sabato 11 marzo 2023

Gregorio di Nissa Omelie sul Cantico dei cantici 10.11.12

 

  1. OMELIA X

G. si diffonde sul tema dell’incompatibilità tra il bene e il male, un argomento a cui pare molto interessato ( Cf. Omelia XII B 1316.1318) e che ha elaborato anche in altre opere. «Non è possibile far crescere insieme, nella stessa anima, malvagità e onestà, né suddividere il comportamento coltivando insieme cose del tutto opposte. La Sposa di Cristo non può fornicare con i nemici di Cristo, concepire luce e generare tenebra. Non è vero forse che, sempre, un principio non può combinarsi con il suo opposto né vuole avere qualche relazione con ciò che l’avversa?» (De Insituto christiano GNO,VIII,1 p. 56-57 passim). 

In seguito spiega come noi possiamo diventare un dono, un alimento per il Signore che, per primo, ci nutre con abbondanza. Parla, infine, della necessità di sviluppare una nuova sensibilità di carattere spirituale per poter godere dei doni di Dio. 

Allontanati, o vento del nord, vieni vento del sud!

(Ct 4,16). L’invito rivolto al vento propizio evidenzia come la ragazza voglia risvegliarsi e aprirsi all’esperienza dell’amore. 

Secondo G., la Sposa di Cristo allontana il vento cattivo del male e ordina a quello buono di avvicinarsi, poiché esiste una totale incompatibilità tra il bene e il male. Chi si protende al bene, deve escludere in modo radicale ciò che gli è contrario. «Essere, per un aspetto, ciò che viene richiesto dal nome di cristiano, ma per altri aspetti, invece, strisciare verso ciò che è contrario ad esso, altro non è che separare da sé una parte di sé, considerandola un nemico. Mentre permette che dentro di sé il bene combatta contro il male, non gode di alcuna tregua, fino a condurre una vita impossibile. Quale intesa può esservi tra la luce e la tenebra? È la domanda dell'apostolo (2 Cor 6,14). Poiché la luce non si mescola con la tenebra e tale contrasto non tollera alcun compromesso, chi ospita entrambe e non allontana nessuna delle due, in considerazione dell'ostilità reciproca dei contendenti, si troverà dilacerato in se stesso, per forza. È impossibile e impraticabile unire tra loro luce e tenebra, perciò chi accoglie entrambi i contendenti, diventa nemico di se stesso. Il bene infatti non potrà vivere in noi, se non viene vivificato dalla morte del nemico. Finchè accoglieremo i due opposti, servendoci dell'uno e dell'altro, sarà impossibile nello stesso tempo partecipare ad entrambi. Mentre cercheremo di afferrare la malvagità, la virtù lascerà la nostra presa» (Cf. De Perfectione, GNO, VIII,1 pp. 180-18). 

«Osserva quale potere detenga la Regina! Riconosci la sua autorità dal genere di ordini [impartiti], come manifesti un dominio assoluto nei suoi comandi. […] Ottiene dai due venti ciò che vuole, come fosse loro sovrana; con un ordine allontana la tramontana mentre, con voce amica, chiama lo scirocco, e lo invita a giungere presso di lei. Leggiamo, infatti, nel testo: “Allontanati, vento del nord e vieni, vento del sud!” (B 1238.1241). 

A mio parere, da questi interventi, dobbiamo apprendere un insegnamento ben preciso: due entità che, per definizione, si oppongono tra loro, non possono stare insieme simultaneamente, l'una accanto all'altra. Non c'è alcuna relazione tra luce e tenebra, dichiara l’apostolo (2 Cor 6,14). Anzi, accade di necessità che non appena la tenebra si sia dissolta, al suo posto compaia subito la luce; allontanato il vizio, subentra la virtù. Qualora si sia verificata una simile condizione, la sapienza della carne non si oppone più allo spirito (Rm 8,6; Gal 5,17) (non sarebbe più in grado di farlo, poiché la sua forza di resistenza sarebbe venuta meno); al contrario, essa si rende disponibile per ogni mansione opportuna, essendo ormai obbediente e sottomessa al dominio dello Spirito. Espulso il soldato alleato del male, subentra il combattente della virtù, rivestito della corazza della giustizia, armato della spada dello spirito e dotato di armi di difesa, ossia dell'elmo della salvezza e dello scudo della fede (Ef 6,13-17). Qualora sia stata indossata tutta l'armatura spirituale, allora il servo, il corpo, nutre timore per il suo signore, l'anima, ed esegue prontamente gli ordini del suo superiore; in questo modo la virtù si consolida grazie alla sottomissione servizievole del corpo. Questo è il vero senso del discorso del centurione [del Vangelo]: “Dico al mio servo: Fa’ questo ed egli lo fa” (Mt 8,9)» (B 1242). 


La “sapienza della carne”, secondo l’Apostolo, non corrisponde agli stimoli del corpo ma all’egoismo. Gregorio, invece, interpreta l’espressione in una visione dualistica e, così, la sapienza della carne viene intesa come sapienza del corpo. Riconosce, in ogni caso, che corporeità e spiritualità dell’uomo possono, ad un certo momento, pacificarci ed armonizzarsi. 

Discenda il mio amato nel suo giardino e mangi i frutti della sua piantagione

(Ct 4,16). L’innamorata invita il suo diletto ad entrare nel giardino, una metafora che allude al suo corpo, per gustarne i frutti. 

G. dapprima parla dei frutti di cui si nutre lo Sposo, il Cristo, e solo successivamente si sofferma sul verbo discendere. Il nutrimento di Cristo è la fede dei credenti. Egli si nutre nel compiere la volontà di Dio, la quale consiste nella nostra salvezza; quindi si nutre di noi quando verifica che noi siamo stati salvati da Lui. Paradossalmente noi nutriamo, così, il Colui che, in precedenza, ci ha nutrito. Un altro modo ancora con cui possiamo ringraziare e alimentare il Signore ed è quello di nutrirlo soccorrendo i bisognosi nei quali si identifica (Mt 25,25). G. cita più volte questo passo del Vangelo di Matteo (25,25): Omelie sulle Beatitudini, V,7, Paoline, Milano 2011, p. 281; De Instituto Christiano, G. VIII/1, p. 88; Omelie su Qoelet, VIII,9, cit., pp. 447-448.

«Chi intende accogliere [la Sposa] per fargli gustare i suoi frutti? A chi prepara, con suoi beni, un ricco banchetto? Chi invita a consumare i cibi offerti? Colui dal quale, grazie al quale e per il quale sono tutte le cose, [il Signore] che dona a tutti il cibo in tempo opportuno, mentre apre la sua mano e sazia di benevolenza ogni vivente (Sal 145,15-16), Colui che è il pane disceso dal cielo che da la vita al mondo (Gv 6,41), Colui che, dalla sua fonte, fa scaturire la vita per tutti gli esseri viventi. Proprio a costui la sposa prepara il banchetto, la mensa è il giardino stesso, rigoglioso  d’alberi viventi. Siamo noi questi alberi, perché anche noi offriamo a lui in cibo la salvezza delle nostre anime. È stato proprio lui a dire che si nutre della nostra vita: “Mio cibo è fare la volontà del Padre” (Gv 4,34). È chiaro poi in che cosa consista il volere di Dio: “Che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità” (1 Tm 2,4). Questo è il cibo che gli è stato preparato: la nostra salvezza» (B 1250). 

«Sappiamo in che modo gli alberi viventi del giardino si offrano come alimento al suo padrone; lo attesta il giudice assise in trono: Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare. (La solidarietà è un pane che infonde gioia poiché viene addolcito col miele dell'obbedienza ai comandamenti)» (B 1256.1258). 

La discesa del Verbo

Nell’esporre la prima parte del versetto, G. si sofferma sul significato del verbo discendere (katabaino). La discesa (katabasis) è un’opera di filantropia divina (B 1252). Egli è molto sensibile all’evento dell’accondiscendenza del Verbo, per la quale lascia una condizione di privilegio per condividere la nostra situazione di miseria ed elevarci fino a Lui. È il tema che compendia tutto il significato del Vangelo: il Figlio di Dio diventa uomo affinchè l’uomo diventi figlio di Dio. «L’uomo esce dalla propria natura, divenendo immortale da mortale, incorruttibile da corruttibile, eterno da effimero, e insomma Dio da uomo qual era», Omelie sulle Beatitudini, VII,2, p. 327. Il tema dell’accondiscendenza, molto amato presso i Padri, rappresenta uno sviluppo di un pensiero ebraico (Cf. F. Manns, Il giudaismo e l’Israele di Dio, EDB, Bologna 2013, pp. 291-295). 

