mercoledì 22 febbraio 2023

San Pier Damiani. La teologia

 Il cristiano sale a Dio perché, dapprima, Cristo è disceso per prenderlo con sé. Il cristiano può fare qualcosa di rilevante nel campo spirituale perché può contare sull’opera che Dio ha compiuto per lui, attraverso Gesù. Ancora di più, può avvalersi dell’umiliazione profonda alla quale il Signore si è assogettato per risollevarlo. Il cuore del Nuovo Testamento sta tutto nell’annuncio della solidarietà divina, per la quale il Figlio accetta di patire la storia degli uomini. «Il Signore tollerò pazientemente lo spegnersi del nostro vivere temporale per recuperarci alla luce della sera della sua eternità» (Serm. 20,4). 

Il tema compare, in modo esplicito, nell’omelia pronunciata nella festa di san Severo; la commemorazione precedeva quella più importante della Presentazione del Signore al tempio. Stabilendo una sottile relazione tra le due festività, il Damiani precisa: «In quella [nella Presentazione] apprendiamo tutto ciò che Dio ebbe ad affrontare per l’uomo, in questa [memoria di san Severo] rendiamoci conto a quale grado di altezza l’uomo possa assurgere per opera di Dio» (Serm. 4,1). Se Cristo non fosse disceso, né Severo né qualsiasi altro uomo avrebbe potuto salire. «Se Dio non avesse assunta la natura mortale, mai l’uomo avrebbe raggiunto la gloria del cielo. Se Dio non si fosse umiliato al di sotto di sé, mai l’uomo sarebbe stato innalzato al di sopra di sé» (ivi). 

L’uomo non può pensare di salire fino a Dio, contando su se stesso. Più sarà convinto di avanzare e d’essersi avvicinato, più si troverà lontano e smarrito negli spazi siderali. La scala per salire, poi, consiste nell’imitazione dell’umiltà di Dio. 

Nel Sermone 20, poi, PD ripercorre i gradi della discesa del Signore: «Dal cielo discese nell'utero della Vergine, dall'utero nel presepio, dal presepio si assoggettò alla circoncisione, dalla circoncisione venne al tempio, dal tempio al battesimo, dal battesimo alla croce, dalla croce alla morte, dalla morte al sepolcro. Infine discese anche negli inferi per trarre fuori i suoi santi e chiamarli alla gloria celeste, dopo aver distrutto il regno della morte» (Serm. 20,2). Grazie alla discesa e all’umiliazione del Verbo, ora l’uomo può ritrovare Dio che aveva abbandonato. 


Essere un solo spirito con Cristo

PD ritiene che lo scopo della vita monastica, come del resto della vita cristiana, si realizza quando il credente raggiunge il «locum familiaritatis» (Lett. 82,7), ossia quando entra con Dio nella comunione più profonda possibile ad un uomo.

Il testo più significativo in questo senso lo troviamo in un passo della Lettera 104, inviata all’imperatrice Agnese. È uno testo scritto per incoraggiare questa donna che, dopo aver rinunciato alla vita di corte, in seguito alla morte del marito (Enrico III), si era avviata alla vita monastica: «Non ti resta che giungere all’intima dolcezza del tuo Sposo e a quella soavissima unità del tuo spirito con il suo. Infatti chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito (1 Cor 6,17)» (Lett. 104,22). 

Richiama, così, quel versetto delle lettere di san Paolo che era divenuto il riferimento classico per testimoniare la possibilità dell’esperienza mistica.

Compare, del resto, in un passo di Cassiano, fra altri testi biblici che parlano dell’unità dell’uomo con Dio: «Che sia nelle nostre possibilità il dovere di rimanere uniti a Cristo, lo potremo arguire pure dalla nostra stessa esperienza, se riusciremo a mortificare e ad eliminare i nostri voleri e desideri di questo mondo. E ci lasceremo istruire dall’autorità di coloro che, parlando con il Signore, gli dicono con tutta confidenza: “A te si è stretta l'anima mia” (Sal 62,9), ed anche: “Io ho aderito ai tuoi insegnamenti, o Signore!” (Sal 118,31), come pure: “II mio bene è di stare vicino al Signore” (Sal 72,28), e c'è ancora: “Chi si unisce al Signore, forma con lui un solo spirito” (1 Cor 6,17)» (Conf VII,6). L’esperienza vissuta conferma la testimonianza autorevole della Sacra Scrittura. L’unità con il Signore, è considerata da Cassiano uno stato che rappresenta un’anticipazione della vita futura, il raggiungimento della misura di Cristo (cf Ef 4,13) (ivi). 


Secondo il Damiani, chi intraprende la vita monastica vuole giungere all’unità di spirito con il Signore. Nella lettera alla contessa Bianca, che aveva scelto anche lei il monachesimo (Lett. 66), richiama lo stesso passo paolino, precisando poi: «Si deve credere che Gesù non sia solo l’amico ma lo Sposo» (Lett. 66,3). 

Del resto soltanto chi è rimasto catturato dallo splendore di Cristo e continua a subire il suo fascino, può intraprendere una vita che contempla anche un passaggio attraverso la sofferenza, com’era capitato alle sante martiri Flora e Lucilla: «Se le beate vergini non avessero potuto contemplare senza posa con gli occhi della fede siffatta bellezza del diletto, non avrebbero sopportato tanti stenti e tribolazioni. Certo, se non avessero potuto gioire dell’abbraccio della sua somma bellezza…» (Serm.35,4). 


La vita cristiana di per sé, è un’anticipazione del riposo escatologico, in quanto partecipazione della nuova creazione inaugurata dalla Pasqua di Cristo, ma questa viene sperimentata, in modo particolare, nella vita eremitica. Questa «colloca già nella patria chi la percorre (iam ponit in patria), e già in un certo modo «ricrea e consola nel riposo chi si trova ancora nella fatica» (Lett. 50,4). 

La vita eremitica è una vigilia di quella solennità, continua ed eterna, che si celebra nei cieli. La vigilia è contrassegnato dall’impegno faticoso ma anche dalla gioia. Nella metafora della vigilia, PD riassume le esortazioni essenziali presenti nella sua opera: «Di tutta la nostra vita facciamo, se così posso dire, un'unica vigilia di quella eterna e continua solennità che si celebra nei cieli. Naturalmente si deve rattristare colui che celebra la vigilia, per poter poi gioire nella solennità. Pertanto ora celebriamo la vigilia di quell'ultima risurrezione, ossia della vera pasqua, se reprimiamo la volontà propria, se teniamo a freno gli istinti della carne, se sgomberiamo il cuore dai cattivi pensieri, se accettando di soffrire ogni giorno portiamo la croce al seguito di Gesù; se finalmente siamo disposti a perdonare chi ci ha offeso, ad aiutare i bisognosi, a dire la verità, a conservare nel cuore una carità non finta. Non perdiamoci in chiacchiere, non dilunghiamoci in parole oziose, non aspiriamo a nessuna cosa terrena, non impicciamoci in affari mondani, se ci preoccupiamo di offrire a Dio preghiere pure e sante, se ci è caro ascoltare continuamente e con tutto l'ardore del cuore la Parola di Dio. Affinchè la lingua parli di Cristo, Cristo si manifesti nella vita, Cristo nel cuore, Cristo nella voce» (Serm. 8,5).

