara. Alcuni testi che contengono l'espressione «fare la volontà del Padre» (cfr. Mt 7,21; 12,50; 21,30 ) lasciano trasparire che la «volontà» indica le esigenze divine che gli uomini devono compiere con la loro condotta. L'espressione è formalmente simile al linguaggio rabbinico ma il contenuto della volontà del Padre è per Matteo essenzialmente la "misericordia" (cfr. Mt 9,13; 12,7  ). Stando a questa prospettiva di Matteo, la richiesta esprimerebbe il desiderio di vedere le esigenze divine ottemperate e messe in pratica dagli uomini. Occorre però osservare che nella domanda del Padre nostro non è utilizzato il verbo «fare», ma un «si compia» che ha per soggetto Dio stesso. Un espressione identica a quella del Padre nostro si ritrova nella preghiera di Gesù al Gestsemani: «se questo calice non può passare senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà» (Mt 26,42). Al desiderio che gli sia risparmiata la passione, Gesù antepone la richiesta che Dio compia il suo beneplacito e la sua volontà .

La comprensione della terza richiesta sembra averci collocati di fronte a due diverse prospettive: da una parte la volontà divina come esigenza posta agli uomini, dall'altra parte questa volontà come ciò che Dio stesso decide di fare nel suo beneplacito. Le due prospettive non si escludono a vicenda ma si integrano. Già il termine ebraico che corrisponde normalmente a «volontà» (the!ema) contiene sia l'aspetto delle esigenze divine sia la sfumatura della decisione benevola di Dio che sta all'origine del suo disegno di salvezza. Le due prospettive sembrano essere simultaneamente presenti anche nell'aff ermazione matteana. 

«Non è volontà del Padre vostro che è nei cieli che uno solo di questi piccoli si perda» (Mt 18,14 ): Dio ha deciso cosl nel suo piano salvifico e questo è comunicato agli uomini sotto forma di esigenza. L'orante dunque nella terza richiesta aspira a vedere realizzata da Dio stesso quella sua volontà che ha per oggetto la venuta del regno e la santificazione di Dio. Questo è il suo primo desiderio. Ma egli sa anche che questo desiderio non può essere profondo e vero senza che ci sia una conformazione degli uomini alle esigenze divine. Perciò egli prega anche perché Dio crei le condizioni per le quali gli uomini possano attuare una tale conformazione. Egli chiede quel cuore nuovo che rende possibile il compimento della volontà di Dio come esigenza interiore. Tutto questo è desiderato per il tempo escatologico. Allora ciò che Dio ha già deciso nel cielo sarà attuato pienamente anche sulla terra. Quanto però si realizzerà un giorno deve diventare già da adesso norma di condotta. L'orante sa che lo Spirito è già stato effuso nel cuore degli uomini e che questo dono rende possibile già da ora l'adempimento della volon tà divina. La sua invocazione perciò diventa anche disponibilità all'impegno. 


Le seconde tre domande

Le seconde tre domande sono dominate da una prospettiva diversa da quella delle prime tre: mentre queste imploravano la manifestazione escatologica dell'azione salvifica di Dio, quelle invece orientano lo sguardo alla situazione dell'uomo chiamato alla salvezza. Il raggiungimento di tale salvezza è ora minacciato da tre ostacoli: il pieno assorbimento dell'uomo da parte di un'ansia per le cose che non lascia più spazio per l'unica necessaria preoccupazione che è la ricerca del regno e della giustizia (cfr. Mt 6,25 -34) (domanda del pane); i peccati che hanno reso l'uomo colpevole davanti a Dio (domanda del perdono); il pericolo di cadere in nuovi peccati (domanda di preservazione dalla tentazione). Il passaggio dalle prime tre richiesta di tipo escatologico alle seconde tre che mirano maggiormente alla situazione presente dei discepoli è assicurato dall'invocazione del compimento della volontà di Dio. Perché i discepoli possano adempiere in pienezza le esigenze divine già da ora è necessario che essi siano liberati da tutto ciò che ostacola la piena adeguazione al volere divino. 


Dacci oggi il nostro pane quotidiano

La domanda del pane è da intendere, più in generale, come la richiesta del sostentamento essenziale per la vita di cui il pane è l'elemento principale. L'aggettivo «nostro» lo qualifica come il pane di cui noi abbiamo bisogno e che ci dobbiamo faticosamente procurare. Ogni interpretazione allegorizzante o simbolica di questo pane è già preclusa in partenza. Non si tratta né del pane del banchetto escatologico (cfr. Lc 14,15) né del pane eucaristico, ma semplicemente e solamente del pane terreno indispensabile per la nostra vita. La richiesta è che questo pane Dio lo faccia giungere a noi come un dono «per oggi». La posizione enfatica di questo «oggi» nel testo greco segnala l'urgenza con cui il pane è domandato: di esso se ne ha bisogno già oggi. Nel contempo l'oggi sottolinea anche che l'orante è preoccupato solo del giorno presente. Il domani non lo deve tenere nell'ansia: «non aff annatevi dunque per il domani, perché il domani avrà le sue inquietudini. A ciascun giorno basta già la sua pena» (Mt 6,34). Un tale atteggiamento è reso possibile solo dalla fiducia nella provvidenz a del Padre: «Il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno» (6,32). 

Tutto questo contesto facilita la comprensione dell'aggettivo epioùsios che viene tradotto impropriamente con «quotidiano». Assente negli autori antichi, questo aggettivo è problematico anche quanto all'etimologia. La derivazione più naturale, da épiousa (héméra) verrebbe a qualificare il pane come «quello del giorno che viene». Pensare però al pane del domani non solo sarebbe in contraddizione con tutto il contesto ma impoverirebbe la richiesta anche rispetto al tradizionale insegnamento giudaico. Occorre perciò pensare al "giorno che viene" come "al giorno in cui si è", cioè all'oggi. Siamo dunque di fronte ad una richiesta che coerentemente attende «oggi» il sostentamento essenziale "per questo giorno".