Scendendo presso di noi per procuraci la salvezza, il Signore moltiplica i suoi doni, andando ben oltre le nostre attese: 

«Nella discesa viene indicata l'opera d'amore per gli uomini. Non avremmo potuto in alcun modo essere sollevati in alto, se il Signore, che innalza gli umili, non si fosse abbassato fino a terra. Per questo l'anima che si protende al cielo, chiede di essere condotta per mano da Colui che sta in alto e lo supplica affinchè discenda dalla sua altezza e possa essere incontrato da noi che ci troviamo in basso» (B 1252). 

«Il Signore che ha detto per mezzo del profeta: “Implorerai aiuto ed egli dirà: Eccomi!” (Is 58,9), prima che la sposa abbia formulato la sua preghiera, ha già accolto i suoi desideri e ha già cominciato a predisporle il cuore. […] Vedi come la grandezza del dono oltrepassi la richiesta? La sposa desiderò che gli alberi del suo giardino percorsi dal vento che soffia da Sud, diventassero fonte di profumi e l'agricoltore potesse essere accolto con i prodotti del frutteto. Ma il Signore, disceso nel suo giardino, ha cambiato quel genere di frutti in una qualità migliore e più apprezzabile e raccoglie dal giardino la mirra che ha trovato insieme ai suoi profumi» (B 1252). 

Il nutrimento donato dal Verbo

Il cristiano offre al Signore i beni (le virtù) che Egli ha già prodotti in lui, perché è Lui la fonte di ogni bene. Anzi, nella sua misericordia, si trasforma in tutto ciò di cui noi abbiamo bisogno. G. compone un passo del libro della Sapienza, che parla di questa versatilità della manna (16,20-21), con un altro passo della lettera ai Corinzi là dove l’Apostolo attesta che la predicazione si adatta alla capacità di comprensione dei fedeli (1 Cor 3,2; cf Eb 5,12). 

Le erbe amare sono un dono per la vita presente; il miele è un cibo proprio della vita eterna e della risurrezione. G. si appoggia sopra un dato tradizionale. Alcuni codici del Vangelo di Luca, infatti, aggiungono che Gesù Risorto, incontrando gli apostoli nel Cenacolo, la sera di Pasqua, abbia mangiato con loro non solo del pesce ma anche del miele (Lc 24,42-43) (Cf Nestle-Aland, Nuovo Testamento, XXVII ed., Roma 1996, p. 245). Secondo Origene, Gesù «lui stesso miele, ne mangiò per largire a noi miele e dolcezza affinché coloro che nella Legge avevano bevuto l’amaro, in seguito, nel Vangelo, mangino il miele del Vangelo» (Sal 80,17 in Origene-Gerolamo, 74 Omelie sul Libro dei Salmi, Edizioni Paoline, Milano 1993, p. 205).

«La parola dei profeti annuncia che il bene, là dove si trova, proviene da Lui. “Da lui, grazie a lui e per lui sono tutte le cose” (Rm 11,36). Beati questi giardini! Le loro piante, come viene testimoniato producono frutti veramente straordinari e li trasformano pefettamente in qualsiasi cibo a seconda del desiderio di chi se ne nutre. Per chi vuole il profumo, egli diventa mirra ed altri unguenti ancora; in altre parole dando loro la possibilità di mortificare le membra terrene, li aiuta a condurre un'esistenza pura e profumata, ottenuta mescolando molteplici e diversi unguenti di virtù. Per chi cerca un cibo completo, Egli diventa pane, un pane che non viene più consumato con erbe amare, come ordina la Legge. (La lattuga amara vale per il presente). Come companatico, aggiunge piuttosto il miele e questo avverrà a suo tempo, quando il frutto delle virtù rallegrerà i sensi spirituali (ne rende testimonianza il Pane apparso ai discepoli dopo la risurrezione del Signore)» (B 1254.1256). 

L’ebbrezza

[Cf Origene, Commento al Cantico dei Cantici, I, 11-16 B 255-259]. Continuando a parlare del cibo offerto dal Signore ai suoi fedeli, G., nell’invito a mangiare e bere, coglie una prefigurazione dell’Eucarestia. Riguardo a questo rito, privilegia l’assunzione del calice e parla degli effetti del vino, ossia dell’ebrezza. Chi segue il Signore con radicalità, opera delle scelte che possono essere valutate come manifestazioni di pazzia, simili ai comportamenti delle persone ebbre. 

G. cita all’affermazione di Paolo: «Se siamo stati fuori di senno, era per Dio» (2 Cor 5,13) e la spiega con queste parole: «era emigrato nell’estasi verso di Lui» (D 176). Spiega in modo corretto perché questo è l’unico passo nel Nuovo Testamento nel quale l’estasi non significa semplicemente sbigottimento o stupore, ma proprio qualcosa di più forte, un’esperienza estatica. (Cf. J. Lambrecht, «existhemi», Dizionario esegetico del Nuovo Testamento, I, Paideia, Brescia 2004, p. 1255).

Il tema ritorna con una certa insistenza nella tradizione mistica. Scrive Teodoreto di Cirro: «Questa l’ebbrezza che procurò [a Mosé] l’amore divino e tale ebbrezza non placò la sete ma la rese più forte. Quanto più beveva, tanto più in lui ne cresceva il desiderio. Come il fuoco quanto più alimento riceve, tanto maggior vigore dimostra. Quanto più uno si consacra alle cose divine, tanto più in lui arde la fiamma della carità» (Storia religiosa e discorso sulla carità, a cura di S. Di Meglio, Edizioni Messaggero, Abbazia di Praglia, Padova 1986, p. 229-230 (= PG 32, 1501 D-1504 A). Cf. Isacco il Siro: «[Il contemplativo al pensiero dell’amore di Dio] finisce per inebriarsene completamente come di vino, le sue membra si sciolgono, la sua mente rimane sbigottita, e il suo cuore è fatto prigioniero da Dio. Egli diventa così quasi fosse ebbro di vino» (Disc. 39, Discorsi ascetici cit., p. 613).

«Il Verbo, dopo aver parlato in questi termini, offre agli amici i misteri del vangelo: “Mangiate e bevete, amici miei! Inebriatevi fratelli miei!”. Chi comprende bene le mistiche parole del Vangelo non noterà alcuna differenza tra le frasi pronunciate qui [nella Cantica] e la mistagogia offerta là ai discepoli. In questo e in quel passo, in modo identico, il Verbo ordina di mangiare e bere. L'esortazione all'ebbrezza, rivolta dal testo [della Cantica] ai fratelli, a molti potrebbe sembrare più ricca di quella che viene presentata nel Vangelo; ma se il testo verrà esaminato accuratamente si troverà che anch'esso è in corrispondenza con le parole del Vangelo. Quello che qui veniva suggerito agli amici ora avviene realmente, poiché ogni ebbrezza suole operare un'estasi della mente negli uomini che sono in preda al vino. Orbene, ciò che viene raccomandato in questo versetto, avvenne allora mediante l'offerta di un cibo e di una bevanda divini ma accade anche adesso di continuo, poiché si verifica un cambiamento, un'estasi, da un comportamento peggiore ad uno migliore, grazie al cibo e alla bevanda. Come suggerisce la profezia, si inebriano così coloro che attingono all'abbondanza della casa di Dio e bevono al torrente delle delizie (Sal 36,9)» (B 1258.1260). 

Io dormo ma il mio cuore veglia

(Ct 5,2). La donna è in stato di dormiveglia ma il suo cuore è sempre disposto ad amare.  

G. attesta l’importanza della veglia e dell’assopimento degli attaccamenti mondani. Il credente che è stato catturato veramente dal fascino del Vangelo e del Signore, si lascia assorbire totalmente da questa novità. Non appare più interessanto ai godimenti legati ai sensi ma piuttosto a quelli dello spirito. G. sostiene che è impossibile essere schiavi dei piaceri corporei e nello stesso tempo godere dei beni divini Cf La Verginità, XX, Città Nuova Editrice, Roma 1976, pp. 102-105. È un luogo comune della tradizione spirituale: «L’uomo interiore può godere di delizie. Nessuno, però, può godere di delizie sia nella carne sia nello spirito», Origene, Commento al Salmo 36, 4 PG 12,1326. «Il cuore viene distolto dal gaudio di Dio quando serve ai sensi», Isacco di Ninive, Disc.1, Discorsi Ascetici, cit., p. 93.