La vita del solitario, rinchiuso per amore della libertà suprema, quindi, conosce la fatica ma anche il sollievo. PD parla della possibilità che l’eremita (recluso) venga introdotto, più che in un vestibolo, nel luogo destinato all’ospite di passaggio (intra diversorium) e lì, grazie a piccole fessure che non si notano a prima vista (per occultas rimas), ossia grazie a doni speciali, possa ammirare la magnificenza del proprietario della casa. «Spesso, mentre siamo stretti da ogni parte dalle tentazioni, per uno sguardo repentino della divina clemenza, siamo rapiti in contemplazione. In tal modo, come se fossimo dentro il vestibolo [intra diversorium], intravvediamo come attraverso occulte fessure [per occultas rimas] la magnificenza della gloria del re» (Lett. 50,65). 


Non solo la vita cristiana ma, in modo particolare, la vita monastica erano state concepite come un anticipo della vita eterna già prima di PD. Nello scritto, De laude eremi, Eucherio di Lione si complimenta con il confratello Ilario che ha deciso di ritornare nella sua comunità sorta nell’isola di Lerins. Così scrive: «Il vero Israele sei tu, che contempli Dio col cuore. Ti sei appena liberato da quell’Egitto che sono le tenebre del mondo, hai attraversato le acque salvifiche che hanno sommerso il nemico e adesso, grazie al legno della croce, senti la dolcezza di quelle cose che una volta erano amare» (Elogio della solitudine, 44 CTP 139, 100). La comunità di Lerins, pur tovandosi ancora nella fase di peregrinazione nel deserto, può godere d’una certa caparra dei beni futuri. Così egli attesta: «Cercano la vita beata, ma intanto fanno già cose beate, e mentre ancora la sognano, già la possiedono […] L’abbondanza della grazia di Cristo procura fin da adesso molte di quelle cose che sperano per il futuro, anzi quello che sperano ce l’hanno già. Faticano, sì, ma non è che siano pagati poco per la loro fatica, visto che nel lavoro si può dire che trovano già quella che sarà la loro ricompensa» (Elogio della solitudine, 43).


L’ebbrezza dello Spirito

PD ricorda a Bianca che, dal momento che ha aderito al Vangelo con più forza, Gesù è diventato per lei lo Sposo ma anche bevanda e cibo (Lett. 66,3). Si sofferma più a lungo sulla metafora della bevanda: Egli è il vino che allieta il cuore e lo inebria. La bevanda inebriante che Cristo ha già infuso nel cuore di Bianca è il suo stesso Spirito, il quale suole provocare una sobria ebbrezza in chi lo accoglie (ivi). «Egli inebria sapientemente chi è da Lui stesso riempito (quem replet, prudenter inebriat)» e, infondendogli una nuova mentalità, lo rende estraneo al sentire normale (Serm. 21,4). 

Il tema dell’ebbrezza è consueto nella letteratura patristica. Essa appare quando il cristiano agisce in modo da suscitare stupore, in quanto sopporta volentieri tutte le asprezze in nome dell’amore divino.  


Gesù Risorto agisce nel cristiano mediante il suo Spirito. Il monaco (o la monaca) deve, in primo luogo, lasciarsi condurre dallo Spirito di Gesù. PD ha compreso con grande chiarezza la rilevanza dell’azione dello Spirito Santo nel credente. 

L’opera dello Spirito è del tutto necessaria, non tanto per usufruire di doni carismatici ma per poter vivere la fede cristiana stessa. Lo Spirito illumina, suscita il desiderio, infonde la forza del fare (lumen mentibus ingerit, desiderium excitat, vires infundit) (Serm. 21,3). Mostra al credente ciò che deve compiere, riveglia il suo volere perchè cominci a fare ciò che ha veduto, lo accompagna nell’azione affinchè porti a compimento l’opera intrapresa. 

La formula è in piena sintonia con quanto fu stabilito nel secondo concilio di Orange, presieduto da Cesario d’Arles. «Nessuna cosa buona fa l’uomo, se Dio prima non concede che l’uomo faccia» (Canone 20). In quel Sinodo, i Padri avevano richiamato l’immagine giovannea dei tralci inseriti nella vite, la quale «fa scorrere in essi la linfa vitale […]. Giova ai discepoli, e non a Cristo, che Cristo rimanga in loro, e che loro rimangano in Cristo» (Canone 24). 

In conclusione, «come l’anima è la vita del corpo, così la vita della nostra anima è lo Spirito Santo» (Serm. 21,3). Invita, allora, i discepoli a chiedere l’infusione della grazia dello Spirito. Dovranno imitare quei poveri che sollecitano l’elemosina nei loro confronti (Serm. 21,6). 

Gli eremiti sono considerati, quindi, come dei mendicanti; costoro, avendo riconosciuto di non essere in grado da soli, con le loro energie, a realizzare il compito che si sono proposti e a procurarsi le qualità spirituali necessarie per corrispondere a Dio, devono chiedere questo dono a Colui che può realizzare i loro desideri. Hanno la possibilità d’attendere l’intervento risolutivo che sarà loro elargito dalla misericordia del Donatore, e preparsi a quest’elargizione, compiendo ciò che è opportuno per essere in grado di riceverla. 

La preparazione, infatti, avviene in due modi: è necessario eliminare ciò che nell’uomo contrasta con la grazia attesa e, nel contempo, supplicare il Donatore con «importune richieste». «Come a dire: io preparo il mio cuore e allo stesso tempo pronuncio grida importune di richiesta perché da una parte il grido che si è udito spinga ad avere misericordia, dall’altra il cuore preparato non disperda quanto concesso dalla generosità di chi prova misericordia» (ivi). 

La preparazione o purificazione avviene con gradualità, poichè il nostro egoismo s’attenua poco a poco. Una grazia misteriosa ci fa progredire gradualmente nell’amore. Il crescere nella virtù, mediante un progresso quotidiano costante, ottiene alla fine una santità perfetta: «Poiché per mezzo di una grazia misteriosa si progredisce nell'amore di Dio procedendo per gradi, quanto più cresce in noi, giorno per giorno lo spirito divino, tanto più diminuisce il nostro spirito, ossia quello del desiderio della carne. Questo malefico ed abominevole spirito, per il fatto che non subito si sradica completamente da noi, né si stronca immediatamente nella misura in cui ci si sforza, ben a ragione ci viene detto che scomparirà poco poco, ossia lentamente. Ma allora progrediamo appieno in Dio, quando constatiamo di esserci distaccati in modo serio da noi stessi. Ed anche questo crescere nella virtù gradatamente e lentamente, con un progresso del merito conseguito giorno per giorno, ottiene lo sviluppo di una santità perfetta. Infatti, ognuno che è chiamato prima incomincia dalla debolezza del suo apprendistato, poi si fa più più vigoroso per affrontare situazioni difficili e impegnative» (Serm. 28,3).

L’impegno ascetico, quindi, è soltanto attesa e preparazione dell’opera conclusiva e decisiva dello Spirito, sebbene anche la preparazione stessa sia già un frutto dell’azione dello Spirito. Lo attesta im modo più indiretto ma preciso il Damiani stesso: il cuore preparato non deve disperdere quanto è già stato concesso ad esso dalla larghezza della misericordia. La misericordia di Dio, quindi, interviene da sempre: precede, accompagna l’impegno di conversione, lo porta a compimento. 

