Cristo miele nascosto
Pellegrinare nel deserto con passo spedito, crescendo di virtù in virtù, è l’atteggiamento tipico della fede (Lett. 22,1).
L’impegno di conversione (o per usare un linguaggio più tradizionale, lo sforzo ascetico), è già un dono escatologico, nel senso che è attuazione della novità del Vangelo. Tuttavia il carattere di anticipazione dei beni futuri, popria di tutta la vita cristiana, appare ancora più chiaramente nelle esperienze vertice della fede, definite oggi esperienze mistiche. Esse vengono viste preannunciate nel dono della manna. Diversamente, qualora la vita cristiana venga definita già come un ingresso nella terra promessa, allora sono i beni tipici della terra, come il latte e il miele, a diventare segni allusivi dei beni futuri della vita eterna.
Gustare la manna
Nel Commento al Cantico dei Cantici, Origene insegna che il Signore si rivela con minore o maggiore intensità, a misura della capacità ricettiva del credente. Egli diventa latte per i battezzati, neonati alla vita; diventa un cibo più leggero per i fedeli ancora deboli nella fede e un cibo solido per quelli che sono capaci di assumerlo.
Dopo queste precisazioni aggiunge: «Se ci sono alcuni che sono usciti dall’Egitto e sono venuti nel deserto, per costoro egli discende dal cielo, presentandosi come cibo minuto e sottile, simile al cibo degli angeli. Chi sarà stato degno di ritornare ad essere con Cristo, costui gusterà e proverà il piacere del Signore» (I, 13 B 257). Il cristiano che avrà ascoltato, che avrà visto, toccato il Verbo, l’avrà odorato e gustato, non proverà alcun interesse i godimenti della terra. Al confronto, tutto gli sembrerà aspro ed amaro. Perciò «solo di quello si nutrirà. L’anima troverà in lui qualunque dolcezza desideri (Cf Sap 16,20)» (I,12 ut supra).
Gregorio Magno attesta: «L'animo percepisce la manna celeste quando, elevato mediante la voce della compunzione, rimane stupito di fronte a un nuovo aspetto del ristoro interiore. Ripieno di divina dolcezza, con ragione si chiede: Che è questo? Quando questa voce rompe la sordità del nostro torpore, a un tratto cambia il ritmo della vecchia vita, e così l'animo guidato dallo Spirito santo desidera le cose del cielo che disprezzava e disprezza quelle della terra che desiderava» (Commento morale a Giobbe, V, VII, 42).
Pier Damiani, a sua volta, attribuisce un significato mistico al dono della manna. La Lettera 27 è inviata ad un monaco di Pomposa, di nome Onesto, il quale tendeva a peccare d’ingordigia. A questi viene chiesto, piuttosto, di imparare a «gustare il sapore di quella divina e mistica manna della quale si dice: aveva il sapore come fior di farina impastato con miele (Es 16,31)» (Lett. 27,4).
La rinuncia è possibile soltanto a chi ha trovato un appaggamento migliore. La manna non è composta soltanto di fior di farina ma di farina pregiata mista a miele. Ora «il miele che si trova nel fior di farina è la dolcezza spirituale che si trova nella lettera» (Mel in simila, dulcedo est spiritalis in littera)» (ivi) .
Per rendere più completa la panoramica sul significato metaforico dei doni del deserto e della terra promessa, richiamo, alcune testimonianze appartenenti al monachesimo orientale, contemporanee al Damiani.
Elia il presbitero distingue tre forme di preghiera: la più misera, quella espressa da chi ha intrapreso da poco una vita spirituale, è paragonata alla permanenza in Egitto; la preghiera del progrediente è simile, invece, al gusto della manna. Infine, «la preghiera unita alla contemplazione spirituale è la terra promessa in cui scorre latte e miele» (Capitoli pratici e contemplativi, 52 in Filocalia 2, 436-437).
Per Niceta di Studion (o Stethatos) (c.1030) il monaco che, dopo un lungo esercizio, ha ottenuto il domino delle passioni, può essere paragonato a chi ha attraversato il mar Rosso ed è entrato nella terra promessa. Lì si ciba di latte e miele, in quanto ottiene la conoscenza di Dio, che è quel sapere per esperienza che rappresenta «l’inesauribile delizia dei santi» (Capitoli naturali, II, 83, in Filocalia 3, 450).