La purificazione dei sensi corporei e, soprattutto, l’attivazione della sensibilità dello spirito, ci consentono di accogliere la manifestazione di Dio nella nostra esistenza: «Quando l'anima trova la sua gioia soltanto nel contemplare l'essere che veramente è, perde interesse per le attività volte al piacere mediante l'esercizio dei sensi. Dopo aver intorpidito ogni movimento connesso al corpo, dedita ormai alla veglia spirituale, riceve la manifestazione di Dio  nel suo intimo, nudo e puro. Anche noi speriamo di diventarne degni» (Omelia X, B 1268). «All’uomo che ha purificato da ogni specie di vizio tutte le facoltà della propria anima si rivela Colui che è bello unicamente grazie alla sua natura e che è la causa di ogni bellezza e di ogni bene», La Verginità, XI, cit, p. 75. 


«[La sposa], quando in seguito alla contemplazione dei veri beni, disprezza tutte queste cose [mondane], l'occhio del corpo diventa come paralizzato, poiché l'anima perfetta non viene più attratta da nessuna delle cose che esso gli mostra, ma presta attenzione soltanto ai beni invisibili che la sovrastano. Anche l'udito muore e diventa inattivo, poichè l'anima si dedica ai beni dello spirito, superiori alla ragione. Per quanto riguarda i sensi più bestiali, non conviene neppure parlarne poiché da questo momento sono respinti dall'anima come fossero puzza cadaverica; non si cura più ne dell'olfatto che aspira gli odori per le narici, né del gusto, schiavo dell'idolatria del ventre, né del tatto, un senso servile e cieco, reso potente dalla natura soltanto per i ciechi. Mentre tutti questi sensi si trovano allentati, come se fossero stati presi dal sonno a causa della loro inattività, la potenza del cuore rimane integra e il suo pensiero si dirige verso l'alto, rimanendo intangibile e imperturbabile al movimento dei sensi. 

Nell'uomo riscontriamo due forme di piacere: c'è quello che agisce nell'anima grazie alla libertà dalle passioni e c'è quello che opera nel corpo servendosi di esse; il libero arbitrio sceglie una delle due forme e questa prende il potere sull'altra. Se qualcuno si lascia condizionare dal senso che è connaturale al corpo, travolto dal piacere, vivrà senza aver gustato la gioia divina, poiché naturalmente ciò che possiede di migliore viene oscurato dall'elemento peggiore. Al contrario, per le persone che desiderano Dio, il bene rimane senza ombra di tenebre, poiché ritengono che sia da fuggire tutto ciò che solletica la sensibilità» (B 1266.1268). 

  1. Sintesi

G. si diffonde sul tema dell’incompatibilità tra il bene e il male. Chi si protende al bene, deve escludere in modo radicale ciò che gli è contrario. 

L’innamorata, poi, invita il suo diletto ad entrare nel giardino per gustarne i frutti. G. dapprima parla dei frutti di cui si nutre lo Sposo, il Cristo, e solo successivamente si sofferma sul senso del verbo verbo discendere. Il nutrimento di Cristo è la fede dei credenti. Egli si nutre nel compiere la volontà di Dio, la quale consiste nella nostra salvezza; quindi si nutre di noi quando verifica che noi siamo stati salvati da Lui. Paradossalmente noi nutriamo, così, il Colui che, in precedenza, ci ha nutrito. Un altro modo ancora con cui possiamo ringraziare e alimentare il Signore ed è quello di nutrirlo soccorrendo i bisognosi nei quali si identifica. In seguito, G. si sofferma sul significato del verbo discendere. La discesa è un’opera di filantropia divina. G. è molto sensibile all’evento dell’accondiscendenza del Verbo, grazie alla quale lascia una condizione di privilegio per poter condividere la nostra situazione di miseria ed elevarci fino a Lui. È il tema che compendia tutto il significato del Vangelo: il Figlio di Dio diventa uomo affinchè l’uomo diventi figlio di Dio. 

Il cristiano offre al Signore i beni che Egli ha già prodotti in lui, perché è Lui la fonte di ogni bene. Anzi, nella sua misericordia, si trasforma in tutto ciò di cui noi abbiamo bisogno. G. compone un passo del libro della Sapienza, che parla di questa versatilità della manna (16,20-21), con un altro passo della lettera ai Corinzi là dove l’Apostolo attesta che la predicazione si adatta alla capacità di comprensione dei fedeli (1 Cor 3,2; cf Eb 5,12). 

Continuando a parlare del cibo offerto dal Signore ai suoi fedeli, G. coglie una prefigurazione dell’Eucarestia. Riguardo a questo rito, privilegia l’assunzione del calice e parla degli effetti del vino, ossia dell’ebrezza. Chi segue il Signore con radicalità, opera delle scelte che possono essere valutate come manifestazioni di pazzia, simili ai comportamenti delle persone ebbre.


  1. OMELIA XI

L’omelia inizia richiamando, ancora una volta, il compito della vigilanza, la quale non deve essere attivata soltanto in vista dell’ultimo avvento di Cristo, ma anche nei confronti della sua venuta nel tempo presente. 

Chi resta vigilante, imita la vita propria degli angeli. Queste creature celesti non vengono posti come modelli a motivo della loro incorporeità (come se il cristiano dovesse aspirare ad essere incorporeo in modo simile ai filosofi platonici) ma per la loro santità e la loro prontezza nel porsi a servizio di Dio (Cf. Omelia I, B 800; Omelia IV B 972). La santità degli angeli è caraterizzata dalla libertà dalle passioni e proprio per questo motivo diventano i modelli dei monaci e degli asceti e di quanti, già al presente, anticipano la vita futura: «Se [nella comunità] agirete in questo modo, potrete condurre sulla terra la vita degli angeli», De Instituto christiano, GNO, VIII,1 p. 70 (19).


La voce del mio diletto bussa alla porta

(Ct 5,2). Mentre la ragazza è in stato di dormiveglia, sente il richiamo dell’amato che si è avvicinato alla sua casa. Non si era abbandonata al sonno del tutto. 

In modo analogo il cristiano deve vegliare ed attendere l’arrivo dello Sposo, imitando gli angeli. 

«Il testo dice che dobbiamo assomigliare a questi esseri per la nostra condotta. Come quelli, vivendo lontano dal male e dalla falsità sono pronti ad assistere all'arrivo del loro padrone, così anche noi, rimanendo vigili alle porte delle nostre abitazioni, ci renderemo disponibili a obbedirgli non appena, busserà alla porta [...] perciò l'anima che aspira alla beatitudine avverte la presenza dell'amato che si sta avvicinando alla porta; ella è tutta intenta al suo tesoro e così esclama: La voce del mio diletto bussa alla porta» (B 1274.1276). 

«Vedi quanto sia infinitamente esteso il cammino che deve essere percorso dagli uomini che si dirigono verso Dio e come ogni tappa raggiunta sia, di volta in volta, solo il primo passo dell'ascesa? […] L'anima conobbe il Verbo nella misura in cui ne fu capace, ma ciò che non è stato ancora conosciuto è sempre infinitamente più vasto di ciò che è possibile afferrare. Sebbene lo sposo sia apparso all'anima più volte, ciò nonostante promette di mostrarsi ancora alla sposa, mediante la sua parola, come se non si fosse mai offerto alla sua vista» (B 1278). 

Aprimi, sorella mia, amica mia, colomba mia, mia perfetta, poiché il mio capo è intriso di rugiada e i miei riccioli dell'umidità della notte 

(Ct 5,2). Il ragazzo chiama con insistenza la sua amata perché gli permetta d’entrare in casa. 

Prima di commentare la richiesta dell’innamorato di farsi aprire, G. si sofferma ad illustrare il significato del momento in cui avviene questo dialogo, ossia nel culmine della notte, mentre l’uno e l’altra si trovano immersi nella tenebra. Attribuendo ad essa un senso simbolico, non pensa alla tenebra come ad un elemento negativo, ma come un simbolo adatto a richiamare la trascendenza di Dio, la quale rimane anche nell’atto stesso della sua rivelazione. 