Inviando un’esortazione a due vedove, Rodelinda e Sufficia, insiste sulla necessità di purificare il cuore affinché lo Spirito (o il Signore) possa venire ad abitare in loro. In questo scritto usa un’altra immagine ma conferma la medesima teologia: «Se volete costruire nei vostri spiriti una dimora degna di Dio, sforzatevi di purgarla da ogni fomite di rancore e di odio e da ogni macchia di malizia» (Lett. 94,11). Qui non si tratta di dilatare e ripulire la borsa da mendicante ma di pulire tutta la casa, in modo particolare la camera destinata per il riposo dell’ospite. PD insiste sulla necessità di purificare gli stessi pensieri: «Ad uno che sta per ricevere un re, che vale arredare tutte le stanze della casa, se poi questi resta inorridito nel trovare sporca la camera dove entra per riposare? Affinché dunque voi, possiate custodire i vostri corpi nella santa purità per la continua orazione, vogliate dimostrare di aver sempre una cura premurosa anche dei pensieri, cosicché procuriate che non vi sia nulla di sporco, che possa offendere i suoi occhi» (Lett. 94,12, cf. Lett. 97,21). 


Silenzio e custodia della lingua

PD parla della vita monastica come un cammino nel deserto. L’essere entrati nel deserto è già un dono. Il monaco, se non avesse ricevuto questa grazia, vivrebbe ancora in Egitto, ossia nella mondanità e, quindi, non potrebbe neppure definirsi tale. 

La prima condizione che rende possibile l’esperienza del deserto è il silenzio: «Per l’impegno di vita solitaria vi sono tre condizioni esterne che particolarmente si confanno ad esso e che debbono essere mantenute a preferenza delle altre: la quiete, il silenzio, il digiuno» (Lett. 50,13). Ricorda che, come viene attestato nel libro dei Re, nella costruzione del tempio di Salomone non si udì rumore di martelli o di altro arnese di ferro (1 Re 6,7). Tanto più il tempio spirituale può essere edificato soltanto col silenzio: «Mentre cessa il frastuono del parlare degli uomini, si costruisce in te, mediante il silenzio, il tempio dello Spirito Santo» (Lett. 124,4; cf Lett. 109,12).

«Tacendo, il solitario si  eleva al di sopra di sé […], [la mente] si eleva in modo sublime a cose superiori, è rapita in Dio mediante il desiderio del cielo, sa divampare il suo amore mediante il fuoco dello Spirito Santo» (Lett. 124,4). 

Senza il silenzio, quindi, la vita eremitica non potrebbe neppure essere denominata tale. Al contrario, seconda una tradizione che risale a san Romualdo stesso, il silenzio, custodito in una lunga permanenza in cella, si tramuta da sé e da solo, in un vero maestro. San Romualdo, infatti, come ipotesi estrema, permetteva che all’eremita fosse concesso di cibarsi perfino di carne, purchè non abbandonasse il rigore della cella (Lett. 50,39). «La stessa cella, per chi vi dimora a lungo, è la maestra migliore (ipsa cellula efficaciter instruit)» (Lett. 50,49). «Rebus aperit»: fa conoscere quei benefici spirituali che sono attingibili soltanto per esperienza. Al contrario, un danno gravissimo viene ricevuto da chi vive nell’instabilità e nell’inquietudine e ripudia la dimora della cella: «Lo Spirito Santo riposa soltanto su chi è quieto, [e] abbandona di conseguenza l’inquieto» (Lett. 78,13). 

L’argomento del valore del silenzio e della custodia della lingua, sono sviluppati dal Damiani soprattutto nel sermone 73, dal quale attingo un’espressione che potrebbe valere come proponimento essenziale per ogni eremita: «Visto che portate la chiave della cella, portate con voi anche la chiave della lingua» (Serm. 73,5). In altri termini, il bene del silenzio vissuto nella cella, deve essere prolungano nel parlare caritatevole, altrimenti il primo sforzo diventa del tutto inutile. 

Il sermone viene rivolto ad un gruppo di eremiti, i quali, dopo aver meditato sulla Sacra Scrittura, nella cella, per una settimana intera, si radunano insieme per ascoltare l’insegnamento di PD. Ci si aspetterebbe che il santo cominciasse con l’elogiare i suoi ascoltatori per l’impegno profuso. Parla, invece, del vizio della lingua. Gli eremiti, infatti, corrono il rischio di rilassarsi in modo eccessivo e di distruggere, così facendo, ciò che hanno costruito nel rimanere a lungo in un silenzio orante (Serm. 73,2). 

Il parlare smodato diventa come un fuoco che incendia tutta la selva delle virtù. Nel caso che si verifichi, «chi potrebbe fregiarsi della propria sobrietà, della propria castità, chi potrebbe trarre qualche tutolo d merito dei digiuni, o delle veglie, o per qualche buona azione?» (Serm. 73,4). 

Precisa quali siano i peccati di lingua, senza pretendere di fornire un elenco esaustivo: «Non escano dalla bocca parole scurrili, non sgorghino da essa motteggi che siano fomite di risa sgangherate. La nostra lingua non morda con le sue critiche la vita di un fratello debole, non esalti impulsivamente le opere di chi si comporta bene […] Non stia a raccontare cose fatte e dette nel passato, non vada a riferire ai confratelli, con effetti pestilenziali, quello che combinano i secolari» (Serm. 73,5). 

Altrove si sofferma sui dettagli attinti dai casi della vita comunitaria: fratelli che si erano radunati per reciproca edificazione, finiscono per distruggere l’opera compiuta: «Veramente è motivo di grande rovina di anime - come abbiamo appreso per esperienza - quando si permette di confabulare senza regola nelle celle. Infatti, mentre i fratelli deboli, che si fanno visita scambievolmente col pretesto di confessarsi, sbrigano in breve la confessione, poi, sciolto il freno alla lingua procace passano subito a chiacchiere frivole ed oziose. Dimenticano d'un tratto il motivo per il quale si erano trovati insieme, e subito cominciano a sparlare dei confratelli o anche dei priori: coloro pertanto che avrebbero dovuto amare con sincerità e purità, li mordono - per così dire - con denti pieni di livore. Ed avviene così che coloro che s'erano trovati insieme per purgarsi, dopo essersi ben contagiati con la lingua, si separano ciascuno più sporco di prima » (Lett. 50,25). 

Con fine arguzia, ironizza sul fatto che gli eremiti, vivendo isolati sui monti, siano più informati dei cittadini stessi sui fatti che accadono: «si disputa in cella di tutto ciò che vi è, di tutto ciò che si fa nelle città: la fama non l'ha ancora portato alle orecchie della gente comune, e il più delle volte ne ha resi già pieni i recessi dei monti» (ut supra). Denuncia la tendenza, presente nei monaci, alla curiosità indiscreta. Al cugino Marino, monaco di Classe, che viveva quindi in una zona portuale, scrive: «… cercherò forse di sapere se qualcuno in questo momento ha già attraccato le navi che prima avevano preso il largo nell’Adriatico, o quanto costa il sale e se il prezzo del grano è aumentato?» (Lett. 132,26).

Chi pecca con la parola, troverà difficoltà nell’atto di pregare. Di per sé, qualsiasi peccato, che precede la preghiera, la renda difficoltosa. È questa una convinzione tradizionale, già presente in Evagrio (La Preghiera, CTP 117, 4. 12-13. 20-21.22). L’eremita avverte che una spina è penetrata in lui e questo fatto gli impedisce di concentrarsi e lasciarsi assorbire. «Noi preghiamo, salmeggiamo, ma non riusciamo a strappare dal nostro cuore la punta della spina che vi è infissa» (Serm. 73,8). 