Torniamo ora al Damiani. Nel Sermone 74, parla del monaco che, grazie all’atto di conversione, è già entrato nella terra promessa. In essa gode nella speranza il bene della vita eterna, anche se questa vita, nella sua pienezza, rimane ancora una realtà futura. Che cosa sono, in pratica, cioé fuori metafora, i beni della terra promessa?
Nel sermone secondo (De traslatione sanctii Hilarii), il significato di tali beni diventa più preciso. Egli invita i fedeli a volgere lo sguardo, oltre alle reliquie del santo, «a quel Corpo unico e singolare» ora «innalzato nella gloria della maestà del Padre» (Serm. 2,7). Formulato questo invito, aggiunge a sorpresa: «Quella è la terra cui un tempo anelavano i santi patriarchi e profeti, terra che stilla latte e miele» (ivi). Subito dopo spiega il motivo di questa attribuzione metaforica al Corpo di Cristo Risorto: «Si dice che quella terra fa sgorgare latte e miele, perché nel corpo del nostro Redentore c’è la sostanza della vera carne e la dolcezza dell’ineffabile divinità, Come dice l’Apostolo: in Lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità (Col 2,9)» (ivi).
La relazione tra mistero della risurrezione e l’assunzione del miele era già un dato tradizionale. Alcuni codici del Vangelo di Luca, infatti, riferiscono che Gesù Risorto, incontrando gli apostoli nel Cenacolo, la sera di Pasqua, ha mangiato con loro non solo del pesce ma anche del miele (Lc 24,42-43 Cf Nestle-Aland, Nuovo Testamento, XXVII ed., Roma 1996, p. 245). Secondo Origene, Gesù «lui stesso miele, ne mangiò per largire a noi miele e dolcezza affinché coloro che nella Legge avevano bevuto l’amaro, in seguito, nel Vangelo, mangino il miele del Vangelo» (Sal 80,17 in Origene-Gerolamo, 74 Omelie sul Libro dei Salmi, Edizioni Paoline, Milano 1993, p. 205).
In che modo, secondo il Damiani, Cristo diventa miele per il suo cultore? Lo scorgiamo grazie alle esortazioni in una lettera inviata all’imperatrice Agnese. Questa nobildonna, alla morte del marito (l’imperatore Enrico III), volle ritirarsi a vita monastica, probabilmente senza un’adeguata preparazione. Trovandosi in solitudine, si trovò in forte disagio e ne parlò, con uno scritto, a PD. Nel formulare la sua risposta, il santo monaco le suggerì, di vincere se stessa e di apprezzare il desolato silenzio in cui si trovava, in quanto poteva arricchire la sua solitudine con una viva relazione con Cristo. Ecco le sue parole: «Consolati, o venerabile signora, e allontana dal tuo cuore ogni tristezza. Cristo sia il tuo interlocutore, Cristo sia il tuo assiduo commensale. Sia lui la tua gioia (immo Christus ipse tuae sint deliciae), lui il tuo cibo quotidiano, il tuo alimento di intima dolcezza. Con lui leggi, con lui salmeggia…» (Lett. 124). Il Damiani non parla in modo esplicito di miele ma adopera espressioni equivalenti: «intimae dulcedinis alimentum». È facile ricordare il testo di Origene, già citato, quando prometteva che il battezzato che avanza nel deserto troverà in Cristo «qualunque dolcezza desideri».
Gesù viene scoperto come «dolce miele, dolcezza dei santi e soavità degli angeli» (Vita di Romualdo, XXXI,) proprio da san Romualdo stesso, quando visse a Parenzo come recluso, ossia nella forma di vita eremitica più rigorosa. Il santo stesso interpreta la sua esperienza come una forma anticipata della gioia celeste. Il sentimento «mio dolce miele» gli richiama, infatti, la dolcezza provata dai santi e la soavità goduta dagli angeli. L’elemento fondamentale dell’esperienza, tuttavia, consiste nel mostrare che Romualdo era un uomo che avvampava di un calore indicibile d’amore divino, tale da costringerlo a proferire quelle esclamazioni intense («estuante inenerrabili divini amoris ardore», ivi). Per questo motivo egli viene rapito spesso dalla contemplazione di Dio («frequenter enim tanta illum divinitatis contemplatio rapiebat» (ivi). A fare congiunzione tra cielo e terra è quindi l’amore veemente.
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