Questo passo è tra i più caratteristici, fra quelli in cui compare la sua teologia negativa. G. elabora la medesima dottrina ne La vita di Mosé: «Quanto più l’uomo si avvicina a questa conoscenza [di Dio], tanto più vede l’invisibilità della natura divina. Mosé, dopo essere diventato più grande per la conoscenza, afferma allora di conoscere Dio nelle tenebre. Ha conosciuto che la divinità trascende ogni conoscenza» (Vita di Mosé, II, 163-164, Edizioni Lorenzo Valla, p. 153). Il fedele che si avvicina a Dio, s’addentra in un’oscurità sempre più fitta. Questa notte non produce angoscia o terrore; non è assimilabile alla sensazione dell’essere abbandonati da Dio, non è altro che la scoperta dell’infinita trascendenza di Dio, inacessibile ai sensi e alla ragione. «La tenebra significa l’oscurità che avvolge i sensi e l’inaccessibilità di Dio alla ragione umana. Le tenebre entro le quali Dio si nasconde sono il suo mistero infinito» (C. Moreschini, «Introduzione» B pp. 124-125).

L’incomprensibilità non esclude, però, una possibilità di conoscenza del Signore. Il Verbo, sebbene non possa rivelarsi appieno con concetti razionali o con immagini sensibili, non rinuncia a farsi conoscere dal fedele e ad entrare in contatto con lui. Si serve, allora, di una comunicazione che trascende parole e concetti ed avviene tramite eventi di carattere mistico: la percezione della presenza.

 G. non spiega il significato preciso di tale espressione, variamente interpretata, usata soltanto in questo passo nell’intera sua opera. In ogni caso, essa esprime un modo reale di relazionarsi con Dio che prescinde dalla mera conoscenza razionale, superandola alquanto. 

Con essa, allude a fenomeni diversificati che verranno rilevati e classificati dai mistici posteriori. «I testi chiariscono che sarebbe meglio parlare al singolare piuttosto che al plurale, giacché i sensi spirituali non sono separati tra loro ma costituiscono la molteplicità modale dell’unica percezione…» in B. Petrà, “Vita nello Spirito e Sensi spirituali: la questione della modernità di Simeone il Nuovo Teologo”, in Simeone il Nuovo Teologo e il onachesimo a Costantinopoli, Qiqaion, Magnago 2003, p. 240. Diadoco di Foticea amerà condensare nel termine percezione le esperienze mistiche da lui sperimentate: «Chi ama Dio nella percezione del cuore, costui è da lui conosciuto. Quanto più ama Dio, tanto più riceve l’amore di Dio nella percezione dell’anima. Costui è pervaso dal desiderio ardente dell’illuminazione della conoscenza fino ad avvertire la percezione delle sue ossa. Anzi non avverte neppure se stesso, trasformato qual è del tutto dall’amore di Dio» (Diadoco di Foticea, Opere Spirituali, 14, cit., p. 119). Percezione del cuore o dell’anima sono termini equivalenti. Questa percezione, che è una grazia particolare di Dio, viene donata a chi ha già vissuto a lungo nel suo amore. Essa corrisponde al possesso di un amore ardente che libera la persona dal suo ego e le fa desiderare una relazione con Dio ancora più profonda. 

Nell’Omelia XII, tuttavia, attesta che questa comprensione può venir meno (B 1332) e, così, allude anche ai fenomeni di desolazione sperimentati da molti uomini spirituali. 

«Dopo un attento esame si potrebbe capire in questo modo il senso di una simile chiamata: il grande Mosè cominciò a vedere Dio nella luce e più tardi conversò con lui nella nube; ma quando divenne più sublime e più perfetto vide Dio nella tenebra. Ecco il messaggio che cogliamo da questa [progressione]: il distacco del principiante dai concetti falsi e ingannatori su Dio corrisponde al passaggio delle tenebre alla luce, ma la comprensione più profonda delle realtà misteriose, conducendo l'anima dalle cose invisibili alla natura infinita, la fa entrare come in una luce che ottenebra quanto ha compreso; guida l'anima a contemplare l'occulto e la abitua a questa esperienza. Quindi l'anima che si protende verso i beni celesti passando attraverso queste fasi, dopo aver abbandonato tutto ciò che appartiene alle possibilità conoscitive della natura umana, penetra nei recessi della conoscenza di Dio, incontrando ovunque la tenebra divina» (B 1280.1282). Trovandosi in questa fitta oscurità, dopo aver lasciato all'esterno tutto ciò che appartiene all'esperienza sensibile e all'indagine conoscitiva, le rimane soltanto, nella sua ricerca, l'impatto con l'infìnito e con l'inaccessibile nel quale è presente Dio. La Bibbia, infatti, narra, riguardo al legislatore: “Mosè avanzò verso la nube oscura, nella quale era Dio”» (B 1280. 1282). 

«Ora ella si trova avvolta dalla notte divina, dove lo sposo fa percepire la sua vicinanza senza farsi vedere. Come potrebbe farsi scorgere nella notte ciò che di per sé è invisibile? Ciò nonostante Egli fa percepire all'anima il senso della sua presenza e, continuando a restare nascosto nell'invisibilità della sua natura, sfugge a ogni conoscenza piena» (B 1284). 

G. commenta soltanto adesso la richiesta rivolta dal giovane all’amata di aprirgli la porta perché possa entrare nella sua casa. 

A suo parere, l’ingresso nella casa equivale ad una iniziazione misterica. Tuttavia, a differenza dei misteri ellenistici dove bastava svolgere un’azione rituale per aprire una relazione amicale con la divinità, in questo caso, non è affatto sufficiente officiare un rito ma è indispensabile attuare una conversione di carattere etico. Solo chi ha ben operato, possiede le chiavi per aprire la propria abitazione al Verbo che sollecita l’anima di ogni persona. 

«In che cosa consiste, quindi l'iniziazione al mistero che si compie per l'anima lungo questa notte? Il Verbo batte alla porta; la porta rappresenta la conoscenza parziale delle realtà indicibili mediante la quale entra colui che cerchiamo. La verità, dunque, rimane al di là delle nostre capacità naturali poiché viene conosciuta soltanto in modo limitato, in congetture e in ipotesi confuse, come insegna l'apostolo; essa bussa alla porta del nostro cuore chiedendoci di aprire e facendoci premura, ci suggerisce il modo come convenga schiudere la porta, consegnandoci, come se fossero delle chiavi, tutti quei begli epiteti coi quali è possibile aprirla. I significati di questi nomi, sorella, amica, colomba e perfetta, sono certamente delle chiavi che ci dischiudono realtà misteriose. Se vuoi che venga spalancata la porta e siano sollevati i frontali della tua anima, affinchè entri il Re della gloria, bisogna che tu divenga amica mia, accogliendo nella tua anima i miei comandamenti […] Questo significa che devi evitare ogni negligenza e apparire integra e pura da ogni male. Conseguiti questi risultati, o anima, dischiudi il senso di questi nomi come se tu girassi delle chiavi per permettere l'ingresso alla verità, meritando ormai di essere sorella, amica, colomba e perfetta» (B 1284.1286). 

Mi sono levata la tunica, come indossarla ancora? Mi sono appena lavati i piedi, come ancora sporcarli?

(Ct 5,3). La ragazza cerca dei pretesti per fare la preziosa; vuole ricordare al suo innamorato che l’amore deve esser sempre richiesto e riconquistato. 

G. vede ribadita qui la necessità di un cambiamento di vita ma tale esigenza non è circoscrivibile nell’ambito etico, ma proviene da un evento sacramentale. Cambiare vita significa rivestirsi di Cristo stesso. La metafora del nuovo abito rinvia al Battesimo, dove, col rito della spogliazione dell’abito vecchio e nell’assunzione di quello nuovo, si indicava l’azione trasformante di Cristo, operante nel battezzato. 

