La tenerezza di Dio
Conferenza tenuta presso la comunità francescana di Isola della Scala (santuario della Gabbia)
Il messaggio sulla locandina, riportando un passo d’Osea (11,8), collega la memoria del Sacro Cuore alla tenerezza di Dio.
1. Rileggiamo il passo nel senso letterale: «Come ti lascerò Efraim? Come ti tradirò Israele? Come ti lascerò come Admà, ti renderò (farò) come Zeboim? Si rivoltò in me il mio cuore, nello stesso tempo si agitarono le mie compassioni». Il senso è questo: Dio constata l’indurimento totale del popolo. «Il mio popolo è duro a convertirsi: chiamato a guardare in alto, nessuno sa sollevare lo sguardo» (11,7). A questo punto, Egli potrebbe sbarazzarsi dei peccatori come aveva fatto nel passato con le città della valle, ossia Sodoma, Gomorra, Admà, Zeboim e Soar, ma il proposito di limitarsi ad agire secondo giustizia sconvolge il cuore di Dio: si rivoltò il mio cuore (nechfak alai libbi). Egli non vuole, quasi non può permettere che il suo popolo sia annientato. Potrebbe agire secondo il rigore della giustizia e nessuno potrebbe protestare ma se facesse questo tradirebbe Israele, con il quale ha stretto un’alleanza. Se gli uomini lo tradiscono, il Signore però rimane fedele. Compare il termine cuore per testimoniare la fedeltà radicale di Dio verso l’uomo che invece lo tradisce. Questo è il modo di essere di Dio.
Questo sentimento è rinforzato con l’espressione: si agitarono le mie compassioni; ossia la mia compassione è così forte che mi sconvolge fino a costringermi a rinunciare a dare sfogo all’ira, come si legge nel versetto successivo. Il profeta ritiene che questo modo di fare sia caratteristico di Dio, in contrasto con l’istinto umano che di solito non trattiene l’ira. «Sono Dio e non uomo, sono il Santo in mezzo a te e non verrò a te nella mia ira» (11,9). La violenza mentre è esercitata si dilata da sé fuori misura. «L’ira dell’uomo non compie ciò che è giusto davanti a Dio» (Gc 1,20).
2. Il significato delle parole: si agitarono le mie compassioni, lo comprendiamo confrontandolo con un versetto di Abacuc dove leggiamo: «Nello sdegno, ricordati di avere clemenza» «Nello sconvolgimento, ricordati dello sconvolgimento delle viscere materne del Signore (be roghez rachem tizkor)». Il profeta è fortemente preoccupato degli avvenimenti sconvolgenti che stanno accadendo alla sua epoca ma chiede che l’agitazione dei sentimenti materni di Dio sia più forte degli sconvolgimenti del mondo.
3. Nell’ultimo periodo dell’esilio, Geremia rivolge queste parole di conforto a quegli Israeliti che nella prigionia s’erano pentiti e speravano di poter ritornare in patria. Essi si lamentavano con Dio perché si sentivano trascurati da Lui come se li avesse dimenticati. A questo punto, il profeta offre questa rassicurazione da parte di Dio: «Non è un figlio carissimo per me Efraim, il mio bambino prediletto? Ogni volta che lo minaccio, me ne ricordo sempre con affetto. Per questo il mio cuore si commuove per lui e sento per lui profonda tenerezza». In questo passo il Signore è presentato come un genitore che mentre si sta lamentando del figlio per le sue mascalzonate, nel parlare, nel ricordarsi del figlio, sente emergere dentro di sé l’amore paterno più forte del disappunto, del sentimento di delusione.
Leggiamo il versetto alla lettera: «Un figlio prezioso (iaqqir) è per me Efraim, o un fanciullo di delizie (sha’ashuim). Perché ogni volta che parlo contro di lui (o con lui) nel ricordarlo mi ricordo sempre di più. Perciò arsero le mie viscere per lui, nel sentire misericordia, lo tratto con misericordia».
