mercoledì 8 marzo 2023

Gregorio di Nissa Omelie sul Cantico dei cantici 7.8.9

 

  1. OMELIA VII

Compare un’interpretazione teologica (allegorica) dell’elogio delle membra del corpo dell’amato e dell’amata. Considerevole è la celebrazione della Sposa/Chiesa per essere stata capace di assimilare la carità di Cristo. Vengono elogiati i ministri della Chiesa che svolgono in modo egregio il loro compito ma anche il movimento ascetico (pre-monastico) è intento a realizzare le virtù proprie di ogni battezzato. 

Una lettiga si è fatta il re Salomone con legno del Libano. Le sue colonne le ha fatte d'argento, d'oro la sua spalliera, il suo seggio di porpora.

(Ct 3,9). L’amato, stimato come il re Salomone, ha costruito per la sua innamorata una lettiga. In ebraico (TM) ‘appiryon significa lettiga nuziale ma anche stanza del trono; in greco (LXX), phoreion è, invece, soltanto una lettiga. Il battezzato deve diventare il luogo che accoglie il Signore, lo porta in se stesso e lo dona a tutti gli uomini. 

«Nei versetti precedenti, che si riferivano a Salomone, la nostra interpretazione riuscì a cogliere quei tratti che preannunziavano nella sua persona il mistero del Signore. Ora l'immagine della costruzione della portantina prefigura l'azione salvifica del Signore a nostro favore. Dio abita in modi diversi alle persone che sono degne di lui, si rende presente in loro a seconda della disponibilità e del merito di ciascuno. Uno diventa il luogo dove Dio abita, un altro la sua dimora, un terzo il suo trono, un altro ancora il suo sgabello. […] Come ora stiamo apprendendo, qualcuno diventa anche la sua portantina, costruita, grazie alla sua sapienza, non soltanto con legno del Libano, ma anche con oro e argento, con porpora e gemme preziose, ornata convenientemente in ogni parte. Realizzando queste opere, il suo amore diventa effettivo; non tutti infatti sono capaci di possedere la forza dell'amore, ma solo chi è una figlia di Gerusalemme di lassù, che è libera ed è riconoscibile come tale dal suo comportamento. Chi porta Dio in se stesso, diventa una portantina del Signore che abita e risiede in lui. Questo è evidente, anche senza che lo spieghi. Il cristiano che — per usare le parole di san Paolo — non è più lui a vivere ma porta in sé Cristo vivente in lui (Gal 2,20) e prova che in lui parla Cristo (2 Cor 3,12), giustamente viene considerato — ed è realmente — una lettiga del Signore. Egli lo porta dentro di sé ma, a sua volta, viene portato da lui» (B 1088). 

G. si dilunga nell’allegorismo indicando un particolare significato ad ogni materiale di cui è fatto la portantina (B 1090-1096). 

Figlio di Gerusalemme uscite e guardate il re Salomone, ornato della sua corona con cui lo incoronò sua madre nel giorno delle sue nozze, nel giorno della gioia del suo cuore

(Ct 3,11). Le ragazze sono invitate a recarsi ad ammirare il suo amato; è paragonato a Salomone, ornato della corona regale procuratagli dalla madre [Betsabea] ( cf. 1 Re 1,15-31.

L’invito diventa l’occasione par parlare della natura divina che presenta le caratteristiche della paternità e della maternità, pur trascendendo il genere. La corona di cui si adorna la Sposa/Chiesa è la carità. L’amata ha acquisito la stessa carità del Cristo; in questo consiste la sua bellezza e per questa virtù è amata particolarmente dallo Sposo/Cristo. 

«Il testo seguente presenta l'esortazione rivolta dalla sposa alle figlie di Gerusalemme. Voi, divenute fìglie di Sion, ammirate la corona posata sul capo del re! Gliel'ha posta la madre, come preannunzia il salmista: Gli poni sul capo una corona di gemme preziose (Sal 20,4). Nessuno studioso della Scrittura si metterà a disquisire sul significato di questo termine, chiedendosi come mai si faccia menzione della madre, anziché del padre, poiché in questo caso il senso dei vocaboli è identico. Dio non è né maschio né femmina. (Come pensare una cosa simile a proposito della divinità, quando neppure per noi uomini questa distinzione varrà per sempre e quando tutti diventeremo una cosa sola con Cristo, ci spoglieremo di questa diversità insieme a tutto l'uomo vecchio). A ogni qualità che attribuiamo al divino, dobbiamo assegnare lo stesso valore che possiede ogni altra caratteristica della natura immortale e la natura purissima non deve essere macchiata con un concetto che introduca la distinzione tra maschio e femmina. Nel Vangelo il padre ordina di preparare le nozze per il figlio (Mt 22,2) e il testo del salmo dice, riferendo a Dio il discorso: Gli poni sul capo una corona di pietre preziose (Sal 20,4). In questo versetto, invece, si afferma che la corona viene imposta dalla madre allo sposo. Se c'è un solo sposalizio e una sola sposa e la corona viene imposta allo sposo da parte di una sola persona, non c'è neppure alcuna differenza, sia che il Dio Unigenito venga chiamato Figlio di Dio, sia che venga detto Figlio del suo amore (Col 1,13) — come fa Paolo —, poiché con l’uno o l’altro vocabolo si fa riferimento all’unica forza che predispone l'evento nuziale, la sua venuta per abitare tra noi» (B 1098). 

«La sposa esorta, allora, le giovani: Uscite e diventate fìglie di Sion affinchè da questa specola elevata (Sion ha questo significato) possiate ammirare la meravigliosa visione: lo sposo cinto di una corona. La corona è la Chiesa che gli cinge il capo con pietre viventi. A intrecciare questa corona è la carità la quale può essere chiamata senza errore sia madre, sia carità, poiché Dio è amore, secondo il messaggio di Giovanni (1 Gv 4,8). La sposa dichiara che egli si rallegra per questa corona e che è tutto gioioso di un simile ornamento nuziale. Veramente esulta il Signore che ha fatto della Chiesa la sua sposa adornandosi delle virtù degli uomini che risplendono in essa, come di una corona (B 100). 