Certamente una preghiera cosl radicale è comprensibile solo in un contesto di vita particolare, contrassegnato da una povertà in cui il bisogno dell'oggi incalza a tal punto che non ci si può dar pensiero per il domani. È il contesto dei discepoli di Gesù che, lasciato tutto, lo seguono e condividono con lui la povertà, attenti soltanto alla realtà del regno. Il dono del sostentamento per l'oggi diventa la condizione che permette loro di dedicarsi totalmente all'annuncio del regno. Diversa è la prospettiva in cui Luca colloca la richiesta del pane. È una prospettiva che meglio si adatta alla situazione di tutti i cristiani. Egli fa pregare perché Dio «doni» (al presente e quindi in senso permanente) il pane «ogni giorno». Viene quindi già da ora richiesto anche per il futuro il dono di ciò che è essenziale per il sostentamento.

Al di là dei diversi contesti, possiamo comprendere lo spirito che Gesù vuole alimentare con questa domanda. Egli insegna innanzitutto a non chiedere più di ciò che è necessario ed essenziale alla vita. Chi prega cosl perciò non può lasciarsi prendere dall'ansia per le cose né tantomeno mettersi al servizio idolatrico di Mammona (cf r. Mt 6,24). Inoltre Gesù vuole far crescere una forte e illimitata fiducia in quel «Padre» a cui tutto è possibile. Questi conosce già in anticipo ciò di cui abbiamo bisogno e non ce lo farà mancare.


Rimetti a noi i nostri debiti...

La domanda del perdono è formata da due elementi: la richiesta a Dio e la condizione alla quale tale richiesta è possibile. L'immagine che domina la formulazione è quella dei debiti e del debitore (mentre Luca nel primo elemen to preferisce il termine «peccati» a lui più congeniale). Tale immagine era in uso nel giudaismo per indicare la condizione del peccatore di fronte a Dio. Gesù utilizza l'immagine, ma la sua prospettiva è nuova rispetto a quella giudaica. Mentre i rabbini si preoccupano di come assolvere il debito con il compimento delle buone opere, Gesù dichiara che il debiro del peccatore è insolvibile (cf r. il debito smisurato del servo impietoso: Mt 18,24). Certamente per Gesù questo debito non è costituito semplicemente dalle trasgressioni morali, ma anche dalle inadempienze e omissioni di fronte alle radicale esigenze che Dio pone all'uomo. Per evitare la catastrofe del giudizio non resta al peccatore che invocare Dio perché nella sua grazia rimetta già da ora il debito. Questo è il senso del primo elemento della domanda.

Se l'uomo peccatore non può risarcire Dio, può però adempiere una condizione per accogliere la grazia del condono divino: perdonare coloro che hanno debiti nei suoi confronti. Un tale rapporto per il perdono di Dio e il perdono da concedere ai fratelli è bene illustrato dalla parabola del servo impietoso (Mt 18,23-35), dal commento a questa richiesta contenuto in Mt 6,14-15, ed è presente nella beatitudine: «Beati i misericordiosi perché otterranno misericordia» (Mt 5,7). Occorre trattare i fratelli nella maniera in cui desideriamo essere trattati da Dio.

Ma è possibile precisare meglio il rapporto tra queste due realtà guardando attentamente alla formulazione matteana? L'uso dell'aoristo nel secondo elemento della domanda sembra indicare che l'orante dichiara di aver già perdonato i suoi debiti nel momento in cui si appresta a chiedere a Dio il perdono. Egli sa che il perdono divino è gratuito e incondizionato, ma sa anche che questo perdono lo impegna a sua volta a perdonare, perciò enuncia che questo impegno egli l'ha già assolto. Diversamente Luca, usando il presente e sottolineando «ad ogni debitore», fa dichiarare all'orante la sua disponibilità al perdono "sempre" e "per ciascuno" . Resta da notare che il «come noi abbiamo rimesso pure ai nostri debitori» sembra stabilire una certa analogia tra il perdono concesso da Dio e quello concesso al fratello. Si può dire che Dio ricalca la sua azione sulla nostra, ma anche che la nostra è ricalcata sulla sua, perché è la sua misericordia cbe ci ha spinto ad essere misericordiosi. 


Non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male

L'ultima domanda è, nella versione matteana, composta da due invocazioni, la prima negativa e la seconda positiva .

La prima riguarda la «tentazione». Abitualmente noi pensiamo alla tentazione in termini psicologici, come l'attrazione verso una cosa cattiva. Ben diversa è la concezione biblica. Il peirasmòs ("tentazione") è propriamente l'a­zione attraverso la quale viene verificata o messa alla prova la qualità di una cosa o di una persona. Così Dio mette alla prova !a fede di Abramo chiedendogli il sacrificio del suo unico figlio (cfr. Gn 22, lss.), mette alla prova i giusti come l'oro nel crogiolo, per vedere se sono degni di lui (Sap 3,5-6), mette alla prova il suo popolo dmante la peregrinazione del deserto per saggiare il suo cuore (Dt 8,2). L'oran te stesso, con grande fiducia nella propria perseveranza, può chiedere: «Scrutami, Signore, metti mi alla prova» (Sal 26,2). In qualche testo dell'Antico Testamento (cfr. Gb l,6ss; lCr 2 1,1) e poi nel giudaismo Satana è presentato come l'autore immediato di questa «tentazione». Nel Nuovo Testamento Satana diviene il «tentatore» per eccellenza (Mt 4,3; 1Ts 3,5; Cor 7,5; Ap 2,10) cancro il quale occorre resistere (cf r. lPt 5,8-9).

