Introduzione
Introdotto con l'espressione «così dunque pregate voi», il Padre nostro (Mt 6,9-13) si presenta come l'indicazione della preghiera tipica del discepolo che si contrappone a quella dei pagani.
La versione matteana del Padre nostro è più lunga di quella di Luca (11,2-4). L'opinione più diffusa tra gli esegeti è che non sia stato Luca ad accorciare ma sia stata la versione matteana a subire allargamenti, un fenomeno quest'ultimo tipico dei testi liturgici frequentemente utilizzati. Cosl l'aggiunta alla semplice invocazione «Padre» dell'espressione «nostro nei cieli» sembra doversi attribuire alla redazione matteana o alla sua comunità.
Anche l'allargamento con la terza domanda sul compimento della volontà divina, sia per il vocabolario che per la prospettiva, è dovuto a Matteo (in aggancio forse alla tradizione della sua comunità e anche a preghiere di stampo giudaico). Infine anche l'invocazione positiva «ma liberaci dal male», agganciata alla sesta domanda, pur potendo essere nata in circoli giudeo-cristiani, è entrata nel Padre nostro ad opera di Matteo. Con queste aggiunte la versione matteana appare ben equilibrata: dopo l'invocazione appellativa iniziale, si presentano tre richieste dove si evidenzia il «tuo» e tre richieste dove prevale il «noi-nostro»
L'invocazione iniziale
L'invocazione iniziale dà il tono a tutte le richieste successive. Dio è invocato come Padre nostro che sei nei cieli. Al semplice «Padre» di Luca è aggiunto il possessivo «nostro». La comunità dei discepoli si sente abilitata a rivolgersi a Dio come «Padre nostro» perché Gesù stesso ha parlato a lei del «Padre vostro» (cfr. Mt 5,16.45.48; 6,1.8.14.15.26.32; 7,11; 10,20.29; 18,14; 23,9). La particolare vicinanza di Dio ai discepoli che in questo appellativo si esprime è certamente mediata da Gesù stesso che, specialmente nella sua preghiera, osava rivolgersi a Dio con il confidenziale Abbà (papà) (Mc 14,36; cfr. Gal 4,6; Rm 8,15)3. La preghiera cristiana inizia dunque con questo atto di fede nell'amore di Dio che riposa particolarmente sulla comunità dei discepoli di Gesù e che fa di essa un'unica famiglia.
Al confidente «Padre nostro» Mt aggiunge «nei cieli», secondo un modo di pensare e di esprimersi tipicamente giudaico. Con tale indicazione egli esprime l'alterità di Dio rispetto non solo a tutti i padri terreni, ma anche a tutte le realtà della terra. Improvvisamente Dio sembra essere allontanato nella sua infinita trascendenza. Ma «i cieli» non sono il luogo dove Dio risiede in forma statica, sono piuttosto il luogo dal quale egli esercita, in modo dinamico, il suo potere sull'universo intero. Dio è dunque Padre ma anche Signore del mondo. E i discepoli sono coscienti di poter essere i primi beneficiari di questa signoria divina.
Le prime tre domande
Le prime tre domande non hanno la forma della lode ma di una pressante richiesta. Più che di tre domande distinte si tratta di un'unica domanda che si esprime in tre formulazioni diverse. Occorre, dunque, comprenderle non separatamente ma in reciproca relazione. Tra l'altro esse sono caratterizzate da un procedimento stilistico sostanzialmente comune. La prima e la terza domanda (sulla santificazione del nome e sul compimento della volontà divina) fanno uso del passivo divino così che le realtà invocate devono pensarsi come attuate da Dio. Ma anche nella seconda richiesta sull'avvento del regno si presuppone che sia Dio a realizzarla. Il verbo in posizione enfatica iniziale in tu tte e tre le domande segnala che il desiderio dell'orante punta su un evento. L'uso dell'aoristo (sia santificato - venga - sia fatta ) indica che le richieste sono orientate a un evento puntuale che è l'irrompere escatologico della signoria di Dio, attraverso il quale il nome di Dio sarà manifestato come santo e la sua volontà salvifica avrà compimento. L'attuarsi di un tale evento va letto nell'orizzonte della specificazione agganciata alla terza domanda: «come in cielo così in terra». Ciò che Dio ha già ora deciso «nel cielo» sarà realizzato un giorno da lui «sulla terra» a favore degli uomini.