Il peccato di lingua non dovrebbe essere stimato come leggero, dal momento che è molto facile cadere in esso? Nel caso che si trattasse veramente d’una colpa lieve, bisogna, tuttavia, aggiungere anche questa considerazione: un cumulo considerevole di oggetti, di per sé leggeri come lo sono una piuma o un grano di miglio, finisce con diventare assai pesante ed opprimere le spalle del portatore (Serm. 73,7). È la ripresa d’un tema agostiniano: «Forse non troverà in te colpe gravi ed enormi... Allora non troverà niente [di male]? Ascolta la parola del Vangelo: Chi avrà dato dello stupido al proprio fratello... Da simili peccati di lingua, siano pur piccoli, chi è esente? Ma vorrai insistere: Son coserelle, sono minuzie, dalle quali non può andare esente la vita quaggiù. Orbene, raccogli tutte queste minuzie e vedrai se non formino una massa enorme. Come i chicchi di grano: son tanto piccoli, eppure formano un grosso mucchio; o come le goccioline d'acqua: le quali, pur essendo tanto piccole, formano i fiumi e trascinano persino i macigni» (Agostino, Enarrationes in Psalmos, 129,5 PL 37 1099). 

Se qualcuno però avverte troppo arduo un silenzio prolungato che cosa deve fare? La lingua si esercita validamente nella preghiera, nella salmodia, nella lettura ma anche «col proferire parole di edificazione» (Serm. 73,6). Sembra, dunque, che il Damiani consenta un’interruzione del silenzio quando essa favorisce un’opera di carità. Tuttavia è facile degenerare, come si è osservato poco fa. 

Lettura, salmodia, Eucaristia

Come favorire nel credente l’attitudine a lasciarsi condurre dallo Spirito Santo?

Una pratica tradizionale della Chiesa e del monachesimo, in particolare, era costituita dalla lectio divina, ossia nella lettura della Scrittura svolta in spirito di preghiera, in vista della conversione. 

PD, per spingere i suoi discepoli a praticarla con diligenza, introduce un curioso paragone: «Le spose degli uomini nobili sono solite masticare in bocca numerose varietà di sostanze cosmetiche affinché, quando verranno i pretendenti, possano essere profumate con più fragranza e dolcezza. Anche la nostra anima aborrisca le cipolle, l'aglio è tutto ciò che emana il pizzicore della sapienza terrena. Cerchi invece di emanare di continuo il profumo della cannella dell'orazione assidua, della mirra della lectio divina, il cinnamomo delle salmodie, e tutti gli aromi del profumo spirituale» (Serm. 73,9). La nobile sposa (probabilmente PD intendeva dire la ragazza nobile che intende sposarsi) vuole emanare profumo per catturare il pretendente. Agli eremiti, maschi, viene suggerito un espediente analogo. Dal momento che la metafora del Cristo Sposo non poteva applicarsi loro in modo diretto, ricorda l’elemento femminile presente in ogni maschio: «La nostra anima è sposa del Re celeste» (Serm. 73,9). Paradossalmente, allora, gli eremiti ricevono le medesime esortazioni che vengono impartite alle vergini. PD pensa in primo luogo al profumo che emana dalla bocca, senza tuttavia escludere che il corpo sia cosparso di altri aromi. La bocca è infatti l’organo interessato allo sviluppo degli impegni più importanti dell’eremita che sono la preghiera assidua, la lectio divina, la salmodia. 

L’uomo difficilmente vive senza gratifiche. Riesce a contrastare un piacere, quando ne scopre uno migliore; trascura un vivo interesse, solo quando è preso da uno più grande. É la scoperta del valore della Sacra Scrittura a costringere l’eremita al silenzio: «Là dove vedo i profeti e gli apostoli desiderosi di parlarmi, là dove rimiro Cristo che mi apre il suo Vangelo…» (Lett. 132,26). La lettura del testo biblico è una vera conversazione e l’eremita che si pone a leggere, dialoga con gli autori sacri. Conversa con Cristo stesso. Vede il Signore che in quel momento apre il Vangelo per lui («Christum suum michi expandentem evangelium cerno» ivi). L’eremita che è persuaso di vivere una grazia così grande, riesce a costringersi in cella, in silenzio, come una vergine che si è ritirata nelle stanze più interne della casa (in suis penetralibus), in attesa della visita dell’amato (Serm. 73,9). 

Ecco, allora, un consiglio pressante: «Immergiti sempre tutto nella lettura dei profeti, tutto nella lettura dei Vangeli. Occupa ogni angolo del tuo cuore con i vari detti della Sacra Scrittura…» (Lett. 132, 21). 

All’inizio del sermone 21, si era rivolto agli eremiti dando per scontato che s’impegnassero normalmente nella lettura («Voi che leggete le omelie dei santi padri, che ogni giorno non cessate di dedicarvi alla meditazione delle sacre scritture…»).  Era certo, inoltre che, per tale esercizio essi si trovassero come immersi in un torrrente abbondante (inter ipsa pleni torrentis profunda circumflui) (Serm. 21,2), al punto da rendere superfluo ogni altro discorso. 

Tuttavia era possibile sperimentare anche la difficoltà di comprensione o la noia della lettura. A volte ciò non dipende dall’oscurità del testo ma dallo stato d’animo del lettore. In questa caso il rimedio più sicuro è quello di recidere le lusinghe di ogni piacere terreno «affinché quel miele che non di per sé, ma per causa tua ti pare insipido, possa farsi dolcissimo alla tua bocca» (Lett. 132, 21). Non può che provare estrema tristezza per quanti provano fastidio nei confronti della Parola di Dio, poichè il loro stomaco spirituale si è ammalato («male languescente mentis stomacho»; senza mezzi termini, essi sono prossimi a morire («morti proximos») (Serm. 21,1). 

Oltre alla lectio, I monaci erano assorbiti dalla salmodia. Come venivano recitati i salmi? Il termine «decantatio» e «meditatio», usati di frequenza, alludono più alla continuità della recita salterio che alla sua modalità di esecuzione. L’orante «a guisa di un mortaio, macina i salmi per renderli profumati facendo spandere la loro fragranza» (Cf. Lett. 72,6). Spesso, la loro recita era accompagnata da un certo sforzo fisico: l’eremita Gezo quando terminava un versetto, s’inginocchiava e quando ne iniziava un altro, si rialzava; quindi faceva una genuflessione ogni due versetti (Lett. 111,13). 

Parlando di un certo Leone, PD suggerisce che pregava il salterio «morose», vuol ossia con attenzione scrupolosa (Lett. 44,16). Invece, riguardo a Domenico (Loricato) dichiara: «La salmodia gli riesce così facile perché, a quanto asserisce lui stesso, pronuncia non tanto le parole articolandole con la lingua, quanto, piuttosto, ne percorre il senso a mente vigile (mentis vivacitate)» (Lett. 44,19). Osserviamo l’espressione: «Psalmodia facile provenit»: la salmodia scorre dentro lui, senza alcun intoppo. A mio parere, in questo caso non si fa questione di velocità della recita ma si attesta la «vivacitas», l’energia dell’orante. In che cosa consiste? Forse si allude all’esperienza spirituale già segnalata da Cassiano: il senso di un versetto salmodico viene «anticipato» dall’orante. Perchè ciò avvenga, bisogna che questi  abbia sperimentato in sè quanto sta recitando, al punto che potrebbe essere lui stesso l’autore del testo che pronuncia (Conf. X,11). Domenico più che ripetere delle parole, fa uscire i suoi stessi sentimenti. Nel Salterio, rilegge se stesso. 