Il Verbo, rallegrandosi nel vedere che la sposa possiede un amore così grande verso gli uomini perché, imitando il Signore, anche lei vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità (1 Tm 2,4), si adopera per renderla più famosa, mettendosi a svolgere il ruolo di banditore e di pittore della sua bellezza. Non rivolge un elogio alla sua grazia in modo vago e non descrive la sua prestanza genericamente, al contrario, nel corso del suo encomio, egli contempla le sue membra ad una ad una e traccia una lode appropriata a ciascuna, dando dei giudizi e operando dei confronti. Così le dice: Come sei bella, amica mia, come sei bella! Realmente ella ha imitato la volontà benevola del Signore e ha dato alle giovani l'ordine di uscire, come fece Abramo (Gen 12,1), dalla propria terra e dalla propria parentela, quella a cui si sono legate attraverso i sensi, affinchè possano vedere lo sposo puro, colui che si cinge della Chiesa come di una corona. Con questo gesto, si è accostata alla bontà del Signore e mostrando amore per il prossimo si è avvicinata a Dio. Quanto sei bella le dice il Verbo perché ti sei avvicinata alla bellezza con una determinazione positiva (B 1100 e 1102).

I tuoi occhi sono colombe

(Ct 4,1). Il giovane esprime grande ammirazione per la sua amata. 

Nell’interpretazione allegorica delle varie membra del corpo, risalta il valore degli occhi, poiché la vista richiama il carisma profetico dell’annuncio della Parola e della vigilanza pastorale delle autorità ecclesiali. Chi svolge questi servizi deve essere una persona spirituale, guidata dallo Spirito, simboleggiato dalla colomba. Il tema, già presente nell’Omelia IV (B 920), viene sviluppato a lungo nell’Omelia XIII (B 1402.1404).

«Tutta la Chiesa costiuisce l'unico corpo di Cristo (cf 1 Cor 12,12-17 ma in quest'unico organismo, come dice l'apostolo, ci sono molte membra, sebbene tutte le membra non svolgano il medesimo compito. Dio stabilì nel corpo di Cristo delle persone che esercitassero la funzione di occhio, altre le pose come orecchio, altre ancora fungono da mani per l'efficacia delle loro opere. Alcuni possono essere considerati come i piedi perché sostengono i pesi [....] (B 1102).  

Voi che mi ascoltate, comprendete chiaramente a quali membra della Chiesa spetti l'elogio proprio degli occhi. Occhio era Samuele, «colui che guarda» (così veniva chiamato) (cf 1 Sm 9,9), era occhio Ezechiele, posto da Dio come sentinella per salvare gli uomini che gli erano stati affidati (Ez 3,17). Era occhio anche Michea, colui che vede, Mosè il contemplante e per questo fu detto Dio (cf Es 7,1). Furono occhi tutti i profeti stabiliti come guida del popolo e gli uomini di quel tempo li chiamarono veggenti. Anche ora quelle persone che nel corpo della Chiesa esercitano quel compito e vengono stabilite per la sorveglianza, sono chiamate giustamente occhi purché contemplino attentamente il Sole di giustizia, non permettano che la loro vista venga offuscata dalle opere delle tenebre e distinguano ciò che ci appartiene da ciò che ci è estraneo, sapendo che sono estranee alla nostra natura le cose che appaiono ai sensi e sono transitorie, mentre ci appartengono i beni che sono posti davanti alla nostra speranza e il cui possesso rimane per noi duraturo, senza che ci possa essere tolto. È compito degli occhi distinguere tra ciò che giova e ciò che nuoce, affinchè amiamo l'Amico vero con tutto il cuore, con tutta l'anima e tutte le forze e mostriamo, invece, un odio pieno contro il nemico della nostra vita. La persona che esercita con diligenza il compito proprio di un occhio puro e sano, ci custodisce nel cammino verso Dio, come farebbe l'occhio fisico, mostrandosi superiore agli altri grazie al suo comportamento. Per questo il testo elogia la bellezza della sposa cominciando da questo particolare: “I tuoi occhi sono colombe”. Verifìcando che i sorveglianti, posti a fungere da occhi, sono puri dal male, li chiama colombe, approvando la semplicità e la purezza del loro comportamento; la colomba rappresenta, infatti, l'innocenza. O forse il Verbo celebra gli occhi con questo paragone per la motivazione che ora espongo. Quando le immagini delle cose viste penetrano nella pupilla tersa, allora si realizza l'atto del vedere. È necessario, quindi, accogliere nell'occhio la forma di tutto ciò che si osserva, lasciando che gli si imprima l'impronta di ciò che si è visto, come accade a uno specchio. L'autorità che ha ricevuto il compito di sorvegliare sulla comunità rafforza la sua vitalità spirituale se non si interessa di nessuna cosa terrena. Chi vive in questo modo, si conforma alla grazia dello Spirito Santo. L'elogio più grande che si possa rivolgere a queste persone che fungono da occhi, è riconoscere che la loro vita si è conformata alla grazia dello Spirito Santo; la colomba rappresenta lo Spirito Santo» (B 1104.1106.1108). 

Le tue chiome come greggi di capre mentre scendono dalle pendici del Galaad

(Ct 4,1). I capelli «qui appaiono sciolti e disordinati, selvaggi e indomabili… l’amore è qualcosa di vitale, di misterioso come le forze della natura»

L’elogio della capigliatura, paragonata a quelle delle capre del Galaad, spinge G. a ricordare la figura del profeta Elia che proveniva da quella regione (1 Re 17,1). Elia era un personaggio a cui si ispirava il movimento ascetico contemporaneo a Gregorio, molto stimato da lui (cf. Omelia XV B 1502.1504). 

«Il Verbo vuole elogiare la vita virtuosa. Conviene, allora, aggiungere anche un altro motivo a questo discorso sui capelli: essi non possiedono alcun senso vitale — è un particolare piuttosto rilevante che aggiunge pregio ai capelli — non si trova in loro né la sensazione del dolore, né quella del piacere. Il corpo a cui appartengono sente dolore se uno di essi viene strappato, ma il capello, anche se viene tagliato, se viene bruciato o se viene acconciato nei trattamenti estetici, non avverte nulla di quanto gli accade. L'insensibilità completa è una peculiarità dei morti. Di conseguenza, chi rimane indifferente verso ciò che in questa vita suscita grande impressione, non si esalta nella gloria e nell'onore, ne si lascia andare all'abbattimento nell'umiliazione e nel disonore, ma riesce a mantenere se stesso nel medesimo stato d'animo in entrambe queste circostanze opposte, questi è la chioma della sposa, tanto celebrata. Egli è diventato in tutto come un morto, totalmente impassibile alle cose del mondo, in questa o in quella circostanza (B 1110-1112). 