Sia santificato il tuo nome
La richiesta sulla santificazione del nome va illuminata attraverso il motivo veterotestamentario della profanazione-santificazione del nome di Jahvè. Occorre premettere qui che il «nome» è inteso quasi come il lato esterno di Dio, la manifestazione della sua essenza, della sua santità e maestà. Ora la santificazione di questo nome sembra in qualche caso condizionata alla condotta del popolo che egli si è scelto e a cui ha legato il suo nome. Questo popolo eletto può profanare il nome di Dio con l'idolatria (cfr. Ez 43,7-8) e con il venir meno agli impegni assunti con Dio (cf r. Lv 22,31-32; Ger 34,15-16). In tal modo esso non lascia più trasparire nel suo agire la santità del nome del suo Dio di fronte alle nazioni.
In altri casi la santificazione del nome dipende da Dio stesso, negativamente nel non porre interventi che possano creare scandalo (cf r. Ez 20,9.14.22) e positivamente non lasciando il popolo nella sofferenza (cf r. Is 52,5-6) e venendo in suo soccorso contro i nemici (cfr. Ez 39,7; Is 29,23). La sintesi quasi di queste due prospettive si ha in un significativo testo di Ezechiele (36,20-28) che presenta l'intervento decisivo di Jahvè: egli stesso santificherà allora il suo nome di fronte alle nazioni intervenendo a radunare Israele sulla sua terra e donandogli un cuore nuovo così che possa essere profondamente fedele ai suoi comandamenti. La santificazione del nome di Dio presuppone dunque questo suo intervento escatologico che permetterà agli uomini di riconoscere la sua santità, ma al contempo presuppone anche una comunicazione della santità di Dio agli uomini cosl che essi la potranno far trasparire pienamente.
La prima richiesta del «Padre nostro» riflette questa speranza escatologica. Essa invoca il grande intervento di Dio che inaugurerà il mondo nuovo. Il cristiano che prega così sa però che questa piena manifestazione è già iniziata in Cristo e per il dono dello Spirito. Dio ha già santificato il suo nome in noi credenti perché lo possiamo santificare di fronte agli uomini. L'invocazione perché Dio manifesti in pienezza la santità del suo nome ricorda all'orante che anch'egli deve porsi nella disponibilità a prendere parte alla santificazione del nome divino.
Venga il tuo Regno
La seconda richiesta sull'avvento del regno è intimamente collegata con la prima e ne continua l'istanza. Certamente il regno di cui si invoca la venuta è quello del quale il messaggio di Gesù proclama l'imminenza (cfr. Mt 4,17; 10,7). Gesù però non ne precisa mai la natura. Egli presuppone che i suoi contemporanei sappiano ciò di cui egli parla. L'espressione «regno [dei cieli] di Dio» aveva una duplice valenza. Da una parte essa conteneva la speranza profetica che un giorno Dio si sarebbe fatto presente, sarebbe venuto personalmente per esercitare la sua regalità (cfr. Is 24,23; 40,9; 52,7; Mt 4, 6-7). Dall'altra parte essa si coloriva anche degli accenti tipici dell'apocalittica per la quale il regno di Dio era lo spazio nuovo che egli creava con la sua sovranità. Quando il regno di Dio fosse sceso sulla terra, ciò avrebbe inaugurato la nuova creazione, cosl che questo regno sarebbe stato pieno non solo della gloria di Dio, ma anche della beatitudine per gli uomml.
Quando l'orante invoca la pienezza della venuta del regno ambedue queste prospettive sono presenti. Egli desidera che la regalità di Dio si affermi definitivamente cosl che «Dio sia tutto in tutti» (cfr. lCor 15,28) e che la salvezza giunga pienamente agli uomini. E questa unità, dunque, che l'orante implora: la condizione definitiva del mondo, in cui viene realizzato tutto l'onore dovuto a Dio e tutta la salvezza e la novità del mondo. Ma l'orante sa già che questo regno è "germinato" con Gesù e che la sua pienezza è legata al suo ritorno glorioso. Perciò egli invoca anche «Maranatha» (cfr. lCor 16,22; Ap 22,20), «Vieni Signore Gesù».
Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra
La terza richiesta sul compimento della volontà di Dio è riportata solo da Matteo. La preferenza di questo evangelista per il termine «volontà» (thelema) in relazione all’appellativo «Padre», per indicare Dio, è abbastanza chiara. Alcuni testi che contengono l'espressione «fare la volontà del Padre» (cfr. Mt 7,21; 12,50; 21,30 ) lasciano trasparire che la «volontà» indica le esigenze divine che gli uomini devono compiere con la loro condotta. L'espressione è formalmente simile al linguaggio rabbinico ma il contenuto della volontà del Padre è per Matteo essenzialmente la "misericordia" (cfr. Mt 9,13; 12,7 ). Stando a questa prospettiva di Matteo, la richiesta esprimerebbe il desiderio di vedere le esigenze divine ottemperate e messe in pratica dagli uomini. Occorre però osservare che nella domanda del Padre nostro non è utilizzato il verbo «fare», ma un «si compia» che ha per soggetto Dio stesso. Un espressione identica a quella del Padre nostro si ritrova nella preghiera di Gesù al Gestsemani: «se questo calice non può passare senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà» (Mt 26,42). Al desiderio che gli sia risparmiata la passione, Gesù antepone la richiesta che Dio compia il suo beneplacito e la sua volontà .
La comprensione della terza richiesta sembra averci collocati di fronte a due diverse prospettive: da una parte la volontà divina come esigenza posta agli uomini, dall'altra parte questa volontà come ciò che Dio stesso decide di fare nel suo beneplacito. Le due prospettive non si escludono a vicenda ma si integrano. Già il termine ebraico che corrisponde normalmente a «volontà» (the!ema) contiene sia l'aspetto delle esigenze divine sia la sfumatura della decisione benevola di Dio che sta all'origine del suo disegno di salvezza. Le due prospettive sembrano essere simultaneamente presenti anche nell'aff ermazione matteana.
«Non è volontà del Padre vostro che è nei cieli che uno solo di questi piccoli si perda» (Mt 18,14 ): Dio ha deciso cosl nel suo piano salvifico e questo è comunicato agli uomini sotto forma di esigenza. L'orante dunque nella terza richiesta aspira a vedere realizzata da Dio stesso quella sua volontà che ha per oggetto la venuta del regno e la santificazione di Dio. Questo è il suo primo desiderio. Ma egli sa anche che questo desiderio non può essere profondo e vero senza che ci sia una conformazione degli uomini alle esigenze divine. Perciò egli prega anche perché Dio crei le condizioni per le quali gli uomini possano attuare una tale conformazione. Egli chiede quel cuore nuovo che rende possibile il compimento della volontà di Dio come esigenza interiore. Tutto questo è desiderato per il tempo escatologico. Allora ciò che Dio ha già deciso nel cielo sarà attuato pienamente anche sulla terra. Quanto però si realizzerà un giorno deve diventare già da adesso norma di condotta. L'orante sa che lo Spirito è già stato effuso nel cuore degli uomini e che questo dono rende possibile già da ora l'adempimento della volon tà divina. La sua invocazione perciò diventa anche disponibilità all'impegno.
Le seconde tre domande
Le seconde tre domande sono dominate da una prospettiva diversa da quella delle prime tre: mentre queste imploravano la manifestazione escatologica dell'azione salvifica di Dio, quelle invece orientano lo sguardo alla situazione dell'uomo chiamato alla salvezza. Il raggiungimento di tale salvezza è ora minacciato da tre ostacoli: il pieno assorbimento dell'uomo da parte di un'ansia per le cose che non lascia più spazio per l'unica necessaria preoccupazione che è la ricerca del regno e della giustizia (cfr. Mt 6,25 -34) (domanda del pane); i peccati che hanno reso l'uomo colpevole davanti a Dio (domanda del perdono); il pericolo di cadere in nuovi peccati (domanda di preservazione dalla tentazione). Il passaggio dalle prime tre richiesta di tipo escatologico alle seconde tre che mirano maggiormente alla situazione presente dei discepoli è assicurato dall'invocazione del compimento della volontà di Dio. Perché i discepoli possano adempiere in pienezza le esigenze divine già da ora è necessario che essi siano liberati da tutto ciò che ostacola la piena adeguazione al volere divino.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano
La domanda del pane è da intendere, più in generale, come la richiesta del sostentamento essenziale per la vita di cui il pane è l'elemento principale. L'aggettivo «nostro» lo qualifica come il pane di cui noi abbiamo bisogno e che ci dobbiamo faticosamente procurare. Ogni interpretazione allegorizzante o simbolica di questo pane è già preclusa in partenza. Non si tratta né del pane del banchetto escatologico (cfr. Lc 14,15) né del pane eucaristico, ma semplicemente e solamente del pane terreno indispensabile per la nostra vita. La richiesta è che questo pane Dio lo faccia giungere a noi come un dono «per oggi». La posizione enfatica di questo «oggi» nel testo greco segnala l'urgenza con cui il pane è domandato: di esso se ne ha bisogno già oggi. Nel contempo l'oggi sottolinea anche che l'orante è preoccupato solo del giorno presente. Il domani non lo deve tenere nell'ansia: «non aff annatevi dunque per il domani, perché il domani avrà le sue inquietudini. A ciascun giorno basta già la sua pena» (Mt 6,34). Un tale atteggiamento è reso possibile solo dalla fiducia nella provvidenz a del Padre: «Il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno» (6,32).