Insieme alla preghiera e alla lettura della Sacra Scrittura, era fondamentale la celebrazione eucaristica: «Cura di offrire di frequente l’ostia del sacrificio della salvezza…» (Lett. 95,8). Qui usa l’avverbio di frequente ma, scrivendo la vita di Odilone apprezza che l’abate non poteva «essere distolto dall’offrire ogni giorno il sacrificio della messa» (Vita di sant’Odilone II,2). La celebrazione doveva essere accompagnata dallo spirito di conversione: «Quando ci accostiamo ad offrire a Dio l'oblazione del tremendo sacrificio della Messa, dobbiamo guardarci bene dal portare all'altare, assieme all'ostia di salvezza, un fuoco straniero, cioè la fiamma della sensualità o di qualunque altro vizio. Ma piuttosto arda nei turiboli della nostra mente quel fuoco, e incendi il nostro cuore quella fiamma del divino amore, che sono ambedue comunicati al nostro intimo dallo Spirito di Dio» (Lett. 47,7). 

Lotta per la conversione

L’esperienza della solitudine e del silenzio è la condizione indispensabile, ma non sufficiente, per poter vivere la vita nuova. Con esse, s’impone la lotta per la conversione, per ottenere un miglioramento continuo di se stessi: «…ora è necessario che, camminando per il deserto, tu subisca ogni genere di tentazioni» (Lett. 78,2).

Stefano, recluso, riceve questo avvertimento: «Chi entra nella cella per combattere col diavolo, rivolga tutto lo sforzo della mente a non sentire più, neppure per un istante, i diletti della carne, ed a vivere morto a se stesso e al mondo. Prepari dunque il proprio animo a tollerare disgrazie e penurie, si voti a morire per Cristo» (Lett. 50,10). 

Camminare nel deserto è imparare a vivere la carità. Il viandante cammina ed avanza quando, condotto da Cristo, abbandona la mondanità e sperimenta in sé il vigore della carità verso di Lui e verso i fratelli: «È lui [Cristo] che conduce quelli che abitano insieme, affinché i nostri cuori non si attacchino alle cose della terra. Li infiamma continuamente col fuoco del desiderio celeste. E questo stesso condurre è un accederci di amore per lui con la fiamma dell'incessante carità: in modo che amandoci di amore vicendevole, in questo esilio rimaniamo uniti con la mente a Colui presso il quale ci eravamo dimenticati di ritornare» (Serm. 22,3). 

Se camminare nel deserto significa praticare la carità, per vivere nella carità, è necessaria la purificazione del cuore. Come avviene l’annientamento del nostro egoismo? É questo l’argomento trattato ampiamente nel Sermone 74. 

Liberato dall’Egitto ed entrato nella terra promessa, l’eremita affronta il compito già sostenuto dal popolo d’Israele, cioè sgominare le nazioni ostili che si progongono di impedirgli il godimento della terra (Cf Dt 7,1-2; Ser. 74,3). Le sette nazioni sono un’immagine dei vizi capitali. Scrive all’eremita Giovanni da Lodi: «Stà sul monte con il Signore, per impegnarti con costanza… nella guerra contro gli spiriti malvagi: per vincere, combattendo da forte, gli stimoli insolenti delle passioni carnali. Lotta, pertanto, contro la barbarie dei vizi, in modo da far prigionieri, con Giosuè, i re ribelli dopo la vittoria» (Lett. 78,25).

PD, come tutti gli autori spirituali, invita a prestare attenzione e a debellare i nemici interiori, che derivano dall’avversario principale rappresentato dall’egoismo o dalla concupiscenza. «L’ambizione di governare le passioni è al centro della spiritualità [monastica]… Gola, lussuria, avarizia, collera, tristezza, accidia, vanagloria, orgoglio: bisogna sempre avere davanti agli occhi questi avversari spirituali dell’uomo e del monaco, tanto più pericolosi in quanto li si conosce e vi si pensa di meno. La carità, regina e vertice delle virtù, è posseduta solo da colui che si purifica da tutti questi difetti» (A. De Vogué, Sguardi sul monachesimo, p. 35). 

È preoccupato, piuttosto che gli eremiti, temendo che il conflitto da sostenere sia troppo duro e sentendosi troppo deboli, rinuncino al combattimento o si lascino ingaggiare senza una sincera adesione. Gran parte della sua esposizione consiste nell’incoraggiare i riluttanti: «Noi, deboli e fragili, spesso diffidiamo di poter resistere all'impeto degli spiriti maligni come se si trattasse di carri ferrati. Infatti quando l'insolenza della gola, il baratro della lussuria e tutta quella peste dei vizi ci assediano a ranghi serrati, al modo di un esercito furioso di Cananei, non è come se i Cananei ci venissero contro con i loro carri di ferro e ci chiudessero l'accesso alla via della salvezza, per impedirci di salire dalla pianura della vita carnale alle altezze della virtù? C'è però il nostro buon Condottiero che, sollevandoci dalla nostra fragilità, ci anima alla fortezza e alla costanza, e ci spinge, a dispetto degli sforzi nemici, a salire sempre più in alto» (Lett. 142, 23).

Chi si rifiuta di sostenere questa dura guerra, ha indossato l’abito monastico inutilmente. A nulla serve aver abbandonato il mondo, se si lasciano vivere le potenti ed oppressive schiere dei vizi (cf. Serm. 74,7). Se l’eremita non ottiene di gustare i beni celesti, per aver vinto se stesso, si troverà in una situazione molto dolorosa: da una parte non proverà più il conforto di chi gode dei beni mondani, dall’altra non sarà in grado «di fruire della luce della contemplazione celeste» (Lett. 50,63). 

Cerca allora di rinfrancare i discepoli, ricordando loro un passo del Deuteronomio (Dt 7,1-2) dove si legge che Mosè, quando invita gli Israeliti alla guerra, fa sapere che i nemici che dovranno essere debellati, sono già stati sconfitti nel pensiero divino. Dovranno annientare ciò che Dio ha già messo in loro potere. I combattenti non devono fare altro che afferrare la vittoria offerta dal cielo («Cur collatam nobis caelitus victoriam non arripimus?») (Sem. 74,3). 

Anzi dichiara che è Dio stesso a combattere per mezzo nostro: «Lui stesso combatte, e ci invita ad essere noi a vincere; lui stesso distrugge le forze dei nemici, e attribuisce a noi il vanto della vittoria» (Serm. 74,3). Più ancora: «Vuole che per suo potere noi diventiamo vincitori, per poter meritatamente coronare quelli che ne escono trionfanti» (ivi). 

Prevenire è meglio che curare. È meglio evitare di cadere in questi vizi, piuttosto che sostenere, in seguito, la fatica di vincerli («ista nesciri quam vincere») (Serm. 74,5). Il vizio va estirpato nel suo sorgere e questo intervento tempestivo implica l’atteggiamento della vigilanza e del discernimento («discat emergentibus quibusque vitiis obviare») (Serm. 74,5). Su questo argomento si diffonde con maggior ampiezza scrivendo a Stefano recluso: «Considera la tentazione al modo del serpente: se lo si caccia subito dalla porta tutto resta mondo e intatto; ma se lo si fa entrare, quand'anche dopo, benché con fatica, lo si costringa ad uscire, qualcosa del suo veleno o delle sue squame, per poco che sia, necessariamente rimane. Sii sempre all’erta, dunque! Cosicché, come armato e pronto alla battaglia, tu affronti la tentazione sul suo stesso nascere e infranga sul nascere i piccoli moti dei pensieri, contro la pietra che è Cristo. Credi a chi tante volte lo ha provato: spesso facciamo entrare la tentazione prima quasi deliberatamente, ripromettendoci di cacciarla al più presto. Ma per quanto cacciamo quella suggestione poi attraverso la porta aperta della confessione, benché ci castighiamo con la penitenza, non so perché, per molto tempo non possiamo sbarazzarci completamente da certi residui della sozzura che ne è derivata, ed è inevitabile che, se prima della nostra volontà ci lasciavamo sedurre da vani fantasmi, poi senza volerlo siamo punzecchiati più aspramente dagli stimoli dei rimorsi di coscienza» (Lett. 50,51).