Come mai i capelli, nei pregi che presentano, vengono paragonati a un gruppo di capre che scendono dal Galaad? Nell'interpretare il simbolo delle capre, forse viene a proposito il ricordo di Elia, che condusse a lungo, sul monte Galaad (1 Re 1,8) una vita sapiente e in particolare diede esempio di austerità: era terribile a vedersi, irsuto nei capelli, ricoperto di una pelle di capra anziché di una morbida veste. Tutti quelli che conducono la loro vita a imitazione di quel profeta diventano un ornamento della Chiesa; disposti in piccoli greggi secondo lo stile di quella vita sapiente che si trova condotta attualmente, cercano con sforzo di conseguire la virtù vivendo insieme. II fatto che tali capre provengano da Galaad, rende ancora maggiore la grandezza del prodigio, poiché, pur avendo condotto un'esistenza da pagani, avvenne per noi uno straordinario cambiamento, tale da essere capaci di assumere una condotta sapiente secondo il volere di Dio. Questo nuovo essere non ebbe origine da Sion, il suo monte santo, ma un popolo dato agli idoli fu capace di un cambiamento così significativo e in tal modo il capo della sposa potè adornarsi di questi successi nel campo della virtù» (B 1114).

Me ne andrò al monte della mirra e alla collina dell'incenso

(Ct 4,6) l giovane esprime il vivo desiderio di recarsi dalla sua amata. 

Per G., la mirra richiama la morte del Signore. Il tema della conformazione a Cristo del battezzato si appropondisce con il riferimento alla partecipazione alla sua Pasqua. Solo Cristo libera l’uomo dal male.  

«Il Verbo, fino a questo momento, ha pronunziato una lode alle singole membra della Chiesa ma nel testo che segue si propone di elogiare l'intero corpo, dopo che con la sua morte avrà distrutto colui che ha il potere sulla morte e di nuovo avrà ricondotto se stesso alla medesima gloria divina, quella che aveva all'inizio, prima della creazione del mondo. Infatti, con l'espressione: Me ne andrò al monte della mirra e alla collina dell'incenso allude alla sua divinità ma poi aggiunge: “Tutta bella sei amica mia, in te nessuna macchia”. Con questo insegna che nessuno può strappargli la vita; soltanto chi si reca al monte della mirra ha il potere di dare la vita e di riprenderla di nuovo (Gv 10,18). Questo accadrà non in base alle nostre opere - affinchè nessuno se ne possa gloriare (Ef 2,8-9) - ma per la grazia del Signore che ha ricevuto la morte per i peccatori. Nessun altro può purificare la natura umana dalla sua macchia se non l'Agnello che toglie i peccati del mondo (Gv 1,29) ed elimina totalmente la colpa con la sua opera. […] Dopo aver richiamato il mistero della sua passione attraverso il simbolo della mirra e menzionato l'incenso, con il quale manifesta la sua divinità, ci insegna che l’uomo che prende parte alla mirra, parteciperà in modo completo anche all'incenso. Chi prende parte alla passione, si troverà totalmente unito a lui nella gloria. Chi si è trovato, definitivamente, nella gloria divina, diventa tutto bello e libero da qualsiasi macchia nociva. Anche noi dobbiamo liberarci da esse per Gesù Cristo nostro Signore, che è morto e risorto per noi, a lui si deve gloria e potenza, per tutti i secoli dei secoli. Amen» (B 1146.1148.1150). 


  1. Sintesi

Compare un’interpretazione teologica (allegorica) dell’elogio delle membra del corpo dell’amato e dell’amata. 

Le amiche della giovane, sono invitate a recarsi ad ammirare il suo amato; è paragonato a Salomone, ornato della corona regale procuratagli dalla madre. L’invito diventa l’occasione par parlare della natura divina che presenta le caratteristiche della paternità e della maternità, pur trascendendo il genere. La corona di cui si adorna la Sposa/Chiesa è la carità. L’amata ha acquisito la stessa carità del Cristo; in questo consiste la sua bellezza e per questa virtù è amata particolarmente dallo Sposo/Cristo. Nell’interpretazione allegorica delle varie membra del corpo, risalta il valore degli occhi, poiché la vista richiama il carisma profetico dell’annuncio della Parola e della vigilanza pastorale delle autorità ecclesiali. Chi svolge questi servizi deve essere una persona spirituale, guidata dallo Spirito, simboleggiato dalla colomba. 

I capelli sciolti e disordinati, ricordano che l’amore è qualcosa di vitale, di misterioso come le forze della natura. L’elogio della capigliatura, paragonata a quelle delle capre del Galaad, spinge G. a ricordare la figura del profeta Elia che proveniva da quella regione (1 Re 17,1). Elia era un personaggio a cui si ispirava il movimento ascetico contemporaneo a Gregorio, molto stimato da lui.



Omelia VIII


G. si sofferma a lungo a parlare dell’inconprensibilità, inacessibilità e infinità di Dio. L’uomo può conoscerlo e comunicare con Lui perché Egli, nella sua bontà, ha voluto rivelarsi a lui ma, mentre lo conosce, non può né afferrarne l’essenza mediante il concetto, né comprendere appieno le ragioni della sua provvidenza. Tuttavia l’inafferrabilità della conoscenza di Lui, non deve essere avvertita dall’uomo come uno smacco o un’umiliazione ma come un’opportunità, perché egli può crescere di continuo nella ricerca e, a sua volta, dilatarsi all’infinito per grazia. 

Il concetto dell’infinità di Dio si unisce, quindi, a quello della crescita permanente possibile all’uomo (epektasis). È questo l’argomento principale dell’Omelia. Il termine deriva dal verbo epekteino (mi protendo, mi slancio) usato da Paolo, il quale si sente come un corridore sbilanciato in avanti, nello sforzo della gara. G. conferma il tema, tipico della suo pensiero, del progresso continuo nel bene e nell'avanzamento verso Dio. Una trattazione più esauriente sul tema dell'epektasis si trova nel Prologo alla Vita di Mosè: «Per Gregorio, Dio e l'uomo fanno parte del mondo intelligibile. Ora lo spirito di per sé è illimitato. Da questo punto di vista Dio e l'anima fanno parte del medesimo ordine. La differenza essenziale, tuttavia, sta nel fatto che Dio è infinito in atto, mentre l'anima lo è in divenire... Come infinito in divenire, la creazione deve assumere lo stato della crescita» Cf J. Daniélou, Platonismo et Théologie mystique, Paris 1944, 317: «L'épectase». G. s’ispira all’Omelia sui Numeri (17,4) di Origene.