«Ella ha obbedito con precisione al Signore che le aveva ordinato di diventare sorella, amica, colomba e perfetta per rendere possibile nella sua anima l'ingresso della verità. Eseguì quanto le era stato richiesto: si è tolta quella tunica di pelli di cui si era ricoperta dopo il peccato» (B 1290)

 Quest'anima, poi, dopo averlo lasciato entrare, si riveste di lui, secondo l'avvertimento di Paolo il quale ci ordina di spogliarci dall'abito carnale dell'uomo vecchio e di rivestire l'abito nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità (Col 3,9). Questo nuovo indumento è Gesù stesso. La sposa, avendo deciso di sottomettersi al comandamento dato ai discepoli di non rivestirsi più dell'abito che si è tolta ma di accontentarsi di una sola veste — quella che indossò quando venne rinnovata mediante la rigenerazione celeste —si mantiene fedele alla parola del Signore. Egli chiede agli uomini che si sono adornati una volta per sempre dell'abito divino, di non indossare mai più quello del peccato, né di usare due vestiti ma uno soltanto per impedire che ci si serva di due abiti assolutamente discordanti tra loro. Quale relazione ci può essere tra la veste tenebrosa e quella luminosa e spirituale? […] Per questo dice: Mi sono levata la tunica, come indossarla ancora? Chi, dopo aver visto su di sé la veste del Signore, luminosa come il sole, tessuta con la purezza e l'incorruttibilità, quella veste che egli mostrò sul monte della trasfigurazione, accetta in seguito di indossare un abito misero e logoro?» (B 1290.1292. Cf Omelia I (D 31). 

Il mio amato ha fatto passare la mano per la fessura, il mio ventre si commosse

(Ct 5,4). Il ragazzo, premuroso d’entrare, tenta di togliere il chiavistello della porta; la ragazza s’intenerisce ed avverte il profumo lasciato da lui. 

Secondo G., nonostante la sposa abbia cercato infine di corrispondere alle richieste dello sposo, questi, il Verbo, non entra nella casa ma si limita a mostrarle la sua mano. La mano è simbolo dell’operatività solerte. Il Verbo si manifesta non nella sua persona ma mediante le sue opere: la creazione e la redenzione operata da Gesù. Rimanendo incomprensibile nella sua essenza divina, Egli, proprio mediante si è fatto conoscere agli uomin per il suo agire. L’apparizione della mano sta a significare questo genere di comunicazione. Questa conoscenza di Dio, vera ma molto parziale, sarà trascesa in futuro, nella vita eterna, da una conoscenza molto più completa e portatrice di gioia. 

«Udì la sua voce e obbedì al comando […] La porta dell'anima venne spalancata per fare entrare il Re della gloria, ma l'intera ampiezza della porta risultò un passaggio piccolo, stretto e basso, e così lo Sposo non potè passare per essa; a stento riuscì a penetrare soltanto con la mano, ma in modo tale da toccare colei che desiderava vedere lo sposo. Ella ricava il solo vantaggio di sapere che quella mano appartiene allo sposo desiderato» (B 1298.1300). 

L'anima umana si trova al confine di due nature, delle quali l’una è incorporea spirituale e incontaminata, mentre l'altra è corporea, materiale e irrazionale. Non appena si è purificata da un tipo di vita rozza e materiale acquistando la virtù, l'anima si rivolge verso ciò che le è affine, verso il divino e da quel momento non cessa di scrutare e di cercare il principio da cui derivano tutti gli esseri, chi sia la sorgente della bellezza delle creature, da dove scorra tanta forza, chi sia la fonte da cui promana la sapienza che appare nelle cose create. Ammira la bellezza del firmamento, lo splendore degli astri, il movimento veloce dell'asse del globo; ammira la terra che, disponendosi in armonia con l'universo che la circonda, adatta i suoi movimenti in sintonia con le mutazioni dei corpi celesti; ammira gli svariati generi di animali; ammira i diversi generi di piante e le molteplici specie delle erbe, differenti le une dalle altre per la qualità, l'utilità e la forma, le proprietà particolari dei frutti e dei sapori. L'anima, mentre osserva tutte queste e anche, altre meraviglie, tramite le quali si rivela la potenza di Dio, proprio basandosi sulla grandezza di queste creature, si forma un'idea nella sua mente di colui che viene percepito come esistente attraverso le sue opere (B 1300.1302).

«Forse, nel secolo futuro, quando tutto ciò che si vede sarà passato, stando al preannuncio del Signore là dove dice: “il cielo e la terra passeranno (Mt 24,35), quando saremo trasferiti in quella vita che supera le possibilità della vista, dell'udito e del pensiero, allora non conosceremo più il Bene soltanto parzialmente, in base alle sue opere, come accade ora, e neppure comprenderemo la natura trascendente soltanto mediante le qualità delle creature visibili. Al contrario, l'immagine della beatitudine incorruttibile sarà colta pienamente in un modo ben diverso, e in un altro modo parteciperemo a quella gioia che ora non può entrare in cuore di uomo. Per ora la ricchezza insita nelle creature è l'ambito limitato da cui l'anima prende le mosse nella conoscenza dell'essere incorruttibile e noi l'abbiamo vista simboleggiata nella mano. Le opere della potenza creatrice, fanno tremare il suo cuore di fronte alla potenza divina. Allora, se l'uomo non può comprendere tutte queste cose, come potrà conoscere quella natura che le trascende tutte?» (B 1302.1304). 

In secondo luogo la mano richiama l’azione salvifica di Cristo sulla terra. G. accenna alla paradossalità dell’azione di Dio e alla sua complessità: 

«Forse qualcuno, interpretando diversamente il messaggio misterioso di questi versetti, produrrà un'esegesi altrettanto fondata. Da parte mia ritengo che la casa della sposa significhi tutta la vita umana. La mano creatrice di tutte le cose andò a risiedere in questa per un certo tempo e restrinse se stessa nell'impotenza della vita umana partecipando alla nostra condizione, divenendo in tutto simile a noi, escluso il peccato. Venuto tra noi, provocò uno sconvolgimento e un turbamento nei cuori: come può Dio manifestarsi nella carne? Come è possibile un parto verginale e una verginità feconda? Come può la luce mescolarsi con la tenebra e la morte unirsi con la vita? Come è possibile che lo stretto passaggio della vita riesca ad accogliere in sé la mano creatrice di tutte le cose con le quali egli misura l'estensione intera del cielo, contiene la mole della terra e la massa delle acque? Perciò è probabile che la sposa voglia indicare a noi profeticamente, mediante il segno della mano, la grazia del vangelo. Quando il Signore apparve sulla terra e dimorò con gli uomini, noi conoscemmo la bellezza pura e immateriale dello sposo, il valore divino del Verbo e lo splendore della vera luce mediante la mano che compiva questi prodigi. Per mano intendo la sua potenza che opera meraviglie, grazie alla quale i morti risorgono, i ciechi recuperano la vista, la piaga della lebbra viene scacciata e ogni malattia grave e mortale viene allontanata dal corpo con un solo  ordine» (B 1306.1308). 

«Ho proposto, riguardo alla mano, questa duplice interpretazione: la prima suggerisce che essa significhi la natura divina del tutto incomprensibile e inafferrabile alla mente, conoscibile soltanto in base alle sue opere; la seconda interpretazione sostiene, invece, che le dichiarazioni della sposa preannunziavano con grande anticipo la grazia del vangelo. Lascio all'ascoltatore la possibilità di scegliere, tra le due, quella più opportuna, che sembri accordarsi maggiormente con l'esegesi proposta in precedenza. Tuttavia quella che verrà considerata più utile, diventi per noi una guida sufficiente a condurci verso il bene» (B 1308).

Al termine di questo paragrafo si mostra incerto sul tipo di esegesi espresso. Ritiene di aver interpretato correttamente ma si mostra aperto ad altre spiegazioni migliori. A suo parere è importante che la meditazione della Scrittura risulti utile al fedele. In genere affronta con grande umiltà il testo biblico (Cf Omelie X, B 1236; XII, B 1314). Si esprime con esitazione e chiede spesso il soccorso della preghiera: «Colui che ci ha dato il comando di scrutare, darà anche la capacità di farlo» (Omelie su Qoelet, 1,1, cit., p. 129). 

Il tema è presente nella tradizione spirituale: «Considera la preghiera come la chiave del vero senso di ciò che è nelle Sacre Scritture» (Isacco di Ninive, Discorso 37 in Discorsi ascetici, cit. p. 597). 