La vittoria su se stessi non è un bene che si acquista con facilità ma è necessario perseverare nell’impegno e curare «un pesantissimo malessere dell’anima spesso instabile (gravissimum fluctuantis animae tedium)» (Serm. 74,6). 

Lo stesso perdurare della lotta è provvidenziale, in quanto l’eremita dovrà sperimentare che egli può sì contrastare il vizio ma non può diventare capace di dominarlo con le sue sole forze. 

L’annullamento del vizio presuppone, più positivamente, l’acquisto delle virtù (ad es. l’umiltà sconfigge la superbia, la mansuetudine l’ira). Formando se stesso grazie a tali qualità, l’uomo diventa oggetto di compiacenza da parte di Dio e degli angeli e s’avvicina al possesso della pace (Serm. 74,5). 

Il ritorno dell’uomo alle sue origini, l’uguaglianza con gli angeli, l’acquisto della pace, quale dono esacatologico sono tutti temi tradizionali della spiritualità. Ritroviamo il medesimo messaggio nella lettera a Stefano recluso: «Sbrigati dunque a vincere le tue passioni, affinché, ammesso nella camera privata del re, possa a lui stare vicino come uno di casa!» (Lett.  50,65).

Le vie della penitenza

La vita nell’eremo era soprattutto penitenziale. Ritirarsi in cella e fare penitenza erano dei sinonimi. Parlando di S. Mauro, dice che questi usava il luogo solitario in cui si ritirava come fosse un bagno: «Lì infatti si dava cura di lavarsi di qualunque macchia avesse contratto da un colloquio, o da un discorso, o da un pensiero di gente del mondo; e la polvere della maniera di vivere del mondo, senza la quale non si può percorrere questa strada di uomini mortali era da lui espiata in quel luogo versando molte lacrime» (Vita di S. Mauro I,4). La penitenza, tuttavia, non riguardava in primo luogo il compimento di alcune pratiche esterne (come il digiuno, le flagellazioni o le metanie) ma la coltivazione delle virtù e di nuovi sentimenti interiori. 

Era, in primo luogo, acquisizione della virtù della pazienza. «Questa virtù eleva il monaco alla cura della perfezione» (Lett. 44,28). «Tra tutti i precetti che abbiamo ricevuto come leggi divine, nessun altro deve maggiormente risplendere nel monaco di quello d’aver pazienza in tutte le circostanze, in virtù della quale egli sopporti serenamente ogni ingiuria della malizia altrui» (ivi). Tutte le pratiche penitenziali non varrebbero quasi nulla se questa pazienza, nutrice delle virtù, venisse a mancare» (ivi). La penitenza è, in primo luogo, la serena sopportazione delle ingiurie da parte degli altri e delle vicissitudini della vita. 

È cercare d’acquisire una coscienza limpida. «La tua coscienza sia pura, illibata, nitida, sincera, senza malizia e filtrata da ogni feccia» (Lett. 50,67). Il rimorso ostacola l’effusione delle lacrime. 

È ottenere la purezza dei pensieri: «Ogni anima Dio la giudica per i pensieri di concupiscenza cui ha dato fiato. Pensa a fornicazioni o adultèri: è un postribolo di prostitute. Medita odio o spargimenti di sangue: è un campo di furiosi combattenti. Si compiace di pensare alle delizie dei conviti: agli occhi di Dio non è che un tegame o una pentola. Ha la testa sempre protesa a suscitare controversie: non può essere altro che un tribunale» (Lett. 97,21). 

Pentimento

PD si definisce spesso peccatore, riconoscendosi tale. È il primo passo essenziale e insostituibile per incamminarsi in una vera penitenza. Non significa che riconoscesse d’essere in peccato mortale e neppure di aver commesso colpe gravi. Si sente tale perché un amico di Dio avverte come gravi le colpe che altri considerano irrilevanti, perchè è consapevole di non essersi applicato nella via della santità come avrebbe desiderato e potuto. Si sente peccatore perchè in lui rimane sempre viva una selva irredimibile di pensieri e istinti che potrebbe condurlo al male. 

PD mostra un’estrema sincerità con se stesso: «Chiunque sia sano di mente, se si esamina bene e con attenzione, difficilmente riuscirà a trovare in se stesso qualcosa che gli dia diritto a sperare di ricevere encomi» (Lett. 87,3). Confessa di aver fatto fatica a perdonare a Cadalo (un antipapa) che gli aveva creato un’infinità di problemi. Benchè avesse preso la risoluzione di perdonarlo, non riusciva a dimenticare l’offesa ricevuta (Lett. 100,3). Ricorda gli errori degli anni giovanili: «[…] al tempo in cui, nella città di Parma, ero intento agli studi liberali, cioé quando, ancora nel fiore dell’adolescenza, mi spuntavano sul volto i primi peli della barba e il fuoco della libidine mi bruciava la carne […]», era stato scosso dal comportamento licenzioso di due amanti (Lett. 70,17). «Persino dopo essere venuto nell’eremo il frequente ricordo di quelle stesse lascivie non cessò di angustiarmi» (ivi). Al fratello Damiano, confessa con dolore di aver conservato a lungo, anche da monaco, il vizio della scurrilità: «C’è un peccato fra tutti questi che piango più amaramente, un peccato di cui, mi è testimone la coscienza, mi riconosco più colpevole a mio danno: la scurrilità mi fu sempre familiare, ed è vizio che, anche dopo essere diventato monaco, non mi lascia mai completamente» (Lett. 138,4). 

Quali sono i sentimenti profondi che animano il penitente? Egli imita il pavone che «tiene sempre dinanzi agli occhi le sue zampe sgraziate, fatte come quelle delle galline, mentre dietro di sé mostra la magnificenza della sua coda» (Lett. 95,4). In altre parole «Anche a te resti nascosto quel che hai di virtuoso; se invece c’è in te qualcosa di difettoso e meritevole di correzione, questo non si allontani mai dalla tua vista» (ivi). 

L’uomo pentito, tenendo una scarsa reputazione di sé, è totalmente alieno dal disprezzo nei confronti del prossimo. Da qui, il consiglio: «Reputa il tuo peccato pericoloso e mortale; quello degli altri, invece, chiamalo fragilità della condizione umana. Non essere più giusto del giusto; e mentre temi di commettere peccati, non essere restio di concedere il perdono a chi pecca» (Lett. 44,22). Ricorda la difesa elaborata dall’abate Odilone verso coloro che lo rimproverano d’essere troppo indulgente: «Preferisco essere condannato per la misericordia che per la durezza e la crudeltà» (Vita di Sant’Odilone II,7). Non può esistere una persona che sia realmente pentita dei suoi errori e, nel contempo, disprezzi qualcun’altro e non sia disposto a perdonarlo. La via della penitenza è una via di recupero della fraternità e il contrario del vero penitente è l’eremita che appare come «una tempesta di mare» che non ha pace in se stesso nè permette agli altri di goderla (Lett. 44,24). 