«È sempre notevole ciò che scopriamo di [Dio], la Natura beata, colma di bene. Tuttavia [il bene] che ci trascende è sempre molto più esteso di quanto abbiamo afferrato; questo vale in continuità per l'uomo che partecipa di Lui nell'intera estensione dei secoli. Chi partecipa, infatti, riceve beni sempre maggiori. Il puro di cuore, secondo la parola veritiera del Signore, vede Dio. Sempre, nella misura di quanto può contenerlo, altrettanto diventa capace di conoscerlo. Ciò nonostante, l'essenza infinita e inafferrabile della natura divina rimane superiore a ogni nostra comprensione. [...]. “Tu sei l’Altissimo in eterno, Signore!” (Sal 101,13). Il salmista, voleva dire, forse, che l'uomo che si affretta verso di te, per tutta l'estensione dei secoli, sempre cresce e sempre ascende, crescendo a misura della sublimità dei beni [ottenuti]» (B 1154 e 1156). 

Tuttavia, o Altissimo, rimani il medesimo in eterno e perciò sei sempre più sublime e più eccelso di quanto possano giungere gli uomini più elevati. Ritengo che l'apostolo Paolo intendesse insegnare queste cose quando ci parlava della natura divina ricca di qualità ineffabili, là dove parla di quel bene che nessun occhio mai vide, sebbene lo si possa contemplare sempre (non viene visto in tutta la sua vastità ma solo per quanto l'occhio è capace di riceverlo); di ciò che nessun orecchio mai udì, sebbene, limitatamente a quanto egli si comunichi, possa percepirne qualche suono, con la sua forza auditiva; di quel bene che mai entrò in cuore di uomo, sebbene l'uomo dal cuore puro lo contempli nella misura in cui lo può intravedere (cf 1 Cor 2,9)».

Il versetto (di 1 Cor 2,9) è stato molto amato e citato nella tradizione mistica. In realtà secondo l’attuale esegesi, Paolo intende parlare di quell’evento sorprendente che è stato la crocifissione del Messia. Molti autori mistici, invece, come anche G., lo leggeranno come un’anticipazione profetica delle loro esperienze spirituali particolari. G. stesso lo cita, in questo senso mistico, anche altrove: «Non è possibile svelare agli uomini quei beni che superano la percezione e la conoscenza umane. Né infatti occhio vide, né orecchio udì…».

Ciò che viene colto, di volta in volta, è sempre migliore di quanto era già stato afferrato. Ciò che viene cercato non ha limiti in sé. [Perciò] quanto è stato conseguito, diventa [soltanto] una tappa iniziale in vista d’una scoperta ben più estesa, riservata a quanti salgono. Di conseguenza, la persona che sta salendo, non desiste mai e ricomincia da capo senza posa, come neppure si esaurisce la sorgente di doni sempre più preziosi (B 1156). 

«Vieni dal Libano, o sposa, vieni dal Libano. Arriverai e passerai dal principio della fede, dal capo del Sanir e dell'Ermon, dalle tane dei leoni, dai monti dei leopardi».

(Ct 4,8). Lo Sposo rinnova l’invito all’amata di recarsi da Lui. Ormai la giovane non è più soltanto una fidanzata ma una vera sposa (ouketi mneste alla nymphe) (B 1160). Di nuovo compare il tema della crescita perenne nel bene. In questo passo tale disponibilità non sorge dalla bontà originaria della Sposa ma dalla continua chiamata del suo Amato che la cerca senza dimenticarsi mai di lei; ha cominciato ad invitarla a partire dal battesimo. 

«Che cosa scorgiamo in questo invito? La Fonte del bene attira sempre a sé gli assetati, come dichiara nel testo evangelico la Sorgente: “Chi ha sete venga a me e beva” (Gv 7,37). Con questa esortazione [Cristo] non pone limiti alla sete, né allo slancio verso di lui né al ristoro dell'appagamento. Al contrario, la forza persuasiva del suo comando lo rende duraturo, stimola la sete, ci spinge a bere e a desiderarlo. Quelli che hanno già assaporato apprendendo per esperienza la bontà del Signore, sentono che il loro gusto li stimola a una partecipazione più intensa. Continua a echeggiare, all'interno dell'uomo che sta ascendendo, questo invito che gli è stato rivolto e lo attrae di continuo a una tappa ulteriore. Ricordiamo l'esortazione del Verbo indirizzata alla sposa; l'abbiamo ritrovata più volte anche nei dialoghi precedenti: Vieni mia vicina!» (B 1158). 

«Vieni dal Libano, sposa! È come se le dicesse: Finora mi hai seguito molto bene, sei salita con me sul monte della mirra (fosti sepolta con me nella morte mediante il battesimo), sei salita con me sul monte dell'incenso (sei veramente risorta con me e sei stata innalzata alla partecipazione della vita divina, come viene significato dal termine incenso). Elevati ancora verso di me! Da queste, slanciati verso altre vette e continua a progredire e a salire mediante una conoscenza viva; vieni, dunque, al monte del Libano, perché non sei più una fidanzata ma una sposa. Non è possibile che qualcuno possa condividere la mia vita senza passare prima attraverso la morte (la mirra) allo scopo di giungere alla deificazione (l'incenso). Se sei pervenuta a tale altezza non venir meno nel tuo slancio come se ormai, a questo punto, avessi raggiunto il traguardo […]. Partendo da questo principio che è la fede, ti muoverai e passerai oltre; in altri termini: anche tu arriverai fin qui e, ritornandovi ancora, in un movimento senza sosta, non terminerai mai il tuo viaggio» (B 1160). 