  1. Sintesi

G. richiama, ancora una volta, il compito della vigilanza, la quale non riguarda soltanto l’ultimo avvento di Cristo, ma anche la sua venuta nel tempo presente. Chi resta vigilante, imita la vita propria degli angeli. Queste creature celesti non vengono posti come modelli a motivo della loro incorporeità  ma per la loro santità e la loro prontezza nel porsi a servizio di Dio. La santità degli angeli è caraterizzata dalla libertà dalle passioni  e proprio per questo motivo diventano i modelli dei monaci e degli asceti e di quanti, già al presente, anticipano la vita futura. Mentre la ragazza è in stato di dormiveglia, sente il richiamo dell’amato che si è avvicinato alla sua casa. In modo analogo il cristiano deve vegliare ed attendere l’arrivo dello Sposo, imitando gli angeli. 

G. si sofferma ad illustrare il significato del momento in cui avviene questo dialogo, ossia nel culmine della notte, mentre l’uno e l’altra si trovano immersi nella tenebra. Egli l’interpreta come un simbolo adatto a richiamare la trascendenza di Dio, la quale rimane anche nell’atto stesso della sua rivelazione. L’incomprensibilità non esclude, però, una possibilità di conoscenza del Signore. Il Verbo, sebbene non possa rivelarsi appieno con concetti razionali o con immagini sensibili, non rinuncia a farsi conoscere dal fedele e ad entrare in contatto con lui. Si serve, allora, di una comunicazione che trascende parole e concetti ed avviene tramite eventi di carattere mistico: la percezione della presenza. 

G. commenta poi la richiesta rivolta dal giovane all’amata di aprirgli la porta perché possa entrare nella sua casa. A suo parere, l’ingresso nella casa equivale ad una iniziazione misterica ma soltanto chi ha ben operato, possiede le chiavi per aprire la propria abitazione al Verbo che sollecita l’anima di ogni persona. G. vede ribadita qui la necessità di un cambiamento di vita ma tale esigenza non è circoscrivibile nell’ambito etico, ma proviene da un evento sacramentale. Nonostante la sposa abbia cercato infine di corrispondere alle richieste dello sposo, questi, il Verbo, non entra nella casa ma si limita a mostrarle la sua mano. La mano è simbolo dell’operatività solerte. Il Verbo si manifesta non nella sua persona ma mediante le sue opere: la creazione e la redenzione operata da Gesù. Rimanendo incomprensibile nella sua essenza divina, Egli, proprio mediante si è fatto conoscere agli uomini con il suo agire. Questa conoscenza di Dio, vera ma molto parziale, sarà trascesa in futuro, nella vita eterna, da una conoscenza molto più completa e portatrice di gioia. 

  1. OMELIA XII

Mi sono alzata per aprire al mio diletto. Le mie mani stillavano mirra, fluiva mirra dalle mie dita

(Ct 5,5), Il diletto insiste a voler entrare nella casa della sua innamorata e cerca di smuovere il chiavistello. Quando la ragazza, finalmente, corre ad aprirgli, egli si è già allontanato. Profumato di mirra, ha lasciato una traccia del suo profumo. 

G. commenta in seguito questo dramma di sfasutura dei sentimenti e si sofferma, subito, sul simbolo della mirra. Sapendo che fu l’unguento usato per la sepoltura di Cristo (Gv 19,39), menziona il Battesimo quale inizio della nostra partecipazione alla Pasqua di Cristo. Consentendo la nostra partecipazione alla morte del Signore, questo Sacramento mostra la sua efficacia completa quando facciamo morire in noi tutti i germi del male. 

Il timore che il cristiano coltivi solo qualcuna delle virtù e lasci spazio al peccato in qualche settore, è costante nella pastorale di questo vescovo (Cf Omelia X B 1242). «Essere, per un aspetto, ciò che viene richiesto dal nome di cristiano, ma per altri aspetti, invece, strisciare verso ciò che è contrario ad esso, altro non è che separare da sé una parte di sé, considerandola un nemico. Mentre permette che dentro di sé il bene combatta contro il male, non gode di alcuna tregua, fino a condurre una vita impossibile. Quale intesa può esservi tra la luce e la tenebra? È la domanda dell'apostolo (2 Cor 6,14). È impossibile e impraticabile unire tra loro luce e tenebra, perciò chi accoglie entrambi i contendenti, diventa nemico di se stesso. Diviso in due parti, tra la virtù e la malvagità, accetta di diventare un avversario di se stesso. La virtù otterrà la vittoria sul male, quando ogni suo nemico, grazie all'aiuto prestato dai pensieri, sarà ridotto al nulla. Allora si compirà ciò che era stato predetto nel nome di Dio da parte del profeta: Faccio morire e faccio vivere (Dt 32,39)», De Perfectione, GNO, VIII,1, pp. 180-181. Cf De Instituto christiano, GNO, VIII,1, pp. 56-57. 

«Il modo con cui la sposa apre la porta allo sposo, sta a significare questo: sono risorta perché, nel battesimo, ero già stata sepolta con lui nella morte. La risurrezione non avrebbe potuto aver luogo se non fosse stata preceduta da una morte volontaria; le gocce di mirra che stillano dalle sue mani e le sue dita intrise di unguento attestano la volontarietà dell'evento. […] Ella attesta che le sue mani sono piene di mirra — le mani indicano le attività dell'anima — e allude alla morte alle cose temporali ottenuta per libera scelta, grazie al suo impegno. In base a questo può affermare di avere le dita intrise di mirra. L'immagine delle dita è un simbolo delle qualità spirituali, una per una, perseguite con convinzione, una dopo l'altra, vivendo rettamente. In conclusione, il discorso svolto contiene questo messaggio: Partecipo alla potenza della risurrezione per aver fatto morire le mie membra terrene, liberamente ho dato alla morte queste mie membra; non ho ricevuto da altri la mirra contenuta nelle mie mani ma essa fluisce in conseguenza di una mia libera scelta. La fatica che ho durato per vivere rottamente, simboleggiata dalle dita, prova la mia determinazione, intensa e decisa. 

Chi si esercita nella virtù in maniera imperfetta è morto ad alcune passioni, ma per altre rimane ancora ben vivo. Si può notare come qualcuno sia morto all'intemperanza ma, ad esempio, alimenta con grande cura la vanità, oppure qualche altro vizio pericoloso per l'anima, come l'avidità, l'iracondia, l'ambizione, il desiderio di gloria o altri ancora. Tuttavia, se l'anima vive nel male non è possibile che le sue dita si riempiano di mirra perché il suo comportamento non mostra ancora una completa estinzione del peccato e un estraneamente da esso. Quando tutte le dita avranno assorbito questa mirra — ormai sappiamo che cosa questo significhi — allora l'anima potrà risorgere e aprire la porta allo sposo. Il grande Paolo dimostra di aver compreso bene l'affermazione del Signore quando scrive: “Non è possibile che la spiga germogli se il chicco non viene prima abbandonato alla morte” (Col 3,5). La Chiesa ribadisce, proclamandolo, questo annuncio: bisogna che la morte preceda la vita; la vita penetra l'uomo solo attraverso l'esperienza della morte» (B 1316.1318).

«Dentro di noi coesistono due nature, l'una, provvista di ragione, è lieve e sottile mentre l'altra è grossa, materiale e pesante. Necessariamente in ciascuna di esse è presente una disposizione particolare e irriducibile a combattere l'altra. Ciò che in noi è leggero e pervaso dalla ragione si muove verso l'alto; ciò che invece è pesante e materiale rimane inclinato e trascina verso il basso. Poiché il movimento naturale di ognuna va in senso contrario a quello dell'altra, non è possibile che l'una proceda speditamente se non riesce a reprimere il corso spontaneo dell'avversaria. In mezzo a queste due nature se ne sta la nostra capacità di essere persone provviste di indipendenza e di autodeterminazione. La nostra scelta è in grado di rinvigorire la natura che si trova affaticata o può indebolire quella che sta prevalendo. Trovandosi, dunque, in mezzo alle due, fornisce all'una la corona della vittoria contrastando l'altra. […] Veramente la prosperità del male causa un duro colpo alla vita virtuosa. In base a questo faremo bene a imitare il comportamento del salmista, disponendoci ogni mattina a uccidere tutti i peccatori della terra e a sterminare dalla città del Signore (la città è la nostra anima) tutti i progetti intenti alla trasgressione della legge, perché la loro morte è la vita dei progetti positivi. Noi viviamo passando attraverso la morte, quando il Verbo che ha detto: “Io ucciderò e vivificherò” (Dt 32,39) uccide gli elementi negativi e vivifica quelli positivi che si trovano in noi, come aveva preannunziato il salmista» (B 1318.1320.1322). 