Nell'invocazione che stiamo esaminando la «tentazione» è vista in modo più profondo e pericoloso che il semplice essere messi alla prova da parte di Dio. Qui la tentazione è quasi sinonimo cli "caduta". Essa sembra quasi già identica a quel «male» dal quale si chiederà la liberazione nella successiva e parallela invocazione . 

Si ha l'impressione che entrare in questa tentazione significhi in qualche modo già essere perduti. Per questo l'orante chiede a Dio che neppure lo introduca in questa tentazione. Di quale tentazione può trattarsi? Certamente essa ha a che fare con la grande prova e con la grande tribolazione che, nella prospettiva apocalittica, precede la fine (cfr. Mc 13,9-10; Ap 3,10). Sarà una tentazione così pericolosa da rendere plausibile la domanda: «Il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Le 18,8). Dobbiamo però tenere presente che per Gesù e i suoi discepoli la decisiva svolta dei tempi è già avvenuta e il regno è già vicino. Il pericolo perciò della grande tentazione è da vedere non in un futuro remoto ma già nel tempo presente. È il pericolo di trascurare i segni ancora poco appariscenti del regno germinale, è il pericolo di scandalizzarsi di Gesù che ne è il portatore . La grave tentazione è dunque quella di defezionare nella fede e nella sequela. L'orante che conosce la decisività di tale caduta chiede fiduciosamente al Padre di non essere mai introdotto in questa tentazione.

Parallela a questa invocazione negativa, Matteo colloca quella positiva della liberazione dal male o dal Maligno. Il testo greco non permette di stabilire con chiarezza se si tratti di un neutro (male) o di un maschile (Maligno). Certamente si tratta qui di un male morale e non tanto delle disgrazie terrene (anche se Gesù si è occupato pure di queste, non dandoci però la rassicurazione piena contro di esse). Questo «male» infatti è da intendere in parallelo alla «tentazione» di cui si è parlato sopra. La richiesta di essere «liberati» lascia intendere che questo male ci circonda, ci minaccia ed è sempre in grado di afferrarci. Occorre che il Padre, del quale l'orante si fida totalmente, ci strappi da questa minacciosa presenza. È possibile, tenendo conto del parallelismo con l'invocazione sulla tentazione, che dietro questo male quasi personificato si profili l'ombra del Maligno, il grande artefice della tentazione. In ogni caso la preghiera si chiude su questo grido di liberazione, che al contempo mostra lacuta coscienza del male con cui si vive a contatto, ma anche la fiduciosa apertura a quel Padre che può proteggere e strappare da questa insidiosa potenza .

L'insieme delle tre richieste fa emergere i bisogni fondamentali per i quali occorre pregare. Sono questi bisogni essenziali che mantengono la vita del credente nella possibilità di esprimersi in pienezza, libera dall'ansia delle cose per la dedizione al regno, libera dal peccato per gustare la riconciliazione e la pace, libera dalla rovinosità della tentazione e dalla minaccia del male per poter sentire sempre presente l'amorosa paternità di Dio. E tutto ciò è da chiedere non come singoli ma come comunità. Il «noi» domina tutte queste richieste così che "gli altri" devono sempre essere coin volti nelle nostre supreme aspirazioni e domande.


Osservazioni conclusive

La preghiera insegnata da Gesù ai suoi discepoli, destinata a diventare il paradigma e il modello per ogni pregare del credente, è fortemente segnata dall'esperienza di Gesù. Ciò sra· a significare che la preghiera del discepolo, per essere autentica, presuppone che il discepolo sia entrato e sia disponibile ad entrare sempre più neli'esperienza del suo Maestro e Signore. A farci entrare pienamente in questa esperienza è il dono dello Spirito (cfr. Gal 4,4; Rm 8,15): è lo Spirito infatti che apre il credente alla comunione con Cristo e gli dona di poter invocare con fiducia filiale «Abbà-Padre». È questo orizzonte di una relazione filiale-paterna, sul modello di Gesù, che sostiene e rende possibili le invocazioni e le richieste che la preghiera del «Padre nostro» presenta .

Con le prime tre invocazioni il credente grida perché Dio stesso realizzi pienamente il suo disegno di salvezza e nel contempo si dispone a far propri i desideri di Dio: il Regno, la santificazione del nome divino, il compimento della sua volontà santa. È un grido questo che sale dolorosamente da un mondo in cui queste realtà sono ancora lontane dal compimento, ma al contempo è un grido carico di speranza rivolto fiduciosamente a quel Padre della cui potenza e fedeltà il credente non può dubitare.

Le richieste della seconda parte, invece, tendono a far si che il Padre, che sa ciò di cui abbiamo bisogno, faccia suo e realizzi per noi ciò che è vitale ed essenziale per la nostra esistenza: il pane, la riconciliazione, il permanere nella fede, la liberazione dalla potenza del male. Ma mentre chiedono al Padre che si faccia carico dei loro bisogni essenziali, i credenti prendono coscienza di ciò che veramente è indispensabile alla loro vita e a quella di tutti gli uomini e si avvertono impegnati responsabilmente e solidarmente a perseguirne la realizzazione.

Nello scambio con cui ci apriamo ai desideri di Dio e affidiamo a Dio le nostre fondamentali necessità si consolida quella relazione filiale che caratterizza la preghiera di Gesù e del credente. Nel contempo però proprio questa rinnovata coscienza della relazione filiale ci apre alla fraternità e alla responsabilità di costruire insieme un'umanità nuova e solidale. 