Il testo si presenta così: “Arriverai e passerai, dal principio della fede, dal capo di Sanir e dell'Ermon”. In questo preannunzio viene presagito il mistero della rinascita dall'alto. Si dice, infatti, che scaturiscano da questo luogo le sorgenti del Giordano, sovrastate da un monte diviso in due vette, alle quali sono stati assegnati i nomi di Sanir e dell'Ermon. Il corso d’acqua scaturito da queste sorgenti divenne per noi il principio della nostra trasformazione nella vita divina e, a motivo di questo, ella ascolta il Signore che la chiama a sé dicendole: Vieni dal Libano, dal principio della fede e dalla vetta di questi monti da dove sono sgorgate per te le sorgenti del mistero. In modo opportuno menziona, poi, i leoni e i leopardi: il richiamo del pericolo trascorso rende più dolce il godimento dei piaceri. L'uomo, avendo deposto un tempo l'immagine divina, abbrutì a causa delle sue malvage inclinazioni e assomigliò al leone e al leopardo. […] Ma, in seguito, per mezzo del lavacro del Giordano, per mezzo della mirra e dell'incenso, l'uomo venne elevato a tale altezza da poter spaziare con Dio nelle regioni celesti. Ecco perché il testo biblico intensifica la letizia dei piaceri presenti ricordando, in controluce, la situazione dolorosa di un tempo, richiamando in quali condizioni si trovava l'anima, prima dell'esperienza dell'incenso e del principio della fede, e prima dei misteri che noi abbiamo conosciuto al Giordano» (B 1162.1164). 

Tu hai incoraggiato il nostro cuore, sorella nostra sposa

La Sposa/Chiesa, avendo ottenuto una bellezza stupenda, suscita l’ammirazione degli angeli poiché ormai è simile a loro. Il dominio delle passioni la rende congenere degli spiriti celesti, ed ha raggiunto questo obiettivo mentre è carne (B 1168). 

Gli angeli, stupiti, si sentono toccati in profondità. Per esprimere questo loro sentimento, G. usa il verbo kardioo, ossia essere feriti nel cuore ma, in questo caso, in senso postivo: hai posto in noi il cuore (B 1168), ci hai incoraggiato, ci hai reso ancora più convinti. 

«La voce del Verbo è sempre una parola potente. L’abbiamo visto all'inizio, nell'evento della creazione, quando brillò la luce a un suo comando e quando con un suo ordine imperioso venne posto il firmamento; ogni altra creatura venne condotta all'essere in modo simile, grazie alla sua parola creatrice. Allo stesso modo anche ora, non appena il Verbo ha dato all'anima l'ordine di avvicinarsi a lui migliorando la sua condotta, rafforzata da questo comando, ella diventa così come lo sposo la vuole; assomigliando di più alla natura divina, e tornando a operare il bene, è migliorata. E passata da quella gloria in cui si trovava a una gloria ancora più fulgida. Ella suscita meraviglia al coro degli angeli che stanno presso lo sposo, fino a farli uscire tutti insieme, dolcemente, in un grido stupito: Tu hai incoraggiato il nostro cuore, sorella nostra sposa. L'impronta della libertà dalle passioni brilla allo stesso modo in lei e negli angeli; rende familiare e sorella degli esseri spirituali colei che ha acquisito l'impassibilità pur essendo carne. Per questo le dicono: Tu hai incoraggiato il nostro cuore, sorella nostra sposa; ti puoi vantare a ragione di ogni titolo che ti attribuiamo; sei nostra sorella perché, avendo conseguito la libertà dalle passioni, sei diventata quello che noi siamo; sei sposa per la tua relazione con il Verbo» (B 1166 e 1168). 

Un pensiero, a mio parere stupendo, che G. stesso definisce audace (tolmeron B 1172): gli angeli per comprendere Dio venerarlo nel modo dovuto, devono volgere il loro sguardo sulla terra e considerare le opere paradossali che Dio ha compiuto a favore degli uomini, grazie all’Incarnazione del Verbo. Dio è manifestato più grande nell’operare la salvezza che nel creare l’universo. Il suo capolavolo è la costituzione della Chiesa sulla quale si riflette la bellezza del suo Sposo: 

«In un passo delle sue lettere, in quella inviata agli Efesini, quando annuncia il grande progetto di misericordia realizzato grazie alla manifestazione di Dio nella nostra carne, egli dichiara che non soltanto gli uomini al compiersi di questi eventi di misericordia hanno appreso i misteri divini, ma che anche i principati e le potenze celesti, mediante il progetto di salvezza compiuto in Cristo, hanno conosciuto la multiforme sapienza di Dio apparsa tra gli uomini» (B 1168). 

Veramente per mezzo della Chiesa, viene fatta conoscere alle potenze celesti la multiforme sapienza di Dio che ha compiuto opere grandiose in prodigi contrastanti: la vita rifiorì dalla morte, la giustizia dal peccato, la benedizione scaturì dalla maledizione, la gloria dall'ignominia e la forza dalla debolezza; infatti negli altri periodi storici precedenti a questo, le potenze celesti conobbero soltanto quell'attività della sapienza di Dio semplice e uniforme che opera meraviglie in modo conforme al suo essere (Dio, essendo potente, portava a compimento ogni creatura con autorità, con il solo atto di volontà, dando esistenza agli esseri e li creava molto buoni perché li faceva scaturire dalla sorgente del bene). Ma ora queste potenze celesti vengono a conoscere chiaramente, grazie al ministero della Chiesa, che la sapienza divina è multiforme; così essa appare in seguito all'unione di realtà tra loro contrastanti: il Verbo diventa carne, la vita si unisce alla morte, la sua ferita risana la nostra piaga, la debolezza della croce sconfìgge la potenza dell'avversario, l'invisibile si manifesta nella carne e a riscattare i prigionieri è proprio colui che fa da compratore ma che da anche se stesso come prezzo del riscatto (si consegna alla morte per la nostra redenzione); egli viene consegnato alla morte ma non si separa dalla vita, vive come un servo e continua a regnare. Tutte queste grandi opere della sapienza, così mirabili, sono multiformi e non semplici. Se non è troppo audace affermarlo, forse anch'essi si meravigliano di poter vedere la bellezza dello sposo, invisibile e inaccessibile a tutte le creature, riflessa nello splendore della sposa. Il Signore, che non è stato visto da alcun uomo, come insegna Giovanni (Gv 1,18) e mai potrà essere contemplato da alcuno, come dichiara Paolo (1 Tm 6,16), ha creato la Chiesa come suo corpo e continua a edificare se stesso nell'amore, aggregando ad essa altri salvati finché giungano tutti all'uomo perfetto secondo la misura della pienezza del Cristo (Ef 4,12-16). La Chiesa è il corpo di Cristo; egli è la testa di questo corpo e imprime nella fisionomia della Chiesa il suo proprio aspetto. Forse, a motivo di questo, gli amici dello sposo, nell'ammirarla, rimangono estasiati per il fatto che in lei vedono l'invisibile più chiaramente. Gli uomini, non potendo fissare il sole direttamente, lo contemplano riflesso nell'acqua. In modo analogo anche gli angeli ammirano il Sole di giustizia così come appare nello specchio terso della Chiesa e lo conoscono in questo segno» (B 1170.1172). 