Tutto questo contesto facilita la comprensione dell'aggettivo epioùsios che viene tradotto impropriamente con «quotidiano». Assente negli autori antichi, questo aggettivo è problematico anche quanto all'etimologia. La derivazione più naturale, da épiousa (héméra) verrebbe a qualificare il pane come «quello del giorno che viene». Pensare però al pane del domani non solo sarebbe in contraddizione con tutto il contesto ma impoverirebbe la richiesta anche rispetto al tradizionale insegnamento giudaico. Occorre perciò pensare al "giorno che viene" come "al giorno in cui si è", cioè all'oggi. Siamo dunque di fronte ad una richiesta che coerentemente attende «oggi» il sostentamento essenziale "per questo giorno".
Certamente una preghiera cosl radicale è comprensibile solo in un contesto di vita particolare, contrassegnato da una povertà in cui il bisogno dell'oggi incalza a tal punto che non ci si può dar pensiero per il domani. È il contesto dei discepoli di Gesù che, lasciato tutto, lo seguono e condividono con lui la povertà, attenti soltanto alla realtà del regno. Il dono del sostentamento per l'oggi diventa la condizione che permette loro di dedicarsi totalmente all'annuncio del regno. Diversa è la prospettiva in cui Luca colloca la richiesta del pane. È una prospettiva che meglio si adatta alla situazione di tutti i cristiani. Egli fa pregare perché Dio «doni» (al presente e quindi in senso permanente) il pane «ogni giorno». Viene quindi già da ora richiesto anche per il futuro il dono di ciò che è essenziale per il sostentamento.
Al di là dei diversi contesti, possiamo comprendere lo spirito che Gesù vuole alimentare con questa domanda. Egli insegna innanzitutto a non chiedere più di ciò che è necessario ed essenziale alla vita. Chi prega cosl perciò non può lasciarsi prendere dall'ansia per le cose né tantomeno mettersi al servizio idolatrico di Mammona (cf r. Mt 6,24). Inoltre Gesù vuole far crescere una forte e illimitata fiducia in quel «Padre» a cui tutto è possibile. Questi conosce già in anticipo ciò di cui abbiamo bisogno e non ce lo farà mancare.
Rimetti a noi i nostri debiti...
La domanda del perdono è formata da due elementi: la richiesta a Dio e la condizione alla quale tale richiesta è possibile. L'immagine che domina la formulazione è quella dei debiti e del debitore (mentre Luca nel primo elemen to preferisce il termine «peccati» a lui più congeniale). Tale immagine era in uso nel giudaismo per indicare la condizione del peccatore di fronte a Dio. Gesù utilizza l'immagine, ma la sua prospettiva è nuova rispetto a quella giudaica. Mentre i rabbini si preoccupano di come assolvere il debito con il compimento delle buone opere, Gesù dichiara che il debiro del peccatore è insolvibile (cf r. il debito smisurato del servo impietoso: Mt 18,24). Certamente per Gesù questo debito non è costituito semplicemente dalle trasgressioni morali, ma anche dalle inadempienze e omissioni di fronte alle radicale esigenze che Dio pone all'uomo. Per evitare la catastrofe del giudizio non resta al peccatore che invocare Dio perché nella sua grazia rimetta già da ora il debito. Questo è il senso del primo elemento della domanda.