Augusto Barbi, biblista (Verona)


Da “Figli dell’unico Padre”, Verona 1999


Vera paternità di Dio

 Il Padre come nome di Dio nelle Scritture

Il nome di padre è attribuito a Dio in molte religioni antiche: «l'invocazione della divinità con il nome di padre è uno dei fenomeni fondamentali della storia delle religioni». Nell'antico medio oriente, l'ambiente della Bibbia, più divinità si vedono riconosciuta questa qualifica, in quanto all'origine di tutti gli dei e gli uomini". Il divino viene normalmente rappresentato come padre-madre, da cui tutto ha origine, in senso quasi fisico-biologico. La divinità è il sommo generatore dell'intera catena dell'esistente. In forza di ciò gli compete un potere assoluto, tutto gli è sottomesso; egli è la base dell'ordine e dell'autorità sovrana. L'intero patrimonio mitologico veicola questa fisionomia del divino.


 Il Dio dei padri. Una significativa reticenza del Primo Testamento

La figura di Dio nella Bibbia ebraica non si struttura attorno al simbolo del padre". Dio è anzitutto il Dio della liberazione e dell'alleanza; è il Dio che si è legato ai padri intervenendo in momenti precisi della storia tramite eventi che ne hanno segnato l'orientamento. E attraverso la sua azione di liberazione e riabilitazione che Dio vuole essere riconosciuto, il suo nome è indissolubilmente legato all'esodo (Es 3,13-16), dice il suo essere presente come risorsa di libertà che non può essere coartata, che fa passare Israele dalla condizione di schiavitù a quella filiale (Es 4,22-23). E il Dio che intrattiene relazioni personali con il suo popolo, che promette e mantiene, rivolge la parola e attende risposta. Di Lui si può parlare solo narrando la storia del suo popolo (Deut 26,4-9). Egli si dichiara attraverso ciò che fa diventare. 

Soltanto con i profeti viene introdotta la qualifica della paternità in riferimento a Dio, anzitutto perché ama Israele come un figlio (Os 11). Per questa stessa ragione Dio è anche madre che mai abbandona (Is 49,14-15). E quasi sempre in formule di autopresentazione, e della invocazione che vi corrisponde, che Dio risulta qualificato come padre di Israele (Is 63,8.15-16; 64,7), o di alcuni suoi membri, come il re in forza del patto con la casa di David (2Sam 7,14; Si 2,7; 110,3), i giusti (Sir 23,1-4), i poveri e le vedove (Si 68,6).

Cosi nella fede ebraica la simbolica paterna attribuita a Dio conosce una profonda revisione. Essa è sciolta da ogni riferimento sessuale-generativo e viene vincolata a precisi eventi storici: Javhè è padre perché ama contestando ogni schiavitù e conducendo a libertà. Poiché mira a instaurare nel suo popolo un'esistenza filiale può essere riconosciuto come padre. Il Dio dei padri, che Israele apprende a riconoscere come un padre, risulta così molto lontano dalla proiezione del ruolo paterno proprio della struttura familiare tipica di una società patriarcale. Non il potere, e sue presunte deleghe nella società e nella storia, ne sono il marchio distintivo, ma la libertà nell'alleanza, come riconoscimento e condivisione della sua disponibilità.


Il Dio Padre di Gesù Cristo

Secondo il Nuovo Testamento, Gesù dice la paternità di Dio in modo così singolare da renderla riconoscibile dai discepoli come il nome proprio di Dio. 

a. Gesù racconta la paternità di Dio attraverso ciò che dice e fa nel suo nome. Dare compimento al regno di Dio è la missione che Gesù riconosce come sua (Mc 1,15par.); essa significa per lui ritmare la propria azione sulla paternità di Dio che «fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti» (Mt 5,45), e che «non vuole che si perda neanche uno dei piccoli» (Mt 18,14). Il riferimento al Padre è la ragione profonda della singolarità dell'agire di Gesù, che intende esserne consapevolmente la trascrizione nella storia (Lc 15). E questo riferimento che Gesù consegna ai discepoli come criterio decisivo della loro relazione con Lui e tra di loro (Mt 12,46-50 par.; 23,8-12).

b. Gesù annuncia la paternità di Dio vivendo una singolare ed esclusiva relazione filiale con Lui. Si lascia intuire come l'intimo di Dio, come colui per il quale Dio non ha segreti (Mt 11,25-27; Lc 10,21-22). Si esprime non come porta-parola di Dio, al modo dei profeti, ma come il diretto e immediato proporsi di Dio. Per dare garanzia alle sue parole e azioni non dice: parola di Dio, ma: io vi dico, in verità io vi dico. Distinguendo, rivolgendosi ai discepoli, tra Padre mio e Padre vostro Gesù lascia ben intendere l'unicità della sua relazione con il Padre che trova la sua espressione più netta nella preghiera. Qualificando Dio come Abbà Gesù si pone come il Figlio unico davanti a Dio il suo Padre, si riconosce all'interno di Dio. Egli ne è certo distinto, ma senza nessuna estraneità, né è la visibilità proprio nella sua comunione-distinzione di Figlio uomo (Gv 14,6-11).

 Non come superuomo, ma proprio come uomo che vive filialmente, Gesù dice il Padre. Gesù non esaurisce tutto l'umano, non è uomo e anche donna, né vive in sé tutte le situazioni della vita. Piuttosto promuove tutti, donne e uomini, tutto l'umano, dentro qualsiasi situazione. Anche in questo lascia intuire che Dio non ha bisogno di essere tutto, di assorbire tutto in sé, ma ha cura di tutto ed è in grado di condurre tutti a maturità, al loro compimento. Anche attraverso questa discrezione Gesù lascia intravedere quella del Padre". Il Padre è incessantemente colui che consente a Gesù di essere nella sua umanità, Figlio (Gv 11,41b-42).

c. Gesù dice definitivamente la paternità di Dio nella sua pasqua. E davanti a Lui e dall'interno della confidenza con lui che si inoltra decisamente nella passione (Mc14,32 par.). Rinunciando alla tentazione di farsi esonerare dalla sua condizione storica, esponendosi per questo al silenzio del Padre nella sua passione (Mc 15,29-32 par.), Gesù giunge a poter donare il suo spirito filiale nella risurrezione (Rm 8,14-17). In Lui il Padre risulta come il Dio che lo risuscita da morte (Gal 1,1; Rm 1,4), come colui che accoglie i discepoli di Gesù nella sua paternità donando ad essi il suo Spirito. Il dono dello Spirito del Figlio Gesù consente a tutti gli uomini di riconoscere Dio come il Padre e di avere accesso alla vita filiale (Gal 4,4-7; Rm 8,15). I tratti umani di Gesù e la ricchezza creativa del suo Spirito donato fissano la fisionomia paterna di Dio. Dio è «il Padre del Signore nostro Gesù Cristo» (Ef. 1,3; Col 1,3). 