Un’ottima pratica penitenziale consiste nell’accogliere le rimostranze che ci vengono rivolte: «Non sopportare a malincuore la correzione di un fratello fatta con zelo: accoglila con gratitudine, spalmala come sicuro antidoto medicinale nell’intimo della tua anima» (Lett. 95,5). 

Se il penitente, dal momento che sente salire nel cuore un sincero pentimento, si sforza di rendere una sincera confessione al ministro della Chiesa, si sentirà rinnovare in profondità da questo sacramento (Lett. 104,20). 

L’elemosina

Quali formi penitenziali vengono stimate da PD, oltre quelle già citate?

Scrivendo ad un vescovo che vuole impegnarsi nella penitenza, dapprima PD passa in rassegna le pratiche a cui si sottoponevano i monaci (la preghiera continua, il camminare scalzi e portare cilici, chiudersi in clausura) ma avverte che il suo interlocutore non potrebbe nè vuole farle proprie. Fortunatamente, le possibilità penitenziali non si esauriscono in quelle forme. Che cosa può fare il vescovo di diverso o, forse, anche di meglio? Dare se stesso a Dio, donando in elemosina i propri beni. Cominciando a donare qualche cosa, alla fine donerà tutto se stesso come olocausto (Lett. 110,7). 

La generosità è di grande aiuto per purificare il cuore; infatti «come il calore del fuoco cancella ogni traccia di ruggine sul metallo, così l’elemosina è sempre in grado di purificare l’anima da qualsiasi squallore» (Lett. 110,14). 

I beni dei quali i ricchi s’avvantaggiamo, infatti, non sono stati affidati a loro perchè li godano soltanto per loro stessi, tanto meno per sperperarli, ma per essere elargiti. I ricchi sono dispensatori più che possessori. 

L’elemosina è piuttosto una forma di giustizia, che di misericordia perchè il ricco, donando, restituisce ciò che di per sé appartiene agli altri (Lett. 110,8; Cf. Lett. 142,14). A dare valore all’elargizione non è il fatto in sé perchè si tratta soltanto di compiere un dovere ma la generosità con cui si offre. Perciò un ricco egoista sarà accusato presso il Giudice non tanto di avarizia ma di rapina. 

Bonifacio (di Tarso), prima della conversione «era dedito al vino, adultero e amico di tutto ciò che Dio detesta» (Serm. 20,4). Per salvarlo Dio gli infuse una sincera generosità verso il prossimo al punto di dare ospitalità ai viandanti e ad occuparsi dei senzatetto. Mediante tali gesti di misericordia, la grazia di Dio cominciò a penetrare nel suo intimo, fino a trasformarlo interamente. Bonifacio prima diede le sue cose a Dio e successivamente gli donò tutto se stesso (prius dedit sua, postmodum se) (Cf. Serm. 104,7). Infatti, stando alla Sacra Scrittura, ci sono uomini come Abele, che prima si danno del tutto a Dio e solo in seguito gli donano i suoi beni ma altri agiscono al contrario. Ad esempio, il pagano Cornelio cominciò a praticare l’elemosina e solo in seguito, aderì al Vangelo. Bonifacio agì a somiglianza di Cornelio. 

In conclusione, l’uomo, a motivo della sua debolezza nella pratica della virtù, ha bisogno di misericordia e, mostrandosi misericordioso verso il fratello, consolida con le sue fatiche ciò che gli viene accordato gratuitamente da Dio (Lett. 110,18). 

La flagellazione

Come ho già riferito, PD s’impegnò, con una certa foga, a diffondere l’usanza della flagellazione, cercando di superare le forti resistenze presenti anche nel mondo monastico, dove, come egli stesso riconosce, non era praticata molto di frequente (Lett. 56,9). La flagellazione era ammessa dalla Regola di S. Benedetto come forma pedagogica nei confronti di qualcuno più ribelle ma veviva applicata come estremo rimedio e moderazione. 

PD suggeriva l’autoflagellazione; nella corrispondenza con il monaco Pietro Cerebroso, ebbe l’occasione di chiarire il suo pensiero su questo soggetto (Lett. 56). 1. La flagellazione viene testimoniata dalla Bibbia (Gesù, gli apostoli, Paolo stesso) subirono questo supplizio. 2. É necessario espiare il peccato (anche dopo che è stato perdonato). 3. Chi si lascia colpire, dimostra a se stesso che sarebbe in grado di affrontare il martirio (si procura un martirio in tempo di pace). 4. La Chiesa prevede questo correttivo per certi peccatori e per certi generi di peccati. 5. I colpi di flagellazione che vengono imposte agli eremiti sono leggeri e non esagerati. 6. L’uomo non pecca soltanto con lo spirito ma anche il corpo; entrambi devono essere corretti. 

Tali ragioni mi sembrano piuttosto fragili. Si potrebbe obiettare: 1. Gesù, gli apostoli e i martiri furono percossi da altri ma non praticarono mai un’autoflagellazione. 2. L’espiazione del peccato avviene anche con altre pratiche penitenziali più efficaci (preghiera, digiuno, elemosina, perdono, opere di carità). 3. È proibito cercare il martirio da sé e credersi capaci di subirlo. 4. Se la Chiesa la riteneva necessaria per determinati peccatori, conveniva estendere quest’uso a tutti? 5. Se la flagellazione era moderata, non poteva essere paragonata al martirio che mirava all’annientamento della persona. 6. È opportuno evidenziare l’unità psico-fisica della persona umana ma quest’ultima può essere rispettata anche in altre modalità più congrue. 

PD ha il merito di aver considerato la flagellazione come una forma d’unione alla sofferenza di Gesù e non come un gesto di condanna del corpo ritenuto unico responsabile del peccato. Ha sempre raccomandato una moderazione nelle pratiche ascetiche (pur ammirando gli eremiti che si sottoponevano ad imprese alquanto abnormi) ed ha apprezzato soprattutto pratiche penitenziali più normali. 

I doni del deserto e della terra promessa

Il pellegrinare nel deserto con passo spedito, crescendo di virtù in virtù, è l’atteggiamento tipico della fede (Lett. 22,1). L’impegno di conversione (o per usare un linguaggio più tradizionale, lo sforzo ascetico), è già un dono escatologico, nel senso che è attuazione della novità del Vangelo. Tuttavia il carattere di anticipazione dei beni futuri, popria di tutta la vita cristiana, appare ancora più chiaramente nelle esperienze vertice della fede, definite oggi esperienze mistiche. 

Credo sia opportuno, in un primo passo, rilevare nella tradizione patristico-monastica, quali esperienze della vita cristiana erano interpretate come segni anticipatori del gaudio della vita eterna. Dopo questa indagine, sarà più facile scorgerli, eventualmente, anche nell’opera del Damiani. 

Nel caso in cui la nuova vita sia intesa come un cammino nel deserto, le esperienze spirituali superiori vengono viste preannunciate nel dono della manna. Diversamente, qualora essa venga definita come un ingresso nella terra promessa, allora sono i beni tipici della terra, come il latte e il miele, a diventare segni allusivi dei beni futuri della vita eterna. 

Nel Commento al Cantico dei Cantici, Origene insegna che il Signore si rivela con minore o maggiore intensità, a misura della capacità ricettiva del credente. Egli diventa latte per i battezzati, neonati alla vita; diventa un cibo più leggero per i fedeli ancora deboli nella fede e un cibo solido per quelli che sono capaci di assumerlo. 