Se l'uomo peccatore non può risarcire Dio, può però adempiere una condizione per accogliere la grazia del condono divino: perdonare coloro che hanno debiti nei suoi confronti. Un tale rapporto per il perdono di Dio e il perdono da concedere ai fratelli è bene illustrato dalla parabola del servo impietoso (Mt 18,23-35), dal commento a questa richiesta contenuto in Mt 6,14-15, ed è presente nella beatitudine: «Beati i misericordiosi perché otterranno misericordia» (Mt 5,7). Occorre trattare i fratelli nella maniera in cui desideriamo essere trattati da Dio.
Ma è possibile precisare meglio il rapporto tra queste due realtà guardando attentamente alla formulazione matteana? L'uso dell'aoristo nel secondo elemento della domanda sembra indicare che l'orante dichiara di aver già perdonato i suoi debiti nel momento in cui si appresta a chiedere a Dio il perdono. Egli sa che il perdono divino è gratuito e incondizionato, ma sa anche che questo perdono lo impegna a sua volta a perdonare, perciò enuncia che questo impegno egli l'ha già assolto. Diversamente Luca, usando il presente e sottolineando «ad ogni debitore», fa dichiarare all'orante la sua disponibilità al perdono "sempre" e "per ciascuno" . Resta da notare che il «come noi abbiamo rimesso pure ai nostri debitori» sembra stabilire una certa analogia tra il perdono concesso da Dio e quello concesso al fratello. Si può dire che Dio ricalca la sua azione sulla nostra, ma anche che la nostra è ricalcata sulla sua, perché è la sua misericordia cbe ci ha spinto ad essere misericordiosi.
Non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male
L'ultima domanda è, nella versione matteana, composta da due invocazioni, la prima negativa e la seconda positiva .
La prima riguarda la «tentazione». Abitualmente noi pensiamo alla tentazione in termini psicologici, come l'attrazione verso una cosa cattiva. Ben diversa è la concezione biblica. Il peirasmòs ("tentazione") è propriamente l'azione attraverso la quale viene verificata o messa alla prova la qualità di una cosa o di una persona. Così Dio mette alla prova !a fede di Abramo chiedendogli il sacrificio del suo unico figlio (cfr. Gn 22, lss.), mette alla prova i giusti come l'oro nel crogiolo, per vedere se sono degni di lui (Sap 3,5-6), mette alla prova il suo popolo dmante la peregrinazione del deserto per saggiare il suo cuore (Dt 8,2). L'oran te stesso, con grande fiducia nella propria perseveranza, può chiedere: «Scrutami, Signore, metti mi alla prova» (Sal 26,2). In qualche testo dell'Antico Testamento (cfr. Gb l,6ss; lCr 2 1,1) e poi nel giudaismo Satana è presentato come l'autore immediato di questa «tentazione». Nel Nuovo Testamento Satana diviene il «tentatore» per eccellenza (Mt 4,3; 1Ts 3,5; Cor 7,5; Ap 2,10) cancro il quale occorre resistere (cf r. lPt 5,8-9).
Nell'invocazione che stiamo esaminando la «tentazione» è vista in modo più profondo e pericoloso che il semplice essere messi alla prova da parte di Dio. Qui la tentazione è quasi sinonimo cli "caduta". Essa sembra quasi già identica a quel «male» dal quale si chiederà la liberazione nella successiva e parallela invocazione .
Si ha l'impressione che entrare in questa tentazione significhi in qualche modo già essere perduti. Per questo l'orante chiede a Dio che neppure lo introduca in questa tentazione. Di quale tentazione può trattarsi? Certamente essa ha a che fare con la grande prova e con la grande tribolazione che, nella prospettiva apocalittica, precede la fine (cfr. Mc 13,9-10; Ap 3,10). Sarà una tentazione così pericolosa da rendere plausibile la domanda: «Il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Le 18,8). Dobbiamo però tenere presente che per Gesù e i suoi discepoli la decisiva svolta dei tempi è già avvenuta e il regno è già vicino. Il pericolo perciò della grande tentazione è da vedere non in un futuro remoto ma già nel tempo presente. È il pericolo di trascurare i segni ancora poco appariscenti del regno germinale, è il pericolo di scandalizzarsi di Gesù che ne è il portatore . La grave tentazione è dunque quella di defezionare nella fede e nella sequela. L'orante che conosce la decisività di tale caduta chiede fiduciosamente al Padre di non essere mai introdotto in questa tentazione.