Dio il Padre nostro

Riferito a Dio come il suo proprio nome, "padre" non è oggi un termine libero da ogni sospetto. Timori e necessarie cautele vengono avanzate dalle scienze umane (psicologia del profondo e sociologia), dall'ermeneutica biblica femminista e, più in generale, dal carattere analogico e comunque problematico di ogni nostro discorrere di Dio, in quanto realtà che ci supera all'infinito. Rimandando a studi specifici per l'approfondimento di queste tematiche, ci riproponiamo ora la domanda: chi è Dio il Padre? Proprio lasciandosi rigorosamente guidare dai dati offerti dalle Scritture, e dalla meditazione che essi hanno a più riprese sollecitato nella chiesa, l'intelligenza della fe de viene a trovarsi nella condizione di dialogare correttamente con la sensibilità contemporanea per dire la buona notizia della paternità di Dio. Si tratta di un dire che deve di continuo lasciarsi guidare e convertire dal dirsi di Dio a noi. Da quest'ultimo attinge la sua franchezza, pur dovendo sempre riconoscere al tempo stesso la non adeguatezza. 

1. Chi è Dio, il Padre?

La ricerca di significato da parte dell'uomo approda a molteplici presentimenti di Dio e quasi ad altrettante domande e dubbi; è solo la sua autopresentazione che ce ne offre il nome, l'identità, senza che noi possiamo pretende re di afferrarla adeguatamente. «Nessuno può conoscere Dio se non è Dio ad insegnarglielo; non si può conoscere Dio senza Dio». 

La riflessione cristiana antica ha interpretato più volte in questa linea l'affermazione che conclude il prologo di Giovanni: «Dio, nessuno lo ha mai visto: l'unico Figlio, che è Dio, ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Gv 1,18). Il dire Dio presuppone e rimanda al dirsi di Dio nella rivelazione. L'unico Dio professato dalla fede cristiana è il Padre raccontato dal Figlio unico Gesù. Il monoteismo cristiano è profondamente innovativo. La concezione monoteista porta certo con sè la coerenza del reale, ma secondo quale modalità? C'è posto per l'alterità, per il suo valore? E come?

Il Dio uno e unico della fede cristiana è qualificato non semplicemente da fatto che non ha origine da altro, ma dal suo essere da sempre, in maniera costitutiva, totale apertura e donazione al Figlio. 

L'essere padre non è semplicemente e anzitutto indicativo di una sua attività (la creazione), ma gli è costitutivo. Quest'unico Dio Padre non è immaginabile da noi, è reso riconoscibile dal Figlio Gesù. Questi ne è l'immagine perfetta (Col 1,15), non nel senso che ne sarebbe un duplicato, un secondo padre, ma nella sua alterità di Figlio divenuto uomo tra noi, nel suo vivere filialmente la reale condivisione della nostra umanità. «Il Padre è l'invisibile del Figlio, e il Figlio è il visibile del Padre». 

Il Padre è la permanente fonte di quella eccedenza di gratuità e di amore che ogni parola-azione-relazione umana di Ge- sù lascia trasparire e che la sua pasqua sigilla. Il visibile di Gesù lascia emergere un inesauribile che noi non possiamo circoscrivere e rappresentare, non perché indeterminato o evanescente, ma in quanto oltrepassa ogni misura.

 Grazie al Figlio Gesù la non rappresentabilità del Padre ne indica la massima concretezza, la sua ipostasi paterna. L'interlocutore ultimo dell'uomo, della sua storia e della sua libertà, ha volto e identità paterna. Ma questo volto non è appropriabile da nessuno, è svelato nel Figlio fatto uomo e reso accessibile nello Spirito. Così si qualifica, tramite il Cristo e lo Spirito, nel suo volgersi storico a noi, la paternità di Dio e così è all'inter- no stesso di Dio. Per non vanificare ciò che Dio ha detto e comunicato di sé in Gesù e nel suo Spirito, la tradizio- ne della chiesa e il suo magistero si sono opposti ad ogni riduzione modalista e subordinazionista. Il Figlio e lo Spirito non sono riducibili a semplici ruoli (modi) del propor-si dell'unico Dio, né Figlio e Spirito sono esterni a Dio come figure intermedie tra Lui e il mondo. Il Padre che ci incontra in Gesù gli è da sempre Padre e Gesù come l'u- nico Figlio gli è da sempre intimo nello Spirito Santo, segreto di comunione senza estraneità. Con ciò è tolta alla conoscenza ogni pretesa di possesso e le viene indicato il proprio luogo adeguato nella accoglienza-comunione. Solo in questa avviene conoscenza. "Padre" non è nome di og- getto di sapere astratto, ma nome di incontro. Continuando ad ascoltare l'umano esprimersi del Figlio Gesù nel suo Spirito effuso noi incontriamo e apprendiamo il Padre. Non c'è altra via oltre questa.