  1. Sintesi

G. celebra l’inconprensibilità e infinità di Dio. L’uomo può conoscerlo e comunicare con Lui perché Egli, nella sua bontà, ha voluto rivelarsi a lui ma, mentre lo conosce, non può né afferrarne l’essenza mediante il concetto, né comprendere appieno le ragioni della sua provvidenza. Tuttavia l’inafferrabilità della conoscenza di Lui, non deve essere avvertita dall’uomo come uno smacco o un’umiliazione ma come un’opportunità, perché egli può crescere di continuo nella ricerca e, a sua volta, dilatarsi all’infinito per grazia. Il concetto dell’infinità di Dio si unisce, quindi, a quello della crescita permanente possibile all’uomo (epektasis). Tale disponibilità non sorge dalla bontà originaria della Sposa ma dalla continua chiamata del suo Amato che la cerca senza dimenticarsi mai di lei. Dopo aver infuso il desiderio del bene nell’atto stesso della creazione, ha cominciato ad invitarla a partire dal battesimo. 

La Sposa/Chiesa, avendo ottenuto una bellezza stupenda, suscita l’ammirazione degli angeli poiché ormai è simile a loro. Il dominio delle passioni la rende congenere degli spiriti celesti, ed ha raggiunto questo obiettivo mentre è carne. 

Gli angeli, stupiti, si sentono toccati in profondità. Per esprimere questo loro sentimento, G. usa il verbo kardioo, ossia essere feriti nel cuore ma, in questo caso, in senso postivo: hai posto in noi il cuore ci hai incoraggiato, ci hai reso ancora più convinti. Gli angeli per comprendere Dio venerarlo nel modo dovuto, devono volgere il loro sguardo sulla terra e considerare le opere paradossali che Dio ha compiuto a favore degli uomini, grazie all’Incarnazione del Verbo. Dio è manifestato più grande nell’operare la salvezza che nel creare l’universo. Il suo capolavolo è la costituzione della Chiesa sulla quale si riflette la bellezza del suo Sposo. 



  1. OMELIA IX

Quanto sono diventate belle le tue mammelle, sorella, mia sposa: sono migliori del vino

(Ct 4,10). Nel testo ebraico si parla di tenerezze, anziché mammelle: «Quanto sono dolci le tue tenerezze (dodayich)! Quanto più deliziose del vino» (tr. Mazzinghi). «Quanto è soave il tuo amore, quanto pià inebriante del vino» (tr. CEI 2008). 

«Esaminando il contenuto di queste parole, m’accorgo che non si tratta di un elogio di poco conto, quello rivolto dal Verbo alla sposa, dal momento che la chiama col titolo di [sorella].  Lo sposo espone i motivi per i quali è diventata sempre più bella. Non si è resa più avvenente solamente per aver attinto alla fonte dei buoni insegnamenti, chiamata mammella in senso spirituale, ma per essere diventata, in primo luogo, sorella del Signore compiendo il bene. Inoltre ha rinnovato la sua verginità, rinascendo dall'alto. Solo allora ha potuto fidanzarsi e poi maritarsi con chi l’ha conformata a  sé (B 1182-1184). 

[Il Verbo] che l'ha considerata quale sorella e sposa, ora spiega come mai le sue mammelle abbiano conseguito un miglioramento tanto considerevole. Da esse non scaturisce più latte, il cibo adatto alle persone semplici, ancora bambine nella fede (1 Cor 3,1-2), ma fluisce dell'ottimo vino che rallegra le persone divenute perfette. Il versetto proposto contiene una specie di dialogo amoroso, simile a quello che viene intrecciato tra due innamorati quando l'uno contraccambia all'altro un sentimento appassionato, in risposta a quello ricevuto. Lo sposo accoglie la Chiesa con espressioni analoghe, ma quest'ultima già l'aveva preceduto e ne aveva celebrato la bellezza fin dai primi versetti del libro. Dall'inizio, dalle prime parole pronunciate, quando chiese che il Verbo uscisse dalla bocca divina e si avvicinasse alla sua — a tanto mirava l'immagine del bacio — confessò che il motivo di un desiderio così intenso consisteva nel fatto che le mammelle dello sposo erano migliori del vino, a ragione della loro fecondità e valevano più di qualsiasi profumo di aromi e di unguenti. Aveva detto infatti: “Le tue mammelle sono migliori del vino e il profumo dei tuoi unguenti superiori a qualsiasi aroma” (Ct 1,2-3)» (B 1184). 

«Dio si manifesta a noi nel modo con cui noi ci offriamo a lui liberamente. David attesta in un salmo che il Signore è buono con i buoni (Sal 17,26), mentre un profeta, parlando a uomini che vivevano come animali, dice che egli sarà come un orso e un leopardo (Os 13,7-8). Così dicendo, precorre il racconto del Vangelo, là dove il tono della sentenza del Re viene percepito in un certo modo dagli uomini che stanno alla destra e in un altro ancora da quelli che si trovano alla sinistra; è per gli uni dolce e soave, per gli altri è spaventoso e triste, conformandosi alla libera scelta di chi entra in giudizio (Mt 25,34-46). Ora risulta vantaggioso alla sposa il dono offertole dal Verbo. Egli le ricambia l'elogio usando espressioni simili a quelle già trovate da lei per celebrarne la bellezza» (B 1186). 

II profumo dei tuoi unguenti è migliore di qualsiasi aroma

(Ct 4,10). «Abbiamo colto questo [particolare]: tutte quelle cose buone che emanano buon odore, in tutte [le pagine della Sacra Scrittura], dal testo stesso vengono denominate profumi. Ad esempio: “Noè offrì a Dio il sacrificio e il Signore ne odorò la soave fragranza” (Gen 8,21). Allora i sacrifìci offerti a Dio sono profumi. […] Quando sentiamo annunciare [nel testo] che il l’unguento della sposa è gradito all'olfatto più di tutti gli altri prufumi, apprendiamo allora che il mistero della verità, giunto a compimento con l'annuncio del vangelo, è il solo gradito a Dio, preferibile a tutti gli altri profumi predisposti dalla Legge. Non viene più nascosto nell'immagine tipologica o nell'ombra prefìguratrice ma emana la sua fragranza nella manifestazione della verità (B 1188). 