Dopo queste precisazioni aggiunge: «Se ci sono alcuni che sono usciti dall’Egitto e sono venuti nel deserto, per costoro egli discende dal cielo, presentandosi come cibo minuto e sottile, simile al cibo degli angeli. Chi sarà stato degno di ritornare ad essere con Cristo, costui gusterà e proverà il piacere del Signore» (I, 13 B 257). Il cristiano che avrà ascoltato, che avrà visto, toccato il Verbo, l’avrà odorato e gustato, non proverà alcun interesse i godimenti della terra. Al confronto, tutto gli sembrerà aspro ed amaro. Perciò «solo di quello si nutrirà. L’anima troverà in lui qualunque dolcezza desideri (Cf Sap 16,20)» (I,12 ut supra). 

Gregorio Magno attesta: «L'animo percepisce la manna celeste quando, elevato mediante la voce della compunzione, rimane stupito di fronte a un nuovo aspetto del ristoro interiore. Ripieno di divina dolcezza, con ragione si chiede: Che è questo? Quando questa voce rompe la sordità del nostro torpore, a un tratto cambia il ritmo della vecchia vita, e così l'animo guidato dallo Spirito santo desidera le cose del cielo che disprezzava e disprezza quelle della terra che desiderava» (Commento morale a Giobbe, V, VII, 42).

PD, a sua volta, attribuisce un significato mistico al dono della manna. La Lettera 27 è inviata ad un monaco di Pomposa, di nome Onesto, il quale tendeva a peccare d’ingordigia. A questi viene chiesto, piuttosto, di imparare a «gustare il sapore di quella divina e mistica manna della quale si dice: aveva il sapore come fior di farina impastato con miele (Es 16,31)» (Lett. 27,4). La rinuncia è possibile soltanto a chi ha trovato un appaggamento migliore. La manna non è composta soltanto di fior di farina ma di farina pregiata mista a miele. Ora «il miele che si trova nel fior di farina è la dolcezza spirituale che si trova nella lettera» (Mel in simila, dulcedo est spiritalis in littera)» (ivi) . 

Per rendere più completa la panoramica sul significato metaforico dei doni della terra promessa, richiamo, alcune testimonianze appartenenti al monachesimo orientale, contemporanee al Damiani. 

Elia il presbitero distingue tre forme di preghiera: la più misera, quella espressa da chi ha intrapreso da poco una vita spirituale, è paragonata alla permanenza in Egitto; la preghiera del progrediente è simile, invece, al gusto della manna. Infine, «la preghiera unita alla contemplazione spirituale è la terra promessa in cui scorre latte e miele» (Capitoli pratici e contemplativi, 52 in Filocalia 2, 436-437). 

Per Niceta di Studion (o Stethatos) (c.1030) il monaco che, dopo un lungo esercizio, ha ottenuto il domino delle passioni, può essere paragonato a chi ha attraversato il mar Rosso ed è entrato nella terra promessa. Lì si ciba di latte e miele, in quanto ottiene la conoscenza di Dio, che è quel sapere per esperienza che rappresenta «l’inesauribile delizia dei santi» (Capitoli naturali, II, 83, in Filocalia 3, 450). 

Torniamo ora al Damiani. Nel Sermone 74, come ho già rilevato, parla del monaco che, grazie all’atto di conversione, è già entrato nella terra promessa. In essa già gode, nella speranza, il bene della vita eterna, anche se questa vita, nella sua pienezza, rimane ancora una realtà futura. 

Che cosa sono, in pratica, cioé fuori metafora, i beni della terra promessa?

Nel sermone secondo (De traslatione sanctii Hilarii), il significato di tali beni diventa più preciso. Egli invita i fedeli a volgere lo sguardo, oltre alle reliquie del santo, «a quel Corpo unico e singolare» ora «innalzato nella gloria della maestà del Padre» (Serm. 2,7). Formulato questo invito, aggiunge a sorpresa: «Quella è la terra cui un tempo anelavano i santi patriarchi e profeti, terra che stilla latte e miele» (ivi). Subito dopo spiega il motivo di questa attribuzione metaforica al Corpo di Cristo Risorto: «Si dice che quella terra fa sgorgare latte e miele, perché nel corpo del nostro Redentore c’è la sostanza della vera carne e la dolcezza dell’ineffabile divinità, Come dice l’Apostolo: in Lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità (Col 2,9)» (ivi). 

La relazione tra mistero della risurrezione e l’assunzione del miele era già un dato tradizionale. Alcuni codici del Vangelo di Luca, infatti, riferiscono che Gesù Risorto, incontrando gli apostoli nel Cenacolo, la sera di Pasqua, ha mangiato con loro non solo del pesce ma anche del miele (Lc 24,42-43 Cf Nestle-Aland, Nuovo Testamento, XXVII ed., Roma 1996, p. 245). Secondo Origene, Gesù «lui stesso miele, ne mangiò per largire a noi miele e dolcezza affinché coloro che nella Legge avevano bevuto l’amaro, in seguito, nel Vangelo, mangino il miele del Vangelo» (Sal 80,17 in Origene-Gerolamo, 74 Omelie sul Libro dei Salmi, Edizioni Paoline, Milano 1993, p. 205). 

In che modo, secondo il Damiani, Cristo diventa miele per il suo cultore? Lo scorgiamo grazie alle esortazioni presenti in una lettera inviata all’imperatrice Agnese. Questa nobildonna, alla morte del marito (l’imperatore Enrico III), volle ritirarsi a vita monastica, probabilmente senza un’adeguata preparazione. Trovandosi in solitudine, si trovò in forte disagio e ne parlò, con uno scritto, a PD. Nel formulare la sua risposta, il santo monaco le suggerì, di vincere se stessa e di apprezzare il desolato silenzio in cui si trovava, in quanto poteva arricchire la sua solitudine con una viva relazione con Cristo. Ecco le sue parole: «Consolati, o venerabile signora, e allontana dal tuo cuore ogni tristezza. Cristo sia il tuo interlocutore, Cristo sia il tuo assiduo commensale. Sia lui la tua gioia (immo Christus ipse tuae sint deliciae), lui il tuo cibo quotidiano, il tuo alimento di intima dolcezza. Con lui leggi, con lui salmeggia…» (Lett. 124). 

Il D. non parla in modo esplicito di miele ma adopera espressioni equivalenti: «intimae dulcedinis alimentum». È facile ricordare il testo di Origene, già citato, quando prometteva che il battezzato che avanza nel deserto troverà in Cristo «qualunque dolcezza desideri». 

Gesù viene scoperto come «dolce miele, dolcezza dei santi e soavità degli angeli» (Vita di Romualdo, XXXI,) proprio da san Romualdo stesso, quando visse a Parenzo come recluso, ossia nella forma di vita eremitica più rigorosa. Il santo stesso interpreta la sua esperienza come una forma anticipata della gioia celeste. Il sentimento «mio dolce miele» gli richiama, infatti, la dolcezza provata dai santi e la soavità goduta dagli angeli. L’elemento fondamentale dell’esperienza, tuttavia, consiste nel mostrare che Romualdo era un uomo che avvampava di un calore indicibile d’amore divino, tale da costringerlo a proferire quelle esclamazioni intense («estuante inenerrabili divini amoris ardore», ivi). Per questo motivo egli viene rapito spesso dalla contemplazione di Dio («frequenter enim tanta illum divinitatis contemplatio rapiebat» (ivi). A fare congiunzione tra cielo e terra è quindi l’amore veemente. 


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