Il Padre nel Figlio Gesù 

Sempre il luogo del nostro incontro con il Padre è il F glio Gesù, nella sua concreta umanità vivificata dallo Sp rito nella risurrezione. Il Padre non gli dà in gestione la sua paternità, tanto meno come potere assoluto che si in pone; fonda piuttosto la sua sorgiva capacità di introdurre chi lo accoglie all'esperienza e alla dignità di figli (G 1,12). L'essere Figlio ha costituito Gesù tra noi come maestro unico di fraternità. L'essere fratelli come figli ha in Gesù il suo paradigma e fondamento. Con Gesù la teologia diviene antropologia di Dio. È tale antropologia, nel suo attuarsi, che consente la teologia. La trama di relazioni che il Padre suscita tra gli uomini grazie al Figlio divenuto uomo dice chi è l'uomo presso Dio, proprio mentre lo promuove ad esserlo. Diventando un tale uomo ciascuno si avvia a riconoscere e ad incontrare il Padre. 

3. Il Padre nello Spirito effuso 

L'unica realtà che nella storia continua a raccontare la paternità di Dio è la fraternità nel nome e sullo stile di Gesù. Non si tratta di una fraternità uniforme. Sorelle e fratelli non sono copia uno dell'altro, sono singolarità inespropriabili, portatori nella loro libertà di un'eco della ric chezza di Dio per l'effusione dello Spirito del Padre tra mite il Figlio Gesù Risorto. Ogni dono e compito è funzione della fraternità, non sopporta confronto orizzontale dicalmente il riferimento all'unica paternità di Dio (1Cor e conseguente gerarchizzazione nella dignità, ma solo e ra che essere indicati analogicamente come paterni/materni 12, 4-7). Compiti e funzioni della fraternità possono anche essere indicati analogicamente come paterni/materni (paternità spirituale), ma non si deve mai perdere di vista l'unicità fuori di ogni misura del Padre del cielo, il Padre di Gesù Cristo. Egli instaura instancabilmente, nel soffio e nella ricchezza del suo Spirito l'umanità come spazio di fraternità. Gli appartiene, oltre ogni nostra immaginazione e nelle modalità concrete dell'umanità di Gesù, un'incessante iniziativa di misericordia e riconciliazione. 

Dio il Padre di ogni benedizione

 Accolta dal Padre tramite il Figlio e nel suo Spirito, la vita filiale e fraterna degli uomini porta con se i caratteri della promessa, della liberazione, dell'eredità e della benedizione. È l'intera storia della salvezza che consente di interpretare, proprio mentre lo porta alla luce, il significato dell'intera creazione, dell'uomo in particolare, fatto ad immagine e somiglianza di Dio (Gen 1,26). La gamma delle attrattive, delle possibilità che ogni esistenza umana porta con sé si lascia decifrare come prima eco in noi della promessa del Padre. Ad essa Egli rimane vincolato, li- berando dalla indeterminatezza, da modalità relazionali fuorvianti, che inducono schiavitù. In Cristo e nello Spi- rito ogni promessa matura in vocazione. Per la solidarietà con Gesù nella quale il Padre ci stabilisce, viene radicata in noi una fondamentale non espropriabilità della nostra libertà, la vita viene garantita nel suo risultato, non è più esposta a precipitare nel vuoto: siamo fatti eredi. La no- stra vita porta appunto il segno della benedizione, della disponibilità del nostro patrimonio umano a noi stessi, sicché possiamo renderci effettivamente disponibili agli altri e così significare la gloria di Dio. Nel non divenire nemici di noi stessi e di nessuno viviamo la benedizione del Padre, l'incessante processo di maturazione suggerito dallo Spirito che ci sintonizza all'identità filiale e fraterna del Figlio unigenito e primogenito Gesù. Vivendo nel nome e con lo Spirito di Gesù noi accogliamo la paternità dell'unico Dio, rassicurati del suo non abbandono per la ricchezza della sua misericordia e promossi a responsabilità dalla sua non invadenza fino al silenzio. Servendo la fraternità nella modalità propria di ogni differenza (uomo-donna, bambino, giovane, adulto, vecchio) e di ogni compito continuiamo a ricevere la grazia di narrare la inesauribile paternità di Dio per tutti.

G. Laiti (Verona)

Da "figli dell'unico Padre", 1999


lunedì 24 febbraio 2025

Cercare la riconcilazione

 Che cosa dobbiamo intendere con l’espressione “Legge e Profeti'? Materialmente, tutta quella parte dell’Antico Testamento che comprende il Pentateuco, i profeti più antichie più recenti, a partire dai libri dei Giudici, di Samuele, dei Re, fino ai profeti propriamente detti. Dal punto di vista oggettivo, invece, parlando di Legge e Profeti si intendono due realtà. Anzitutto, ciò che Dio vuole compiere, dal momento che la Legge e i Profeti dicono qual è l’intenzione di Dio, qual è la “promessa”, ciò che Dio vuole fare per l’uomo. 

 ln secondo luogo, ciò che l'uomo è chiamato a fare per rispondere all’amore di Dio e rendersi degno della sua promessa. Con “Legge e Profeti” si esprime l’invocazione del Padre nostro: «Sia fatta la tua Volontà», cioè il suo disegno. Gesù vuole portare a compimento questo disegno di Dio, questo beneplacito di Dio, che è contenuto nella Legge e nei Profeti e che Secondo lo schema dell’alleanza si compone di due parti: ciò che Dio fa o vuol fare o farà per l’uomo, e ciò che l’uomo è chiamato a fare per essere in comunione con Dio. Per questo, Gesù non è venuto ad abolire; si tratta del piano di Dio, ed egli e venuto per darvi compimento. Notiamo che Gesù parla di “dare compimento” non di “confermare”. Perché la Legge e i Profeti non sono una realtà statica, una serie di precetti, bensì una realtà dinamica: cio che Dio vuole fare per l’uomo, ha fatto e farà fino alla Gerusalemme celeste, e ciò che l’uomo è chiamato a fare per entrare in questa comunione con Dio Amore.