Anche se il Signore gradì come profumo soave qualcuno degli aromi offerti in precedenza, questi furono degni di essere accolti grazie alla persona del Verbo prefigurata in quei gesti, non certo per il loro significato immediato e materiale. Questo appare chiaramente nell'insegnamento convinto del salmista: “Non prenderò giovenchi dalla tua casa, ne capri dai tuoi recinti... Mangerò forse la carne dei tori, berrò forse il sangue dei capri?” (Sal 50, 9.13). Ciò nonostante, in antico, per lungo tempo e molte volte, furono offerti sacrifici di animali. Sebbene sia avvenuto questo, era un'altra l'offerta che ti veniva richiesta, per mezzo di quelle figure: devi immolare le passioni dentro di te. “Uno spirito contrito è sacrifìcio a Dio, un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi” (Sal 51,19). In questo consiste il nostro sacrifìcio di lode ed esso glorifica chi espande un simile profumo. Seguendo l'insegnamento di Paolo, il buon odore di Cristo, l'anima impregnata di profumo spirituale espande un odore più gradevole di tutti gli aromi di cui parla la Legge, in senso tipologico; lei stessa è diventata un unguento sacerdotale e un sacrificio di comunione grazie alla vita che conduce ed espande un buon odore per l'abbondanza e la composizione di molteplici virtù. La sua vita è risultata gradevole all'odorato dello sposo, come profumo soave. Veramente la percezione divina — come viene chiamata da Salomone —ai profumi materiali della Legge, preferisce il profumo spirituale e puro ottenuto con la virtù: iI profumo dei tuoi unguenti è migliore di ogni aroma» (B 1190.1192). 

Le tue labbra stillano miele, o sposa, miele e latte stanno sotto la tua lingua

(Ct 4,11). Nel testo ebraico troviamo: và dalla formica o pigro, guarda le sue abitudini e diventa saggio (Pr 6,6), ma G. cita un versetto aggiunto nella LXX, dove l’insetto da imitare è, invece, l’ape. Essa simboleggia l’uomo sapiente che trae il nettare della dottrina dai vari passi biblici e dagli insegnamenti degli uomini virtuosi e può porgere il frutto della sua fatica adattandolo alle esigenze delle varie persone. 

Un ragionamento analogo appare in Teodoreto di Cirro: «Indica i maestri della Chiesa che impartiscono il pio insegnamento, quasi recassero sulle labbra favi d’api e stillassero gocce di miele. E non hanno solo il miele, ma anche latte e somministrano a ciascuno il nutrimento adeguato, quello adatto ai fanciulli e quello che conviene agli adulti», Commento al Cantico dei Cantici, III, 4,11, Città Nuova, Roma 2010, p. 125. Paolino narra che Ambrogio, da bambino, fu circondato da uno sciame d’api e spiega: «Quello sciame d’api ci avrebbero generato i favi dei suoi scritti…», Vita di Ambrogio, 3, Città Nuova. Roma 1997 p. 71.

«Il libro dei Proverbi ordina al discepolo della sapienza di recarsi dall'ape […] e comanda agli amanti della saggezza: “Và dall'ape e osserva quanto essa sia operosa (e compra il suo prodotto, così famoso, ricercato da re e da privati per ottenere la guarigione” (Pr 6, 8a-8b LXX). […] II libro dei Proverbi esorta il discepolo a non allontanarsi da alcun buon insegnamento e di volteggiare, invece, sul prato della dottrine ispirate, scegliendo da ogni fiore qualcosa che sia utile all’acqisto della sapienza, per costruire per sé un favo e riporlo infine nel cuore, come in un alveare, opera solerte delle api. Costruirà nella memoria, ben ordinati, depositi di svariati insegnamenti, come le cellette di un favo. Imitando quell'ape sapiente che possiede un favo dolce e un pungiglione innocuo, trafficherà senza posa il suo insigne prodotto, le sue virtù (B 1192). 

Traffica davvero chi scambia le fatiche del tempo presente coi beni eterni e distribuisce ai re e ai privati i frutti delle sue fatiche per salvare le loro anime. Un tale anima diventerà gradita allo sposo, degna di gloria al cospetto degli angeli, mentre manifesta pienamente la sua forza, pur nella debolezza, grazie al valore della sapienza. Quel che si racconta di quell'ape saggia è un esempio di dedizione e di diligenza e poiché i doni spirituali, nella loro molteplice varietà, vengono assegnati alle persone che si sono affaticate in proporzione al loro impegno, per questo egli dice alla sposa: II tuo cuore è diventato pieno del miele di ogni scienza, perciò puoi estrarre dal tesoro del tuo intimo le gocce soavi dell'istruzione, così che le tue parole siano miele mescolate col latte. “Le tue labbra stillano miele, o sposa, miele e latte stanno sotto la tua lingua”. Tu sei pronta a parlare. Non rivolgi agli ascoltatori il medesimo discorso istruttivo ma adatti quest'ultimo alla capacità di chi lo riceve, tanto da renderti utile ai perfetti come ai semplici. I perfetti ricevono il miele, i semplici il latte. 

Paolo si comportava in questa maniera; nutriva i neonati con discorsi semplici ma parlava con sapienza ai perfetti rivelando il mistero nascosto da sempre, incomprensibile al mondo e alle sue potenze (1 Cor 2,6-8). Questo mirabile prodotto, il miele col latte, giace sotto la lingua della sposa: sono i discorsi tenuti in serbo per il momento opportuno. Chi sa come bisogna rispondere a ciascuno, poiché conserva sotto la lingua la capacità di offrire una parola adatta, dona, in modo conveniente, ad ogni suo uditore, quel che gli è utile» (B 1194.1196). 

L'odore delle tue vesti è come profumo d'incenso

(Ct 4,11). Il traguardo della vita virtuosa sta nel raggiungere la somiglianza con Dio (B 1196). Acquisire le virtù è come tessere per sé la veste dell’immortalità. La tunica realizzata profuma d’incenso, l’odore che simboleggia la divinità, perché le virtù umane imitano il modo d’essere di Dio. 