«[L’uomo] aveva ricevuto in possesso anche il paradiso divino rigoglioso di vita grazie alla produttività degli alberi; il comando di Dio era una legge di vita, una legge che impediva di morire. In mezzo agli alberi del paradiso c'era l'albero che donava la vita, ma bisognava saper bene quale tra questi portava il frutto della vita, poiché l'albero che portava la morte non lasciava intuire che il suo frutto era bello ma anche letale nello stesso tempo, e anch'esso sorgeva in mezzo al paradiso. Neppure era possibile che in mezzo ai due alberi ci fosse un vasto spazio intermedio. Se fosse stato concesso che fra i due si estendesse un vasto spazio, necessariamente l'altro sarebbe stato escluso da questa zona mediana. Infatti in uno spazio a forma circolare la posizione esatta del centro viene ottenuta quando tale punto dista dalla circonferenza a intervalli uguali, da tutte le parti. Dopo che è stato deciso quale debba essere l'unica pianta situata perfettamente al centro, non è possibile che in questo stesso cerchio si possa trovare spazio per due centri, entrambi posti in maniera precisa nel mezzo. Se viene costituito un altro centro al posto di quello fissato precedentemente, necessariamente anche il cerchio subisce un totale cambiamento. Di conseguenza anche il primo punto fissato si trova a essere fuori centro rispetto alla circonferenza disegnata dal nuovo cerchio tracciato. Ciò nonostante il testo biblico dice che al centro del paradiso stavano sia l'uno che l'altro albero, sebbene ognuno di essi fosse provvisto di una qualità opposta a quella dell'altro, uno infatti era un albero di vita mentre l'altro produceva un frutto letale. Paolo chiama questo frutto peccato: “II frutto del peccato è la morte (Rm 6,23)» (B 1324.1326). 

Conviene conoscere questo insegnamento, scrutare la sapienza che si trova nei versetti esaminati: Dio ha posto la vita al centro del suo giardino, mentre la morte non era stata piantata né aveva radici, non aveva alcuno spazio; essa potè crescere nell'assenza di vita, quando gli uomini trascurarono il possesso di quel che era il bene migliore per loro. In mezzo agli alberi piantati da Dio si trovava la vita e la morte potè radicarsi solo quando quella venne meno. Questo è il motivo per cui il testo che stiamo esaminando, il quale ci comunica la sapienza servendosi di alcune immagini allusive, colloca al centro del paradiso anche l'albero portatore di morte e dichiara che il suo frutto contiene proprietà che provengono da potenze contrarie al bene. […] Così l'uomo dopo essersi allontanato da tutti i frutti del bene, si saziò del prodotto corruttore della disubbidienza (un frutto di tal genere si chiama «peccato che conduce alla morte»). Infatti subito morì alla vita migliore, scambiando la vita divina con un'altra priva di ragione e propria degli animali. Dopo che la morte si unì alla nostra natura una volta per tutte, la mortalità venne trasmessa ai discendenti nei loro figli. Di conseguenza noi ricevemmo una vita ormai spenta, poiché anche la nostra stessa vita era intrisa di morte a quel modo. La nostra vita, privata ormai dell'immortalità, senza dubbio è morta. «Chi verrà conosciuto tra queste due forme di esistenza»,17 l'uomo, si trova come arbitro tra due tipi di vita e così, se toglie vigore a quella peggiore, da la possibilità di vivere a quella che è rimasta incorrotta. Se l'uomo, facendo illanguidire la vera vita, decade in questa spenta esistenza, quando invece provoca la morte a questa esistenza segnata dalla morte e degna degli animali, passa alla vita che non avrà fine. Allora, senza dubbio, non è possibile che pervenga alla vita beata chi non è morto al peccato. Per questo motivo ci viene insegnato dal testo biblico che entrambi gli alberi erano nel paradiso, proprio al centro; uno stava là per natura, l'altro è stato aggiunto a quello che già c'era, a causa del venir meno della vita. Per mezzo dello stesso albero si verifica il medesimo evento: avviene uno scambio tra vita e morte mediante la partecipazione alla vita o la privazione di essa. In questo senso, chi è morto al bene, vive per il male, e chi è morto al male riprende a vivere per ottenere la virtù» (B 1326.1328.1330).

Aprii al mio diletto ma il mio diletto se n'era andato. La mia anima uscì seguendo la sua chiamata

(Ct 5,5). La ragazza si sente morire per aver causato l’allontanamento del suo amato e si mette subito alla sua ricerca. 

La ricerca di Dio non consente tregua. Compare ora una nuova menzione della corsa continua verso il bene (epektasis), il tema più ricorrente di queste Omelie, al punto da costituire il messaggio principale dell’opera. Menziona poi di nuovo l’esperienza della percezione della presenza, questa volta però in senso negativo: il Signore si sottrae all’anima che lo cerca. La mistica successiva conoscerà l’esperienza dell’abbandono di Dio (Cf. Diadoco di Foticea, Opere spirituali, 87 e 90, cit., pp. 229-231 e 237-241. Isacco di Ninive, Disc. 40, Discorsi ascetici, cit., p. 615. Per gli autori spirituali moderni, cf M. Paradiso, Mistica e nichilismo in Europa, Cittadella Editrice, Assisi 2020, pp. 95-103 e 185-194).

«Così dicendo, ci insegna che la potenza che supera ogni comprensione può essere conosciuta solo a quel modo. Bisogna non accontentarsi mai della percezione ottenuta, ma al contrario, cercare sempre il meglio, senza fermarsi nel cammino della conoscenza. Infatti la sposa, che è piena di mirra, attesta di aver ottenuto la morte al male con gli sforzi di tutta la sua esistenza chiamati metaforicamente dita, e dopo aver mostrato la mirra che stilla dall'interno delle sue mani, come un'immagine della volontarietà della vita virtuosa, afferma di aver appoggiato le mani sul chiavistello e di essersi avvicinata, mediante le sue opere, a quell'ingresso stretto e angusto; la chiave di questo luogo viene consegnata dal Verbo a coloro che sono diventati come Pietro. La sposa apre per sé la porta del Regno con entrambe le chiavi, con quella che rappresenta le mani (che sono un segno a loro volta delle opere) e con quella che rappresenta la fede. Con queste chiavi, quella delle opere e quella della fede, il Verbo ci procura l'accesso al Regno. Ma proprio quando potè sperare, come accadde a Mosè, che le fosse manifestato chiaramente il volto dello sposo, proprio allora, colui che lei desiderava fece svanire la percezione della sua presenza. Esclama infatti: “II mio diletto se n'era andato”. Tuttavia non ha abbandonato l'anima che lo seguiva ma l'ha attirata dietro di sé: “L'anima mia uscì, seguendo la sua chiamata”. È veramente encomiabile questa decisione dell'anima disposta a uscire seguendo la parola udita!» (B 1332).  