Che cosa Significa per l’uomo rispondere alle promesse e alle azioni Salvifiche di Dio? Significa la carità, espressa molto concretamente come misura delle azioni umane: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro questa infatti è la Legge e i Profeti». 

Gesù preferisce sminuzzare la morale, dando delle esemplificazioni che ci invitano a non accontentarci mai di principi astratti, bensì a metterci di fronte alle situazioni così come sono, per cercare di valutare e di discernere: in questa situazione qual è il meglio mio o il meglio assoluto della persona? In questa precisa situazione che cosa vogliono dire misericordia e carità? 

 Se noi rifuggiamo da questa analisi concreta, rischiamo di essere rigidi, di essere imperativi e non umani; di sbilancifiarci nel senso di una esigenza rigorista o nel senso del lassismo, sempre sulla base di principi generali che non tengono conto di come le situazioni concrete rendono la figura del prossimo davanti a noi nella sua verità.  

Il superamento dei conflitti

Vediamo allora gli esempi offerti da Gesù e di cui mi limito a richiamare le coordinate fondamentali. Anzitutto le prime battute del discorso riguardano il tema del superamento dei conflitti. Cè un modo radicale di superare il conflitto, che è l’eliminazione dell’altro; se l’altro è diverso da me, se non mi accetta, io lo elimino. Contro questa radicale soluzione si pone già la legge morale fondamentale dell’Antico Testamento: non uccidere. Ma Gesù sa che ci sono altre forme non così macroscopiche e tuttavia negative di comportamento nei conflitti: il rancore, la collera, il ferire l’altro con parole. Tutto questo è il medesimo atteggiamento riportato nella quotidianità: non accettare l’altro, non volere che l’altro sia così, e quindi attaccarlo, ferirlo, emarginarlo, banalizzarlo. 

Qui Gesù appunta il suo insegnamento: il conflitto, che è inevitabile nella vita, non deve avvelenare il cuore e perciò non si devono dire parole velenose che trasformano una differenza di vedute in una inimicizia. E insiste molto: il conflitto non può mai essere risolto o degenerare in quelle forme. La soluzione sbagliata non è soltanto quella estrema, ma pure ogni parola e ogni sentimento cattivi. Viene chiarito in tal modo che cosa significa rispettare il prossimo dall’intimo, dal profondo. 

 Noi ci domandiamo: siamo capaci di vivere i conflitti nella Società e nella Chiesa non semplicemente scavalcandoli, ma almeno non esasperandoli con parole, giudizi, modi di ferire l’altro, che denunciano un cuore cattivo? Guardando la Storia della Chiesa, antica e recente, non possiamo dire che i conflitti interni siano stati vissuti senza una cattiveria reciproca. Il Signore mette oggi a nudo i nostri risentimenti, di cui siamo spesso carichi; e se facessimo un’analisi attenta, vedremmo quanti giudizi drastici, quanti rancori, quante forme larvate di ferimento degli altri, di non accettazione che diventa forma di comportamento negativo, sono dentro di noi. 

Gesù dice in positivo come risolvere i conflitti: continuando il tentativo di ricon-ciliazione. Non dice dunque di passare sopra al conflitto, perché non dipende soltanto da noi, ma con un esempio concreto (andar d’accordo con l’avversario prima che ci consegni al giudice). Sottolinea la costante ricerca di una riconciliazione. 

 Traducendo l’insegnamento nella nostra vita quotidiana, nella nostra vita di parrocchia, di diocesi, significa che è necessario lo sforzo di capirci, sforzo che richiede una conversione evangelisga, un atteggiamento molto più difficile di quello che vuole scavalcare il problema esigendo che l'autorità provveda a cambiare una situazione. Questa fatica della riconciliazione è molto trascurata. Spesso noi giungiamo rapidamente a concludere: la soluzione è di separare una realtà dall’altra. Naturalmente, in parecchi casi, ci potrà essere una soluzione pratica, perché è possibile distribuire le forze in modo diverso, però non dovrebbe mai essere una soluzione che viene presa unicamente per mancanza di volontà di riconciliazione. L’esperienza dimostra che quando la riconciliazione avviene, le persone capiscono, e comincia magari una nuova fase di rispetto, di amore gli uni per gli altri.  

A me pare che il messaggio si possa esprimere così: noi siamo messi qui a contatto con il dinamismo anche morale della rivelazione di Dio, del mistero di Dio comunicato all’uomo. Tale mistero Va verso il suo compimento e questo fa sì che la stessa vita morale dell’uomo debba essere sempre tesa a qualcosa che va oltre, fino ad arrivare a un limite che sembra quasi irraggiungibile. 

 Che cosa vuol dire amare il nemico, resistere al male, porgere l’altra guancia? Vuol dire, appunto, la tensione verso un limite che nelle circostanze ordinarie non riusciamo magari a raggiungere e che, però, ci sprona continuamente ad andare oltre, finché non vi Saremo arrivati. È molto importante cogliere questo carattere dinamico della morale neotestamentaria, per non essere ridotti a due fughe da questa morale: da una parte, la fuga perfezionistica, settaria, cioè solo chi fa così è veramente cristiano, gli altri sono fuori; dall’altra, la fuga lassista: siamo di fronte a una morale ipotetica, paradossale, che vuol fare unicamente cogliere la nostra peccaminosità; ciò che conta non è compierla in maniera rigorosa, ma riconoscere che si è peccatori, bisognosi della misericordia di Dio, e accontentarsi di ciò che possiamo fare. Queste due forme, che sembrano rispondere alla lettera al Discorso della Montagna, misconoscono in realtà il carattere dinamico della richiesta evangelista, che è di andare sempre al di là di noi stessi, di tendere sempre più in alto, e quindi di saperci umiliare per quanto non abbiamo ancora realizzato, né come singoli né come Chiesa. Il discernimento di questo atteggiamento pratico nella quotidianità non è facile, perche ci sono pure dei limiti. Anche Gesù parla di scomunica («Sia per te come il pubblicano e il peccatore»). Ci sono dei limiti del sì e del no, anche in una Chiesa che ha come riferimento la misericordia. Fare in modo che questi limiti non siano lassismo (accettiamo tutto e tutti, purché ci sia un minimo)

Ma proprio questa dinamica, fatta insieme di rigore e di misericordia, di obbedienza a Dio e di comprensione della fragilità umana, è la forza del Discorso della Montagna. È la strettezza della via che non permette di agire in maniera lassista o rigoristica.