«Il versetto contiene una vera filosofia poiché fa sapere agli uomini il traguardo a cui mira la vita virtuosa. Il fine della vita retta è la somiglianza con il divino. Per raggiungere uno scopo così grande i giusti si sforzano con impegno di purificare l'anima e di separarsi da ogni attaccamento passionale fino a ottenere in se stessi, mediante un nobile comportamento, qualche qualità propria della natura sovraeminente. La vita virtuosa non è uniforme e ripetitiva ma assomiglia, piuttosto al lavoro di preparazione dei tessuti. Chi esercita la tessitura fabbrica un vestito intrecciando molti fili, alcuni posti in verticale e altri invece in orizzontale. Bisogna fare altrettanto per raggiungere la rettitudine: è necessario mettere insieme diverse qualità, grazie alle quali risplende una nobile vita. 

Il divino apostolo enumera questi fili coi quali si compie la tessitura delle opere buone e parla dell'amore, della gioia, della pace, della pazienza, della benevolenza e di tutte le altre qualità simili a queste con le quali si adorna l'uomo che si riveste dell'immortalità celeste, dopo aver deposta la vita terrestre e mortale (B 1196). 

Infine appreza l’ornato della veste della sposa, e lo paragona all’incenso per il suo profumo. Sebbene, in precedenza, avesse detto di preferire a tutti i profumi quello dell'unguento della sposa, tanto da dare l'idea di ritenere impossibile un confronto (era stata dichiarata superiore a qualsiasi aroma), ora viene paragonata a un solo profumo e il Verbo le dichiara: “l'odore delle tue vesti è come profumo d'incenso”. Il fumo dell'incenso compare nel culto divino, perciò l'anima che era stata valutata superiore a tutti i profumi viene anche giudicata degna di essere paragonata a questa essenza, la sola che viene offerta a Dio e allora diventa chiaro il significato di un'immagine tanto solenne: o sposa, la ricchezza delle tue virtù imita la beatitudine divina, poiché sei diventata simile alla natura inaccessibile mediante la tua purezza e la tua libertà dalle passioni. Il profumo delle tue vesti, infatti, è così intenso da poter essere comparato all’incenso offerto per il culto divino» (B 1198).

Sei sorgente da giardino e pozzo di acqua viva, scorrente dal Libano

(Ct 4,12). G. approfondisce il tema della deificazione dell’uomo, già proposto in precedenza nella metafora della veste profumata d’incenso. Ora la Sposa/Chiesa è diventata così simile al Signore da essere paragonata ad una sorgente d’acqua viva, un titolo proprio di Dio. Non azzarda, però, ad affermare un annullamento della differenza tra Dio e l’uomo, tra l’increato e la creatura, tra l’infinito e il finito. «Secondo Gregorio, è di grande importanza che la somiglianza dell’uomo con Dio non sia intesa come identità dell’anima con Dio» (A. Nygren, Eros e Agape, EDB. Bologna 1990, p. 439). 

La Sposa appare una sorgente d’acua perché porta in sé il Signore che la rende sempre più simile a lui. Un passo de De Perfectione espone con più precisione il senso di questa metafora: «Chi avrà attinto da lui [da Cristo] le sue qualità, come da una fonte pura e incorruttibile, mostrerà di possedere in se stesso, nei confronti del modello, la stessa somiglianza che esiste tra la semplice acqua e l'acqua che sgorga dalla fonte e che da essa si riversa nell'anfora. La purezza di Cristo e quella che si osserva in chi è partecipe di lui, sono per natura un'unica cosa, anche se il primo la fa scaturire, mentre chi ne è partecipe l'attinge, trasferendo nella propria vita la bellezza dei vari nomi [di Cristo]», De perfectione, GNO VIII/1 p. 212 (4-13). 

«Infine il Verbo innalza la sposa alla vetta più eccelsa e la magnifica nella lode, la chiama “pozzo di acqua viva, scorrente dal Libano”. La Scrittura attribuisce tali caratteristiche alla natura vivificante: il profeta, parlando a nome di Dio, dichiara: “Hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva(Ger 2,13). Anche il Signore stesso, conversando con la samaritana, afferma: “Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è che ti dice: Dammi da bere!, tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato dell'acqua viva” (Gv 4,10) e in un altro passo: “Chi ha sete venga a me e beva; chi crede in me, come dice la il Scrittura, vedrà scaturire dal suo seno fiumi di acqua viva. Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui” (Gv 7,37-39). Troviamo allora che ovunque per acqua viva si intende la natura divina e qui la testimonianza veritiera del testo dichiara che la sposa è un pozzo di acqua viva, il cui corso proviene dal Libano. Questo, tuttavia, è ancora più mirabile: mentre tutti i pozzi contengono l'acqua raccolta al modo delle cisterne, solo la sposa possiede in se stessa un’acqua che scorre e possiede la vena stessa del pozzo, la scaturigine del torrente. Chi potrebbe parlare degnamente delle meraviglie mostrate se non colui che è diventato simile a lei? Forse non può essere innalzata ancora di più avendo raggiunto in tutto la bellezza dell'archetipo: la fonte ha imitato accuratamente la Fonte, la vita ha imitato la Vita e l'acqua l'Acqua. Viva è la parola di Dio e vive anche l'anima che ha accolto la parola. Quell'acqua scaturisce da Dio come dichiara la Sorgente stessa: Da Dio sono uscita, da là provengo (Gv 8,42)» (B 1230.1232). 

  1. Sintesi

Il traguardo della vita virtuosa sta nel raggiungere la somiglianza con Dio (B 1196). Acquisire le virtù è come tessere per sé la veste dell’immortalità. La tunica realizzata profuma d’incenso, l’odore che simboleggia la divinità, perché le virtù umane imitano il modo d’essere di Dio. G. approfondisce il tema della deificazione dell’uomo, già proposto in precedenza nella metafora della veste profumata d’incenso. Ora la Sposa/Chiesa è diventata così simile al Signore da essere paragonata ad una sorgente d’acqua viva, un titolo proprio di Dio. Non azzarda, però, ad affermare un annullamento della differenza tra Dio e l’uomo, tra l’increato e la creatura, tra l’infinito e il finito. La Sposa appare una sorgente d’acua perché porta in sé il Signore che la rende sempre più simile a lui.  

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