Notiamo una variante: nella traduzione ufficiale il Signore dichiara ogni volta che lo minaccio, me ne ricordo con affetto; nella seconda traduzione troviamo ogni volta che parlo con lui, mi ricordo di lui intensamente. Qual è la più autentica? L’espressione «bo» può essere tradotta contro di lui oppure con lui. Se traduco contro di lui, sottolineo il sentimento paterno di Dio che, come ho detto, fa prevalere la compassione sulla delusione. Se traduco con lui, lascio intendere che la soluzione (ossia il ritorno in patria) è decisa nel dialogo tra il Signore e gli esuli che parlano con lui. Avevo detto che gli esuli si lamentavano con il Signore perché dicevano oramai siamo pentiti, il Signore non dovrebbe più tenerci in castigo. Ora il Signore accoglie questa lamentela, viene incontro alla loro tristezza e li rassicura. La prima traduzione mette in risalto il fatto che la benevolenza di Dio verso gli uomini è più grande della sua giustizia. La seconda mette in risalto il valore del dialogo con il Signore, il valore della preghiera. Nel disporci a pregare, in qualunque situazione ci troviamo, il Signore si ricorda di noi in modo sempre più vivo. Nella preghiera apro la porta alla misericordia di Dio. Gli do la possibilità di agire con misericordia verso di me. Ricordiamo il caso della donna cananea o siro-fenicia (Mc 7,27). Le due traduzioni possono accordarsi in questa forma: ogni volta che parlo con lui (con una punta di sentimento di giustizia), mi lasciò travolgere dalla mia tenerezza. Non siamo costretti a scegliere tra due traduzioni divergenti.
4. Siamo ancora nel periodo dell’esilio. Il popolo rivolge a Dio una supplica accorata. Riconosce d’essere colpevole: «Ecco, tu sei adirato perché abbiamo peccato contro di te da lungo tempo e siamo stati ribelli. Siamo divenuti tutti come una cosa impura, e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia; tutti siamo avvizziti come foglie, le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento. Nessuno invocava il tuo nome, nessuno si risvegliava per stringersi a te; perché tu avevi nascosto da noi il tuo volto, ci avevi messo in balìa della nostra iniquità» (Is 64,4-6). Il popolo riconosce la sua indegnità ma osa dare in parte la responsabilità a Dio stesso: avevi nascosto il tuo volto, ci hai lasciati in balia di noi stessi (cf Is 63,17). Dove sta la soluzione? Il profeta ricorda a Dio che dovrebbe mostrarsi misericordioso perché si è sempre mostrato in questa immagine: «Dove sono il tuo zelo e la tua potenza, il fremito delle tue viscere e la tua misericordia? Non forzarti all’insensibilità perché tu sei nostro padre» (Is 63,15). Il profeta dice a Dio: non reprimerti, non andare contro te stesso, non serve né a te né a noi.
Forte l’espressione: tu sei nostro Padre (ki atta avinu). Dio non può rinunciare ad essere padre, ad essere se stesso.
Come padre, Dio arriva anche là dove tutti gli altri hanno rinunciato, anche quando tutti si sono ritirati: «Abramo non ci riconosce e Israele non si ricorda di noi» e prosegue ripetendo di nuovo «Ma tu sei nostro padre» Tu hai la responsabilità di tutto ed aggiunge «da sempre ti chiami nostro redentore» (Is 63,16).
5. Un ultimo messaggio lo attingiamo da Michea. Anche questo profeta è molto critico circa l’andamento della società però la sua predicazione finale apre alla speranza: «Quale dio è come te, che toglie l’iniquità e perdona il peccato al resto della sua eredità? Egli non serba per sempre la sua ira, ma si compiace di manifestare il suo amore. Egli tornerà ad avere pietà di noi, calpesterà le nostre colpe. Tu getterai in fondo al mare tutti i nostri peccati. Conserverai a Giacobbe la tua fedeltà, ad Abramo il tuo amore, come hai giurato ai nostri padri fin dai tempi antichi» (Mi 7,18).
Michea preannuncia che Dio in base alla sua fedeltà eliminare i peccati del popolo, si compiacerà di fare questo. Questa eliminazione non dipende né dal pentimento né da qualche merito da parte d’Israele ma solo dalla fedeltà di Dio. Il profeta non dice neppure il modo con cui il Signore potrà agire ma si mostra certo che lo farà.