Parallela a questa invocazione negativa, Matteo colloca quella positiva della liberazione dal male o dal Maligno. Il testo greco non permette di stabilire con chiarezza se si tratti di un neutro (male) o di un maschile (Maligno). Certamente si tratta qui di un male morale e non tanto delle disgrazie terrene (anche se Gesù si è occupato pure di queste, non dandoci però la rassicurazione piena contro di esse). Questo «male» infatti è da intendere in parallelo alla «tentazione» di cui si è parlato sopra. La richiesta di essere «liberati» lascia intendere che questo male ci circonda, ci minaccia ed è sempre in grado di afferrarci. Occorre che il Padre, del quale l'orante si fida totalmente, ci strappi da questa minacciosa presenza. È possibile, tenendo conto del parallelismo con l'invocazione sulla tentazione, che dietro questo male quasi personificato si profili l'ombra del Maligno, il grande artefice della tentazione. In ogni caso la preghiera si chiude su questo grido di liberazione, che al contempo mostra lacuta coscienza del male con cui si vive a contatto, ma anche la fiduciosa apertura a quel Padre che può proteggere e strappare da questa insidiosa potenza .
L'insieme delle tre richieste fa emergere i bisogni fondamentali per i quali occorre pregare. Sono questi bisogni essenziali che mantengono la vita del credente nella possibilità di esprimersi in pienezza, libera dall'ansia delle cose per la dedizione al regno, libera dal peccato per gustare la riconciliazione e la pace, libera dalla rovinosità della tentazione e dalla minaccia del male per poter sentire sempre presente l'amorosa paternità di Dio. E tutto ciò è da chiedere non come singoli ma come comunità. Il «noi» domina tutte queste richieste così che "gli altri" devono sempre essere coin volti nelle nostre supreme aspirazioni e domande.
Osservazioni conclusive
La preghiera insegnata da Gesù ai suoi discepoli, destinata a diventare il paradigma e il modello per ogni pregare del credente, è fortemente segnata dall'esperienza di Gesù. Ciò sra· a significare che la preghiera del discepolo, per essere autentica, presuppone che il discepolo sia entrato e sia disponibile ad entrare sempre più neli'esperienza del suo Maestro e Signore. A farci entrare pienamente in questa esperienza è il dono dello Spirito (cfr. Gal 4,4; Rm 8,15): è lo Spirito infatti che apre il credente alla comunione con Cristo e gli dona di poter invocare con fiducia filiale «Abbà-Padre». È questo orizzonte di una relazione filiale-paterna, sul modello di Gesù, che sostiene e rende possibili le invocazioni e le richieste che la preghiera del «Padre nostro» presenta .
Con le prime tre invocazioni il credente grida perché Dio stesso realizzi pienamente il suo disegno di salvezza e nel contempo si dispone a far propri i desideri di Dio: il Regno, la santificazione del nome divino, il compimento della sua volontà santa. È un grido questo che sale dolorosamente da un mondo in cui queste realtà sono ancora lontane dal compimento, ma al contempo è un grido carico di speranza rivolto fiduciosamente a quel Padre della cui potenza e fedeltà il credente non può dubitare.
Le richieste della seconda parte, invece, tendono a far si che il Padre, che sa ciò di cui abbiamo bisogno, faccia suo e realizzi per noi ciò che è vitale ed essenziale per la nostra esistenza: il pane, la riconciliazione, il permanere nella fede, la liberazione dalla potenza del male. Ma mentre chiedono al Padre che si faccia carico dei loro bisogni essenziali, i credenti prendono coscienza di ciò che veramente è indispensabile alla loro vita e a quella di tutti gli uomini e si avvertono impegnati responsabilmente e solidarmente a perseguirne la realizzazione.
Nello scambio con cui ci apriamo ai desideri di Dio e affidiamo a Dio le nostre fondamentali necessità si consolida quella relazione filiale che caratterizza la preghiera di Gesù e del credente. Nel contempo però proprio questa rinnovata coscienza della relazione filiale ci apre alla fraternità e alla responsabilità di costruire insieme un'umanità nuova e solidale.
Augusto Barbi, biblista (Verona)
Da “Figli dell’unico Padre”, Verona 1999
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