Card. MARTINI

domenica 23 febbraio 2025

Omelia 23 febbraio

 Il re Saul aveva cominciato a perseguitare David per invidia, per paura che questo giovane coraggioso gli strappasse il trono. David aveva dovuto fuggire nel deserto e altri giovanni, scontenti del governo del re, l’avevano accompagnato. La faccenda da privata era diventata pubblica; la fuga di Davide era diventava una questione sociale. Saul reagisce cercando di catturarli, impiegando una parte dell’esercito. La reazione di David, invece, è invece un tentativo di riconciliazione. Si avvicina al re mentre dorme e gli sottrare una brocca d’acqua e una lancia. Gli dimostra che avrebbe potuto ucciderlo ma che non ha voluto farlo. A questo punto Saul avrebbe dovuto sospendere l’inseguimento e integrarlo di nuovo a corte. Con il suo gesto Davide voleva inpedire che lo scontro tra lui e il re diventasse col tempo una guerra civile. 

A differenza di lui, il suo amico Abner voleva invece uccidere Saul con il pretesto che era stato Dio stesso a metterlo nelle sue mani. Qui vediamo l’importanza del discernimento. Di fronte allo stesso fatto, vediamo due interpretazioni differenti. Abner parla subito del volere di Dio (è Dio che te l’ha messo nelle mani). In realtà accampa un argomento religioso per fare ciò che desidera, ossia vendicarsi. Davide invece vede un'opportunità di riconciliazione e pensa che fare questo sia la volontà di Dio. Egli ragiona così perché tra lui e Saul mette in mezzo il Signore. Spera nell’aiuto e nella giustizia di Dio. Anche Gesù farà così: insultato non rispondeva con oltraggi, soffrendo non minacciava vendetta ma rimetteva la sua causa a Colui che giudica con giustizia. Anche noi dobbiamo porre il Signore tra noi e il nostro prossimo. Quando, ad esempio, c’è un conflitto, la persona che ama Dio cerca sempre la riconciliazione; mentre chi ama se stesso pensa subito che non ci sia più niente da fare e che bisogna arrivare alla rottura. 

Questo purtroppo non avviene solo tra le persone ma anche tra le nazioni. Se uno desse fuoco alla casa, per far fuggire i ladri, lo considereremo uo stupido eppure spesso ci comportiamo con il prossimo seguendo le leggi della stupidità. La prima: Fare a noi stessi un danno doppio di quello che infliggiamo all’avversario, pur di spuntarla contro di lui. 

Porgere l’altra guancia. Che cosa significa? Usiamo degli esempi concreti. Se un mafioso costringe a pagare il pizzo per qualche attività, chi paga non sta porgendo l’altra guancia come insegna il Vangelo sta soltanto agendo per paura cercando una falsa opportunità. Se uno a cui è stato imposto il pizzo, reagisce con violenza e procura danni al suo agressore, si ribella giustamente ma neppure lui si comporta secondo il Vangelo. Gesù chiede di reagire al male senza aggiungere altro male, come ha fatto lui. L’imitazione della bontà di Gesù richiede un lungo percorso di vita. 

Pensiamo al perdono. C’è chi non compie alcun male contro il nemico, e questo è il primo passo del perdono. Se sente tuttavia, che un altro gli ha procurato del male e lui ne gode. Questo non è ancora perdono. Uno può rattristarsi nel sentire che il suo avversario ha ricevuto un male però si rattrista se egli ha ricevuto un bene o se è stato onorato. Questa tristezza è una specie di rancore. Se uno invece è contento che il suo avversario riceva del bene, questi ha perdonato in modo perfetto. 

Il perdono è una possibilità grande che Dio ci concede, non è un ulteriore aggravio. La felicità più grande consiste nel diventare amore, non soltanto nel fare cose buone


sabato 22 febbraio 2025

Gesù dolce ricordo

 

Iesu dulcis memoria

Dans vera cordis gaudia

Sed super mel et omnia

Eius dulcis praesentia.


Nil canitur suavius

Nil auditur iucundius

Nil cogitatur dulcius

Quam Jesus Dei Filius.


Iesu, spes paenitentibus

Quam pius es petentibus

Quam bonus Te quaerentibus

Sed quid invenientibus?


Nec lingua valet dicere

Nec littera exprimere

Expertus potest credere

Quid sit Iesum diligere.


Sis, Iesu, nostrum gaudium,

Qui es futurus praemium:

Sit nostra in te gloria

Per cuncta semper saecula.


Amen.


Traduzione in lingua italiana

O Gesù, ricordo di dolcezza

Sorgente di forza vera al cuore

Ma sopra ogni dolcezza

Dolcezza è la Sua Presenza.


Nulla si canta di più soave

Nulla si ode di più giocondo

Nulla di più dolce si pensa

Che Gesù, Figlio di Dio.


Gesù, speranza di chi ritorna al bene

Quanto sei pietoso verso chi Ti desidera

Quanto sei buono verso chi ti cerca

Ma che sarai per chi ti trova?


La bocca non sa dire

La parola non sa esprimere

Solo chi lo prova può credere

Ciò che sia amare Gesù.


Sii, o Gesù, la nostra gioia,

Tu che sarai l’eterno premio;

In te sia la nostra gloria

Per ogni tempo.


Amen.