A questo punto dobbiamo passare al Nuovo Testamento perché qui ci è precisato il modo con cui il Signore ha agito a favore di tutta l’umanità. Come ha fatto Dio a calpestare e a gettare in mare i nostri peccati? Dobbiamo ora ricorrere ad un passo della Lettera ai Romani:
«Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù. È lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue» (3,23-25).
Gli uomini non mostravano più la gloria di Dio, perché avevano perduto l’innocenza (3,23). Chi non glorifica Dio non spegne la gloria di Dio ma la propria, ma ora il perdono è dato in modo gratuito (3,27). La positività del nuovo corso non dipende da ciò che hanno fatto gli uomini in meglio, ma da ciò che ha fatto Gesù per loro. L’evento decisivo nella storia sta nella missione del Figlio.
Grazie alla santità di Gesù, un uomo tra gli uomini, l’umanità può vantare di essere stata fedele a Dio in modo perfetto. Gesù, obbedendo al Padre fino ad affrontare la morte in croce, dissolve tutto il cumulo dei peccati degli uomini. Dio, quando guarda a noi, ci vede attraverso il Figlio Gesù: per l’obbedienza di uno solo, tutti sono costituiti giusti (Cf. 5,19). «Il mio spirito non è che un nulla, ma è associato alla croce, la quale se è scandalo per gli increduli, per noi invece è salvezza e virtù eterna (cf. 1 Cor 1,20-23)» (Ignazio, agli Efesini, 18,1).
«Dio è giusto e come tale non poteva giustificare gli ingiusti: volle perciò che ci fosse l'intervento di un propiziatore affinché fossero giustificati per la fede in lui quanti non potevano essere giustificati per le proprie opere (Orig.,CLR, p.155)».
Egli viene elevato da Dio e posto allo sguardo di tutti perché è il segno del perdono divino per tutti gli uomini (3,25).
«O dolce scambio, o ineffabile creazione, o imprevedibile ricchezza di benefici: l'ingiustizia di molti veniva perdonata per un solo giusto e la giustizia di uno solo toglieva l'empietà di molti!» (Lettera a Diogneto 9,6).
Dio, quando ci giustifica grazie alla santità di Gesù, non intende soltanto perdonarci ma donarci il suo Spirito Santo. Questo è il dono massimo. Qual è il compito dello Spirito? Non riduciamolo a Colui che ci infonde i sette doni. Lo Spirito Santo ha una funzione molto più rilevante: ci infonde i sentimenti di figli di Dio, i sentimenti di Gesù. Lo Spirito Santo vuole renderci un altro Cristo. La giustificazione è dapprima il perdono e poi santificazione, cioè la conformazione a Cristo. Tutti la otterremo in pienezza quando participeremo alla gloria del Cristo Risorto.
Dobbiamo distinguere tra giustificazione e salvezza. La giustificazione è il primo passo: qui tutto dipende da Dio; egli perdona gratuitamente anche i delitti più gravi. Prende Lui l’iniziativa della riconciliazione. La salvezza invece è il traguardo. Ottenuta la giustificazione (perdono di Dio e dono dello Spirito) cominciamo a camminare verso la salvezza. Per il momento siamo salvi soltanto nella speranza. La salvezza dipende anche da noi. Non soltanto da noi: il Signore ripete per noi l’atto di giustificazione se cadiamo nel peccato mortale ma soprattutto precede, accompagna e porta a compimento le azioni virtuose dei giusti. Egli guarda di più ai nostri sforzi e tentativi che ai nostri risultati. Questo atteggiamento possiamo considerarlo l’atto di giustificazione per i giusti.
L’uomo giusto cresce nella ricerca della santità e questa consiste in primo luogo nel rinnegamento di sé. Questo non è il rinnegamento delle nostre abilità ma il rinnegamento di ciò che conduce al peccato. Nella persona santa Dio manifesta tutto l’impeto della sua tenerezza. Se l’ha manifestata verso il peccatore, tanto più la rivela nella persona santa.
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