Lo stesso accadde anche a Mosè quando vide sparire il volto desiderato del Signore e perciò l'anima di questo legislatore si allontanò di continuo dal luogo dov'era, seguendo il Verbo che la precedeva. Chi non conosce le ascese percorse da Mosè che divenne sempre più grande e mai smise di ascendere alla perfezione? Divenne più grande di quanto lo era all'inizio, quando valutò l'obbrobrio di Cristo più prezioso del regno di Egitto e preferì soffrire insieme al popolo di Dio che godere il piacere passeggero del peccato. […] Ancora di più Mosè diventò migliore quando condusse una vita solitària, rimanendo nel deserto lungo tempo per acquistare la sapienza. In seguito viene illuminato dal fuoco del roveto e lascia che il suo udito venga rischiarato dalla luminosità splendida della Parola. Toglie dai piedi la calzatura di morte. Il suo bastone consuma i serpenti egiziani. Libera il popolo dalla tirannia del Faraone. Lo guida sotto l'ombra della nube; divide il mare. Sommerge il tiranno; addolcisce le fonti di Mara. Fa rigonfiare di acqua la pietra; si sazia del cibo degli angeli. Ascolta il suono della tromba. Affronta il monte infuocato; ascende alla vetta, entra nella nube, si inoltra nella tenebra dove sta Dio; accoglie il patto. Diventa come un sole, inaccessibile alle persone vicine, a causa del volto splendente di luce. […] Non di meno un uomo come questo, così grande, capace di simili esperienze e innalzato fino a Dio per mezzo di esse, nutre un desiderio insaziabile di ottenere ancora di più e di poter vedere il volto di Dio. Sebbene la Bibbia attesti che egli era stato stimato degno di conversare con lui familiarmente, né il colloquio amichevole, né la conversazione con Dio avvenuta faccia a faccia, placano il suo desiderio dei beni celesti. Egli supplica invece: «Se ho trovato grazia ai tuoi occhi mostrati a me chiaramente» (Es 34,9). Dio promette di concedergli la grazia richiesta, e dopo avergli detto: «Ti ho favorito più di tutti», gli passa vicino in un luogo segreto posto nella roccia, coprendolo con la sua mano divina. E così, a stento, potè vederlo di spalle dopo che egli era passato (Es 33,23). Dall'episodio apprendiamo questo insegnamento: chi desidera contemplare Dio, lo vede solo se continua sempre a seguirlo. Vedere il suo volto significa camminare instancabilmente dietro di lui, mantenendosi al seguito del Verbo, andandogli dietro. Così anche adesso l'anima, risorta passando attraverso la morte, e ricolma di mirra, dopo essersi avvicinata alla serratura con l'aiuto delle opere buone, viene presa dalla brama di far entrare il Desiderato. Mentre le passa accanto, lei esce e non se ne sta ferma al punto dov'era, ma tocca appena il Verbo che la conduce ancora più avanti» (B 1334.1336.1338). 

Attesta infatti: «Lo cercai e non lo trovai». Come avrebbe potuto trovare l'essere che non si rende noto fra le cose che conosciamo? Non c'è forma, né colore, né quantità, né luogo, né figura, né ipotesi, né somiglianzà, né proporzione che lo rivelino. Al contrario, colui che viene sempre riscoperto è al di là di ogni tentativo che si proponga di afferrarlo e perciò costringe i ricercatori a rinunciare a ottenere risultati. Allora la sposa confessa: l'ho cercato servendomi delle facoltà razionali della mente, con ragionamenti e concetti, ma egli era ben lontano, inafferrabile alla presa dell'intelligenza. L'essere che viene considerato superiore a ogni definizione conoscitiva, come potrebbe venire racchiuso da un nome che lo esprima? Ella escogita ogni mezzo per scoprire un nome che valga a racchiudere la grandezza del bene immortale, ma tutta la forza espressiva della sua loquela risulta vinta e si persuade di essere inferiore al vero. Per questo afferma: «L'ho chiamato quanto potevo, ho escogitato dei nomi che esprimessero la beatitudine immortale ma egli era ben più grande di ogni termine significante». Anche il grande David fece una cosa simile, chiamò Dio con una varietà infinita di nomi, ma ammise di non aver colto la verità. — «Tu, o Dio», — egli attesta — «sei misericordioso, pietoso, paziente, molto compassionevole, veritiero, forte, sei una fortezza, un rifugio, una potenza, un aiuto, una protezione, una fonte di salvezza e altre qualità simili». Tuttavia confessa che il suo nome non è ancora conosciuto in tutta la terra ma che esso suscita stupore. […] Colui che viene chiamato non può essere afferrato dalla presa di chi lo cerca, e allora la sposa conclude: «Lo chiamai ma non mi udì» (B 1340).

Mi scopersero i custodi che girano per la città, mi percossero e mi ferirono; i custodi della città mi sottrassero il velo

(Ct 5,7). La giovane parla della disavventura incontrata mentre, di notte, cercava il suo innamorato per le vie della città. Alcuni custodi, scambiandola, forse, per una prostituta, l’hanno percossa e le hanno tolto il velo dalla fronte. 

Nel commento di G. le umiliazioni, dal lato spirituale, finiscono per ottenere un risultato positivo. 

«Come mai colei che si era spogliata di ogni indumento porta ancora quel velo, sottrattole ora dai custodi della città? Quindi doveva ancora levarsi qualche cosa anche dopo quella spoliazione, e così ora se lo è tolto. Infatti l'ascesa a Dio fa scoprire sempre nuove grossolanità da togliere. Perciò la spoliazione dell'abito che era stata riferita prima, viene messa a confronto con la purezza conseguita ora, così che un velo ancora le viene tolto da coloro che l'hanno scoperto. Questi sono i guardiani che si aggirano per la città. La città è l'anima. Percuotendola e ferendola le tolgono il velo, ed essi devono svolgere questa mansione allo scopo di custodire le mura. La sottrazione del velo è allora una buona azione, perché l'occhio, libero da ogni velo, può guardare senza alcun ostacolo la bellezza sospirata. Nessuno potrà avere dubbi sulla validità di questa interpretazione se presterà attenzione alla dottrina dell'apostolo. Guidato dalla potenza dello Spirito, parla della sottrazione di questo velo, là dove scrive: “Quando ci sarà la conversione al Signore quel velo sarà tolto; il Signore è lo Spirito” (2 Cor 3,16-17). Chi, fra gli esperti presta attenzione all'ordine dell'esposizione, ammetterà che tutto ciò che predispone il bene, è già un bene. Se la spoliazione del velo è un bene, allora, necessariamente saranno un bene anche le ferite e le battiture con le quali si ottiene questo spogliamento» (B 1344.1346). 

È possibile scoprire anche un altro significato ai versetti precedenti, senza che contrasti per nulla con quanto abbiamo esposto. L'anima, uscita per seguire la chiamata del Verbo, dopo aver cercato colui che non è possibile trovare e aver chiamato colui che supera la possibilità di ogni nome, impara dai custodi ad amare l'Incomprensibile e a desiderare l'Ineffabile. Da questi viene percossa e ferita per aver disperato di raggiungere l'amato e aver creduto che la sua brama fosse inconcludente e che non avrebbe mai potuto godere dell'altro. Ma poi le viene tolto il velo del lutto perché impari a persistere sempre nella ricerca e a non ritirarsi mai dall'impegno dell'ascesa e impari che in questo sta il vero godimento del Desiderato e che il soddisfacimento del suo desiderio deve generare la brama di un bene migliore. Rimasta priva del velo della disperazione e dopo aver visto la bellezza dell'amato, superiore a ogni attesa e impossibile a essere descritta, lo scopre sempre migliore in tutta l'eternità; dilatata la sua brama alla massima intensità, rivela alle fìglie di Gerusalemme la passione del suo cuore verso l'Amato e spiega a loro come, avendo ricevuto in se stessa una freccia scelta da Dio, resa appuntita dalla sua fede, sia rimasta ferita nel cuore, scossa dal colpo infertole dall'amore. “Dio è amore”, insegna Giovanni (1 Gv 4,8), a lui sia gloria, potenza in tutti i secoli dei secoli. Amen» (B 1360.1362). 

  1. Sintesi 

Il diletto insiste a voler entrare nella casa della sua innamorata e cerca di smuovere il chiavistello. Quando la ragazza si decide ad aprirgli, egli si è già allontanato. Profumato di mirra, ha lasciato una traccia del suo profumo. 

G. commenta in seguito questo dramma di sfasutura dei sentimenti e si sofferma, subito, sul simbolo della mirra. Sapendo che fu l’unguento usato per la sepoltura di Cristo (Gv 19,39), ricorda che il Battesimo rappresenta l’inizio della nostra partecipazione alla Pasqua di Cristo. Consentendo la nostra partecipazione alla morte del Signore, questo Sacramento mostra la pienezza della sua efficacia quando facciamo morire in noi tutti i germi del male. La ragazza, sentendosi come morire per aver causato l’allontanamento del suo amato, si mette subito alla sua ricerca. Compare ora una nuova menzione della corsa continua verso il bene (epektasis), il tema più ricorrente di queste Omelie, al punto da costituire, forse, il messaggio principale dell’opera. Menziona poi di nuovo l’esperienza della percezione della presenza, questa volta però in senso negativo: il Signore si sottrae all’anima che lo cerca. (La mistica successiva conoscerà l’esperienza dell’abbandono di Dio). 

La giovane parla della disavventura incontrata mentre, di notte, cercava il suo innamorato per le vie della città. Alcuni custodi, scambiandola, forse, per una prostituta, l’hanno percossa e le hanno tolto il velo dalla fronte. Nel commento di G. le umiliazioni, dal lato spirituale, finiscono per ottenere un risultato positivo.


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